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Tebe nella Commedia: tra Ovidio e Stazio

2019, Miti, figure, metamorfosi. L'Ovidio di Dante, a c. di C. Cattermole, M. Ciccuto, Firenze, Le Lettere (‘Quaderni della Società Dantesca Italiana’, 11), 2019, 139-163

trasmette ai discendenti, in una perpetua coazione a ripetere. La storia tebana è una lunga serie di mali, che la poesia classica lega fra loro in forma di catalogo, o ripercorre in sequenze narrative continue, oppure rappresenta uno per volta, evocandone ogni volta, al passato o al futuro, antecedenti e repliche. Un oggetto riassume in emblema questa catena di vicende: è il monile di Armonia, un'eredità di sventure per la linea femminile della stirpe, al pari della maledizione di Edipo per la discendenza maschile. Nell'atto di fondazione della città è inscritta la violenza intrafamiliare: è lo scontro tra gli Sparti, i guerrieri appena nati dalla terra, seminati da Cadmo coi denti del drago ucciso; un sacrilegio che ricade sui nipoti -proprio come il fratricidio di Romolo condanna alla replica delle guerre civili la storia di Roma, un 'doppio' della Tebe mitica. 1

SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA Centro di Studi e Documentazione Dantesca e Medievale QUADERNO 11 MITI FIGURE METAMORFOSI L’OVIDIO DI DANTE a cura di CARLOTA CATTERMOLE e MARCELLO CICCUTO Le Lettere SOCIETÀ DANTESCA ITALIANA Centro di Studi e Documentazione Dantesca e Medievale QUADERNO 11 MITI, FIGURE, METAMORFOSI L’OVIDIO DI DANTE a cura di CARLOTA CATTERMOLE e MARCELLO CICCUTO Le Lettere Copyright © 2019, Editoriale Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 9366 112 6 www.lelettere.it FEDERICA BESSONE TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO* Tebe è nella cultura antica il luogo mitico dell’eccesso, la città maledetta segnata da un’empietà originaria: un nefas che dai fondatori si trasmette ai discendenti, in una perpetua coazione a ripetere. La storia tebana è una lunga serie di mali, che la poesia classica lega fra loro in forma di catalogo, o ripercorre in sequenze narrative continue, oppure rappresenta uno per volta, evocandone ogni volta, al passato o al futuro, antecedenti e repliche. Un oggetto riassume in emblema questa catena di vicende: è il monile di Armonia, un’eredità di sventure per la linea femminile della stirpe, al pari della maledizione di Edipo per la discendenza maschile. Nell’atto di fondazione della città è inscritta la violenza intrafamiliare: è lo scontro tra gli Sparti, i guerrieri appena nati dalla terra, seminati da Cadmo coi denti del drago ucciso; un sacrilegio che ricade sui nipoti – proprio come il fratricidio di Romolo condanna alla replica delle guerre civili la storia di Roma, un ‘doppio’ della Tebe mitica.1 * Ringrazio Marcello Ciccuto e Giuseppe Ledda per il gentile invito e le preziose indicazioni, e gli amici Valter Boggione, Alberto Casadei, Sergio Casali e Sabrina Stroppa per aver letto in anteprima queste pagine. 1 Fondamentale, sul paradigma di Tebe nella tragedia attica, F.I. ZEITLIN, Thebes: Theater of Self and Society in Athenian Drama, in Nothing to Do With Dionysos? Athenian Drama in its Social Context, ed. by J.J. WINKLER, F. ZEITLIN, Princeton, NJ, Princeton University Press, 1990, pp. 130-167 (= Greek Tragedy and Political Theory, ed. by J.P. EUBEN, Berkeley-Los AngelesLondon, University of California Press, 1986, pp. 101-141). Per le storie di Tebe in poesia latina cfr. PH. HARDIE, Ovid’s Theban History: The First “Anti-Aeneid”?, in «Classical Quarterly», n.s., 40 (1990), pp. 224-235; A. BARCHIESI, L’incesto e il regno, introduzione a SENECA, Le Fenicie, a c. di A. BARCHIESI, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 9-39; A. KEITH, Ovid’s Theban Narrative in Statius’ “Thebaid”, in «Hermathena», 177-178 (2004-2005), pp. 181-207; sul monile di Armonia, CH. MCNELIS, Statius’ “Thebaid” and the Poetics of Civil War, Cambridge, Cambridge University 140 FEDERICA BESSONE Nell’antichità il ciclo tebano, insieme a quello troiano, costituisce l’oggetto per eccellenza della tragedia e dell’epica, al livello più alto nel sistema dei generi; una tradizione che si prolunga nella letteratura medioevale, coi ‘romanzi’ di Tebe e di Troia.2 Per questo ambito mitico, come è noto, Dante guarda soprattutto alla poesia latina: all’Ovidio maggiore – la sezione tebana delle Metamorfosi – e alla Tebaide di Stazio. La serie dei miti tebani fornisce al poeta della Commedia innanzi tutto singole storie, personaggi d’eccezione di cui popolare i gironi infernali (e, in rari casi, il Limbo), o exempla illustri per il discorso poetico di tutte e tre le cantiche:3 offre così materia per una rielaborazione artistica dei modelli latini e per un ripensamento del mito classico in chiave cristiana – sono le due direttrici degli studi su Dante e Ovidio di Michelangelo Picone.4 C’è di più. È nella sua dimensione politica che Tebe rappresenta per Dante l’archetipo della città degenerata, un luogo non di convivenza, ma di discordia civile: è questa la valenza del paradigma negativo evocato nell’Inferno all’inizio del XXXII canto, e dichiarato nell’apostrofe a Pisa, «novella Tebe», in chiusa al canto seguente. La città di Cadmo, Anfione, Niobe, Semele, Atamante – la generazione antica –; dei figli di Edipo e del suo successore;5 degli indovini; e ancora, dei ‘Sette contro Tebe’, gli eroi Argivi alleati di Polinice, che condividono colpe ed eccessi di una guerra empia (Capaneo, Anfiarao, Tideo): in questa città Dante trova esempi estremi di ferocia e di Press, 2007, pp. 50-75. Per la maledizione delle guerre civili che accomuna Tebe e Roma si veda S. BRAUND, A Tale of Two Cities: Statius, Thebes, and Rome, in «Phoenix», 60 (2006), pp. 259-273; per questo ed altri aspetti mi permetto di rimandare a F. BESSONE, La “Tebaide” di Stazio. Epica e potere, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2011 (spec. Introduzione e cap. 1). 2 G. CONTINI, Sul XXX dell’“Inferno”, in ID., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 447-457; A. PUNZI, Oedipodae confusa domus. La materia tebana nel Medioevo latino e romanzo, Roma, Bagatto Libri, 1995. 3 Una rassegna in J. LEEKER, Geschichtsmythos als moralisches Exempel: Dante und Theben, in «Deutsches Dante-Jahrbuch», 73 (1998), pp. 127-151. 4 La maggior parte è ora raccolta in M. PICONE, Scritti danteschi, a c. di A. LANZA, Ravenna, Longo Editore, 2017. Una panoramica delle tendenze critiche negli studi su Dante e Ovidio, con importanti indicazioni di nuove linee di ricerca in L. MARCOZZI, Ovidio «regulatus poeta». Dante e lo stile delle ‘Metamorfosi’, in I classici di Dante, a cura di P. ALLEGRETTI e M. CICCUTO, Firenze, Le Lettere, 2017, pp. 135-155. 5 Edipo è assente nella Commedia; in Conv. III VIII 10 una citazione dal I libro della Tebaide dice la sua vergogna per i crimini commessi (cfr. anche IV xxv 10). Alla tirannia di Creonte si riferisce Inf. XX 59. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 141 follia, crimini consanguinei e vendette divine, superbia blasfema, metamorfosi animali, odio del nemico fino al cannibalismo, scontri fraterni, tirannia – insomma, il superamento di ogni limite, e l’infrazione di ogni norma del vivere familiare e civile. Soprattutto, nella Tebe mitica il poeta della Commedia individua un paradigma per un discorso, etico e politico, che investe la struttura stessa della sua opera. La costruzione poetica di Tebe, nella cultura classica, come figura dell’alterità, e insieme come alter ego di una città storica (prima Atene, poi Roma), giunge a Dante attraverso i poeti latini ed è ripensata, ancora una volta, per una riflessione politica attuale: al fondo più abietto della prima cantica, Tebe diventa il prototipo della città infernale, e delle città terrene di cui essa è lo specchio. In questo molteplice appropriarsi dei materiali classici da parte del poeta romanzo vi è come una gradazione di funzioni; nell’integrare la varietà dei miti tebani alla narrazione della Commedia, Dante si richiama ai racconti di Ovidio più spesso che a Stazio; ma, per «discriver fondo a tutto l’universo» (Inf. XXXII 8), il poeta dell’Inferno ricorre in modo sistematico, e con un disegno preciso, alla seconda metà della Tebaide, che narra gli esiti di una lotta fratricida per il potere. Vorrei soffermarmi ora su qualche ripresa ovidiana (relativa ai personaggi di Atamante, Niobe, Alcmeone), per poi ricercare le tracce di Stazio nell’ultimo cerchio infernale. Seguirò il filo dei miti tebani come guida per osservare diverse modalità del dialogo di Dante coi classici, come modelli di stile e di pensiero. Della modestia di queste note di lettura i dantisti (e non solo loro) spero mi perdoneranno. 1. Dante e Ovidio 1.1 «E poi distese i dispietati artigli» Iniziamo da Atamante. L’apertura del XXX canto dell’Inferno accosta in una doppia similitudine mitologica i furori di Tebe e di Troia, per poi dichiararli superati dalla rabbia di Gianni Schicchi e di Mirra, i due falsatori di persona «che mordendo correvan di quel modo / del porco quando del porcil si schiude» (Inf. XXX 25-27): 142 FEDERICA BESSONE Ma né di Tebe furie né troiane si vider mäi in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane, quant’ io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che ’l porco quando del porcil si schiude. (vv. 22-27)6 A contrasto con la ricaduta imminente nello stile basso e nella realtà bestiale della bolgia, l’ampio movimento d’esordio («Nel tempo che Iunone era crucciata / per Semelè contra ’l sangue tebano, come mostrò una e altra fïata», vv. 1-3) evoca il tempo del mito con la formula distanziante «nel tempo che»,7 introduce il motivo – epico – dell’ira di Giunone e, nelle tre terzine seguenti, riassume la storia della follia di Atamante e Ino, narrata nel quarto libro delle Metamorfosi (IV 416542). Già la terzina iniziale, mentre ricorda la ricorsività dell’ira della dea – estesa a un popolo intero, come nel proemio dell’Eneide –,8 richiama con un segnale preciso il racconto ovidiano su Semele, nel libro precedente del poema ovidiano.9 Ci interessa però il passo che segue (Inf XXX 4-12): 6 Cfr. G. LEDDA, Per un bestiario di Malebolge, in Dante e il mondo animale, a c. di G. CRIMI, L. MARCOZZI, Roma, Carocci, 2013, pp. 92-113, alle pp. 110-113, sull’analogia tra le Furie che si impossessano dei personaggi mitici (v. 22) e i demoni che Gesù scaccia dagli indemoniati e fa entrare nei porci, nell’episodio evangelico qui presupposto da Dante. 7 Sulla sintassi ampia dell’attacco cfr. CONTINI, Sul XXX dell’“Inferno”, cit., p. 447; con la formula («bella, e poi liricamente invalsa», Ivi, p. 448), che ricorre in Inf. XXVI 26-27, si confronti l’apertura di racconto, subito dopo un’invocazione alle Muse, in VERG. Aen. IX 80-81: tempore quo primum Phrygia formabat in Ida / Aeneas classem et pelagi petere alta parabat […]. 8 VERG. Aen. I 3-4: «multum ille et terris iactatus et alto / vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram»; 11: «tantaene animis caelestibus irae?»; 23: «veterisque memor Saturnia belli; 25-32: «necdum etiam causae irarum saevique dolores / exciderant animo; manet alta mente repostum / iudicium Paridis spretaeque iniuria formae / et genus invisum et rapti Ganymedis honores: / his accensa super iactatos aequore toto / Troas, reliquias Danaum atque immitis Achilli, / arcebat longe Latio, multosque per annos / errabant acti fatis maria omnia circum». Nell’episodio di Ovidio cfr. Met. IV 422-426: «“potuit de paelice natus […] nil poterit Iuno nisi inultos ferre dolores?”»; 448: «(tantum odiis iraeque dabat)»; 469-471: «exponit causas odiique viaeque / quidque velit; quod vellet erat ne regia Cadmi / staret, et in facinus traherent Athamanta furores»; 547-548: «…utque parum iustae nimiumque in paelice saevae / invidiam fecere deae». 9 La riduzione del racconto di Ovidio lasciava freddo CONTINI, Sul XXX dell’“Inferno”, cit., p. 448: «Ma che si tratti di derivazione subìta, mostra soprattutto un indizio interno, l’andatura prosaica dell’elocuzione: l’allusione rattratta al motivo di quella demenza, l’ira di Giunone […] quella, ancor più sbrigativa e impaziente, alla precedente aneddotica ovidiana (“una ed altra fiata”) […]». Tuttavia, con tecnica raffinata di ‘continuazione dei testi’, questi versi allu- TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 143 Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano, gridò: «Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e ’ leoncini al varco»; e poi distese i dispietati artigli, prendendo l’un ch’avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s’annegò con l’altro carco. È nota la vicinanza di questi versi al testo di Ovidio: «oserei perfino presumere che [Dante] non citasse a memoria, ma col libro sotto gli occhi», scriveva Contini; e sui contatti tra i due testi si è appuntata l’analisi di Picone.10 Il passo è Met. IV 512-530 (ci interessano i primi otto versi e gli ultimi tre): protinus Aeolides media furibundus in aula clamat: «io, comites, his retia tendite silvis! hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena», utque ferae sequitur vestigia coniugis amens deque sinu matris ridentem et parva Learchum bracchia tendentem rapit et bis terque per auras more rotat fundae rigidoque infantia saxo discutit ora ferox. tum denique concita mater, seu dolor hoc fecit seu sparsum causa venenum, exululat passisque fugit male sana capillis teque ferens parvum nudis, Melicerta, lacertis dono al libro precedente delle Metamorfosi e, a proposito delle cause dell’ira reiterata di Giunone, che si estende ogni volta da una rivale all’intero popolo di Tebe, aggiornano la sequenza ovidiana Europa-Semele con quella Semele-Ino/Atamante: cfr. OV. Met. III 256-261: «sola Iovis coniunx non tam culpetne probetne / eloquitur, quam clade domus ab Agenore ductae / gaudet et a Tyria conlectum paelice transfert / in generis socios odium. subit ecce priori / causa recens, gravidamque dolet de semine magni / esse Iovis Semelen». Per Semele in Par. XXI 6, dove Dante ricorda insieme Ovidio e Stazio, cfr. G. LEDDA, Semele e Narciso: miti ovidiani della visione nella “Commedia” di Dante, in Le “Metamorfosi” di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, a c. di G.M. ANSELMI, M. GUERRA, Bologna, Gedit Edizioni, 2006, pp. 17-40, alle pp. 21-25. 10 CONTINI, Sul XXX dell’“Inferno”, cit., p. 448; M. PICONE, L’Ovidio di Dante, ora in Scritti danteschi, cit., pp. 193-221 (= L’Ovidio di Dante, in Dante e la «bella scola» della poesia. Autorità e sfida poetica, a c. di A.A. IANNUCCI, Ravenna, Longo Editore, 1993, pp. 107-144), alle pp. 206-208. Cfr. anche E. PARATORE, s.v. Ovidio in Enciclopedia Dantesca, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1973, pp. 225-236. 144 FEDERICA BESSONE «euhoe Bacche!» sonat; Bacchi sub nomine Iuno risit et “hos usus praestet tibi” dixit «alumnus». imminet aequoribus scopulus; pars ima cavatur fluctibus et tectas defendit ab imbribus undas, summa riget frontemque in apertum porrigit aequor. occupat hunc (vires insania fecerat) Ino seque super pontum nullo tardata timore mittit onusque suum; percussa recanduit unda. Come sempre, Dante riduce all’essenziale: elimina la scenografia, fa a meno di particolari patetici, concentra il racconto sul protagonista, nel momento culminante. La follia si interiorizza, e Atamante si isola: è «identico il grido» (scriveva Contini), clamat/«gridò», ma i comites si dileguano nel passaggio da retia tendite a «tendiam le reti» e poi a «sì ch’io pigli»; è il padre che assume su di sé la responsabilità dell’azione contro «la leonessa e ’ leoncini».11 I gesti del folle che afferra, fa roteare e percuote su una roccia il figlio sono gli stessi, e identica è la collocazione in clausola di «Learco»/Learchum e di «sasso»/saxo. Soprattutto, la triade dei verbi, «prendendo […] e rotollo e percosselo ad un sasso», ripete i tre verbi ovidani rapit et […] rotat […] rigidoque […] saxo / discutit. Come osserva Picone, «Dante traduce alla lettera gli ultimi due (rotollo, percosselo)»12 – e forse ricorda in quest’ultimo l’impatto finale di Ino nel mare, percussa recanduit unda (v. 530). C’è ancora un dettaglio che merita attenzione. Del composto latino (da quatio), Dante sostituisce il preverbio: «per-cosselo» al posto di dis-cutit. Eppure, la forza di quel dis- non è dimenticata. Il prefisso violento, in Ovidio, dice lo smembramento del «viso» (e della «bocca») 11 In questo passaggio alla prima persona Dante potrebbe ricordare la narrazione parallela della follia assassina di Agave verso il figlio Penteo in OV. Met. III 710-716: hic oculis illum cernentem sacra profanis / prima videt, prima est insano concita cursu, / prima suum misso violavit Penthea thyrso / mater et «o geminae» clamavit «adeste sorores! / ille aper, in nostris errat qui maximus agris, / ille mihi feriendus aper». ruit omnis in unum / turba furens […]; 727-728 avulsumque caput digitis complexa cruentis / clamat «io, comites, opus hoc victoria nostra est»; per «dispietati artigli», cfr. anche 731: quam sunt membra viri manibus derepta nefandis. 12 PICONE, L’Ovidio di Dante, cit., p. 208: «Basta a questo proposito osservare come Dante descriva l’intero evento servendosi solo dei tre verbi che in Ovidio affabulano l’azione folle di Atamante che uccide il figlio (rapit, rotat, discutit): egli traduce alla lettera gli ultimi due (rotollo, percosselo), mentre amplifica il contenuto semantico del primo (da rapit ricava la metafora dei “dispietati artigli” che afferrano la preda), con la finalità evidente di enfatizzare l’animalità del comportamento del personaggio». TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 145 «infante» contro la «rigida roccia» (rigidoque infantia saxo / discutit ora ferox, vv. 518-519): è la climax di orrore, quella che scatena la follia della madre – tum denique concita mater […] (v. 519). Dante non ci mostra quell’immagine cruda, ma trasforma la violenza in ferocia interiore, in un verso senza pari: «e poi distese i dispietati artigli» (v. 9). Qui, il cacciatore è divenuto belva:13 per paradosso, una belva feroce contro la sua stessa specie. Metafora e allucinazione si confondono: gli «artigli» sono la realtà che è percepita dal soggetto. Così, «dis-tese» fa eco a «tendiam» – «tendiam le reti» –, ma, mentre il verbo passa dalla terza persona alla prima, Dante sostituisce l’elemento animale allo strumento umano. Questo verso nuovo spicca nella cornice ovidiana, eppure conserva un tratto del modello. La forza dell’endecasillabo sta nella geminazione, quasi a contatto, del prefisso dis-: dove il primo dis- dà rilievo al secondo e amplifica la parola chiave, «dispietati». Con questo aggettivo, Dante traduce il senso di ferox, recuperando al contempo la violenza fonica e la carica disumana di dis-cutit: qui la lacerazione fisica diventa lacerazione etica, rottura dei rapporti familiari e violazione dei valori che li regolano. Questo padre, mentre fa a pezzi il figlio, sta distruggendo la pietas. Dante ha fatto di Atamante stesso una fiera: ha aggiunto una metamorfosi al racconto di Ovidio e lo ha rinnovato dall’interno, per accostarlo alla realtà della Commedia. Mediante il modulo della Überbietung, ha sottomesso l’antico sublime alla poesia nuova: la violenza consanguinea, che è il marchio inimitabile dei miti tebani, è ora dichiarata incomparabile con la cruda animalità del mondo infernale. 1.2 «O Niobè, con che occhi dolenti» Superbia blasfema e vendetta divina sono un tratto ricorrente nella storia di Tebe. La regina Niobe, moglie del fondatore Anfione, ricca della sua prole numerosa, sfida Latona ed è punita dai due figli di 13 Cfr. ad es. LEEKER, Geschichtsmythos, cit., p. 135: «Doch wiederum wird das Opfer Athamas unausgesprochen in die Nähe der schuldigen Personenfälscher gerückt, denn indem er die “dispietati artigli” (Inf. XXX 9), die mitleidlosen Krallen, ausstreckt, um den einen Sohn zu ergreifen, verwandelt er sich selbst gleichsam in ein wildes Tier»; M. CABALLERO, Il mito di Atamante nella “Commedia” di Dante e nei commentatori del Trecento, in «Maia», 64 (2012), pp. 505523, alle pp. 514, 521 e 523. 146 FEDERICA BESSONE lei, Apollo e Diana, con la strage dei suoi quattordici figli. L’episodio è narrato nel sesto libro delle Metamorfosi (VI 146-312) e culmina nello ‘spettacolo’ dell’impietrire e nel pianto perenne della donna di marmo (OV. Met. VI 301-312):14 orba resedit exanimes inter natos natasque virumque deriguitque malis. nullos movet aura capillos, in vultu color est sine sanguine, lumina maestis stant immota genis; nihil est in imagine vivum. ipsa quoque interius cum duro lingua palato congelat, et venae desistunt posse moveri; nec flecti cervix nec bracchia reddere motus nec pes ire potest; intra quoque viscera saxum est. flet tamen et validi circumdata turbine venti in patriam rapta est; ibi fixa cacumine montis liquitur, et lacrimas etiamnum marmora manant. Nel XII canto del Purgatorio Niobe compare tra gli esempi di superbia punita, nelle lastre istoriate sul pavimento della prima cornice: «O Nïobè, con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada, tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!» (Purg. XII 37-39).15 Qui, più che mai, Dante condensa: uno sguardo scolpisce una storia. La terzina apre la serie introdotta da «O» e amplifica l’interiezione in una movenza esclamativa – «con che occhi dolenti». La tragedia è già in questo dettaglio, prima che nella strage descritta nell’ultimo verso: la figura di Niobe, isolata, domina la scena, e lo sguardo del viaggiatore. Registrare la reazione dello spettatore, interno o esterno, fa parte della tradizione dell’ekphrasis; qui è la meraviglia del tono esclamativo, insieme con la formula estesa della visione («vedea io te») e con il richiamo 14 La storia ovidiana fornisce alcuni tratti, come è noto, anche all’episodio di Ugolino: cfr. il brancolare di Niobe sui figli morti in Met. VI 277-278 con Inf. XXXIII 72-74. 15 Sul «programma iconografico» immaginato da Dante («il ‘manifesto’ composto da un Dio artifex»), in rapporto col dibattito dottrinario e con la cultura figurativa medioevale (lastre tombali e libri illustrati), oltre che con la tradizione classica (le ekphraseis dell’Eneide, con un cenno a Metamorfosi e Tebaide a p. 56), importante L. BATTAGLIA RICCI, «Come […] le tombe terragne portan segnato»: lettura del dodicesimo canto del “Purgatorio”, in Ecfrasi. Modelli ed esempi fra Medioevo e Rinascimento, t. I, a c. di G. VENTURI, M. FARNETTI, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 33-63. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 147 al mezzo scultoreo («segnata in su la strada»), ciò che esalta l’efficacia della rappresentazione artistica. Che Dante si tenga vicino al testo delle Metamorfosi non ha bisogno di essere ribadito: il «sette e sette[…] figliuoli» corrisponde, fin nella formulazione, al numero ovidiano di quattordici (Met. VI 182183: natas […] septem / et totidem iuvenes) e allude al racconto in due tempi della strage (prima i maschi, poi le femmine: Met. VI 218-266; 267-312).16 La centralità della madre nel gruppo dei Niobidi, «tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!», riproduce scena, sintassi e struttura dell’esametro di Ovidio, exanimes inter natos natasque virumque (Met. VI 302). Dante omette il marito (virumque), tiene il computo dei caduti, intensifica con la geminazione e con il possessivo («sette e sette tuoi»). Soprattutto, sposta dall’incipit in clausola l’aggettivo, che qui diventa un participio-aggettivo: «spenti», al posto di exanimes. In una parola vi è la cronaca di una strage durata in Ovidio un centinaio di versi. C’è di più. Rilevato in fine di terzina, «spenti» rima con «dolenti»: il participio perfetto col participio presente, la morte dei figli col dolore della madre. Un dolore che è ‘vivo’: è questa la forza di «dolenti». Ma qui Dante provoca il lettore, ed è su questo punto che vorrei richiamare l’attenzione. L’ekphrasis di un’opera d’arte è un luogo privilegiato per riflettere sui rapporti tra linguaggio poetico e figurativo, parola e immagine, rappresentazione e ricezione; e per esplorare i confini tra animato e inanimato, vero e verosimile, realtà e illusione. La descrizione dell’arte, in poesia, è un momento di massima autoriflessività: tanto più se l’arte di un poeta ardisce misurarsi con l’arte di Dio, che trascende ogni parametro di eccellenza artistica come capacità di imitare la natura.17 Lo 16 Dodici sono invece i figli in Stazio, Theb. VI 125; cfr. F. BAUSI, L’orgoglio dei superbi calpestato, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, II. “Purgatorio”, 1. Canti I-XVII, a c. di E. MALATO, A. MAZZUCCHI, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 337-366, n. 33 p. 248; inoltre F. GODENZI, Stazio in Dante, lo Stazio di Dante, in «Versants», 58 (2011), 2 (fascicolo italiano), pp. 79108, alle pp. 90-91. La strage appare in due tempi anche in un epigramma di Meleagro (MEL. AP XVI 134) e, con inversione maschi/femmine, in ANTIP. THESS. AP XVI 133. 17 Per l’autoriflessività in questo tratto della Commedia, con le sue radici ovidiane e con la meditazione del poeta cristiano sui paradossi del rapporto tra arte e natura, realtà e illusione, cfr. T. BAROLINI, Re-Presenting What God Presented: The Arachnean Art of Dante’s Terrace of Pride, in «Dante Studies», 105 (1987), pp. 43-62, spec. p. 50 (= Ricreare la creazione divina: l’arte aracnea nella cornice dei superbi, in EAD., La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano, Feltrinelli, 2003, rist. 2013, pp. 173-198, spec. pp. 183-184: «Dante quindi sug- 148 FEDERICA BESSONE schema sommatorio di Purgatorio XII tiene presente l’ekphrasis degli arazzi di Minerva e Aracne in Metamorfosi VI, per la struttura retorico-iconografica e per le implicazioni metapoetiche.18 Non solo. Ripensando la storia di Niobe come narrata da Ovidio, di seguito nel libro VI, Dante si inserisce in una «tradizione di meditazioni sulle ambiguità ecfrastiche della statua di una donna di pietra»: variazioni poetiche sul mito, legate alla fortuna figurativa del gruppo dei Niobìdi.19 In questa terzina il participio presente, «dolenti», contrasta con un altro participio perfetto, «segnata». «Con che occhi dolenti / vedea io te segnata in su la strada»: la vivezza del dolore, suggerisce il testo, è un’illusione creata dall’arte – e, ancor prima, dalla natura. Dante cerca un effetto analogo a quello che Ovidio ottiene col participio mirantis in Met. V 205-206, dum stupet Astyages, naturam traxit eandem / marmoreoque manet vultus mirantis in ore: sotto lo sguardo di Medusa, una metamorfosi in pietra – una ‘statua’ di pietra, opera della natura. Non basta. Nella parola «dolenti», Dante riassume l’intera storia di gerisce un’analogia tra l’arte di Dio e la sua propria, la storia in cui la storia di Dio è storïata; i mezzi esperiti per riprodurre il visibile parlare dei rilievi vogliono suggerire l’interscambiabilità dei due artisti e render sulla pagina quel che Dio fece sulla pietra. E infatti qual è lo scopo testuale di Dante se non il raggiungimento di un realismo supremo, un’arte i cui “morti li morti e i vivi parean vivi” (e in cui – non posso fare a meno di aggiungere – i morti sono vivi e i vivi, di tanto in tanto, morti)?»); inoltre EAD., Arachne, Argus, and St. John: Transgressive Art in Ovid and Dante, in «Mediaevalia», XIII (1989), pp. 207-226. Per la tecnica dell’ekphrasis e la ricerca dell’evidentia in Dante, in rapporto con la retorica classica, rimando a M. CICCUTO, «Saxa loquuntur». Aspetti dell’‘evidentia’ nella retorica visiva di Dante, in Dante e la retorica, a c. di L. MARCOZZI, Ravenna, Longo Editore, 2017, pp. 151-166, con ricca bibliografia, tra cui si veda soprattutto G. LOMBARDO, Dante et l’ekphrasis sublime. Quelques remarques sur le «visibile parlare» (“Purg”. 10.95), in Les arts – quand ils se rencontrent, édité par J. PIGEAUD, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2009, pp. 99-119 (http://books.openedition.org/pur/39551). Cfr. ora anche L. MARCOZZI, L’ecfrasis nella Commedia. La tecnica descrittiva di Dante in rapporto con gli esempi classici, in «Letteratura e arte», 16 (2018), pp. 53-67. 18 L’immagine di Aracne «già mezza ragna» (Purg. XII 44) evoca il racconto delle Metamorfosi, mentre la sua centralità nell’ekphrasis ripropone la riflessione di Ovidio sul ruolo dell’artista, e di sé come poeta, nell’episodio della tessitrice. C’è di più. La tela di Minerva, con i quattro esempi di superbia punita tessuti dalla dea ai quattro angoli, come ammonimento per Aracne, «ha certo fornito a Dante l’ispirazione più immediata per questa sezione del canto, anche sotto l’aspetto letterario e retorico […]», come osserva BAUSI, L’orgoglio, cit., pp. 347-348. In particolare, nell’arazzo divino un ignoto Cinira piange sdraiato sui gradini di un tempio le figlie mutate in pietra dall’ira di una dea (Met. VI 98-100: qui superest solus, Cinyran habet angulus orbum, / isque gradus templi, natarum membra suarum, / amplectens saxoque iacens lacrimare videtur): un monito vano alla Niobe ovidiana, che entra in scena poco dopo, e un suggerimento al poeta della Commedia per le lastre calpestate nella cornice dei superbi. 19 Cfr. A. FELDHERR, Reconciling Niobe, in «Hermathena», 177/178 (Aetas Ovidiana?) (20042005), pp. 125-146, p. 141. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 149 Niobe. C’è innanzi tutto il rovesciamento di fortuna, l’umiliazione che trasforma in «occhi dolenti» gli oculos […] superbos, gli occhi superbi con cui la regina entrava in scena nel racconto di Ovidio (Met. VI 169, utque oculos circumtulit alta superbos):20 l’esclamativa varia così quella ovidiana del v. 273, heu quantum Niobe Niobe distabat ab illa[…]21. C’è poi, in evidenza, il sentimento del dolore, di una madre orbata dei figli dalla punizione divina. E, infine, c’è la posa del dolore, l’atteggiamento che si fissa per sempre nella figura di mater dolorosa e, più ancora, nell’immagine di pietra che la Niobe del mito diventa in un istante (e che è destinata a infinite riproduzioni d’arte): la pietrificazione nel dolore. Nell’unico termine «dolenti», Dante condensa tutto questo: umiliazione, dolore, posa patetica, aspetto di statua, e metamorfosi in pietra – ma una pietra che è, letteralmente,‘statua vivente’.22 Dante riscrive Ovidio, e quasi gareggia con lui: nelle Metamorfosi, i tre versi che descrivono l’impietrire della donna al suo esterno culminano con «gli occhi» che «stanno immoti sulle guance meste», lumina maestis / stant immota genis (VI 305) – è un confronto noto. Il narratore delle Metamorfosi coglie la tensione tra fissità e sofferenza e, a caldo, commenta: nihil est in imagine vivum. È un commento provocatorio, che evoca un modulo dell’ekphrasis – ‘l’immagine è così bella che sembra viva’ –23 e paradossalmente lo rovescia, di fronte a un’opera perfetta: una imago creata dalla natura stessa e descritta da un poeta che dell’ekphra- 20 Un contatto notato già da E. MOORE, Studies in Dante, I, Oxford, Clarendon Press, 1896 (= Studi su Dante, a c. di B. BASILE, con la collaborazione di M. GRIMALDI, Tomo I, Roma, Salerno Editrice, 2015, p. 249). 21 OV. Met. VI 273-276: «heu quantum Niobe Niobe distabat ab illa / quae modo Letois populum summoverat aris / et mediam tulerat gressus resupina per urbem, / invidiosa suis, at nunc miseranda vel hosti!». 22 Il topos ecfrastico della ‘statua vivente’ (cfr. ad es. OVIDIO, Metamorfosi, vol. III, Libri V-VI, a c. di G. ROSATI, Milano, Mondadori, 2009, n. a V, 203-206) nel caso eccezionale di Niobe si letteralizza: la ‘statua’ in cui la donna si trasforma piange un pianto perenne. Viene da chiedersi se nella terzina successiva Dante possa alludere, indirettamente e per contrasto, alla collocazione sul Sipilo di quella roccia da cui continuano a sgorgare lacrime, allegorizzate talora come piogge o nevi sul monte (cfr. ad es. S. Ant. 823-833): è suggestiva, nell’accostamento con Niobe, l’immagine del «Gelboè, / che poi non sentì pioggia né rugiada!» (vv. 41-42), dove si realizza l’imprecazione di David per la morte di Saul (anche la terzina di Aracne, che segue, ha un legame con la storia di Niobe). 23 Cfr. ad es. OVIDIO, Metamorfosi, vol. V, Libri X-XII, a c. di J.D. REED, Milano, Mondadori, 2013, n. a X, 250: virginis est verae facies, quam vivere credas / et, si non obstet reverentia, velle moveri: / ars adeo latet arte sua e, anche per il nesso tra metamorfosi ed ekphrasis, ROSATI in OVIDIO, Metamorfosi, vol. III, cit., n. a VI 104 (arazzo di Aracne) «verum taurum, freta vera putares» (da cfr. con Purg. XII 67-68). 150 FEDERICA BESSONE sis è maestro, ma che, per una volta, deve insistere sulla realtà inanimata, anziché sull’illusione di vita che è capace di creare. Ma questa è una provocazione, appunto, e prepara una sorpresa. Perché, un attimo dopo, quegli occhi tornano ad animarsi di fronte al lettore: flet tamen et validi circumdata turbine venti / in patriam rapta est; ibi fixa cacumine montis / liquitur, et lacrimas etiamnum marmora manant (Met. VI 310-313). Quella di Niobe è una metamorfosi eccezionale: gli «occhi immoti» della donna continueranno a piangere per sempre nella pietra.24 È il paradosso di Niobe ‘pietra vivente’, che la poesia antica esplora con sviluppi retorici (come in CALL. Ap. 22-24 «E gli affanni tralascia il sasso piangente che in Frigia, viva pietra, si erge, marmo in luogo di donna, la bocca nel dolore socchiusa», καὶ μὲν ὁ δακρυόεις ἀναβάλλεται ἄλγεα πέτρος, / ὅστις ἐνὶ Φρυγίῃ διερὸς λίθος ἐστήρικται, / μάρμαρον ἀντὶ γυναικὸς ὀϊζυρὸν τι χανούσης) o virtuosismi ecfrastici, come in alcuni epigrammi dell’Antologia Palatina studiati in relazione a Ovidio da Andrew Feldherr: ad esempio l’adespoto AP XVI 129 «Da donna viva, gli dei mi hanno resa pietra; dalla pietra, / Prassitele mi ha resa di nuovo una donna viva» (ἐκ ζωῆς με θεοὶ τεῦξαν λίθον, ἐκ δὲ λίθοιο / ζωὴν Πραξιτέλης ἔμπαλιν εἰργάσατο), o l’epigramma di Giuliano d’Egitto (di età giustinianea), AP XVI 130 «Tu vedi la vera forma dell’infelice Niobe, come se piangesse ancora il destino dei suoi figli; ma se non ha ricevuto un’anima, non biasimare l’artista per questo: ha rappresentato una donna di pietra» (Δυστήνου Νιόβης ὁράᾳς παναληθέα μορφὴν / ὡς ἔτι μυρομένης πότμον ἑὼν τεκέων. / εἰ δ᾽ἄρα καὶ ψυχὴν οὐκ ἔλλαχε, μὴ 25 τόδε τέχνῃ / μέμφεο· θηλυτέρην εἴκασε λαινέην). ¨ Dunque. È il carattere eccezionale di quegli occhi che Dante ha còlto nel suo verso, cogliendo al contempo la qualità ecfrastica della descrizione ovidiana: l’impietrire fissato in una Pathosformel, replica di un’iconografia nota.26 Col sintagma «occhi dolenti», il poeta della Commedia suggerisce quello che non narra, la metamorfosi27 – e una meta- Si veda ROSATI in OVIDIO, Metamorfosi, vol. III, cit., n. a VI 301-312: flet […] manant. Cfr. FELDHERR, Reconciling Niobe, cit., pp. 139-140. 26 «La metamorfosi è in generale una convivenza paradossale di realtà e artificio» (OVIDIO, Metamorfosi, vol. I, Libri I-II, a c. di A. BARCHIESI, Milano, Mondadori, 2005, n. a, II, 852-856, p. 309); cfr. anche supra, n. 22. 27 Isolata l’osservazione in questo senso nel commento di N. FOSCA ad loc.: «Il sintagma occhi dolenti accenna al fatto che ella pianse a tal punto che fu tramutata in un sasso da cui scaturiva una fonte (Metam. VI.310-312)». 24 25 TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 151 morfosi unica, in cui animato e inanimato non si distinguono. La figura di Niobe pone una sfida allo stesso principio che Dante enuncia alla fine dell’ekphrasis, «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero, / quant’ io calcai, fin che chinato givi» (Purg. XII 67-69). In questo mito straordinario, l’ambiguità tra vita e morte è un elemento costitutivo. Così, la retorica della meraviglia, nella movenza «con che occhi dolenti […]», cattura la vita, o l’illusione di vita, di uno sguardo che potrebbe essere, che sta per essere, che forse è già pietra – nella metamorfosi, prima ancora che nella lastra pavimentale.28 Torniamo al termine da cui siamo partiti. Dante sfrutta la forza di un participio presente per uno sviluppo raffinato della tecnica ecfrastica: «dolenti», in antitesi con «spenti», sembra descrivere una donna viva tra i cadaveri dei figli, ma, in tensione con «segnata» («segnata in su la strada»), suggerisce in modo ambiguo l’immagine di una donna viva, e la ‘vita’ di un’immagine nel marmo; più ancora, fissa l’identità tra immobilità e vita che è il marchio del mito. Questa terzina è, a mio parere, una sperimentazione consapevole delle potenzialità dell’ekphrasis. Nel caso di Niobe, l’illusione di ‘verità’ (la verità creata da Dio artefice e rappresentata dal poeta: «non vide mei di me chi vide il vero», v. 68) coincide con l’ambiguità: l’indistinzione tra animato e inanimato realizzata da un’arte descrittiva, che imita un’arte figurativa, che ricrea una figura viva e, insieme, la sua metamorfosi in pietra – letteralmente, una pietra vivente. Qui, davvero, ars adeo latet arte sua (direbbe Ovidio). Dante, perso- 28 C’è, naturalmente, uno scarto tra la realtà creata da Dio artefice e la ‘realtà’ rappresentata dal poeta – la verità dell’arte divina, immaginata e imitata da un poeta cristiano. L’arte di Dio ricreata da Dante, come mi fa notare Valter Boggione per litteras, implica il «superamento dell’illusione della retorica classica in una realtà dove i diversi piani perfettamente si corrispondono in un contenuto di piena verità»; perché «il carattere costitutivo dell’ekphrasis classica è nella rivelazione di una sostanziale ambiguità tra realtà naturale e realtà rappresentata, che lascia esitare il lettore/spettatore tra i due ambiti e lo meraviglia attraverso la possibile esitazione tra l’uno e l’altro, che non è però verità, ma finzione; la rappresentazione divina del Purgatorio, nel momento in cui recupera quell’archetipo, supera però anche l’ambiguità in una situazione di piena e completa chiarezza e attraverso un contenuto di verità (mi sembra significativo in tal senso, anche a livello di costruzione retorica del verso, il «Morti li morti e i vivi parean vivi»: con «parevan» che come al solito equivale a ‘apparivano con evidenza’, in un superamento completo della dialettica arte/ natura, verità/finzione, della retorica della meraviglia quale classicamente è intesa». Insomma, «non dimentichiamo […] che quelle sculture sono opera del divino artefice, in cui tutto il tempo è compresente; e che dunque Niobe può ben essere viva e insieme mutata in pietra, e che il paradosso di quella scultura ripropone uno dei fondamentali paradossi della fede». 152 FEDERICA BESSONE naggio e narratore, esalta l’eccellenza dell’artista divino, che ha ricreato la vita nel marmo. Ma Dante poeta moltiplica i livelli di illusione: dalla pietrificazione, che è immagine perfetta della vita; alla rappresentazione divina – che rende ‘viva’ la persona, la pietra in cui si è trasformata, e la pietra che la riproduce –; alla descrizione poetica che ritrae con vivezza l’una e l’altra ‘opera’. Davvero, il lettore della Commedia non può che ammirare tanta perfezione: l’illusione multipla creata – in sequenza – dalla natura, da Dio, e dalla poesia dantesca. 1.3 «Per non perder pietà, si fe’ spietato» Solo un cenno su Alcmeone, che rappresenta un collegamento ideale tra le due parti di questo discorso. Il figlio di Anfiarao ed Erifile, matricida per vendicare il padre (spinto alla guerra dalla moglie, corrotta dall’oro tebano), compare due volte nella Commedia, nel XII canto del Purgatorio e nel IV del Paradiso. Nei due casi vengono citati a confronto, rispettivamente, un luogo di Stazio e uno di Ovidio, ma in entrambi i casi si può individuare un altro modello, di Stazio e di Ovidio, più vicino nella forma, anche se riguarda un personaggio diverso, o un episodio meno direttamente pertinente. La precisione della ripresa, da zone lontane della Tebaide e delle Metamorfosi, mostra come la memoria di Dante domini nel suo complesso l’opera maggiore dei due poeti. Per Par. IV 105 «per non perder pietà si fé spietato» bisognerebbe citare di Ovidio, oltre a Met. IX 408, erit facto pius et sceleratus eodem (detto di Alcmeone, nella profezia di Temi), anche Met. VIII 477, impietate pia est, detto di Altea, con la stessa figura etimologica che esprime il conflitto paradossale tra ruoli familiari diversi.29 Dante varia Ovidio con Ovidio, connettendo tra loro due storie parallele, e adotta la formulazione retoricamente più incisiva, solo scambiando tra loro aggettivo e sostantivo: impietate diventa «spietato», pia «pietà». 29 OV. Met. VIII 475-477: incipit esse tamen melior germana parente / et, consanguineas ut sanguine leniat umbras, / impietate pia est. Lo stesso passo di Met. IX potrebbe aver suggerito a Dante l’elaborazione assai più complessa di un altro concettismo, in cui un guscio retorico di stampo ovidiano esprime un diverso sdoppiamento dell’io: cfr. Met. IX 406-407 (profezia di Temi su Anfiarao): subductaque suos manes tellure videbit / vivus adhuc vates con Inf. XXXIII 155-157: «un tal, che per sua opra / in anima in Cocito già si bagna, / e in corpo par vivo ancor di sopra» (inoltre 134-135: «“e forse pare ancor lo corpo suso / de l’ombra che di qua dietro mi verna”»). TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 153 Analogamente, per Purg. XII 49-51 «Mostrava ancor lo duro pavimento / come Alcmeon a sua madre fe’ caro / parer lo sventurato adornamento» si rimanda alla storia di Erifile in Stazio, Theb. IV e, solo in subordine, alla storia del monile di Armonia in Theb. II. Eppure è di qui che Dante preleva il sintagma per definire l’oggetto, infaustos […] ornatus (variato con dirumque monile: entrambi più vicini di aurum fatale o di aurum […] exitiale in Theb. IV 211 e 192), anche se, in questo punto del poema, a indossare il gioiello è ancora Argìa.30 Il poeta della Commedia ricorda la relazione tra i due passi della Tebaide e, quasi commentandola, riconduce la rovina di Erifile all’oggetto da lei invidiato alla sposa di Polinice, nella scena delle nozze. 2. Dante e Stazio31 2.1 «Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe» Il trentaduesimo canto dell’Inferno si apre con una celebre protasi, che invoca le «rime aspre e chiocce» e, dopo di esse, l’aiuto delle Muse per l’impresa di «discriver fondo a tutto l’universo»: 30 STAT. Theb. II 265-267: «nec mirum: nam tu infaustos donante marito / ornatus, Argia, geris dirumque monile / Harmoniae»; 299-305 «viderat hoc coniunx perituri vatis, et aras / ante omnes epulasque trucem secreta coquebat / invidiam, saevis detur si quando potiri / cultibus, heu nihil auguriis adiuta propinquis. / quos optat gemitus, quantas cupit impia clades! / digna quidem: sed quid miseri decepta mariti / arma, quid insontes nati meruere furores?»; cfr. IV 187213, spec. 192-195: «hoc aurum vati fata exitiale monebant / Argolico; scit et ipsa (nefas!), sed perfida coniunx / dona viro mutare velit, spoliisque potentis / inminet Argiae raptoque excellere cultu» e 211-213 «sic Eriphylaeos aurum fatale penates / inrupit scelerumque ingentia semina movit, / et grave Tisiphone risit gavisa futuris». 31 Imponente la bibliografia su Stazio personaggio nella Commedia: importante L.C. ROSSI, Prospezioni filologiche per lo Stazio di Dante, in Dante e la «bella scola» della poesia. Autorità e sfida poetica, a c. di A.A. IANNUCCI, Ravenna, Longo Editore, 1993, pp. 205-224, con discussione di molti lavori precedenti; tra gli studi più recenti cfr. V. DE ANGELIS, Lo Stazio di Dante: poesia e scuola, in «Schede Umanistiche», 2002/2, pp. 29-69; da ultimo P. HESLIN, Statius in Dante’s “Commedia”, in Brill’s Companion to Statius, ed. by W.J. DOMINIK, C.E. NEWLANDS, K. GERVAIS, Leiden-Boston, Brill, 2015, pp. 512-526. Per la rilevanza della poesia di Stazio, in particolare della Tebaide, soprattutto in rapporto alla prima cantica, cfr. fra gli altri R.L. MARTINEZ, Dante, Statius, and the Earthly City, Ph.D. Diss., Santa Cruz, University of California, 1977; W. WETHERBEE, Dante and the “Thebaid” of Statius, in Lectura Dantis Newberryana, I, ed. by P. CHERCHI, A. MASTROBUONO, Evanston, Northwestern University Press, 1988, pp. 71-92; K. BROWNLEE, Dante and the Classical Poets, in The Cambridge Companion to Dante, ed. by R. JACOFF, Cambridge, Cambridge University Press, 20072, pp. 141-160, alle pp. 148-150 (§ The saved Statius and the infernal “Thebaid”); 154 FEDERICA BESSONE S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce, io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco; che non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo: ma quelle donne aiutino il mio verso ch’aiutaro Anfione a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso. (Inf. XXXII 1-12) Il problema etico ed estetico della convenientia («sì che dal fatto il dir non sia diverso») e la necessità di una lingua esperta, non priva di risorse d’arte («né da lingua che chiami mamma o babbo»), o di una lingua disumana e infernale, oppure di un volgare comico spinto in basso, in una ‘depressione stilistica’ adeguata all’abiezione dell’ultimo cerchio, sono stati discussi in vari studi recenti, tra cui quelli di Leonella Coglievina e di Luca Serianni.32 Nel suo La guerra della lingua, a proposito del topos dell’ineffabilità, Giuseppe Ledda scrive: da ultimo V.L. PUCCETTI, Quale Stazio per Dante?, in I classici di Dante, a c. di P. ALLEGRETTI, M. CICCUTO, Firenze, Le Lettere, 2017, pp. 215-239, cui rimando per ulteriore bibliografia (per studi meno recenti si veda la voce Stazio di E. PARATORE nell’Enciclopedia Dantesca, vol. V, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1976, pp. 419-425). Acuta analisi della riflessione dantesca sull’evidentia della poesia di Stazio in M. CICCUTO, «Trattando l’ombre come cosa salda». Forme visive della “dolcezza” di Stazio nel “Purgatorio” dantesco, in Studi sul canone letterario del Trecento. Per Michelangelo Picone, a c. di J. BARTUSCHAT, L. ROSSI, Ravenna, Longo Editore, 2003, pp. 57-66. 32 Importante, su questa protasi, L. COGLIEVINA, Postilla a “Inf.” XXXII 1-12, in «Medioevo e Rinascimento», XVIII, n.s. XV (2004), pp. 59-75, e già EAD., Etica e stile nel canto XXXIII dell’“Inferno”, in «Atti e Memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», n.s. 63-64 (2001-2002) (= Studi in onore di Alberto Fatucchi, Arezzo 2003), pp. 413-445, alle pp. 416-421; cfr. inoltre L. SERIANNI, Linee espressive e tensione retorica nel canto XXXII dell’“Inferno”, in «Rivista di Studi danteschi», anno V (2005), pp. 253-271; CH. DE CAPRIO, Canto XXXII. «Perché cotanto in noi ti specchi?», in Lectura Dantis Romana, Cento canti per cento anni, a c. di E. MALATO, A. MAZZUCCHI, Roma, Salerno ed., 2013, Vol. I, Tomo II, pp. 988-1025, alle pp. 991-996. Si vedano anche A.M. CHIAVACCI LEONARDI, Il canto disumano (“Inferno” XXXII), in «L’Alighieri», XXV (1984), pp. 23-46, alle pp. 23-30; T. BAROLINI, The Undivine Comedy. Detheologizing Dante, Princeton, Princeton University Press, 1992, p. 93 (nel cap. 4 Narrative and Style in Lower Hell, pp. 74-98) (= EAD., La “Commedia” senza Dio, cit., pp. 134-135, nel cap. 4, Stile e narrativa nel basso inferno, pp. 110-141). TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 155 La caratterizzazione […] delle Muse come legate al mito della fondazione di Tebe annuncia la presenza massiccia di riferimenti a Tebe e alla terribile materia tebana nei canti dei traditori, presenza culminante con l’apostrofe a Pisa, «vituperio delle genti» e «novella Tebe». Le Muse, che già una volta aiutarono Anfione a costruire le mura di Tebe, sono invocate perché aiutino il poeta a costruire e rappresentare questa nuova e duplice Tebe, infernale e terrena.33 Vorrei soffermarmi un momento sulla figura di Anfione. Si usa citare, per questo passo dantesco, l’Ars poetica di Orazio e alcuni cenni al mito sparsi nella Tebaide.34 Più di rado si ricorda il proemio del poema, in cui il fondatore-cantore ha un posto di rilievo (ai vv. 9-10):35 fraternas acies alternaque regna profanis decertata odiis sontesque evolvere Thebas Pierius menti calor incidit. unde iubetis ire, deae? gentisne canam primordia dirae, Sidonios raptus et inexorabile pactum legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum? longa retro series, trepidum si Martis operti agricolam infandis condentem proelia sulcis expediam penitusque sequar, quo carmine muris iusserit Amphion Tyriis accedere montes, unde graves irae cognata in moenia Baccho, quod saevae Iunonis opus, cui sumpserit arcus infelix Athamas, cur non expaverit ingens Ionium socio casura Palaemone mater. (STAT. Theb. I 1-14) Quello di Anfione non è un mito qualsiasi: è un mito in cui il poeta della Tebaide si rispecchia. Non solo in modo implicito, come in questa invocazione alle Muse – dove Stazio inserisce, tra le funeste storie tebane, quasi un cameo di se stesso. C’è un altro luogo che non viene mai considerato.36 È il proemio dell’Achilleide: un poema che Dante 33 G. LEDDA, La guerra della lingua, Ineffabilità, retorica e narrativa nella “Commedia” di Dante, Ravenna, Longo Editore, 2002, p. 35. 34 HOR. Ars 394-396: dictus et Amphion, Thebanae conditor urbis, / saxa movere sono testudinis et prece blanda / ducere quo vellet; STAT. Theb. VIII 232-233; X 873-877 et al. 35 Cfr. G. PADOAN, s.v. Anfione in Enciclopedia Dantesca, cit., vol. I. 36 Per quanto ho potuto vedere, un cenno è solo nella tesi di MARTINEZ, Dante, Statius, cit., 156 FEDERICA BESSONE conosce, cita e riecheggia per tutta la Commedia; e un passo di cui si ricorda quando invoca Apollo nel I canto del Paradiso (I 13-36).37 Ecco, dunque, il testo di Stazio: Ach. I 8-13 tu modo, si veterem digno deplevimus haustu, da fontes mihi, Phoebe, novos ac fronde secunda necte comas: neque enim Aonium nemus advena pulso nec mea nunc primis augescunt tempora vittis. scit Dircaeus ager meque inter prisca parentum nomina cumque suo numerant Amphione Thebae. (STAT. Ach. I 8-13) Il narratore epico chiede ispirazione ad Apollo in nome del successo ottenuto con l’epos precedente. Nel bosco delle Muse, in Beozia, il poeta della Tebaide non è uno «straniero» – la geografia del poema tebano è sovrapposta, qui, a quella dell’iniziazione poetica. Soprattutto, a Tebe Stazio si vanta – con una metafora ambiziosa – di essere annoverato fra le glorie cittadine: tra gli antenati, addirittura tra i fondatori, e proprio accanto al poeta-fondatore, Anfione. Mi sono occupata altrove di questi versi, cruciali per l’autorappresentazione del poeta flavio come poeta nazionale imbevuto di cultura greca. Immaginando per sé una cittadinanza onoraria, conferitagli dalla città greca per i suoi meriti poetici – secondo un costume diffuso in età imperiale –, Stazio si proclama un ‘nuovo Anfione’: si assimila al vate mitico, e si rappresenta come un mito vivente, sponsorizzando il p. 254; nessuna menzione in J. AHERN, Canto XXXII. Amphion and the Poetics of Retaliation, in A. MANDELBAUM, A. OLDCORN, CH. ROSS, Lectura Dantis - Inferno, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1998, pp. 413-423. 37 Cfr. ad es. Par. I 29-30 («Sì rade volte, padre, se ne coglie / per triunfare o Cesare o poeta») con STAT. Ach. I 14-16 (at tu, quem longe primum stupet Itala virtus / Graiaque, cui geminae florent vatumque ducumque / certatim laurus – olim dolet altera vinci). Ma tutto il contesto appare fitto di riprese dal proemio di Stazio, non tutte segnalate (neppure in S. VAZZANA, La “Tebaide” altera Aeneis, in Dante e «la bella scola», Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2002, pp. 191-204); cfr. ad es. i vv. 25-27 («vedra’mi al piè del tuo diletto legno / venire, e coronarmi de le foglie / che la materia e tu mi farai degno»), e 32-33 («la fronda peneïa, quando alcun di sé asseta»), con Ach. I 8-10 (tu modo, si veterem digno deplevimus haustu, / da fontes mihi, Phoebe, novos ac fronde secunda / necte comas): con l’uso figurato di «asseta», Dante sembra associare alla «fronda» di Stazio la parallela immagine staziana della fonte, che il poeta ha «prosciugato con un degno sorso»; cfr. inoltre la metafora de «l’aringo rimaso», al v. 18, con l’immagine agonistica di Ach. I 17-19: da veniam ac trepidum patere hoc sudare parumper / pulvere te longo necdum fidente paratu / molimur magnusque tibi praeludit Achilles. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 157 proprio ruolo nella Roma imperiale.38 Perché, come Anfione, anche lui «ha ‘costruito Tebe’ con la sua lira, edificando la città nell’immaginazione del pubblico del suo poema precedente, pietra su pietra, parola per parola».39 La metafora del poeta costruttore delle mura, e ri-fondatore della città che canta, era già nell’elegia proemiale del quarto libro di Properzio (IV 1 57: moenia namque pio conor disponere versu). Ma è in Stazio che Dante la trova, associata ad Anfione; ed è in Stazio che coglie il paradosso dell’analogia, la tensione tra il ruolo civilizzatore del poeta (quello esaltato da Orazio nella sua razionalizzazione del mito, in Ars 391-407) e l’esito funesto della sua opera di fondatore – un’opera maledetta. Per Dante, come per Stazio, ri-costruire in poesia una città degenerata, e attribuirsene il merito, significa ritrovare – in un senso nuovo – la funzione civilizzatrice della poesia, che la città di Anfione ha vanificato. Cantare Tebe equivale a rifondarla nella coscienza dei lettori, riflettendo su una storia empia e condannandone le colpe: in questo senso, Anfione è un simbolo efficace per legittimare il ruolo, e l’impegno etico, di un poeta-vate nella società contemporanea – la Roma imperiale, o l’Italia comunale di Dante. Nell’accostare la propria «impresa» a quella del fondatore di Tebe – e del suo ri-fondatore –, Dante si mette consapevolmente sulle orme di Stazio:40 questi versi vanno letti come una dichiarazione programmatica, in un senso ancora più preciso (e forse più esteso) di quanto sia stato osservato.41 Per concludere il mio discorso, vorrei provare a suggerire la 38 F. BESSONE, Polis, Court, Empire: Greek Culture, Roman Society, and the System of Genres in Statius’ Poetry, in Flavian Poetry and its Greek Past, ed. by A. AUGOUSTAKIS, Leiden-Boston, Brill, 2014, pp. 215-233 (spec. p. 219). 39 P. HESLIN, The Transvestite Achilles: Gender and Genre in Statius’ “Achilleid”, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, p. 102. Cfr. il commento di BENVENUTO DA IMOLA al passo di Dante: «si Amphion potuit mirabili eloquentia sua cumulare et aggregare lapidem lapidi, et saxum saxo ad constructionem moeniorum thebanorum, et ego potero coniungere rithimum rithimo ad descriptionem istius pessimae civitatis». 40 Per coincidenza, persino il nesso «chiuder Tebe» trova un corrispettivo in un’opera di Stazio che Dante non conosceva, le Silvae. Cfr. STAT. Silv. III 2 143: ast ego [sc. narrabo] devictis dederim quae busta Pelasgis / quaeve laboratas claudat mihi pagina Thebas (speculare ai vv. 40-41, si vestras amor est mihi pandere Thebas / nec cano degeneri Phoebeum Amphiona plectro: un «aprire Tebe» per cui Stazio si paragona, ancora una volta, ad Anfione). 41 Cfr. soprattutto E. RAIMONDI, Le figure interne di Ugolino, in «Letture classensi», 25 (1996), pp. 87-100, a p. 90: «È un fatto […] che, quando Dante comincia a porsi l’esigenza delle rime aspre e chiocce, egli invoca quelle stesse Muse che aiutarono Anfione a costruire le mura di Tebe. Evidentemente la sua costruzione del momento più alto (o più basso) dell’Inferno vuole es- 158 FEDERICA BESSONE funzione di Stazio come modello negli ultimi canti dell’Inferno, anche al di fuori della citazione o del richiamo esplicito – come il paragone di Ugolino e Ruggieri con Tideo e Melanippo (Inf. XXXII 130-132) che fa da premessa all’invettiva contro la «novella Tebe» (XXXIII 89).42 2.2 «D’un corpo usciro» Siamo nel XXXII canto. Nella Caìna, la prima zona di Cocito, i traditori dei parenti sono confitti nel ghiaccio fino alla testa. Qui a Dante viene indicata una coppia di fratelli fratricidi, Napoleone e Alessandro degli Alberti, i conti di Mangona. Commentatori e critici concordano nel considerare i fratelli Alberti una replica moderna dei fratelli tebani, e un articolo recente di Lorenzo Geri arriva ad affermare che «l’episodio […] rappresenta la riscrittura parodica della morte di Eteocle e Polinice», senza aggiungere altro.43 Osserviamo da vicino Inf. XXXII 19-21 e 40-48: dicere udi’mi: «Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de’ fratei miseri lassi». […] Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti, che ’l pel del capo avieno insieme misto. sere un tipo di operazione parallela a quella compiuta da Stazio, fino a instaurare un rapporto con tempi atroci che nella sua Tebaide il poeta latino aveva descritto attraverso una scrittura già carica di funzioni e di forme patetiche». 42 Per la cornice tebana, e staziana, che racchiude Inf. XXXII e XXXIII cfr. COGLIEVINA, Etica e stile, cit., pp. 418-420. Citazioni staziane nei due canti sono raccolte da GIOV. BARBERI SQUAROTTI, La materia di cui è fatto Ugolino. Forme e strategie della citazione nei canti XXXII e XXXIII dell’“Inferno”, in «E ’n guisa d’eco i detti e le parole». Studi in onore di Giorgio Bàrberi Squarotti, vol. I, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006, pp. 253-276, alle pp. 255-259 (con ulteriore bibliografia). 43 L. GERI, Percorsi staziani nell’“Inferno” di Dante: l’abisso della tragedia, in «Linguistica e letteratura», XXXV (2010), pp. 109-136, a p. 131; un cenno senza seguito anche in DE CAPRIO, Canto XXXII, cit., p. 1012: «il fragore delle fraternas acies di Eteocle e Polinice riecheggia nel cozzare dei fratelli Alberti». Cfr. inoltre G. LEDDA, Leggere la “Commedia”, Bologna, il Mulino, 2016, p. 124 e, ad es., i commenti di U. BOSCO - G. REGGIO (introd. al canto), A.M. CHIAVACCI LEONARDI (introd. e n. al v. 55; già EAD., Il canto disumano, cit., p. 29) e G. INGLESE (al v. 11). Sulle circostanze storiche del fratricidio si veda ID., Nel gelo. I canti del tradimento (“Inferno” XXXII-XXXIV), in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a c. di A. MAZZON, Roma, Istituto storico italiano per il medioevo, 2008, pp. 523-534, a p. 531. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 159 «Ditemi, voi che sì strignete i petti», diss’ io, «chi siete?» E quei piegaro i colli; e poi ch’ebber li visi a me eretti, li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e ‘l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli. La costrizione dei due dannati nel ghiaccio, petto a petto, e testa a testa (vv. 41-43), perpetua una fratellanza odiosa, punendo per contrappasso la discordia con l’unione. Quando i due alzano il viso verso Dante e le lacrime, ghiacciando sulle labbra, li serrano l’uno all’altro (così intendo «tra essi e riserrolli» al v. 48),44 ecco di nuovo lo scontro tra i fratelli: «Con legno legno spranga mai non cinse / forte così; ond’ei come due becchi / cozzaro insieme, tanta ira li vinse» (Inf. XXXII 49-51). Congiunti per le labbra, o forse per le guance, come in un supplemento di pena – o, è stato detto, una parodia del bacio cristiano –,45 i due ripetono in versione grottesca ciò che hanno fatto in vita, combattersi l’un l’altro, pieni d’«ira».46 Acuita dall’incontro con Dante, la pena dei fratelli è una prosecuzione della loro colpa – come la superbia di Capaneo, «che non s’ammorza» («O Capaneo, in ciò che non s’am- 44 I versi sono discussi: fa il punto sulla questione DE CAPRIO, Canto XXXII, cit., pp. 10241025. L’interpretazione qui accolta («tra essi» = tra i due fratelli, cui riferire anche «riserrolli») è sostenuta già nel commento di T. CASINI-S.A. BARBI, poi di N. SAPEGNO e ora di G. INGLESE («Le due bocche sono tanto vicine che il ghiacciare delle lacrime le chiude e insieme le unisce l’una all’altra in un bacio mostruoso (Casini-Barbi)»), oltre che in quelli di CH.S. SINGLETON e R. HOLLANDER; come già BENVENUTO DA IMOLA, e sulla scia di F. TORRACA, altri, tra cui U. BOSCO, G. REGGIO e A.M. CHIAVACCI LEONARDI, intendono invece «tra essi» = tra gli occhi (appiattendo questo passo su Inf. XXXIII 94-99); più improbabile ancora la spiegazione di «labbra» come «labbra degli occhi», «palpebre», avanzata da alcuni commentatori più antichi e ripresa da S. BELLOMO; la proposta di M. PORENA richiede di emendare «le labbra» in «li labbri», riferendo «tra essi» a questi ultimi. 45 Cfr. T. CASINI, S.A. BARBI al v. 43: «il pianto […] si congela […] e ricongiunge insieme i due fratelli presso alla bocca, quasi in un forzato atto di bacio»; DE CAPRIO, Canto XXXII, cit., p. 1016: «i fratelli Alberti, la cui reciproca promessa di pace, poi infranta, era stata siglata in piazza Santa Maria Novella coi rituali giuramenti e oscula pacis: proprio questi patti, se si accoglie la proposta di Casini-Barbi, potrebbero essere il retroterra storico che spiega il “bacio mostruoso” che lega in Caina i due dannati». 46 Nel termine «ira», che può comprendere il dolore (significato presente nell’italiano antico) nonché la rabbia per il tormento supplementare delle lacrime gelate, prevale tuttavia il senso moderno, essenziale all’immagine della lotta tra i «becchi» e alla caratterizzazione dei fratelli (cfr. ad es. N. FOSCA ai vv. 49-51: «L’ira che li “vince” […] può essere dovuta al dolore per le lacrime congelatesi oppure all’odio riaccesosi per il trovarsi faccia a faccia […]»). 160 FEDERICA BESSONE morza / la tua superbia, se’ tu più punito; / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito», Inf. XIV 63-66). Unione forzata, e odiosa, che genera ulteriore divisione: si ripete nel ghiaccio ciò che accadeva nel fuoco per i fratelli tebani uniti sul rogo, il prodigio della fiamma divisa in cima, Inf. XXVI 52-54: «chi è in quel foco che vien sì diviso / di sopra, che par surger della pira / dov’ Eteòcle col fratel fu miso?» (cfr. 69: «la fiamma cornuta»; 79: «o voi che siete due dentro ad un foco»). E davvero, il profilo di Eteocle e Polinice si intravede in questi versi. Se il prologo ha annunciato una trasposizione dell’epos tebano nelle «rime aspre e chiocce», la terzina dei vv. 49-51 realizza quel programma. La doppia similitudine, quotidiana e animalesca, che illustra questo scontro bestiale tra uguali («con legno legno […] ond’ei, come due becchi […]»), sembra ridurre con un drastico effetto di bathos il sublime negativo della Tebaide, e sperimentare una versione degradata del duello fraterno. Nel penultimo libro del suo poema, Stazio descrive la fase culminante dello scontro come un corpo a corpo furioso: coeunt sine more, sine arte, tantum animis iraque, atque ignescentia cernunt per galeas odia et vultus rimantur acerbo lumine: nil adeo mediae telluris, et enses impliciti innexaeque manus, alternaque saevi murmura ceu lituos rapiunt aut signa tubarum. (STAT. Theb. XI 524-529) Coeunt […] tantum animis iraque: è l’«ira» che domina il racconto, e che accompagnerà i fratelli oltre la morte, fino sul rogo – proiettandosi nell’aldilà.47 47 Cfr. ira/ae in Theb. XI 457, 525, 531, 541, 563 e nell’apostrofe di Polinice a Eteocle che, in punto di morte dei due, proietta lo scontro nell’aldilà: 568-573, «ille autem: “vivisne an adhuc manet ira superstes, / perfide, nec sedes umquam meriture quietas? huc mecum ad manes! illic quoque pacta reposcam, / si modo Agenorei stat Cnosia iudicis urna, / qua reges punire datur”» (segue l’epifonema su cui vedi infra nel testo). Cfr. inoltre la fiamma che si divide e si scontra sul rogo, per l’ira e l’odio che si prolungano oltre la morte: Theb. XII 429-448, «ecce iterum fratres: primos ut contigit artus / ignis edax, tremuere rogi et novus advena busto / pellitur; exundant diviso vertice flammae / alternosque apices abrupta luce coruscant. / pallidus Eumenidum veluti commiserit ignes / Orcus, uterque minax globus et conatur uterque / longius; ipsae etiam commoto pondere paulum / secessere trabes. conclamat territa virgo: / “occidimus, functasque TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 161 Due similitudini incorniciano questo mescolarsi dei corpi e delle armi: la prima con due navi – ma il sostantivo latino rates ricorda ancor più i «legni» –, impigliate tra loro dalla tempesta, che si inabissano insieme (XI 518-524); la seconda con due cinghiali, che l’«ira» fa scontrare fra loro (XI 530-536): miscentur frena manusque telaque, et ad terram turbatis gressibus ambo praecipitant. ut nocte rates, quas nubilus Auster implicuit, frangunt tonsas mutantque rudentes, luctataeque diu tenebris hiemique sibique, sicut erant, imo pariter sedere profundo: haec pugnae facies. […] fulmineos veluti praeceps cum comminus egit ira sues strictisque erexit tergora saetis: igne tremunt oculi, lunataque dentibus uncis ora sonant; spectat pugnas de rupe propinqua venator pallens canibusque silentia suadet: sic avidi incurrunt; necdum letalia miscent vulnera, sed coeptus sanguis, facinusque peractum est. Il «pel del capo […] insieme misto», i due «legni» e i due «becchi» di Dante sembrano la versione vile della mischia, delle rates, e degli epici cinghiali nel testo di Stazio.48 Ma c’è di più. Il commento di Camicione de’ Pazzi è una condanna dei fratelli fratricidi: «D’un corpo usciro; e manu stimulavimus iras / frater erat; quis enim accessus ferus hospitis umbrae / pelleret? en clipei fragmen semustaque nosco / cingula, frater erat! cernisne ut flamma recedat / concurratque tamen? vivunt odia improba, vivunt. / nil actum bello; miseri, sic dum arma movetis / vicit nempe Creon! nusquam iam regna: quis ardor? / cui furitis? sedate minas; tuque exul ubique, / semper inops aequi, iam cede (hoc nupta precatur, / hoc soror), aut saevos mediae veniemus in ignes” / vix ea, cum subitus campos tremor altaque tecta / impulit adiuvitque rogi discordis hiatus […]». 48 Questi ultimi sostituiti dai capri, i «becchi» dalla connotazione bassa e dalla rima aspra (per l’immagine del loro cozzare si confronta VERG. Ge. II 525-526: pinguesque in gramine laeto / inter se adversis luctantur cornibus haedi: un dettaglio da un idillio festoso, contrapposto alle lotte fratricide del v. 510: gaudent perfusi sanguine fratrum). La degradazione, dai cinghiali dell’epos ai «becchi», è parallela a quella che, nel gesto di Ugolino in Inf. XXXIII 77-78: «riprese ’l teschio misero co’ denti, / che furo a l’osso, come d’un can, forti», riduce a un realismo crudo l’animalità ‘sublime’ di Theb. IX 12-19: «Quisquamne Pelasgis / mitis adhuc hominemque gerit? iam morsibus uncis / (pro furor! usque adeo tela exsatiavimus?) artus / dilacerant nonne Hyrcanis bellare putatis / tigribus, aut saevos Libyae contra ire leones? / et nunc ille iacet (pulchra o solacia leti!) / ore tenens hostile caput, dulcique nefandus / immoritur tabo; nos ferrum inmite 162 FEDERICA BESSONE tutta la Caina / potrai cercare, e non troverai ombra / degna più d’esser fitta in gelatina» (Inf. XXXII 58-60). «D’un corpo usciro» non registra la nascita dalla stessa madre: la depreca.49 È, in chiave minore, quello che il narratore della Tebaide esprime in linguaggio tragico, annunciando il duello come unius ingens / bellum uteri, «guerra immane di un solo ventre» – un ventre incestuoso –: stat consanguineum campo scelus, unius ingens / bellum uteri, coeuntque pares sub casside vultus (Theb. XI 407-408).50 Infine. Lo stesso Camicione qualifica i fratelli come le ombre che più meritano la punizione nella Caìna (vv. 58-60 citt.). Dante affida qui a un compagno di pena il giudizio che il narratore della Tebaide pronunciava, in tono solenne e sdegnato, alla morte dei fratelli l’uno per mano dell’altro, condannandoli, letteralmente, a tutte le pene dell’inferno:51 ite, truces animae, funestaque Tartara leto polluite et cunctas Erebi consumite poenas! facesque: / illis nuda odia, et feritas iam non eget armis» (cfr. VIII 71-72: sit qui rabidarum more ferarum / mandat atrox hostile caput). 49 Così almeno S. BELLOMO nel commento ad loc.: «da Gualdrada, furono quindi fratelli carnali, il che aggrava il loro reciproco delitto». 50 Dante cercherà un effetto simile nell’invettiva all’Italia, Purg. VI 82-84 «e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra». Su questi versi di Stazio cfr. F. BESSONE, Signs of Discord. Statius’s Style and the Traditions on Civil War, in After 69 CE - Writing Civil War in Flavian Rome, ed. by L.D. GINSBERG, D.A. KRASNE, Berlin-Boston, De Gruyter, 2018, pp. 89-107, alle pp. 101-107. 51 Cfr. BESSONE, La “Tebaide”, cit., cap. II, in part. pp. 80-94 per un’analisi di questo epifonema. Alla voce anonima di un dannato Dante ha inoltre affidato la qualificazione di questi due «fratei» (non i dannati in genere, io credo: si veda la discussione nei commenti e in DE CAPRIO, Canto XXXII, cit., pp. 999-1000) come «miseri lassi» al v. 21 (cit. supra nel testo; cfr. Purg. X 121, «O superbi cristian, miseri lassi»); una movenza, mista di commiserazione e di condanna, che ricorda quella del narratore in STAT. Theb. XI 552-553: sic pugnant miseri: restabat lassa nefando / vita duci […] (si noti anche l’accostamento tra miseri e lassa, che pure ha connotazione diversa); cfr. ancora Theb. XII 442 cit. supra, n. 42. Interessante, a questo proposito, la chiosa di BENVENUTO DA IMOLA ai vv. 49-51, che cita STAT. Theb. I 155-156, quo tenditis iras, a miseri (oltre a Lucan. I 97 e 87): Et hic nota quod autor digne comparat istos hircis, qui naturaliter invidi se impetunt bestialiter. Quomodo enim isti duo germani possunt dici rationales, qui tam impie se crudeliter feriunt, ut soli habeant pauca sterilia saxa quae simul possidebant, ut statim dicetur; et dicit: “tanta ira li vinse”, quae ira nata est ex cupiditate dominandi. Unde nota, lector, quod autor merito detestatur illos duos fratres thebanos, de quibus dicetur in fine istius capituli, qui se invicem interfecerunt pro paupere regno Thebarum, dicens: quo tenditis iras? Ah miseri! Et Lucanus similiter iratus contra primos conditores urbis, dicit: Exiguum dominos commisit asylum, et exclamat: O male concordes nimia<que> cupidine caeci! quanto justius autor damnat istos duos fratres qui inter se certaverunt de paupere saxo! Et sic nota quomodo isti duo fratres interrogati qui essent, ostenderint per evidens signum quomodo fuerint unum par pessimorum fratrum, qui tam crudeliter se invicem percusserant. TEBE NELLA COMMEDIA: TRA OVIDIO E STAZIO 163 vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae: omnibus in terris scelus hoc omnique sub aevo viderit una dies, monstrumque immane futuris excidat, et soli memorent haec proelia reges. (Theb. XI 574-579) «Andate, anime atroci, a contaminare con la vostra morte il Tartaro funesto, ed esaurite tutte le pene dell’Erebo!». Al fondo dell’Inferno dantesco, i fratelli Alberti scontano la pena a cui la Tebaide condannava il loro modello, Eteocle e Polinice. C’è quasi una continuazione del testo di Stazio. E proprio quel gesto di condanna del poeta latino è forse ciò che più lo avvicina a Dante: al suo impegno etico, e al giudizio di condanna che il poeta cristiano, subito dopo il richiamo ad Anfìone, ha emesso contro i traditori, costringendo un motivo evangelico nelle «rime aspre e chiocce»:52 «Oh sovra tutte mal creata plebe / che stai nel luogo onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!» (Inf. XXXII 13-15). Nel gesto giudicante verso i fratelli fratricidi, se non nello stile, il poeta che fu «chiuso cristian» ha davvero precorso il poeta della Commedia. 52 Cfr. Matth. 26, 24 (di Giuda): bonum erat ei si natus non fuisset homo ille. L’exclamatio dantesca anticipa nell’esordio del canto la movenza con cui Stazio chiudeva il racconto del duello; varia, con l’augurio controfattuale di un’esistenza non umana, la paradossale invocazione di oblio del narratore epico sui protagonisti del poema; e sostituisce al disprezzo dei reges, cuore del discorso politico della Tebaide, la condanna cristiana dei traditori, «mal creata plebe». INDICE GENERALE MARCELLO CICCUTO, Parole di premessa ...................................... p. 7 EDOARDO FUMAGALLI, Ovidio il magnanimo ............................... » 11 SERGIO CASALI, Apollo e Marsia nel proemio del Paradiso .......... » 25 MARIA MASvLANKA-SORO, Reinterpretando Ovidio: forma e materia nelle metamorfosi dantesche della Commedia .......... » 49 LUCA MARCOZZI, Dal poeta dei Remedia al maestro della ‘bella scola’: l’evoluzione del percorso ovidiano di Dante tra Vita Nova, Convivio e Commedia .................................... » 67 WARREN GINSBERG, “In nova fert animus mutatas dicere formas corpora”: la traduzione e la metamorfosi in Ovidio e in Dante .................................................................................. » 81 LUIGI GALASSO, Dante e le opere ovidiane dell’esilio ................... » 95 CATHERINE KEEN, Dante e la risposta ovidiana all’esilio .............. » 111 FEDERICA BESSONE, Tebe nella Commedia: tra Ovidio e Stazio ... » 139 ESZTER DRASKÓCZY, La polivalenza dei miti d’arte ovidiani nella Commedia ..................................................................... » 165 ALESSIA CARRAI, Le Muse e le Pieridi: miti ovidiani e riflessione metapoetica nella Commedia ........................................ » 187 474 INDICE GENERALE EDUARD VILELLA, Icone cristallizzate. 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La discesa all’Ade nelle edizioni a stampa illustrate delle Metamorfosi .............. » 395 INDICE GENERALE 475 Indice dei nomi e dei luoghi ................................................... p. 441 Indice dei manoscritti ............................................................ » 465 Tavola delle illustrazioni .............................................................. » 469 FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI OTTOBRE 2019 PER CONTO DI EDITORIALE LE LETTERE DALLA TIPOGRAFIA BANDECCHI & VIVALDI PONTEDERA (PI)