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Il richiamo della tradizione: Opus Number Zoo di Luciano Berio

Prima o poi ogni compositore finisce per cimentarsi nella musica per bambini. I piccoli, siano essi esecutori o spettatori, hanno ispirato moltissimo repertorio che, lungi dal soddisfare soltanto un intento didattico, è diventato patrimonio delle sale da concerto e degli interpreti più acclamati. Talvolta può capitare che, per il pubblico medio, un compositore si identifichi pressoché unicamente con una composizione per bambini: è il caso eclatante di Sergei Prokofiev, il cui Pierino e il lupo tutti abbiamo ascoltato almeno una volta nella vita. Potrebbe stupire il fatto che anche nel turbolento secondo dopoguerra, periodo di forti e contrastanti sperimentazioni in campo musicale, si sia ricavato spazio da dedicare ai più piccoli. E potrebbe stupire che a comporre un brano ispirato alla tradizione della favola musicale sia stato proprio uno dei massimi sperimentatori del secondo Novecento, Luciano Berio.

Jacopo Simoncini IL RICHIAMO DELLA TRADIZIONE: OPUS NUMBER ZOO DI LUCIANO BERIO Prima o poi ogni compositore finisce per cimentarsi nella musica per bambini. I piccoli, siano essi esecutori o spettatori, hanno ispirato moltissimo repertorio che, lungi dal soddisfare soltanto un intento didattico, è diventato patrimonio delle sale da concerto e degli interpreti più acclamati. Talvolta può capitare che, per il pubblico medio, un compositore si identifichi pressoché unicamente con una composizione per bambini: è il caso eclatante di Sergei Prokofiev, il cui Pierino e il lupo tutti abbiamo ascoltato almeno una volta nella vita. Potrebbe stupire il fatto che anche nel turbolento secondo dopoguerra, periodo di forti e contrastanti sperimentazioni in campo musicale, si sia ricavato spazio da dedicare ai più piccoli. E potrebbe stupire che a comporre un brano ispirato alla tradizione della favola musicale sia stato proprio uno dei massimi sperimentatori del secondo Novecento, Luciano Berio. È ancora giovane Luciano Berio quando, nel 1951, realizza la prima versione di Opus Number Zoo, per 2 clarinetti, 2 corni e la voce di Cathy Berberian. Vent’anni dopo, nel 1970, il compositore metterà di nuovo mano a quel materiale, modificandone l’organico (ora per quintetto di fiati), adattandovi quattro poesie in inglese di Rhoda Levine, regista d’opera e scrittrice per l’infanzia, ed infine affidando l’adattamento dei testi in italiano a Vittoria Ottolenghi, volto noto della Radiotelevisione italiana e curatrice, proprio in quegli stessi anni, di C’è musica e musica, il programma televisivo ideato e realizzato da Berio che affrontava, in maniera assai innovativa per l’epoca, le problematiche del fare, pensare e scrivere musica. La composizione si inserisce a pieno titolo nella tradizione delle favole in musica che hanno per soggetti gli animali. Le quattro brevi poesie, pur non avendo una trama ben definita, presentano altrettante situazioni tipicamente favolistiche, con evidenti rimandi a Esopo e un pizzico di moralismo, per esempio nella scaltrezza per niente disinteressata della volpe che fa volteggiare un ingenuo pulcino, o nel disincanto del vecchio topo che assiste ad una festa e riflette sul tempo che fugge, o ancora nella lotta furiosa tra i due gattacci che finiscono entrambi acciaccati. Una punta di malinconica tragicità attraversa il secondo numero, Il cavallo, in cui l’animale (un cerbiatto nella versione inglese), solo in mezzo a un campo, ascolta i suoni di una battaglia lontana e riflette sulla follia umana. Opus Number Zoo si compone di quattro brevi numeri che ricordano, per carattere e forma, i movimenti di una sonata (o meglio sonatina): un allegro iniziale, un movimento lento, uno scherzo e un finale. Merita attenzione il modo in cui il testo viene trattato in partitura: innanzitutto, non vi è un unico narratore esterno deputato alla lettura (come nelle fiabe in musica di Prokofiev e Poulenc), ma tutti i musicisti, in alternanza, prendono parte alla declamazione delle poesie. Il coinvolgimento attivo del musicista in attività che esulano dal semplice suonare, ma che investono la sfera della drammatizzazione e dell’uso del corpo e della voce, è una peculiarità della sperimentazione di Berio, che tende ad unificare in un unico momento compositivo espressioni artistiche differenti: è sufficiente citare la Sequenza V per trombone, nella quale il trombonista si atteggia a vero e proprio showman con tanto di cravatta bianca, alza e abbassa lo strumento seguendo precise istruzioni in partitura e, dopo aver pronunciato a voce alta la parola «why?», si siede. In Opus Number Zoo, l’apice del coinvolgimento emotivo e fisico da parte dei musicisti si ha nell’ultimo numero (I Gattacci), dove, poco prima della fine, il compositore prescrive «More and more excited» in riferimento sia al parlato che alla musica e, poco dopo, fa alzare e risedere tre volte tutti i musicisti che devono pure intonare un sorpreso «oh». La seconda peculiarità della resa testuale in partitura è che Berio utilizza in alcuni momenti una scrittura ben definita ritmicamente e che segue il metro della parte musicale, mentre in altri preferisce lasciare maggiore indeterminatezza e libertà di declamazione, eliminando completamente le figure musicali abbinate alle sillabe. Nel primo caso, si muove nella stessa direzione di Stravinskij nell’ Histoire du soldat, o di Walton in Façade. Nel secondo, riprende la classica scrittura di Pierino e il lupo di Prokofiev. Come è naturale che sia in una composizione pensata per un pubblico giovane, la scrittura musicale di Opus Number Zoo è relativamente semplice. Ognuno dei quattro brani è composto da pochi elementi musicali (ritmici e melodici) le cui potenzialità vengono sfruttate al massimo grado in uno spazio di tempo molto contenuto. Emblematico è il caso di Ballo campestre, dove, anche ad un primo veloce sguardo, si può intuire come la semplice struttura ritmica della parte musicale si combini perfettamente con la scansione metrica di lunga-breve (croma-semicroma) della voce narrante. La genuinità popolare di questa danza suggerisce a Berio piccole imitazioni fra i vari strumenti (si potrebbe dire con intento quasi didattico, data la loro semplicità e chiarezza), come si nota nelle prime 2 batt. (imitazione alla quarta del fagotto) e alle batt. 910 (imitazione alla quinta del corno). Il brano è giocato tutto sull’alternanza tra staccato e legato, quest’ultimo rappresentato da ricorrenti trilli misurati, contrapposti agli ampi salti che qua e là evidenziano i passi della volpe. Il lancio in aria del pulcino è sottolineato, oltre che dal glissando del corno (batt. 16), anche da due scale ascendenti, chiara eco dei madrigalismi cinquecenteschi. Nel finale, tali scale diventano una componente fondamentale, tanto che Berio, a batt. 24, ne sovrappone ben quattro a distanza di tono, creando così un cluster che si muove verso l’alto. Il Cavallo, dei quattro, è il brano più estatico. Qui viene a galla, più che negli altri, la vena lirica di Berio, che, seppure in un contesto non tonale, non rinuncia a far cantare gli strumenti. Il sostegno al loro melodizzare consiste in un singolare arpeggio formato da quinte giuste, diminuite e aumentate, in cui soltanto una nota (il sib) rimane immutata, mentre le altre due (la e mi) sono prima naturali e poi bemolli e viceversa: l’effetto è quello di un accordo tonale leggermente stonato. L’arpeggio viene esposto prima dal clarinetto, poi dal corno (stesse note ma a valori più grandi e con scansione ritmica differente), sul quale si innesta il frullato del flauto. Nella seconda parte del brano (da batt. 28) il medesimo arpeggio subisce alcune modificazioni ritmiche, diventando più frastagliato e sconnesso. Interessante notare che l’oboe, a batt. 32-33, imita il profilo dell’arpeggio di base pur con note e intervalli differenti. Altro elemento d’interesse è l’omoritmia a batt. 35-39, realizzata a coppie (flauto+ fagotto e clarinetto+corno) ognuna delle quali a distanza di due ottave – espediente questo, cioè mettere in relazione due strumenti in registri fortemente antitetici, tipicamente stravinskijano – e ognuna delle quali realizzata con le medesime figure musicali (semiminima con punto, semiminima, croma) disposte in ordine diverso. Ma si accennava anche all’elemento melodico: esso si fa sentire subito, nelle prime battute, ed è semplicemente una scala ascendente del corno, una successione che, ad eccezione di un intruso la bemolle a batt. 5, appartiene del tutto a Re Maggiore. Tale scala viene ripresa dal flauto (batt. 9 e sgg.), che, salendo al registro acuto, confonde Maggiore e minore attraverso il fa che da bequadro ridiventa diesis. Ovviamente, il chiaro riferimento tonale di questa scala viene attutito dall’arpeggio sottostante, che con Re Maggiore ha poco a che fare (anche se, guarda caso, poggia su la, dominante di re), ma il gioco di rimandi al mondo tonale è chiaro ed è tipico di Berio, che con questo mondo si è sempre misurato e, lungi dal criticarlo o rigettarlo, ne ha tratto spunti e idee per le sue composizioni. Un veloce ribattuto – che sembra quasi fare il verso ai cadenzati Scherzi beethoveniani ̶ caratterizza Il Topo. Anche qui, dietro allo stridore delle dissonanze e degli intervalli eccedenti, si nascondono chiari riferimenti ad un contesto tonale e a stilemi di scrittura appartenenti al passato: il riferimento è non soltanto al ribattuto in 6/8, ma anche agli arpeggi (batt. 13-14), al lungo pedale sul mi di batt. 19-31, ripetuto nelle ultime 13 battute, alla chiarissima settima di dominante di batt. 41 (con la solita nota intrusa, in questo caso do naturale), agli accordi cadenzali di batt. 42-46, dove sono riconoscibili, sebbene camuffati con note estranee o scritti con note sbagliate, triadi in stato di rivolto (una terza e sesta a batt. 42) e settime di dominante (batt. 45). L’ambientazione urbana e malfamata della quarta poesia ispira a Berio una musica con chiare ascendenze jazzistiche, che si possono rinvenire nei ritmi sincopati sparsi per tutto il brano, nei veloci gruppi irregolari dal carattere di improvvisazione, nel glissando del clarinetto di batt. 33. Quest’ultimo strumento, che dei cinque è sicuramente il più jazzistico, è anche quello che, tradizionalmente, è accomunato al mondo felino, perciò non poteva non essere utilizzato da Berio per descrivere l’incontro iniziale dei due gatti (l’indicazione in partitura è eloquente: «feline»). Vale la pena notare come il testo di Gattacci sia quello più intriso di riferimenti letterari, sia nell’originale inglese – dove si parla di «midsummer night», sia, ancora di più, nella versione italiana, nella quale la Ottolenghi cita Dante ‒ «gli occhi di bragia» ‒ e il Tasso della Gerusalemme liberata ‒ «Come Tancredi parte Sforacchioni e Cecco di Clorinda è proprio degno resi prodi dall’ira e dallo sdegno». Questi riferimenti devono aver stimolato la memoria musicale di Berio, che infatti non rinuncia ad un breve ma incisivo episodio di veloci e marcati ribattuti per descrivere il combattimento tra i due gatti, proprio come aveva fatto Monteverdi con il suo stile concitato nel Combattimento di Tancredi e Clorinda. Non deve stupire che uno dei principali protagonisti dell’avanguardia musicale italiana del secondo Novecento si misuri con questo tipo di materiale letterario e musicale. Una delle caratteristiche più appariscenti e interessanti di Luciano Berio è sicuramente il suo eclettismo, il suo divorare, rimeditare, rinnovare e reinventare aspetti diversi e spesso contraddittori dell’arte e della cultura di ogni epoca e luogo. Sono noti, per esempio, i suoi interessi per la musica pop (che lo portano ad arrangiare alcune canzoni dei Beatles), per le tradizioni musicali italiane ed extraeuropee (celeberrime, a questo proposito, le Folk Songs), per il teatro musicale (in anni in cui si discuteva se l’opera non fosse ormai definitivamente morta e sepolta), per la vocalità rinascimentale e barocca, per le sperimentazioni elettroniche (è tra i principali animatori dello Studio di Fonologia Rai di Milano), per la riscrittura o il completamento di opere esistenti (i frammenti schubertiani che diventano Rendering, il finale di Turandot). Il suo vasto catalogo mette insieme opere decisamente sperimentali e complesse sia all’esecuzione che all’ascolto, come Laborintus II e le Sequenze per strumenti solisti, e opere in cui la sperimentazione più drastica viene messa da parte in favore di una maggiore comprensibilità e di una vicinanza a ciò che potremmo definire ῾cultura popolare᾿ o ῾di massa᾿, senza che vi sia nulla di spregiativo in queste espressioni che, anzi, bene inquadrano la personalità così complessa e sfaccettata di Berio. Come sostiene Umberto Eco,1 amico e collaboratore di Berio, il merito del compositore di Oneglia è stato quello di non essersi mai arroccato in una torre d’avorio per pochi eletti, bensì di aver parlato a tutti, anche a quelli che non frequentavano i concerti di musica sperimentale, in virtù del fatto che molta della sua musica, pur essendo del tutto immersa nel clima di sperimentazione del secondo Novecento, sapeva essere anche «piacevole» (il termine è di Eco). Volendo creare un parallelo tra questi due protagonisti della cultura italiana degli ultimi sessant’anni, si potrebbe argomentare che Berio ha compiuto in musica ciò che Umberto Eco ha fatto per la narrativa e il pensiero filosofico italiani del secondo dopoguerra, offrendo ad un pubblico non elitario spunti intellettuali che ne elevassero la cultura a livelli più alti, e rendendo consapevole l'élite più intransigente che è possibile, e forse anche auspicabile, non nutrire pregiudizi nei confronti della cultura di massa. 1 a cura di A. I. DE BENEDICTIS, Una polifonia di suoni e immagini, Milano, Feltrinelli, 2013, pp. 7-8 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Berio, a cura di Enzo Restagno, Torino, EDT, 1995 Una polifonia di suoni e immagini, a cura di Angela Ida De Benedictis, Milano, Feltrinelli, 2013