253 Etica & Politica / Ethics & Politics, XXII, 2020, 1, pp. 253-263
ISBN: 1825-5167
ESERCIZI DI ESTESIOLOGIA
GIURIDICA
TOMMASO GAZZOLO
Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli Studi di Sassari
[email protected]
ABSTRACT
Based on Gianfrancesco Zanetti’s book, this paper presents a reflection on the relationship between law and sensibility. Specifically, the essay is aimed at showing how “legal devices” actively
operate in the construction of our five senses (sight, hearing, taste, smell and touch) according
to complex mechanisms and strategies. Through several examples, this paper reflects upon the
role that the law plays in determining our perceptions.
KEYWORDS
Sensibility, Law, Perception, Touch, Vision.
BLESS THY FIVE WITS
Che dio ti conservi i cinque sensi – ripete il folle del Re Lear. Perché perdere i
sensi, è perdere il senso – perché privato di «mani, di occhi, di carne, di sangue»,
è essere «come non avente alcun senso». Il passo, di Cartesio, tutto interno alla
strategia di fondazione del cogito, di ciò che assicurerebbe il fondamento di ogni
nostra conoscenza, dice questo: comme n’ayant aucuns sens è sì essere privato di
ogni senso, sensibilità, ma senza con ciò poterlo distinguerlo dall’essere privato del
senso stesso1. Eppure proprio i sensi, di per sé, non dimostrano, non garantiscono
il senso – la loro pluralità, in fondo, non è che ciò che impedisce che si dia, qui,
un senso. Il senso, se c’è, sarà dunque da sempre disseminato, plurale, non potrà
che passare per i sensi. Ma tra essi, resta uno scarto. Zanetti non dice diversamente, nei suoi termini: c’è sempre uno iato, tra senso e sensi, se l’argomentazione
non corrisponde, non si sovrappone del tutto alla motivazione2. O, ancora: se tra
1
La corrispondenza con il tema del Re Lear è sottolineata da D. Tarizzo, La vertigine di Cartesio. Cenni sull’idiozia e la sua storia, in «Aut aut», 296-297, 2000, pp. 117-139.
2
G. Zanetti, Filosofia della vulnerabilità. Percezione, discriminazione, diritto, Roma, Carocci,
2019, p. 12: «Un filo conduttore che lega, in modo lasco, i cinque capitoli è la distinzione tra
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concetto e sensibilità, tra ciò che è dell’ordine del discorso – ciò che è deciso
dall’argomentazione giuridica, dal poter dare ragione o meno di esso – e ciò che è
dell’ordine dei sensi e che è deciso da essi, resta un’eterogeneità, un’irriducibilità
di fondo. L’argomentazione non risolve la motivazione.
Questo è l’assunto che fa da sfondo, nel libro di Zanetti, alla «logica simbolica
dei cinque sensi», allo studio dei modi “non neutrali” della percezione, e dunque
delle dinamiche complesse che determinano la «costruzione culturale»3 dei sensi.
Per il giurista, si tratta di un lavoro che consente finalmente di pensare come la
giuridicità, la logica del diritto, operi anche a questo livello della costituzione, organizzazione e disciplina dei sensi. Il diritto, in altri termini, non è soltanto un regime dell’enunciabile, di ciò che può o non può essere detto. E’ anche sempre un
ordine discorsivo che intrattiene determinati rapporti con quello che appartiene al
registro della vista, dell’udito, del tatto, etc.
Da questo punto di vista, il testo invita ad un lungo e nuovo compito di individuazione delle strategie e delle tecniche per mezzo delle quali il diritto entra in relazione con la sensibilità. Compito, si precisi, che qui non potremmo certo soddisfare, ed in relazione al quale ci limiteremo, nelle pagine che seguono, a proporre
all’attenzione del lettore alcuni “luoghi” o “momenti” in cui il diritto si rivela essere direttamente connesso con la sensibilità, con la costruzione della percezione
sensibile. Certo, così facendo, ci allontaneremo, inevitabilmente, rispetto alla questione sulle “vulnerabilità situate”, lungo la quale il libro di Zanetti si muove. Ma
faremmo torto all’autore, ed al suo lavoro, se davvero pensassimo che la questione, davanti al suo testo, fosse quella di tentare un “dialogo” o, peggio ancora, una
discussione con esso – magari una discussione “critica”, come se si trattasse di
giudicarne (ma da quale posizione?) meriti e limiti, di decidere che cosa in esso
vada o non vada. Dovrebbe essere chiaro che non si tratta di questo, che il debito
che abbiamo verso questo lavoro non si ripaga affatto così – ammesso che possa
mai “ripagarsi” qualcosa come un debito intellettuale. Non c’è altro modo di “dialogare” con Zanetti, da questo punto di vista, che facendo funzionare il suo testo, i
l’orizzonte della motivazione e l’orizzonte dell’argomentazione». Altrove, Zanetti precisa: «Le motivazioni di una posizione in materia etica, civile, politica, e culturale, possono essere di diverso ordine, e possono, in alcuni casi, anche non essere nella piena disponibilità della consapevolezza dei
soggetti interessati. Studiare le possibili motivazioni di tali posizioni è compito di discipline quali la
psicologia, la sociologia, e al limite le neuroscienze; queste motivazioni possono essere talvolta di interesse specifico per il diritto e per chi il diritto studia. L’orizzonte dell’argomentazione è invece
quello dove prendono forma le giustificazioni razionali con le quali si sviluppano, si spiegano, si sostengono, si problematizzano o si confutano tali posizioni» (G. Zanetti, Su alcuni aspetti filosoficoguridici del dibattito americano sul same-sex marriage, in «Diritto&Questioni pubbliche», 1, 2015,
p. 73). Articolata all’interno del problema della percezione, e più in generale della “logica simbolica” dei cinque sensi, tale distinzione può, a nostro avviso, essere fatta corrispondere a quella tra sensi e senso, tra il “senso” che è costruito dalla sensibilità e quello che è costruito dal discorso (argomentazione).
3
G. Zanetti, Filosofia della vulnerabilità. Percezione, discriminazione, diritto, cit., p. 141.
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suoi passaggi concettuali, lungo un nuovo e altro lavoro – unica maniera, in fondo,
di attestare quanto gli si possa dovere, quanto la sua influenza sia realmente presente.
POSSEDERE CON L’OCCHIO
I sensi – osserva Zanetti – sono funzioni «ab origine orientate e parziali, normativamente compromesse, percezioni non neutrali che realizzano forme di (o assenze di) riconoscimento». Da qui uno spostamento essenziale nell’analisi giuridica, e non soltanto relativamente al problema della “vulnerabilità” trattato espressamente da Zanetti: il diritto, più e prima ancora che fornire ragioni – che costituire, discorsivamente, ragioni per una determinata azione – , definisce anzitutto un
certo regime estetico, una certa organizzazione e disciplina dei cinque sensi e, con
essi, della percezione. Il diritto definisce, cioè, sempre – storicamente – condizioni proprie dell’esperienza del vedere, del toccare, dell’udire.
Esiste, diremmo, una costituzione giuridica della cosa in quanto tangibile, della
mano in quanto può afferrare, dell’occhio in quanto può guardare. E che procede
secondo regole diverse da quelle che disciplinano la percezione “naturale” – se vi
è mai, e non vi è, qualcosa del genere. E’ in tal modo che va letto il passo di Paolo, non est enim corpore et tactu necesse adprehendere possessionem, sed etiam
oculis et affectu (Paul. 54 ad ed. D. 41.2.1.214): non si tratta di sostenere che il
possesso possa essere fondato unicamente sulla “volontà”, in assenza di una presa
“materiale”, quanto di fare dell’occhio, dello sguardo ciò che non solo “vede”, ma
propriamente tocca, si appropria della cosa. Non si comprende l’elaborazione
giuridica del possesso, senza questa operazione di separazione di esso dal contatto, dal “tenere” che è proprio della mano: tanto che non possederebbe in alcun
modo – è ancora Paolo, in un altro passo – il dormiente a cui venga messa in mano la cosa (sicut si quis dormienti aliquid in manu ponat).
Certamente, la strategia è qui quella di dare rilevanza ad un certo tipo di comportamento “cosciente e volontario”: ma ciò non va senza una dislocazione dei
sensi, che importa, da una parte, una disattivazione della mano e, dall’altro, la costituzione dell’occhio come organo che non “vede”, ma che “tocca”, trattiene, tiene come mio qualcosa. Costituzione, diremmo anche, dell’occhio come ciò che si
appropria – e ci sarebbe allora da discutere questione dei termini in cui qui passi,
si innesti, nella giurisprudenza romana, un certo “primato” della vista di provenienza greca, e se sia dunque l’occhio che si comporta come la mano o se, diversamente, sia l’occhio che preceda la mano, se sia esso ciò per cui le cose si di-
4
Sul passo, cfr. P. Ferretti, Animo possidere. Studi su animus e possessio nel pensiero giurisprudenziale classico, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 39 e ss.
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spongono in un orizzonte di possibile “presa”5. In entrambi i casi, ciò che è in gioco è anche, per quel che ci interessa, un certo regime del possesso, della cosa in
quanto si può afferrare, prendere, ritenere, il quale si definisce non a partire dal
tatto, dalla mano, ma dallo sguardo. Quel che occorre sottolineare, allora, è come,
qui, una particolare soluzione di un problema giuridico – quello di una determinata “smaterializzazione” della traditio – abbia potuto definirsi attraverso il ricorso ad
una estesiologia, ad una operazione di conferimento all’occhio della funzione di
“presa” (l’occhio costituito come ciò che può afferrare, apprendere e trattenere la
cosa).
TOCCARTI
Bertrand: “Je n’ai plus le droit de vous toucher”. Vera: “Plus le droit. Tu parles
comme le Code civil” (Truffaut, L’Homme qui aimait les femmes). Lui le prende
la mano, dopo che lei ha arrischiato una carezza: non ho più il diritto di toccarti,
vero? E’ il modo maschile di rendere possibile – e di fallire - il rapporto sessuale:
sarà essenzialmente una questione di diritto, di ciò che mi dà diritto al tuo corpo.
Ma a che cosa, a farne che cosa? Ad “appropriarmi” di esso, prenderne “possesso”? Ma come? Come rendere possibile il rapporto sessuale?
E’ la questione che il diritto non cesserà di articolare, dove in essa c’è in gioco,
sempre, anche questo: costituire il corpo (femminile) come qualcosa che sia possibile possedere, e possedere anzitutto sensibilmente, sensualmente. Anche qui, è
una estesiologia a venire in gioco. Se, infatti, l’obiettivo – che è proprio della giurisprudenza medievale e moderna, almeno sino a Kant – è quello della «costruzione del possesso della persona del coniuge»6, esso non può non mettere in campo
anche il problema di come si possa “possedere” una persona, di come si possa
usare (ius utendi, fruendi) il corpo altrui. Si tratterà, allora, per il diritto, essenzialmente di ripartire, distribuire, organizzare, limitare il godimento, e quindi di
individuare, nel corpo, parti, zone in relazione alle quali si può, è lecito, a determinate condizioni, godere, da ciò che sarebbe escluso, per contro, da ogni possibilità di trarre piacere. Lacan lo aveva già osservato: «c’est bien là qu’est l’essence du
droit – répartir, distribuer, rétribuer ce qu’il en est de la jouissance»7.
Le pagine kantiane sono piuttosto chiare, anche se si limitano ad una indicazione generale: ciò di cui è lecito godere, prendere piacere, è sempre e soltanto
l’organo sessuale (non si gode della “persona”: è l’organo che gode dell’organo,
piuttosto). Ma una costruzione minuziosa del corpo in quanto oggetto di godimen5
Cfr., sul punto, S. Petrosino, Piccola metafisica della luce, Milano, Jaca Book, 2004, soprattutto pp. 71 e ss.
6
F. Vassalli, Del Ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, Roma, Bardi, 1944, p. 52.
7
J. Lacan, Le Seminaire. Livre XX. Encore 1972-1973, Paris, Seuil, 1975, p. 10.
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to – del toccare, baciare, penetrare altrui – si trova, soprattutto, nella casistica propria della scolastica spagnola (si pensi, in particolare, a Thomas Sanchez)8. E si
tratta, insieme, di una costruzione normativa dei sensi, di una ripartizione del tatto, dello sfregamento, dello strofinamento (ad esempio: è lecito ad un coniuge
toccare se stesso?). Se si articola una certa strategia estesio-logica, una messa in
opera di una logica dei sensi – e del tatto, in particolare: oscula, amplexus, contractus manuum vel aliarum partium corporis –, essa segue questo movimento: interdire, ripartire, differenziare i tactus, imporre ad essi una disciplina il più minuziosa possibile, e quindi classificare i tipi di “contatto” tra i coniugi, o dei coniugi
con se stessi, con le loro parti del corpo.
Anche quando non sarà più in gioco il “possesso” – perché sarà una strategia
del consenso, una logica della volontà a rendere possibile, a far esistere per il diritto il rapporto sessuale – sarà il seguente ordine di problemi a ridefinirsi: nella domanda posso toccarti?, ne ho il diritto?, come discriminare, distinguere, ora, il
corpo toccato da quello sfiorato, carezzato, stretto, palpato, baciato, penetrato,
percosso, violentato? Ancora una questione di “tatto”, direbbe Zanetti. Perché «il
senso del tatto – egli scrive – è collegato ad un aspetto fondamentale della condizione umana: la vulnerabilità».
Nancy ha coniato, a questo proposito, il termine ex-peau-sition (il quale resta
intraducibile: “esposizione” come essere fuori, ex-porsi, della pelle, peau, pelle
esposta già da sempre al fuori, abbandonata all’altro). Il diritto non fa che riarticolare questa esposizione, che re-inscriverla nelle proprie logiche. Si pensi al
costante tentativo di definire le condizioni alle quali un bacio è un bacio, o una
violenza (bacio non andato a “segno”, bacio sulla guancia, bacio “a labbra chiuse”,
etc., su cui la giurisprudenza non ha smesso di esprimersi). Un’esigenza esclusivamente giuridica (distinguere, separare, l’atto lecito da quello illecito) si lega così
ad un’estesiologia, alla costituzione del toccare in quanto atto sessuale rilevante. Il
diritto introduce, così, una serie di differenze nel contatto, nel sentire proprio del
tatto, sessualizzando – una volta per tutte o di volta in volta, a seconda del contesto
– determinate parti del corpo (guancia, bocca, braccia, gambe, etc.) o determinati
atti (carezze, sfioramenti, abbracci, etc.).
Le logiche attraverso cui tali operazioni vengono realizzate, va ricordato, possono seguire strategie esclusivamente giuridiche, e non necessariamente essere determinate da assunzioni mediche, psicologiche, antropologiche, e così via. E’ il diritto che definisce una certa esperienza del con-tatto, non necessariamente identi8
Si rimanda, sul tema, a F. Alfieri, Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la
sessualità (secoli XVI-XVII), Bologna, Il Mulino, 2010; Ead., Gli spazi dei sensi nella teologia morale (secoli XVI-XVII), in R. Ago – B. Borello (a cura di), Famiglie. Circolazione di beni, circuiti di
affetti in età moderna, Roma, Viella, 2008, pp. 185-216. Cfr. anche, per un quadro generale, J.-L.
Flandrin, La vie sexuelle des gens mariés dans l’ancienne société, in «Communications», 35, 1982,
pp. 102-115; M. Daumas, La sexualité dans les traités sur le mariage en France, XVIe-XVIIe siècles, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine» 1, 2004, pp. 7-35.
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ca o sovrapponibile a quella che faremmo laddove le norme che esso mette in
campo per renderla possibile (prima ancora che “regolarla”) fossero diverse.
La discorsività giuridica interviene, a questo livello, non soltanto discriminando
le condotte – fornendo cioè ragioni per non compiere determinate azioni (in
quanto ad esempio rilevanti penalmente) –, ma determinando la nostra percezione, il modo in cui facciamo esperienza di un certo tipo di con-tatto – poiché è per
il diritto, per il discorso che esso articola, che orientiamo i nostri gesti e quelli altrui e li distinguiamo, di volta in volta, in carezze, baci, sfioramenti, etc. (c’è, si dovrebbe dire, una logica propriamente giuridica del contatto amoroso).
RAZZA
Finché si penserà che il razzismo – la discriminazione razziale – passi, anzitutto,
per un biologismo, per un “naturalismo” della razza, del sangue, etc., si confonderà, ancora una volta, il problema. Poiché il razzismo non ha necessariamente bisogno che esistano argomenti a suo favore. Ha bisogno, piuttosto – e Zanetti, tutto
ciò, lo mostra perfettamente – della costruzione di uno sguardo: non occorre che
si portino argomentazioni a sostegno della inferiorità del “negro” o dell’“ebreo”;
occorre che il negro sia reso visibile in quanto negro, l’ebreo in quanto ebreo.
Che ciò fosse chiaro ai giuristi che il 5 giugno 1934 parteciparono alla Commissione per la riforma del diritto penale (Strafrechtskommission) chiamata a discutere e delineare le proposte per la nuova legislazione antiebraica, risulta dai verbali
dell’incontro, pubblicati per la prima volta nel 19899. Bernhard Lösener – esperto
di affari ebraici per il Ministero dell’Interno – evidenziò la necessità di una definizione il più possibile precisa di ciò che avrebbe dovuto intendersi con “ebreo”, dei
criteri che permettessero di individuare chi fosse da ritenersi “ebreo”, di modo da
evitare ogni margine di discrezionalità ai giudici chiamati ad applicare la legislazione in preparazione. A replicare fu, allora, Roland Freisler – che diverrà il “boia”
di Hitler, quando, dal 1942, fu nominato presidente del Volksgerichtshof10. Egli
concesse come le leggi contro gli ebrei non avrebbero potuto avere a fondamento
una base “scientifica” o teorica. Non si trattava, in altre parole, di fondare la discriminazione giuridica su argomenti biologistici o specificamente razziali. Freisler
ricordò l’esempio degli Stati Uniti: il fatto che le leggi contro l’immigrazione giapponese parlassero indifferentemente – a seconda dei diversi stati – di mongoli,
non aveva affatto creato ambiguità nell’applicazione giurisprudenziale delle disposizioni. Il punto essenziale non era, cioè, «definire un concetto», fornire una defi-
J.Q. Whitman, Hitler’s American Model. The United States and the Making of Nazi Race
Law, Princeton, Princeton University Press, 2017.
10
Cfr., per un profilo, H. Ortner, Hitler’s Executioner: Roland Freisler, President of the Nazi
People’s Court, Barnsley, Frontline, 2018.
9
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nizione normativa precisa di chi era ebreo: si trattava, diversamente, di fornire
un’immagine, di rendere visibile l’ebreo, la razza ebraica (Rassebild)11.
Il diritto nazionalsocialista, in questo senso, non è razzista – si potrebbe dire –
in quanto fondato sull’assunzione dell’esistenza di una razza – inferiore – che esso
interverrebbe a discriminare. Al contrario, dovremmo dire: esso è razzista in
quanto funziona nel senso di costruire la visibilità di una razza in quanto “inferiore”. Che l’ “ebreo” esista o meno, non è questo l’essenziale. L’essenziale – almeno
per Freisler – è che il dispositivo giuridico operi come un regime del vedere: discriminare giuridicamente gli ebrei significa, cioè, cominciare a renderli visibili in
quanto tali.
Dovremo allora distinguere. L’enunciato “è di razza ebraica colui che è nato da
genitori entrambi di razza ebraica”12, non definisce la razza ebraica, ma la fa esistere per il diritto. Ed è questa esistenza – per quanto non connotata – che apre ad
una possibile visibilità. Certamente, il diritto non fa che enunciarsi – esso non esiste che come discorso. Ma questa discorsività, è il tema di fondo di queste pagine,
non smette di legarsi, di instaurare determinate relazioni con la sensibilità, definendo – come in questo caso – delle visibilità (ripartizioni tra ciò che si può vedere e ciò che rimane invisibile). Si capisce meglio, allora, come più in generale
l’antisemitismo nazista e la sua propaganda passino, anzitutto, per questo problema: che l’ebreo è invisibile, e che occorre renderlo, invece, visibile – occorre portarlo alla luce attraverso una serie di procedure, di protocolli che rendano possibile vederlo, riconoscerlo (la stella gialla, i nomi obbligatori per i bambini, etc.). Il
razzismo è questo regime di visibilità, è la produzione della visibilità dell’altro in
quanto “razza” inferiore (se si paragonano gli ebrei ai topi, non è per provarne la
somiglianza, ma per produrla – occorre cioè che l’ebreo sia reso visibile come ratto).
RES INCORPORALES
Che la cosa, in quanto non possa essere toccata, non sia, propriamente, “cosa”,
res, è assunzione relativamente tarda, nel discorso giuridico – basterebbe citare alcune pagine di Orestano, a dimostrarlo13. Non interessa, ora, analizzare la strate11
Strafrechtskommission, 37. Sitzung, Dienstag, den 5. Juni 1934, in J. Regge - W. Schubert (a cura
di), Quellen zur Reform des Straf-und Strafprozeßrechts, II. Abteilung NS-Zeit (1933-1939) – Strafgesetzbuch, Band 2: Protokolle der Strahtrecthskommission des Reichtsjustiziministeriums, 2. Teil, 1, Berlin, De Grutyer, 1989, pp. 255-256: «Warum haben diese Staaten das getan? Ich kann mir nicht denken,
daß sie es nur getan haben, um den Begriff zu umschreiben, sondern glaube, daß sie es getan haben, weil
sie damit irgendein Rassebild verfolgt haben, nur irrigerweise auch die Japaner mit unter die Mongolen
gerechnet haben».
12
Citiamo qui l’art. 8 del r.d.l. 1938, n. 1728.
13
R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino, Giappichelli, 1968, pp. 144 e ss.
260 TOMMASO GAZZOLO
gia di Gaio, il modo in cui la distinzione res corporales / res incorporales si inscriva nella sua tripartizione14. Piuttosto, ciò che va osservato è come questa distinzione – che interviene soltanto in un certo momento storico – faccia funzionare
un’estesiologia, la faccia giocare come criterio normativo. E’ il tatto, ciò che la mano può afferrare, prendere, apprendere (Quintiliano: ius quod sit incoporale,
adprehendi manu non posse), ciò a partire da cui si dovrà, ora, distinguere tra le
cose. O, meglio: il tatto diviene il senso che consente di unificare una certa situazione, ciò che consente di fare di una cosa una cosa.
Non così, ad esempio ancora in Pomponio: se nel caso della legione – che fa
parte dei corpora ex distantibus – non si può certo parlare di una cosa in senso
“materiale”, ciò non impedisce di considerarla “corpo” tanto quanto la nave (D.
41, 3, 30). Ciò che rende la legione una legione, una nave una nave – e dunque
che li rende corpora, che permette di considerarli come una cosa – non è affatto
la possibilità o meno di percepire la loro unità attraverso i sensi. Piuttosto, la funzione unificante è tutta spostata sul linguaggio, sulla possibilità di nominarli come
uno («l’unificazione di tali res era direttamente connessa col fatto che potessero
venire ricondotte sotto un medesimo nomen il quale consentisse di trattarle come
un tutto unico e appunto per ciò farne oggetto unitario di legato o di altri atti giuridici»15).
Sarà decisivo, per determinare la separazione tra “legione” e “nave”, l’innesto
del linguaggio filosofico ciceroniano – e la distinzione tra le res quae sunt, le cose
che sono, di cui è possibile predicare l’esse, e le res quae intelleguntur – a riarticolare la distinzione interna alle cose. D’ora in avanti, ciò che non può essere
“toccato”, a rigore non è, non è quantomeno corpo, materia, cosa – ed occorrerà
allora restituirgli l’essere su un altro piano, quello della rappresentazione intellettuale, o, tecnicamente, della qualificazione operata dal diritto. L’hereditas cessa di
essere una cosa, di apparire come tale: lo ri-diviene, come res incorporalis, nella
misura in cui è il diritto, la discorsività giuridica, a conferire ad essa un’esistenza
(in quanto “cosa” immateriale, fascio di rapporti giuridici).
Ma si intenda: la distinzione corporale/incorporale non è assunta, non opera,
per il diritto, in quanto data. E’ il diritto stesso, piuttosto, che la fa funzionare proprio a partire dalla sua rivendicazione di essere potere di istituire la cosa in quanto
esistente, in quanto è16. Si dovranno allora seguire, ogni volta, le diverse strategie
concettuali alla base di questa operazione. Nel nostro esempio, la naturalizzazione
Cfr., sul punto, F. Bona, Il coordinamento delle distinzioni “res corporales-res incorporales” e
“res mancipi-res nec mancipi” nella sistematica gaiana, in F. Bona et alii, Prospettive sistematiche
nel diritto romano, Torino, Giappichelli, 1976, pp. 407-454; G. Falcone, Osservazioni su Gai 2.14
e le res incorporales, in «Annali del Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Palermo»,
LV, 2012, pp. 125-170.
15
R. Orestano, Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, cit., p. 129.
16
Cfr., sul punto, Y. Thomas, Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence
à Rome, in «Archives de Philosophie du Droit», 23, 1978, pp. 93-114.
14
261 Esercizi di estesiologia giuridica
della cosa (attraverso la ripresa della distinzione ciceroniana sensi/animo, res quae
sunt in quanto viste e toccate, e res che non esistono cerni tamen animo atque intelligi possunt), serve, paradossalmente, a garantire, ri-assicurare l’istituzione del
reale da parte del diritto. Si dovrà allora dire: a rendere incorporalis la cosa non è
il fatto che i sensi non possano percepirla, vederla, toccarla. E’, piuttosto, un dispositivo giuridico che opera, qui, facendo sì che la cosa non possa venire ad esistenza se non attraverso la sua istituzione da parte del diritto, istituzione che avviene articolando la distinzione tra visibile e invisibile, percepibile o meno attraverso i
sensi.
ASCOLTARE LA LEGGE
Se la legge è voce, è il suo dirsi legge, enunciarsi come legge, non c’è allora legge senza ascolto, senza una logica dell’udito, di ciò che può essere ascoltato. Tradizione che è presente, ancora, in Hobbes: se si dà una “triplice” parola divina
(triple word of God) – che è “parola” tanto quanto è “legge”, è parola della legge:
razionale, sensibile, profetica – per ascoltarla, egli annota, occorreranno “tre” uditi
diversi, a triple hearing: quello della retta ragione, il senso soprannaturale e la fede. Il che significa: c’è un ascolto, e c’è dunque un udito, che è per la legge. Eppure bisognerà chiedersi: come è possibile ascoltare la legge? E che cosa occorre
udire?
Il problema è già quello paolino: οὐ γὰρ οἱ ἀκροαταὶ νόμου δίκαιοι παρὰ
[τῷ] θεῷ, ἀλλ᾽ οἱ ποιηταὶ νόμου δικαιωθήσονται (Rm, 2.13), non coloro che
ascoltano la legge sono giusti; giustificati saranno coloro che “fanno” la legge, dove
questo “fare” è quello proprio della ποίησις, dell’azione che pone in essere la legge in quanto la realizza – in quanto non si limita ad agire in conformità ad essa,
ma mostra con la sua prassi che «la legge già guida» la sua azione17. L’ascolto non
giustifica: esso non realizza la legge, non pone in essere alcunché. E se in questo
passaggio si misura il confronto di Paolo con l’ebraismo, le difficoltà che esso implica mettono in questione direttamente il problema di ciò che rende legge la legge.
Da una parte, la legge non può identificarsi semplicemente con la sua realizzazione, dal momento che la realizzazione è della legge, è cioè realizzazione, esecuzione, di qualcosa d’altro dall’azione che la compie, di una legge, cioè, che come
tale la precede – e la precede nell’ascolto, nel suo essere stata ascoltata, per poter
essere realizzata. Eppure, che l’ascolto sia ascolto da che cosa è provato, se non
dall’esecuzione che ad esso segue? L’ascolto viene dopo l’esecuzione, poiché è solo realizzando la legge che si dimostra che vi è stato ascolto, che ciò che è stato
17
Sul tema, rimando e seguo qui direttamente il lavoro di G. Petrarca, La legge per la legge.
Paolo, Spinoza, Rosenzweig, Livorno, Salomone Belforte, 2018, pp. 72 e ss.
262 TOMMASO GAZZOLO
ascoltato è stato ascoltato come legge. Così il popolo risponde al termine della lettura del Libro fatta da Mosé: na’aseh v’nishmah, «faremo e ascolteremo» (Esodo,
24.1-7). Prima faremo, e poi ascolteremo: poiché è soltanto nel fare, nel compiere
la legge, che si costituisce l’ascolto in quanto tale, l’ascolto come ciò che ha preceduto la realizzazione della legge, come il dover-essere della legge che resta, come
tale, irriducibile al suo essere posta in essere.
Se noi cerchiamo, anche in questo campo di domande, di scorgere all’opera
una estesio-logia giuridica, una logica del costituirsi dei sensi attraverso la legge, è
perché esse mostrano l’articolazione reciproca di ascolto e realizzazione della legge. Non c’è un ascolto in quanto tale separato dalla messa in opera della legge:
l’ascolto, come tale, si costituisce proprio soltanto in essa, perché solo tale esecuzione rende capaci di prestare ascolto, permette di udire la legge. Ma – ripetiamolo: per poter eseguire la legge non occorre, però, già averla udita? In realtà, è
l’esecuzione della legge che fa di quell’ascolto l’ascolto della legge, che lo pone –
quale proprio presupposto – in quanto ascolto della voce della legge.
I momenti in cui la voce parla all’orecchio e l’orecchio ascolta la voce, si trovano così dislocati in una sequenza “estesiologica” – l’esecuzione prima dell’ascolto,
e quindi l’ascolto prima della voce – che “inverte” l’ordine “naturalistico”, e che
segue, invece, il modo di darsi della legge.
DISPOSITIVI
Che le tecniche giuridiche entrino in rapporto con l’organizzazione dei sensi –
o, meglio, con la loro stessa determinazione – dipende, ovviamente, dal fatto che
questi ultimi non costituiscono qualcosa di dato, di naturalisticamente esistente.
L’educazione dei cinque sensi è – per dirla con Marx – opera storica, che
l’«umanità dei sensi, c’è soltanto per l’esistenza del suo oggetto, per la natura
umanizzata». I sensi sono già da sempre formati all’interno dei processi, storici, di
antropogenesi, del divenire-umano da parte dell’uomo.
E’ questo che rende possibile, al diritto, produrre determinati effetti, imprimere certe trasformazioni che si definiscono già sul piano della percezione,
dell’esperienza sensibile – e che per questo restano solitamente “invisibili” a quanti tentano di cogliere la natura del diritto sul piano dell’enunciato. I “luoghi” su cui
ci siamo, in queste pagine, brevemente soffermati, mostrano, nelle loro differenze,
come le relazioni che si definiscono tra discorsività giuridica e sensi siano, in realtà, diverse, e rispondano a varie strategie di fondo. I meccanismi giuridici funzionano, infatti, a seconda degli obiettivi che, di volta in volta, sono chiamati a realizzare. Per questo le operazioni che abbiamo richiamato sono tra loro eterogenee –
possono essere operazioni di “costruzione” (il divenire-mano dell’occhio), di “naturalizzazione” (la corporalità della cosa come tangibilità), di inversione dell’ordine
“naturale” o “comune” (l’ascolto rende possibile la voce, precede la voce che esso
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ascolta), di trasformazione dei codici di senso (si pensi alla trasformazione che il
discorso giuridico sull’atto sessuale implica rispetto ad altri tipi di “saperi” e discipline di esso), di produzione di visibilità (il razzismo).
Parlare di “dispositivi”, riguardo al diritto – o meglio: parlare del diritto come
dispositivo – significa sottolineare proprio tale carattere della giuridicità: essa va intesa, cioè, non semplicemente come discorso, ma come una strategia di connessioni, di raccordi, di legami tra piani eterogenei, la quale ha come obiettivo quello
di condizionarne e coordinarne il funzionamento, produrre un certo tipo di saperi
in relazione ad essi, assicurare certi effetti di potere.
Per questo il diritto, a rigore, non è un insieme di enunciati. Né è semplicemente qualcosa d’altro rispetto ad essi. E’, piuttosto, ciò che, enunciandosi – e
quindi sempre discorsivamente – lega strategicamente tra loro gli enunciati (la loro
formazione, le loro regole di equivalenza, etc.), le percezioni, i concetti e la sensibilità, il senso ed i sensi.