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UNA STORIA EDUCATIVA
Apprendere attraverso l’esperienza
“… l’’individuo si evolve attraverso
l’insieme delle sue esperienze.
… Gli apprendimenti non possono
esercitarsi che nelle situazioni di
vita; dimenticarlo porta sempre a
proporre delle situazioni di
apprendimento svuotate …”
J. Foucambert
IL SENSO DELLA NARRAZIONE
Una pluralità di azioni professionali e scientifiche possono consentire un utile e fondato accesso alla
conoscenza delle condizioni umane, ovvero di fenomeni complessi che si esprimono nella complessità della
vita. In presenza di diversità del comportamento o della funzionalità individuale, come nel caso delle
disabilità, alle indagini di ordine fisiopatologico, oggi sempre più marcate in senso genetico, si
accompagnano rilevazioni ed analisi di natura empirica e fenomenologica con lo scopo di organizzare una
conoscenza altrettanto motivata del fenomeno in questione.
Si tratta di una via di analisi e di interpretazione, sulla quale si sono eretti saperi oramai secolari, come
quelli pedagogici, psichiatrici, psicologici e di altre scienze del comportamento, che rendono possibile una
conoscenza ragionata delle sindromi, utili all’apertura di prospettive di progettazione educativa e di
conduzione di trattamenti di aiuto, su cui si impegna l’odierno assetto della Pedagogia positiva.
In tale ambito di lavoro, la procedura narrativa – giuste le intuizioni di grandi autori come i fondatori della
psiconalisi, o di analisti come J. Bruner e H. Gardner, come anche nelle pratiche della Pedagogia clinica (R.
Massa, P. Crispiani) - genera un contributo conoscitivo di grande rilievo e di notevole fertilità per le pratiche
professionali. La rassegna diacronica rende meglio accessibili alcune dimensioni del processo di studio:
- la correlazione con i contesti;
- la posizione intellettuale e motivazionale dell’osservatore;
- la sottolineatura degli aspetti evolutivi del fenomeno;
- la socializzazione delle esperienze e della conoscenze.
QUALE ITINERARIO EDUCATIVO?
“Professore perché nessuno mi scrive? A mia mamma scrivono, a mio papà scrivono, a mio fratello anche,
a me no, perché?” La necessità di dare una risposta alla domanda di Adriano fu, quell’anno, lo spunto per
organizzare il lavoro educativo con lui. Da allora è stato sempre così, per tutti gli anni nei quali abbiamo
lavorato insieme.
Conobbi Adriano quando aveva 19 anni e frequentava la seconda superiore di un Istituto Professionale
della mia città. Unico maschio fra tante ragazze poco interessate a lui.
Era un ragazzo socievole e simpatico, affetto da disabilità intellettiva medio – grave, sindrome
plurimalformativa e disturbo espressivo del linguaggio da esiti di labiopalatoschisi.
Il padre l’anno prima aveva sollecitato il Preside affinché anche in occasione della frequenza alla seconda
classe Adriano fosse affiancato da una insegnante per le attività di sostegno. Era convinto che suo figlio
accettasse con maggior entusiasmo una professoressa. Confidava nella sensibilità femminile. Le donne sono
più pazienti con chi è in difficoltà.
Ricordo lo stupore di quel padre quando mi incontrò per la prima volta: “lei non è la prof.ssa tal dei tali!
Eppure mi avevano assicurato che la professoressa tal dei tali si sarebbe occupata di mio figlio. Dov’è la
Professoressa?” Così si svolse, più o meno, il mio primo incontro con il signor Efisio.
Le parole di quel padre non mi avevano certo rinfrancato. Oltretutto anche per me si trattava di una novità.
Negli anni precedenti avevo svolto attività di sostegno affiancando un’alunna audiolesa. Non avevo, fino ad
allora, avuto a che fare con ragazzi con deficit intellettivo.
Quella era in assoluto la prima volta. Sapevo, per averlo letto sui libri, che spesso i ragazzi con disabilità
intellettiva presentano difficoltà psicomotorie, da cui derivano una serie di disturbi legati alla gestualità e alla
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percezione dello spazio e del tempo; che la gravità del deficit, per chi è disabile, non è determinata soltanto
dalla condizione clinica, ma anche dall’interazione con il contesto sociale e familiare in cui sono inseriti, che
può stimolare o meno l’attuarsi delle tappe evolutive. Troppo poco per intraprendere con cognizione di causa
quella nuova esperienza educativa.
Il giorno prima di incontrare Adriano e suo padre, consultai il fascicolo dell’alunno in Segreteria: lessi con
attenzione la diagnosi funzionale, il PEI elaborato dall’insegnante per le attività di sostegno di terza media, e
quello messo a punto dall’insegnante della prima superiore.
Che fare? La sfida in questi casi è sempre la stessa: situare le nostre conoscenze teoriche nel contesto reale
in cui si presenta il problema. C’è però un problema che non ci abbandona mai quando ci occupiamo di
insegnamento e di apprendimento: è quello di come attuare l’incontro educativo con l’altro. Come avrei fatto
ad arrivare a Adriano?
Innanzitutto dovevo conoscere meglio il suo deficit e, fatto non secondario, conoscere Adriano e la sua
storia, per capire meglio quello che poteva, sapeva e voleva fare.
Come accade spesso, a ogni insegnante principiante, tutta la mia attenzione era concentrata sulle sue
menomazioni. Meno male che fin dal primo giorno di scuola mi ero attrezzato di tutto punto, con schede
d’osservazione, test d’intelligenza verbale e non verbale, test per la percezione visiva e la valutazione del
linguaggio. Con tutti quegli strumenti a disposizione avrei potuto sottoporre Adriano a un’ampia serie di
prove per definire al meglio l’entità del suo deficit e quindi programmare il mio intervento educativo.
Dopo essermi presentato ad Adriano e avergli chiesto quello che ritenevo più importante per impostare il
mio lavoro: come ti chiami, quanti anni hai, dove sei nato, hai dei fratelli, come ti trovi a scuola, che cosa ti
piace fare nel tempo libero…, iniziai subito, quello che viene considerato il “lavoro d’indagine vero e
proprio”.
Adriano attento alle mie indicazioni svolgeva con attenzione e pazienza quanto gli proponevo di fare,
indicando con il dito le tante figure che gli scorrevano davanti, finché, forse un po’ stanco, mi chiese se
potevamo smettere: “basta professore io ho fame…”.
Acconsentii alla sua richiesta seppur senza molta convinzione. Dovevo concludere l’osservazione al più
presto e quindi impegnarmi nella predisposizione della Programmazione individualizzata, da sottoporre
all’approvazione della famiglia e del consiglio di classe. Interrompere la somministrazione dei test in quel
momento era proprio un peccato.
IL “LABORATORIO CORRISPONDENZA”: APPRENDERE DALL’ESPERIENZA
Mentre Adriano faceva una breve merenda mi pose la fatidica domanda: “Professore perché nessuno mi
scrive? A mia mamma scrivono, a mio papà scrivono, a mio fratello anche, a me no, perché? Perché non
ricevo neanche la pubblicità?”
Adriano non sapeva più scrivere, in terza media era abituato a scrivere e a far di conto, lo dimostravano i
quaderni che mi aveva consegnato sua madre fin dal primo giorno.
Nell’anno scolastico precedente aveva dedicato il suo tempo alla realizzazione di tanti lavoretti con la colla
e le conchiglie. A Natale ne aveva regalati un po’ a tutti: agli insegnanti, alle compagne, al personale
ausiliario ed anche agli zii. Poi era arrivata l’estate e le vacanze, trascorse nella città dove era nato suo
papà e aveva dimenticato tutto. Complice il suo deficit ed anche un po’ di pigrizia.
La domanda di Adriano mi suggerì un idea: dovevo soddisfare il suo desiderio favorendo nel contempo lo
sviluppo delle sue competenze e conoscenze.
Fu così che quel suo bisogno diede forma al Progetto “Laboratorio Corrispondenza”. Mediante la
corrispondenza con altre scuole Adriano riuscì a vedere concretizzato il suo desiderio di ricevere lettere e
cartoline da tanti amici, alunni e professori di altre scuole e nel contempo imparare cose nuove.
Per comprendere il contenuto delle lettere era necessario saper leggere; per rispondere al tuo
corrispondente bisognava saper scrivere.
Il Progetto “Laboratorio Corrispondenza” divenne così l’occasione per imparare da capo a leggere e a
scrivere ed anche a far di conto.
Con l’aiuto delle compagne di classe Adriano si esercitò ogni giorno con la penna e il computer nella
scrittura di brevi lettere in carattere stampato maiuscolo, accompagnandole con bellissimi disegni, per poi
inviarle per posta ai suoi corrispondenti.
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Scrivere e disegnare lo sollecitava a porsi ed a pormi domande su tante cose: su sé stesso, sulle compagne e
sui professori, sui fatti che accadevano a scuola e fuori.
A chi gli chiedeva per iscritto informazioni sulla sua città o sul suo quartiere Adriano rispondeva
raccontando, con frasi brevi, le uscite compiute con le compagne di classe in giro per il quartiere: quali e
quanti cartelloni aveva letto, quali luoghi aveva visitato, in quali negozi aveva compiuto piccoli acquisti,
scoprendo così il valore del denaro. La visita al mare fu l’occasione per costruire tutti insieme a scuola un
plastico della spiaggia.
Dopo circa un mese dalla prima lettera, Adriano espresse il desiderio di incontrare i suoi interlocutori
faccia a faccia. Anche le sue compagne erano curiose di conoscerli.
Giorno dopo giorno, lettera dopo lettera, si avvicinava il momento in cui per la prima volta Adriano
avrebbe incontrato i suoi corrispondenti. In occasione di una delle nostre uscite, ci recammo in visita ad una
Scuola Media situata in centro città. Grazie alla disponibilità di una collega di quella scuola,
sperimentammo, insieme alla sua classe, diverse tecniche laboratoriali. Il riciclaggio della carta fu
un’esperienza particolarmente intensa e coinvolgente sia per Adriano, che per le compagne che avevano
condiviso quell’uscita. La documentammo con fotografie e una bella presentazione al computer, prodotta
con la collaborazione di tutti. Adriano in quell’occasione scelse le foto, scrisse i titoli, diede alcuni consigli
alle compagne impegnate nella descrizione delle fasi di riciclaggio.
Le uscite di Adriano si svolgevano sempre con alcune compagne, che potevano così conoscerlo meglio ed
imparare a lavorare con lui.
L’esperienza con Adriano era per loro un’occasione importante, fra qualche anno avrebbero dovuto
confrontarsi, in quanto operatrici sociali, con la terza età ed anche con la disabilità.
L’anno prima i contatti tra Adriano e la classe erano stati sporadici. Lui era sempre fuori dall’aula, le
compagne in classe a seguire le lezioni. Erano estranei l’uno alle altre.
Partimmo in treno una bella mattina alle 7:10 dalla stazione della nostra città. Per la prima volta avremo
incontrato faccia a faccia i nostri corrispondenti dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura.
In quell’occasione Adriano fu puntualissimo. Era la prima volta che viaggiava in treno e questo fatto lo
elettrizzava. Era davvero felice mentre documentava il viaggio con la sua macchina fotografica. Alcuni
giorni prima, con me e alcune sue compagne, aveva studiato il percorso ferroviario dalla nostra città a quella
degli amici dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura, prima tracciandolo sulla cartina con un pennarello
rosso, poi calcolando approssimatamene i chilometri ed anche il tempo che sarebbe occorso per arrivare a
destinazione.
Circondato dalle sue compagne Adriano guadava fuori dal finestrino, interrompendo il silenzio segnato dal
rumore del treno in movimento, con domande sul paesaggio, sull’Istituto meta del nostro viaggio, e sui
ragazzi che avremo incontrato lì.
Arrivati alla stazione della città in cui aveva sede l’Istituto Professionale per l’Agricoltura, conoscemmo
finalmente alcuni tra i nostri corrispondenti: primi fra tutti Franco e Cesare che ci aspettavano in compagnia
della Prof.ssa Maria e del Prof. Sergio, docenti per le attività di sostegno in quella scuola.
Il nostro viaggio aveva come scopo oltreché la visita alla scuola, anche la presentazione del Progetto
“Laboratorio Corrispondenza” agli alunni ed ai professori delle classi che ancora non lo conoscevano.
Speravamo nell’adesione di altre sezioni.
Durante il tragitto dalla stazione alla scuola Adriano fece conoscenza con i ragazzi che erano venuti ad
accoglierlo, e con il Prof. Sergio con il quale legò subito.
La visita fu interessante per lui ed anche per le sue compagne che fecero amicizia con alcuni fra gli
studenti dell’Istituto.
Adriano decise, tra lo stupore di tutti, di presentare in prima persona il Progetto “Laboratorio
Corrispondenza” ai ragazzi delle diverse classi della scuola.
Inizialmente con l’aiuto delle sue compagne, e poi da protagonista illustrò con chiarezza e senza timore il
Progetto ai ragazzi delle diverse classi, richiedendo e ricevendo silenzio ed attenzione.
Parlava piano, scandendo con attenzione parole e frasi per farsi capire da tutti gli ascoltatori, rispondendo
con calma alle loro domande. In una classe al termine della presentazione con sicurezza scrisse il proprio
nome e indirizzo alla lavagna, per poi stupirsi di averlo fatto.
Concluse la sua performance ringraziandomi di avergli insegnato a scrivere. Era la prima volta, da quando
ci conoscevamo, che Adriano senza alcun aiuto scriveva alla lavagna.
Ad Adriano la serra piacque moltissimo, così come la fungaia. Fu felice di farsi fotografare dalla sua
compagna Beatrice a braccetto con le Professoresse Anna e Maria.
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Il ritorno in treno fu ricco di riflessioni sulla visita appena compiuta e di commenti sui nostri
corrispondenti.
Alla visita seguirono nuove lettere in cui Adriano raccontava le sue esperienze e progressi a Franco e a
Cesare e ai loro compagni di classe e di scuola. Le sue lettere erano spesso accompagnate da brevi messaggi
scritti dalle sue compagne ai ragazzi della scuola corrispondente.
Scambiare messaggi con tanti amici di diverse scuole stimolava Adriano a compiere nuove esperienze e
confrontarsi con nuove conoscenze. Lavorava con me e sempre più spesso con le sue compagne.
Sottoponeva i suoi lavori alla mia valutazione e a quella degli altri professori, sollecitandoci a giudicare
con rigore i suoi elaborati. I giudizi positivi erano accolti con esultanza, i negativi con dichiarazioni di
rinnovato impegno e desiderio di far meglio alla prossima occasione.
A fine anno le compagne di Adriano proposero di organizzare una festa – spettacolo per suggellare, con
musiche e balli, il gemellaggio con le altre scuole.
Adriano e alcune di loro, con l’aiuto della professoressa di educazione fisica, organizzarono uno spettacolo
di danza, ed un rinfresco in onore degli ospiti. Il lavoro di preparazione fu intenso e faticoso. Rubammo ore
qua e là ai diversi professori.
Adriano era entusiasta dell’idea di esibirsi in pubblico davanti a tanti amici. Partecipava con passione alle
prove, dimostrando di possedere un non comune senso del ritmo, a dispetto di quanto certificato dai medici.
Quell’anno non tutto il consiglio di classe si impegnò in prima persona per la riuscita dell’esperienza;
anche se tutti gli insegnanti avevano approvato il progetto senza apparenti riserve, durante la sua
realizzazione emersero alcune difficoltà.
Vi fu chi concesse qualche ora del proprio orario d’insegnamento, disinteressandosi degli esiti del lavoro:
non era un’attività che lo riguardava. Qualcun altro dimostrò dissenso per quel lavoro che sottraeva tempo
alle spiegazioni e alle interrogazioni.
Ma, per fortuna, vi fu anche chi pose a disposizione le proprie conoscenze e competenze partecipando con
entusiasmo alla predisposizione di alcune iniziative.
Fu una bella festa, partecipata e coinvolgente. Adriano accolse con sollecitudine e affetto i tanti invitati
giunti dalle altre scuole.
Li accompagnò in visita all’Istituto, illustrando a ragazzi e professori le finalità del corso di studi che
frequentava; quindi descrisse le attività e le iniziative realizzate nei vari laboratori, soffermandosi ad
illustrare il plastico del mare costruito con le sue compagne, qualche mese prima.
Fu Adriano che più tardi aprì le danze in onore degli invitati e quindi li coinvolse in un ballo collettivo.
Alle danze seguì il rinfresco, che si concluse con la consegna ad Adriano di un dono da parte degli alunni
dell’Istituto Professionale per l’Agricoltura. Quelli con cui aveva legato di più.
L’esperienza di quell’anno scolastico si concluse così, con una festa ed un arrivederci all’anno successivo.
I genitori di Adriano erano felici di essere stati smentiti dai fatti, e decisi a collaborare per la piena
inclusione del figlio.
Quell’anno Adriano fece molti progressi: riprese a scrivere e a far di conto, ma soprattutto condivise
successi e difficoltà con le sue compagne, lavorando insieme ogni giorno, godendo della loro compagnia,
dispensando affetto un po’ a tutti e ricevendo in cambio amicizia e simpatia.
Non tutte le difficoltà erano state superate: vi era ancora qualche compagna che dimostrava disagio ed
imbarazzo nell’interagire con Adriano, ed anche una certa insofferenza mascherata nei suoi riguardi: “ma
quanto tempo ci mette? Per colpa sua perderemo il treno…”, nel contempo erano aumentati i comportamenti
amichevoli nei suoi confronti. Un buon numero di compagne non lo considerava più tanto diverso, iniziava
ed essere simpatico a tanti.
L’esperienza di cooperative learning introdotta quell’anno, tra la curiosità e la perplessità di alcuni tra i
colleghi, aveva ridotto l’opposizione iniziale delle compagne nei confronti della “diversità”, verso quel
mondo fino a quel momento misterioso e sconosciuto, rappresentato da Adriano e non solo. E in una classe
eterogenea è più facile che trovi una sua collocazione anche un ragazzo con una grave disabilità quale era
Adriano.
Le compagne più restie iniziavano a dimostrare una certa accettazione. Vi era più disponibilità nei suoi
confronti, ma sentimenti ed emozioni non erano ancora messi in gioco per davvero; si era instaurata una
pacifica convivenza. Per alcune Adriano era un amico, alcune altre avevano maturato la convinzione che
anche lui aveva il diritto di far parte della classe, ma la sua presenza, non doveva, non poteva coinvolgerle
più di tanto, pena il rifiuto. Era avvenuta una prima modificazione sul piano formale e dei principi, ma gli
atteggiamenti di alcune non erano ancora mutati completamente.
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Era certamente un passo avanti, ma il processo d’inclusione scolastica non è un fatto che si presta ad una
modalità di lettura diacronica, per tempi e per fasi concluse. Ciò che in quell’anno scolastico poteva
sembrare del tutto superato si sarebbe forse manifestato più in là, nel prossimo anno.
RIFLESSIONI EDUCATIVE E DIDATTICHE
La storia di Adriano ci invita a riflettere su una questione non semplice, quale quella dell’integrazione dei
ragazzi con disabilità nella scuola, nel caso specifico in quella secondaria superiore.
Si tratta di una questione che impone all’insegnante per le attività di sostegno così come a tutto il consiglio
di classe, precise scelte di campo, relativamente ai modelli d’insegnamento – apprendimento da praticare
dentro la scuola.
Fare sostegno è un lavoro difficile, è un mestiere segnato da tanti imprevisti, che può provocare conflitti
con se stessi e con gli altri, che può indurre emozioni, non sempre di segno positivo, che spesso conducono
gli insegnanti, in particolare quelli per le attività di sostegno, a porre in atto strategie e tattiche volte a
ricondurre la complessità della diversità entro le vie rassicuranti dello scientificamente previsto e
programmato.
In tale situazione il rischio è quello di farci perdere il senso del nostro compito principale di educatori,
quello cioè di elaborare strategie, che, piuttosto che ridurre la complessità dei fenomeni educativi,
la facciano emergere, permettendo di svilupparne le implicite potenzialità creative.
Si tratta a questo punto, come con Adriano, di far nostri gli stimoli che il ragazzo ci offre, riproponendoli,
integrandoli in una situazione contestuale evolutiva.
Chi opera con ragazzi con disabilità si trova di continuo a confrontarsi con l’imprevedibilità e con il dubbio,
che lo costringe a osservazioni più attente, a ripensamenti, a rivisitazioni delle proprie certezze educative, in
cerca di nuovi approcci alla realtà in cui opera.
Si tratta, come si evince dalla storia di Adriano, di un compito che non può essere giustificato da
rassicuranti
certezze
scientifiche; ci si deve accontentare di volta in volta, di saper leggere e
interpretare i suggerimenti impliciti che provengono dal ragazzo con disabilità, nonché dai suoi compagni e
quindi predisporre un contesto inclusivo.
A questo proposito possiamo citare David Hawkins, il quale ammoniva i suoi lettori, già negli anni’60, che
non si può predisporre in anticipo “un percorso da far seguire ai bambini, perché non sappiamo ancora
quel che impareremo osservandoli e che ci porterà a prendere decisioni alle quali non abbiamo ancora
pensato” (Hawkins, 1974, p. 43).
Nel libro “Imparare a vedere” Hawkins sottolinea la necessità di porre attenzione alla complessità dei
processi educativi, precisando come l’integrazione dei punti di vista differenti e delle capacità di ascolto
può costituire un prezioso contributo affinché la pratica educativa si traduca in opportunità di costruzione
di contesti per l’integrazione ecologica evolutiva dell’individuo con il suo ambiente.
A questo punto, della nostra riflessione, viene naturale domandarsi quale significato deve assumere una
pratica attenta alla complessità dei processi educativi, volta alla costruzione di contesti attraverso i quali
promuovere un’integrazione ecologica evolutiva dell’individuo col suo ambiente.
Severi e Zanelli giungono alla conclusione che “integrazione ed autonomia viaggiano insieme – e l’integrazione si realizza tramite l’espressione delle diversità individuali e la contemporanea evidenziazione
delle pertinenze” (Severi, Zanelli, 1990, p.20).
Si tratta a questo punto, così come con Adriano e le sue compagne, di predisporre azioni educative,
situazioni didattiche finalizzate a favorire la relazione, l'interdipendenza, la reciprocità fra gli alunni
coinvolti nel processo formativo, nel rispetto delle loro diversità e differenze.
L’idea di dar vita al Progetto “Laboratorio Corrispondenza”, ha preso forma dalla convinzione che fosse
necessario rapportare l'azione educativa ad un percorso significativo, affinché potessero connettersi
insieme l’attività formativa, il vissuto di Adriano e quello delle sue compagne, così da creare un contesto in
cui fosse possibile favorire l'autonoma organizzazione di ognuno, a livello cognitivo, affettivo e relazionale.
Il laboratorio ha assunto la connotazione di uno spazio, di un luogo pensato per favorire i processi di
organizzazione autonoma degli apprendimenti, dove poter predisporre situazioni concrete affinché ognuno
potesse sperimentare una costruzione autonoma del proprio sapere.
Uno dei presupposti fondamentali che ha caratterizzato il lavoro educativo con Adriano è stato quello di
favorire in lui la capacità di autorganizzazione, cioè promuovere occasioni in cui potesse sperimentarsi
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come soggetto attivo in grado di riorganizzare continuamente le proprie strategie di comprensione,
interpretazione e rielaborazione del reale e nel contempo dar forma e contenuto alla propria identità.
L'azione educativa si è quindi caratterizzata come un “intervento di sfondo”.
In questa prospettiva l’insegnante assume la funzione di ‘regista’, il suo compito è quello di facilitare le
esperienze dell’ alunno con disabilità predisponendo situazioni ed occasioni, suscitando problemi, ponendo
interrogativi, offrendo un sostegno a distanza ed organizzando il contesto, evitando la facile tentazione
di predeterminare le sue scelte e comportamenti.
Edgar Morin sottolinea che " bisogna connettere in maniera assai stretta auto - organizzazione ed eco–
organizzazione nella nozione chiave di auto – eco - organizzazione" (Morin, 1985, p.54). Tale concetto
presuppone complementarietà fra autonomia e interdipendenza.
Humberto Maturana e Francisco Varela, hanno evidenziato come ogni essere vivente costituisca
un’unità con una propria organizzazione interna che non può essere direttamente modificata, pena
la sua stessa distruzione, da agenti esterni. L'autonomia in campo biologico è stata definita dai due
ricercatori 'autopoiesi'.
Ogni essere vivente possiede una sua organizzazione autopoietica, e "la caratteristica più peculiare di un
sistema autopoietico è che si mantiene con i suoi stessi mezzi e si costituisce come distinto dall'ambiente
circostante mediante la sua stessa dinamica, in modo tale che le due cose sono inscindibili” (Maturana,
Varela, 1987, p. 56).
Un intervento esterno può quindi promuovere un cambiamento, ma la sua determinazione dipende
dall'auto - organizzazione del soggetto. Non è l'ambiente esterno a determinare direttamente il cambiamento,
ma piuttosto la necessità del soggetto di mantenere l'auto - organizzazione per affermare la propria identità.
Ciò ci permette di sostenere che un essere vivente pur dipendendo ecologicamente dal proprio
contesto non può in nessun caso essere interamente determinato da stimoli esterni.
In ambito educativo significa che ogni alunno ha una funzione attiva nell'organizzazione dei propri
apprendimenti e nella strutturazione della propria identità.
Considerare il ragazzo con disabilità una soggettività che si auto - organizza non significa negare
all’insegnane una funzione significativa nella relazione educativa con lui.
Il mio compito è stato quello di sostenere l’atteggiamento attivo di Adriano, valorizzando le sue
potenzialità, permettendogli così di partecipare concretamente alla costruzione del proprio percorso
formativo.
Il contesto, dovrà avere quindi significati condivisibili, riconoscibili dal soggetto con disabilità, in
modo che egli possa partecipare, agire e incidere sul contesto stesso.
Un altro compito non secondario è stato quello di organizzare l'ambiente di apprendimento in modo tale
che Adriano potesse sperimentare progressivamente il piacere di far fronte alle proprie esigenze conoscitive,
con le proprie competenze, ma anche con il mio sostegno e con quello delle sue compagne, che con il loro
intervento hanno favorito lo sviluppo di una sua sempre maggiore autonomia.
Nell’organizzazione dell’intervento educativo si è fatta particolare attenzione anche alle differenze
individuali relative alle modalità ed agli stili di apprendimento, che spesso nella scuola e, nello specifico
nella scuola secondaria di secondo grado, sono ancora considerate un elemento di disturbo; spesso la
continuità del sistema gruppo – classe viene affidata alla negazione di queste differenziazioni.
Diversità di stili cognitivi corrispondono a diversità nei metodi di apprendimento/insegnamento. La
discrepanza tra modalità di apprendimento di un ragazzo e modalità di insegnamento di un docente può
essere un fattore rilevante ai fini dell’insuccesso di ambedue.
Una tale attenzione mi ha imposto di instaurare rapporti in gran parte inediti con il contesto – classe in cui
mi trovavo ad operare. Insieme ai colleghi abbiamo ripensato la nostra didattica, attraverso una
interpretazione sistemica della realtà colta nella dimensione della complessità, ponendo l’accento sulla
cultura dell’esperienza, favorendo l’espressione della varietà dei linguaggi, affinché ognuno, potesse
diventare protagonista attivo e creativo dei propri processi di crescita ed autonomia.
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