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UNA STORIA SENZA REDENZIONE

Studio critico sulla Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni

SCUOLA DELLE SCIENZE UMANE E DEL PATRIMONIO CULTURALE. Corso di Laurea in Lettere Dipartimento di Scienze filologiche e linguistiche UNA STORIA SENZA REDENZIONE Uno studio storico-critico sulla Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni TESI DI LAUREA DI RELATORE GIUSEPPE CATANIA PROF. MATTEO DI GESÙ MATRICOLA 0577763 ANNO ACCADEMICO 2014 - 2015 0 INDICE Introduzione ...………………………………….…………….…..p.2 Capitolo 1: Genesi dell’opera e breve storia editoriale …...….p.4 Capitolo 2: La prospettiva dell’opera 2.1 L’universalità della morale cattolica ……...……….......p.9 2.2 Il controverso rapporto con Verri ………...…………..p.11 2.3 Dalla Lettre a Monsieur Chauvet al saggio Del romanzo storico e dell’invenzione: il sopravvento della storia sulla poesia ………………………………………………...p.18 Capitolo 3: L’ultimo capitolo dei Promessi Sposi 3.1 Due testi comunicanti ………………………………...p.24 3.2 Conclusioni ………………………………………..….p.27 Bibliografia ………….………...…………………………….….p.28 1 Introduzione Questo saggio, scritto a compimento del corso di laurea triennale in lettere moderne, ha lo scopo di accompagnare il lettore nella analisi e nell’interpretazione di un’opera di Manzoni negletta e considerata di secondaria importanza fino a qualche decennio fa’, ovvero La Storia della Colonna Infame. La Colonna Infame fu un monumento fatto erigere nel 1630 dai giudici del Senato di Milano sulle macerie dell’abitazione di un povero barbiere, Giangiacomo Mora, accusato, insieme ad altri sventurati, di aver unto le mura della città di una fantomatica sostanza viscosa che avrebbe dovuto contagiare la peste ai malcapitati che ne venivano a contatto. Il contesto storico è quello descritto da Manzoni nei Promessi Sposi, una Milano sconvolta dalla peste, dalla carestia e dai tumulti. Il popolo è ammalato, affamato e impaurito, dunque fu allora che alcuni giudici del Senato, probabilmente nel tentativo di riaffermare l’autorità istituzionale, approfittarono delle testimonianze di una certa Caterina Rosa, per rendere alla massa indistinta il tributo di sangue che esigeva. Così gli «untori» vengono arrestati e interrogati sulla base di prove ridicole, vengono poi sottoposti alla tortura, illusi di poter essere graziati, traditi dopo essersi resi traditori, e, infine, estorte loro delle false confessioni, condannati a una morte orrenda dopo pene indicibili e mutilazioni strazianti. La Colonna Infame fu così costruita proprio per ricordare quel fatto terribile e quella pena esemplare. Ma, come sappiamo, quel monumento fu celebre per motivazioni differenti rispetto a quelle per cui i giudici lo fecero erigere. Oramai la Colonna non esiste più, fu abbattuta nel 1778, ma la sua storia, testimoniata dal saggio di Manzoni, ci impone quasi il dovere di conoscerla, perché rimane irremovibile nella memoria del nostro Paese, sebbene allora non si potesse ancora parlare di Italia, insieme alle altre vivide ferite del nostro passato. Potrebbe sembrare un’esagerazione sostenere che la narrazione di un evento verificatosi nel Seicento possa avere un così grande valore nei nostri anni, ma leggendo le pagine della Colonna ci si può rendere conto della potenza del mezzo letterario che, tramite la metodica indagine dell’autore, fissa la memoria di quell’evento, senza farci correre il rischio che la storia ne sfumi il ricordo. Infatti, è proprio nei termini di una «ferita del passato» che parla Ezio Raimondi di questo pamphlet, definito tuttavia da Renzo Negri un «romanzo-inchiesta». Un’opera insolita eppure con quella forza dei grandi classici di rimanere sempre attuale. Nei capitoli a seguire ne racconteremo puntualmente la storia e conosceremo anche le motivazioni che spinsero Manzoni a scriverla e a pubblicarla. Ne esploreremo alcuni dei contenuti, la confronteremo con le altre opere dell’autore, e con quelle di altri autori, e ci avvarremo del 2 contributo dei più autorevoli interpreti per comprenderne meglio i significati, i riferimenti e le finalità del testo. Per lo studio dell’opera e della critica ci siamo serviti dei libri della biblioteca universitaria di Palermo e delle biblioteche comunali di Milano, città nella quale abbiamo soggiornato durante la redazione del nostro saggio. 3 Capitolo I Genesi dell’opera e breve storia editoriale La redazione definitiva della Storia della Colonna Infame fu pubblicata come seguito dei Promessi Sposi nel novembre del 1842, a Milano, in pubblicazione a dispense, presso gli editori Guglielmini e Redaelli. Il testo della Colonna, dapprincipio integrato all’interno del romanzo, aveva raggiunto un’estensione tale da esigere molto più di quello spazio che era stato dedicato alle altre digressioni storiche, ma una volta espunto, fu più volte rimaneggiato prima di quella definitiva pubblicazione del ‘42. Eppure il progetto originale dell’opera, che l’autore concepì durante la redazione del Fermo e Lucia, nel lontano 1821, era ben più modesto di quello che fu poi realizzato e incluso nella “quarantana”. Il libello ebbe un’importanza tale per don Alessandro che non soltanto lo pose al termine del suo romanzo storico come autentico finale, ma, finché visse, non autorizzò edizioni che non includessero entrambe le opere. Tuttavia le ragionevoli aspettative che l’autore nutrì, e per la portata dell’opera e per l’inevitabile eco che questa forniva ad avvenimenti politici attuali nella prima metà dell’Ottocento, furono frustrate dalla tiepida accoglienza che lettori, scrittori ed accademici riserbarono a quel maturo prodotto di oltre un ventennio di studi e di riflessioni personali. E per comprendere la delusione del Manzoni riteniamo siano sufficienti le parole di sgomento che egli stesso scrisse nel 1843 in una lettera di ringraziamento ad Adolfe de Circourt: «Quand ma petite histoire aparu, le silence […] le silence s’est fait»1. Al fine di capire il complesso intreccio di avvenimenti pubblici e privati, più o meno storici, che fecero da sfondo alla stesura della Colonna Infame, e contribuirono alla sua realizzazione nei tempi e coi modi in cui oggi la conosciamo, occorre, tuttavia, partire da molto lontano nel tempo. Il soggiorno parigino (1805-1810) aveva fornito al giovane Alessandro un rinnovato impulso creativo, soprattutto per merito della conversione al cattolicesimo, e per i nuovi stimoli culturali che ricevette dalle amicizie d’oltralpe, tra le quali quella di Fauriel ebbe un enorme influenza sulla sua formazione. Tornato in Italia nel 1810, si dedicò alla stesura degli Inni Sacri (tra il 1812 e il 1817) e alla pubblicazione delle Osservazioni sulla morale cattolica (nel 1819), finché nel 1821, terminato Il Conte di Carmagnola, e alle prese con l’Adelchi, comincia a pensare alla 1 N. Tommaseo, G. Borri, R. Bonghi. Seguiti da Memorie Manzoniane di Cristoforo Fabris, Colloqui col Manzoni, a cura di G. Titta Rosa, Ceschina, Milano 1954. 4 suggestiva idea di lavorare a un romanzo storico. Così volge il proprio interesse a un episodio di vita regionale del secolo immediatamente precedente a quello rivoluzionario, e, mentre si cimenta nello studio dell’ambientazione storica, si imbatte nel processo della “Colonna Infame”. Quindi, tra il ’21 e il ’23, Manzoni include un embrione della Colonna Infame al quinto capitolo del quarto tomo del Fermo e Lucia, ma una serie di circostanze sfavorevoli lo costringeranno ad espungere ed eliminare quel testo. Una su tutte, l’impossibilità di poter trattare esaustivamente l’argomento, che aveva tanto suscitato il suo interesse e gli forniva molteplici spunti di riflessione, senza intaccare ulteriormente il delicato equilibrio del romanzo, a causa di eccessive e prolisse digressioni. Ma la motivazione non può ridursi a un semplice problema di stampo letterario, infatti, secondo Sciascia «la ragione per cui Manzoni espunge dal romanzo la Storia non è soltanto tecnica […]. La ragione è che sui documenti del processo, sull’analisi e le postille di Verri, Manzoni entrò, per dirla banalmente, in crisi. La forma, che non era soltanto forma, e cioè il romanzo storico, gli sarà apparsa inadeguata e precaria»2. A motivare ulteriormente l’eliminazione della Colonna dal Fermo, ma non ad abbandonare del tutto il progetto, si aggiunse il difficile momento politico in cui il Manzoni scrisse l’opera: dopo i moti del ’21, l’Austria mette in atto un pesante regime poliziesco e inaugura i processi contro i carbonari che culmineranno con le condanne a Pellico, a Confalonieri e ad altri amici del «Conciliatore». A tal proposito, secondo Carla Riccardi: «A Manzoni le sentenze contro i patrioti e, in particolare, quella contro Confalonieri, sembrano invece una sfida, non solo all’aristocrazia progressista milanese e alla tradizione illuminista della sua famiglia, ma anche alla sua personale coscienza civile e religiosa. Egli raccoglie la sfida, ma dopo aver portato l’opera a un certo punto, l’abbandona e la rimanda»3. Intanto nel 1823 l’autore aveva pubblicato la Lettre a Monsieur Chauvet, in cui stabiliva lo spazio autonomo della poesia rispetto alla storia, e anche se non identificava esplicitamente nel romanzo storico il genere letterario da praticare, ne dava, comunque, una definizione esatta, che avrebbe adottato e messo in pratica nei Promessi Sposi, costituendone la base teorica. La nuova redazione del testo sulla sentenza contro i presunti untori, intitolata Appendice storica sulla Colonna Infame, e disgiunta dal Fermo, impegnerà l’autore, insieme all’avvio 2 L. Sciascia, Nota, contenuta in Storia della Colonna Infame di A. Manzoni, Sellerio editore Palermo, Palermo 1982, p. 186. 3 C. Riccardi, Introduzione, Le lezioni della storia e la passione del vero, Beccaria, Verri, Manzoni, contenuta in Storia della Colonna Infame di A. Manzoni, diretta da Giancarlo Vigorelli, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002, pp. LXXI-LXXII. 5 della revisione del romanzo, tra il 1823 e il 1824, e una lettera del Fauriel al Cousin, del 26 giugno 1824, testimonia che già allora il saggio era stato portato a termine: «Vous me pardonneriez pas de ne rien vous dire du roman de notre Alexandre. Il y a longtemps qu’il est terminé […] Alexandre en a détaché deux portions, qui sont devenues des ouvrages à part»4, ovvero la Colonna e le pagine intorno ai problemi della lingua italiana. Tuttavia, sia per le implicazioni politiche accennate pocanzi, sia perché la nuova stesura era stata abbozzata ma non ricopiata, né redatta definitivamente, l’Appendice non fu inclusa nei tre tomi della prima edizione dei Promessi Sposi, pubblicata da Vincenzo Ferrario, a Milano, tra il 1825 e il 1827. Dal 1827 l’attenzione di Manzoni per i problemi letterari cominciò a scemare lievemente: il fantasma dell’impossibilità di conciliare invenzione e storia nel romanzo, che il nostro Alessandro aveva cercato di aggirare nella Lettre, si fa progressivamente più nitido. Così questo periodo sarà contraddistinto da un più vivo interesse verso questioni linguistiche e filosofiche rispetto al passato. Tuttavia l’impulso creativo è tutt’altro che cessato, e già dal ’27 si reca a Firenze, dedicandosi alla revisione linguistica dei Promessi Sposi. Mentre dell’Appendice non si hanno più notizie fino al gennaio del ’28, quando Giulia Beccaria scrive al vescovo Tosi che è terminata, ma certamente «non solo la ritoccherà ma la rifarrà»5; e ancora Giulia, sul finire del ’29, comunicherà al Tosi che è «terminata e ricopiata»6. Nel frattempo, proprio nel 1829, Manzoni, appreso il parere di Goethe7 sul rapporto tra storia e invenzione nei Promessi Sposi del ’27, comincia a credere che quei dubbi sulla validità del romanzo non siano poi così infondati, e si cimenta nella stesura di un saggio che vedrà la luce molti anni dopo e che sicuramente rappresentò una spiacevole sorpresa per i suoi lettori, considerando che ne determinò il silenzio artistico. Ma tornando al discorso della Colonna, quello che aveva già cominciato a tenere impegnato l’autore un paio di anni prima del ’29 e che concluderà nel 1833, sarà un testo differente rispetto a quell’appendice frettolosamente redatta qualche anno prima. La Storia della Colonna Infame compilata sui processi da Alessandro Manzoni, questo il suo titolo, introduce delle modifiche sostanziali al testo, come la riduzione della Digressione sulla posterità contenuta nell’Appendice, che ridimensionerà al minimo, e, tra le altre novità, la 4 G. Vigorelli, La riscoperta della «Colonna Infame», Ivi, p. XV. C. Riccardi, Introduzione, Le lezioni della storia e la passione del vero, Beccaria, Verri, Manzoni, contenuta in Storia della Colonna Infame di A. Manzoni, diretta da Giancarlo Vigorelli, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002, p. LXIX. 6 Ibid. 7 Manzoni seppe dell’opinione di Goethe da un articolo del suo discepolo A.F.C. Streckfuss pubblicato nel 1827 sulla rivista tedesca «Uber Kunst und Alterthum». 5 6 dichiarazione di diversità di intento rispetto a Verri. Inoltre, questo nuovo testo, risulta notevolmente influenzato dalle letture dei saggi di André Chénier, che ne ispireranno la passione e la retorica nella trattazione e nelle riflessioni, rivelatrici di una commossa partecipazione; e dell’inedita Storia di Milano di Pietro Verri (che fu pubblicata postuma tra il 1825 e il 1826). Purtroppo la scomparsa dell’amata moglie nel 1833, e della figlia primogenita due anni dopo, confermeranno l’ormai mutato animo con il quale l’autore si cimenterà nella revisione dei Promessi Sposi e nella riscrittura della Colonna. Alla redazione definitiva, dal titolo Storia della Colonna Infame, Manzoni si dedicò dal 1834 al 1842. Il testo in questione riprendeva la redazione precedente, l’ampliava in alcune parti e la riduceva soprattutto nella parte dedicata alle testimonianze storiche e al giudizio dei contemporanei. L’introduzione fu impinguata e il testo a seguire fu suddiviso in sette capitoli. In quel testo confluiva, come abbiamo accennato all’inizio e come abbiamo raccontato fin’ora, oltre un ventennio di lavoro incessante. La nuova veste della Colonna riprende e amplia in maniera complementare e tutt’altro accessoria alcuni dei temi contenuti nei Promessi Sposi. Le aspettative sono grandi, sia per l’imponente lavoro di ricerca, sia per la rievocazione e il confronto con gli ingiusti processi contemporanei tramite la riesumazione di un’antica ingiustizia; che per la definitiva soluzione alla quale Manzoni riesce prematuramente ad approdare, preferendo la storia al romanzo come epilogo del suo capolavoro. Ma, come abbiamo anticipato, lo scandalo della Colonna del 1842 si estinse in un silenzio che l’autore sicuramente avvertì come inaspettato e umiliante, e Dionisotti giustifica in questo modo il dissenso degli intellettuali del tempo: «L’unitario Manzoni non forniva in quel momento, nei primi anni Quaranta, una lezione efficace. Perché la non motivata proposta di una norma linguistica su base toscana urtava a Milano, e per tutto altrove, in una tradizione letteraria che popolare non era né poteva essere. E perché l’incriminazione dei giudici della Colonna Infame ribadiva e aggravava la condanna della storia milanese del sec. XVII, nel momento in cui a Milano la cultura viva, facendo paragone di sé con quella storia ormai remota, guardava con maggiore al presente e al prossimo avvenire»8. Degli sparuti articoli che furono pubblicati sulla Colonna, citeremo soltanto poche righe, alle quali riteniamo non occorrano commenti, che lo scrittore Carlo Tenca pubblicò sul periodico milanese «Cosmorama pittorico» nel settembre del 1843, che a nostro avviso sono paradigmatiche della tiepida accoglienza che gli intellettuali serbarono al saggio in 8 C. Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Il Mulino, Bologna 1988, p. 269. 7 questione: «Il pubblico, che vede con occhi meno appassionati di quelli dello scrittore, è sempre inclinato a non prestar fede intiera alle parole di quest’ultimo: cosicché, quando trattasi di istituzioni di tanta importanza, guai a chi si ristringe nel circolo della pretta e nuda verità!»9. Una delle poche soddisfazioni del Manzoni, riguardo la Colonna, in questo periodo, fu la lettera encomiastica che ricevette dal Circout nel febbraio del 1843, nella quale l’intellettuale, dopo aver abbondato negli elogi, informava Manzoni che anche Lamartine e Thierry erano rimasti ammirati dal saggio. Ma a parte la testimonianza di qualche rado estimatore, come ad esempio il Rovani, che nel 1852, avvertì e denunciò quell’interessata comune indifferenza, l’oblio inghiottì ancora una volta le vittime innocenti della Colonna, i carnefici, e gli uomini che ebbero il coraggio di confrontarsi con questa triste storia senza redenzione. Intanto nel 1845, Manzoni aveva terminato e pubblicato quel saggio cominciato nel ’29, intitolato Del romanzo e, in genere, de’ componimenti di storia e d’invenzione, col quale decretò l’inconciliabilità teoretica e morale di storia e romanzo, a conferma della scelta della Colonna come epilogo dei Promessi Sposi. Dunque la storia prese, infine, decisamente il sopravvento sull’invenzione, chiudendo definitivamente la carriera artistica di Manzoni, che arrivò, addirittura, a rifiutare quel romanzo al quale aveva dedicato buona parte della sua vita, e che era stato per lui motivo d’orgoglio. Trascorse un secolo dalla pubblicazione della “quarantana” nel segno di quello stesso silenzio che aveva accolto la “piccola storia”, prima che una nuova edizione della Colonna testimoniasse che quell’opera bollata come minore avesse una sua autorevole versione dei fatti da raccontare. Infatti la fortunata edizione centenaria curata da Giancarlo Vigorelli nel 1942 fece da apripista a una serie di ristampe del testo che lo porsero all’attenzione di quei lettori che per tanto, troppo tempo, lo avevano ignorato. Nel 1973 la Storia della Colonna infame approdò addirittura nelle sale cinematografiche con il film La Colonna Infame, per la regia di Nelo Risi, la sceneggiatura di Vasco Pratolini e un’introduzione di Leonardo Sciascia. Dagli anni Settanta ad oggi, ettolitri di inchiostro sono stati versati per enfatizzare l’importanza di questo testo e per la vita di Manzoni, e per la sua poetica, e, infine, per la nostra identità culturale. Ma su questi argomenti torneremo nei prossimi capitoli. 9 C. Riccardi, Introduzione, Le lezioni della storia e la passione del vero, Beccaria, Verri, Manzoni, contenuta in Storia della Colonna Infame di A. Manzoni, diretta da Giancarlo Vigorelli, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002, p. LXXIII. 8 Capitolo 2 La prospettiva dell’opera 2.1 L’universalità della morale cattolica Uno dei prerequisiti essenziali per una corretta interpretazione della Storia della Colonna Infame è la rilettura di un testo fondamentale per la vita da convertito di Manzoni, che influenzerà la sua produzione posteriore, ovvero le Osservazioni sulla morale cattolica. Alla stesura del saggio, il giovane Alessandro fu incoraggiato e seguito da monsignor Luigi Tosi, al fine di confutare in maniera sistematica e puntuale alcune affermazioni contenute nel libro Histoire des républiques italiennes du moyen age dello svizzero Sismondi10. Come abbiamo già anticipato, l’autore si dedicò alla redazione del testo nel 1819 e nello stesso hanno ne venne pubblicata la prima parte con la promessa che ne sarebbe stata pubblicata una seconda. Ma l’opera di fatto rimase incompiuta perché la riedizione del 1855, che Manzoni corresse e integrò, non fu comprensiva di quella seconda parte promessa. Tramite le Osservazioni, che non sono un testo apologetico in senso tradizionale, Manzoni elabora il concetto di universalità della morale cattolica, che sarà il presupposto indispensabile per il giudizio individuale al quale verranno sottoposti i personaggi coinvolti nel processo; e, allo scopo di contestare le dichiarazioni di Sismondi, cerca di cogliere la complessa dinamica che si innesca tra potere e violenza. Per quel che riguarda il primo punto della nostra analisi, terremo in considerazione gli interessanti studi di Mauro A. Cattaneo11, secondo il quale, per Manzoni la corretta idea di reato può essere ricavata soltanto dall’idea di giustizia. Per questo tipo di procedimento non è possibile operare sul «piano del diritto empirico» per costituire il fondamento della legge, ma è necessario agire sul «piano del diritto ideale», attraverso il richiamo alle «idee pure della ragione». Il fondamento risiede nel concetto espresso da Rosmini nel Nuovo saggio sull’origine delle idee (edito nel 1830), quello del pensare in modo universale. Per approdare a questo assunto, il Rosmini fa propria la lezione kantiana, rifacendosi poi alla J. C. L. Sismonde de’ Sismondi fu un economista, storico e critico letterario svizzero, appartenente al gruppo di Coppet, il luogo in Svizzera dove Madame de Stael, esiliata da Napoleone, raccoglieva gli intellettuali di Francia, Italia e Germania. L’Histoire des républiques italiennes du moyen age fu pubblicata nel 1818 a Parigi, ed ebbe così grande successo che lo stesso Manzoni ci tenne a puntualizzare, nell’Introduzione delle Osservazioni,che non era intenzionato a demolire l’intera opera, dalla quale, per altro, attinse per definire lo sfondo del Conte di Carmagnola, ma non condividendone alcune affermazioni, relative all’oscurantismo della Chiesa, intendeva controbatterle. 11 M. A. Cattaneo, Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. Illuminismo e diritto penale, Giuffrè, Milano 1987, pp. 145-59. 10 9 metafisica classica, filtrata attraverso il pensiero cattolico medievale. In sintesi: da Platone a Tommaso e Agostino. Questo principio permette di affermare che non c’è scarto tra morale laica e morale religiosa, perché l’unica morale possibile si ispira alla legge trascendente dell’essere. E questo stesso principio adotta Manzoni nell’Introduzione della seconda stesura della Colonna, quando, dopo aver affermato che l’«intendere il cuore dell’uomo» è « di Dio e non d’altri»12, in relazione al motivo profondo delle scelleratezze commesse dai giudici del processo, scrive che all’uomo è però possibile «formare su le azioni un retto giudizio»13, paragonandole con la legge eterna di giustizia. Dunque, secondo l’autore, non c’è alcuna possibilità che alla mente umana sfugga il dovere morale di valutare senza pregiudizio il passato come il presente, a prescindere dai condizionamenti culturali, sociali e politici. Un altro dei punti legati alla questione morale che Manzoni affronta nelle Osservazioni, e che sarà poi introdotto nella redazione finale della Colonna, è quello che l’autore enuncia in questo modo: «il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la provvidenza, o accusarla»14. Il nodo è di importanza vitale, considerando che rischia di screditare la dottrina agostiniana sulla provvidenza divina, che indirizza le azioni umane verso i propri fini. La soluzione risiede nella responsabilità individuale, perché sarebbe semplice essere indotti alla negazione di Dio a causa dei mali del mondo, senza il riconoscimento del libero arbitrio. E appunto il libero arbitrio e le responsabilità individuali saranno i fondamentali discrimini con Verri nella rilettura degli atti processuali da parte di Manzoni. Risolta la questione morale, Manzoni si confronta con Sismondi, e di questo confronto riporteremo i passi salienti che, in relazione alla Colonna, cita Ezio Raimondi nel suo saggio Letteratura italiana e identità nazionale15. Manzoni, in polemica con le questioni sollevate da Sismondi, che da protestante compie delle riflessioni relative all’incidenza che la Chiesa e il cattolicesimo hanno avuto nella storia italiana, ribatte punto per punto le affermazioni dell’intellettuale ginevrino. Così nel settimo capitolo delle Osservazioni, quello Degli odi religiosi, sostiene che il fanatismo religioso ha sì prodotto nella storia sciagure terribili come le guerre di religione fra Cinque e Seicento, e la guerra dei Trent’anni. Ma aggiunge con enfasi: «Ah! Fra gli orribili rancori che hanno diviso 12 A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, a cura di Giancarlo Vigorelli, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002, p. 237. 13 Ibidem. 14 A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2012, p. 312. 15 E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 72-76. 10 l’Italiano dall’Italiano, questo almeno non si conosce; le passioni che ci hanno resi nemici non hanno almeno potuto nascondersi dietro il velo del santuario»16. Poi ancora: «Pur troppo noi troviamo a ogni passo nei nostri annali le nemicizie trasmesse da una generazione all’altra per miserabili interessi, e la vendetta anteposta alla sicurezza propria; vi troviamo a ogni passo due parti della stessa nazione disputarsi accanitamente un dominio e de’ vantaggi, i quali, per un grand’esempio, non sono rimasti né all’una, né all’altra; vi troviamo la feroce ostinazione di volere a schiavi pericolosi quelli che potevano essere amici ardenti e fedeli; vi troviamo una serie spaventosa di giornate deplorabili, ma nessuna almeno simile a quelle di Cappel, di Jarnac, e di Praga»17. Queste parole sono piene della consapevolezza di quanto gravi siano stati gli avvenimenti di cui si discute, di quanto le guerre religiose abbiano procurato sofferenza e morte, ma sono insignificanti se paragonate a quelle guerre generate da «nemicizie trasmesse da una generazione all’altra per miserabili interessi». Poi conclude: «Pur troppo da questa terra infelice, sorgerà un giorno gran sangue in giudizio, ma del versato col pretesto della religione assai poco. Poco dico, in confronto di quello che lordò le altri parti d’Europa; i furori e le sventure delle altre nazioni ci danno questo tristo vantaggio di chiamar poco quel sangue: ma il sangue d’un uomo solo sparso per mano del suo fratello è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra»18. In questo passaggio Manzoni sintetizza il concetto di responsabilità di pascaliana memoria, secondo il quale: quando qualcuno subisce violenza siamo infine tutti colpevoli. 2.2 Il controverso rapporto con Verri Come abbiamo accennato precedentemente, già dalla seconda stesura dell’opera, Manzoni prende le distanze dalle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri19, anche se le cita come precedente diretto e con esse si confronta a più riprese. Inoltre fu proprio sulle carte di proprietà e con le postille dell’illustre scrittore, concessegli dal figlio Gabriele, che Manzoni ebbe modo di studiare il caso e realizzare la sua opera, come conferma egli stesso 16 A. Manzoni, Opere, a cura di L. Caretti, Mursia, Milano 1977, p. 631. Ibid. 18 Ibid. 19 Il saggio fu pubblicato postumo nel 1804 a Milano da Sergio Custodi e inserito all’interno del XVII volume della collana «Scrittori classici italiani di economia politica». 17 11 nell’introduzione20 della Colonna. Il Verri, dal canto suo, sfruttò la vicenda del processo agli untori per avvalorare la sua tesi contro la tortura (all’abolizione della quale, il suo saggio, non fu granché utile), ed ebbe il grande merito di rendere nota ai lettori l’ingiustizia di quella sentenza storica e di quelle angosciose condanne, perpetrate a danno degli imputati attraverso l’estorsione di false confessioni di colpevolezza a suon di torture da una parte, e da promesse di impunità in cambio di nomi di altri complici dall’altra. Tuttavia Manzoni si trovò in disaccordo con Verri, e, anche se ebbe una grande stima di quest’ultimo e sottolineò ancora nell’introduzione che nelle sue Osservazioni «l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto»21, ritenne, tuttavia, che il suo punto di vista fosse semplicistico, e avrebbe rischiato di dare un’idea dell’episodio «non solo dimezzata, ma falsa»22. Prima, però, di entrare nel vivo della questione, sarebbe necessario fare qualche passo indietro per spiegare chi fosse Pietro Verri, come e quando scrisse le Osservazioni, e quale legame ebbe con Manzoni. Anche la cultura lombarda del XVIII secolo fu travolta e coinvolta dai nuovi stimoli culturali dell’Illuminismo francese, e il contributo dei suoi più importanti esponenti alimentò il dibattito culturale e animò una delle stagioni più vivaci dell’intellettualità italiana. L’esperienza sicuramente più interessante, benché breve, degli anni Sessanta di questo secolo, fu quella della rivista «Il Caffè», fondata dai fratelli Pietro e Alessandro Verri. «Il Caffè» si avvalse del contributo di alcuni tra gli uomini esperti delle più differenti branche del sapere, che accolsero con grande entusiasmo il riformismo illuminista, come Cesare Beccaria (il nonno di Manzoni), Sebastiano Franci, Pietro Francesco Secchi Comneno, l’abate Alfonso Longo, Luigi Lambertenghi, Giuseppe Visconti di Saliceto e altri ancora. Il più importante successo del circolo milanese fu il saggio Dei delitti e delle pene23 di Cesare Beccaria, scaturito dai dibattiti tenutisi all’interno dell’Accademia dei Pugni, fondata anch’essa dai fratelli Verri, e dagli articoli de «Il Caffè». Pietro Verri, caro amico «Di quest’estratto, c’è di più un’altra copia manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più abbondante, la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia, messa e lasciata a nostra disposizione. È quella che servì all’illustre scrittore per lavorar l’opuscolo citato, ed è sparsa di postille, che sono riflessioni rapide, o sfoghi repentini, di compassion dolorosa, e d’indegnazione santa» . A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2012, p 313. 21 A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2012, p. 308. 22 Ivi, p. 309. 23 Il breve saggio Dei delitti e delle pene fu pubblicato per la prima volta a Livorno nel 1764 dall’editore Marco Coltellini. 20 12 di Beccaria, diede anche un rilevante apporto alla realizzazione di quest’opera24 che ebbe enorme risonanza in tutta Europa25. Scioltosi, tuttavia, il legame con Beccaria nel’65 a causa di una lite, e terminata l’esperienza del Caffè l’anno successivo, Pietro Verri comincia a scrivere un’opera sulla quale aveva tanto meditato dopo la lettura del De peste del Ripamonti e del manoscritto delle carte processuali del 1630 appartenenti al difensore del Padilla, procurategli dal Segretario della Sanità Grassini. Alle Osservazioni sulla tortura, Verri si dedicò, a seguito di un lungo periodo preparatorio, dai primi mesi del 1776 al febbraio dell’anno successivo. Tuttavia, terminata la redazione definitiva, decise di non pubblicare il libro perché gli attacchi al Senato milanese contenuti nell’opera rischiavano di inimicargli quell’importante e potente organo istituzionale, del quale il padre era un autorevole membro26. Infatti le Osservazioni non soltanto criticano aspramente la tortura, che era una pratica ancora vigente, e addirittura approvata dagli organi ufficiali di uno stato suddito di un impero che l’aveva abolita27; ma si scagliano contro l’inerzia del Senato di Milano incapace di rinnovarsi. L’opera rimase così marginale e improduttiva nell’immediato, anche perché la tortura fu poi abolita in Italia nel 1783, ma la sua edizione postuma nel 1804, pubblicata da Sergio Custodi, sarà gravida di conseguenze. Tornando al confronto tra la Colonna e le Osservazioni, abbiamo già anticipato che Manzoni lamentò la parzialità della prospettiva verriana, detto questo, aggiungiamo che alla sua dichiarazione di diversità dedicò gran parte dell’introduzione del suo saggio. Già nella prima pagina della premessa, dopo la presentazione dell’argomento e le scuse a 24 Verri operò sul manoscritto di Beccaria un vero e proprio editing, ristrutturandolo nella forma in cui Dei delitti e delle pene apparve nell’edizione di Livorno del 1974. 25 L’opera ebbe un così grande successo che l’edizione francese fu curata da Denis Diderot. Contribuì inoltre ad alimentare le teorie illuministiche sullo “stato di benessere” e gli assunti di Beccaria furono messi in pratica da alcuni sovrani progressisti come la zarina Caterina II di Russia, e ne presero spunto i padri fondatori degli Stati Uniti d’America. 26 Riportiamo la lettera che Pietro Verri scrisse al fratello Alessandro, nell’11 gennaio 1777, comunicandogli e motivandogli la decisione definitiva di non pubblicare l’opuscolo delle Osservazioni:«Io ho travagliato ne’ giorni scorsi sopra un argomento, sul quale mi trovava d’aver ammassato roba sino al tempo felice de’ nostri studi, cioè sulla tortura. Ti trasmetterò il manoscritto subito che sia ricopiato. Il più gran piacere che ho provato stendendolo, è stato nel pensare che te lo avrei trasmesso. Io però non farei bene a stamparlo, mi disgusterei il Senato, nel quale oggi ho molti amici e del quale facilmente avrò bisogno presto o tardi per i vecchi di casa, se non altro al caso che nostro padre cessasse di vivere …». Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, a cura di A. Giulini e G. Seregni, Milesi, Milano 1934. Pietro ricorda al fratello l’ostilità dei « vecchi di casa», i quali, nell’eventuale scomparsa del padre, il conte Gabriele, avrebbero potuto avanzare delle pretese sull’eredità. Dunque il nostro autore non avrebbe potuto correre il rischio di pubblicare un’opera, nella quale tacciava di ingiustizia il Senato di Milano, al quale sarebbe dovuto ricorrere per avvalersi dei suoi diritti ereditari. 27 Nel 1775 l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo abolì la tortura, conseguentemente al clima progressista e ai dibattiti generatisi dalla pubblicazione, nello stesso anno, dell’opera Uber die Abschaffung der Tortur (edito a Milano nel 1776 col titolo Trattato su l’abolizione della tortura), scritto dal consigliere di Stato Joseph von Sonnenfels, ma il Senato di Milano si oppose alla riforma e confermò la tortura come mezzo per le indagini investigative. 13 coloro i quali si aspettavano, dalle anticipazioni dell’autore28, un’opera più vasta, Manzoni, parlando di sé – scrittore – in terza persona, attacca: «Aveva detto soltanto che, come episodio, una tale storia sarebbe riuscita troppo lunga, e che, quantunque il soggetto fosse già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre (Osservazioni sulla tortura di Verri), gli pareva che potesse esser trattato di nuovo, con diverso intento. E basterà un breve cenno su questa diversità, per far conoscere la ragione del nuovo lavoro»29. Manzoni comincia già a prendere le misure, tributando il merito che spetta al lavoro del suo augusto parente30, ma anticipa e garantisce che la sua sarà una trattazione «con diverso intento». Poi prosegue: «Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d’un delitto fisicamente e moralmente impossibile. E l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto. Ma dalla storia, per quanto possa essere succinta, d’un grande male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale»31. Enfatizza i limiti della lettura di Verri e allarga l’obbiettivo, focalizzando l’indagine sull’analisi «d’un grande male commesso senza ragione da uomini a uomini». Poi precisa: «Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell’intento speciale, c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l‘ignoranza dei tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento»32. Ed ecco il motivo principale della divergenza da Verri: se si attribuisse il male all’ignoranza dei tempi e all’arretratezza delle leggi, sarebbe lecita la contestazione a quel sistema deviato, il cui unico modo per essere frenato e reinnestato su una via di giustizia, è quello di una riforma per un sistema sociale di geometrica perfezione, risultato del pensiero Già nel Fermo e Lucia, dopo l’espunzione della Colonna, al termine del quarto capitolo del quarto tomo, annunciava la futura trattazione dell’argomento del processo agli untori in un’opera a parte: « I magistrati, i quali avrebbero dovuto reprimere e punire quell'iniquo furore, lo imitarono, e lo sorpassarono con giudizj motivati, e ponderati al pari di quei popolari che abbiam riferiti, con carnificine più lente, più studiate, più infernali. Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; […]». A. Manzoni, Fermo e Lucia, a cura di S. S. Nigro, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002, pp. 694-695. 29 A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2012, p. 308. 30 Alessandro Manzoni fu probabilmente figlio naturale di Giovanni Verri, fratello di Pietro. 31 Ibid. 32 Ivi, pp. 308-309. 28 14 illuminista. Tuttavia «una cattiva istituzione non s’applica da sé»33 e ciò che cerca di mettere in luce Manzoni è che «que’ giudici condannaron degli innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura potevano riconoscere innocenti»34. Quindi il fatto più sconvolgente è che si trattò di «un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano»35 coscientemente e a sangue freddo, ci permettiamo di aggiungere, e che quei giudici trasgredirono delle regole «ammesse anche da loro»36, agendo in maniera opposta «ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere»37. Così, Manzoni pone al centro dell’attenzione la volontà deviata dei giudici, i quali «se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere»38. L’ignoranza e la tortura ebbero sicuramente un ruolo di rilievo nella vicenda, ma la prima va considerata come «un’occasion deplorabile»39, la seconda «un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, né il principale»40. L’autore tuttavia spezza una lancia a favore di Verri, aggiungendo che «l’illustre scrittore suddetto» si avvide in molti punti dell’«ingiustizia personale e volontaria de’ giudici»41, ma non avrebbe potuto trattare l’argomento «senza nocere al suo particolare intento»42, perché i partigiani della tortura avrebbero ribattuto che la causa sarebbe dovuta individuarsi nell’abuso e non nell’istituto; e inoltre perché, riconosciuta un’altra causa, quella della tortura sarebbe potuta sembrare meno grave. Dunque, dalle Osservazioni di Verri, Manzoni trae le seguenti conclusioni: «che chi vuol mettere in luce una verità contrastata, trovi ne’ fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera»43. In altre parole, chi scopre la verità, ed è fautore di una tesi positiva, proprio perché ha come punto principale il proprio assunto, lascia cadere problemi importanti e trascura aree di cui ha avvertito l’esistenza. Manzoni tornerà a confrontarsi con Verri nel capitolo II, quando, facendo un excursus sulle riforme umane e sul rapporto con la posterità, scrive che «ai primi che le intraprendono, par molto di modificare la cosa, di correggerla in varie parti, di levare, 33 Ivi, p. 309. Ibid. 35 Ivi, p. 312. 36 Ibid. 37 Ibid. 38 Ibid. 39 Ivi, p. 309. 40 Ibid. 41 Ivi, p.312. 42 Ibid. 43 Ivi, p.313. 34 15 d’aggiungere: quelli che vengon dopo, e alle volte molto tempo dopo, trovandola, e con ragione, ancora cattiva, si fermano facilmente alla cagion più prossima, maledicono come autori della cosa quelli di cui porta il nome, perché le hanno data la forma con la quale continuano a vivere e a dominare»44. Detto questo, coglie l’occasione per sostenere che Verri cadde in questo errore «quasi invidiabile», insieme ad «altri uomini insigni del suo tempo»45, perché nelle Osservazioni, scrive Manzoni, «quanto è forte e fondato nel dimostrar l’assurdità, l’ingiustizia e la crudeltà di quell’abominevole pratica, altrettanto ci pare che vada, osiam dire, in fretta nell’attribuire all’autorità degli scrittori ciò ch’essa aveva di più odioso»46. Va notato soprattutto il modo in cui seleziona e misura le parole con cui avanza delle critiche a quell’autore e a quell’opera che ebbe l’effetto di un terremoto sulla cultura lombarda dell’Ottocento, proseguendo nel ragionamento: «Ma la confidenza del vantaggio d’esser venuti dopo, e di poter facilmente (prendendo per punto principale ciò che per lui era affatto accessorio) guardar con occhio più tranquillo, nel complesso de’ suoi effetti, e nella differenza de’ tempi, come cosa morta, e passata nella storia, un fatto ch’egli aveva a combattere come ancor dominante, come un ostacolo attuale a nuove e desiderabilissime riforme»47. Dunque Manzoni, per un verso, previene l’irriverenza, tipica dei posteri verso gli avi, confrontandosi con Verri, benché ne critichi la posizione; per l’altro, ammette che il dibattito aperto sulla questione della tortura costrinse Verri a sfruttare l’occasione per prendere posizione, anche se in modo contestuale all’argomento, essendo «un fatto ch’egli aveva a combattere come ancor dominante». Conclude l’excursus prendendo in oggetto la tortura: «quel fatto è talmente legato col suo e nostro argomento, che l’uno e l’altro eravam naturalmente condotti a dirne qualcosa in generale: il Verri perché, dall’essere quell’autorità riconosciuta al tempo dell’iniquo giudizio, induceva che ne fosse complice, e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch’essa prescriveva e insegnava ne’ vari particolari, ce ne dovrem servire come d’un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l’iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo»48. Ribadisce, in ultima istanza, i differenti criteri di giudizio motivati dall’altrettanto differente contingenza, e il semplice fatto che «il momento in cui si lavora a rovesciare un sistema, non è il più adatto a farne imparzialmente la storia»49. 44 Ivi,p. 329. Ibid. 46 Ibid. 47 Ivi, pp. 329-330. 48 Ivi, p. 330. 49 Ivi, p.343. 45 16 Al termine dell’ultimo capitolo Manzoni rammenta ancora ai lettori che Pietro Verri fu l’unico che a distanza di oltre un secolo cercò di riesumare quell’antica ingiustizia: «Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarant’anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici»50. Tuttavia, l’autore ricorda anche che «una verità dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta»51 per i motivi che abbiamo spiegato precedentemente relativi al fatto che «il padre dell’illustre scrittore era presidente del Senato»52, dunque le Osservazioni per motivi personali e politici poterono esser rese note soltanto dopo la morte di Verri. Il controverso rapporto tra Manzoni e Verri non può, però, esaurirsi nella rispettosa polemica aperta dal primo nella Colonna, perché, non essendoci stata, per ovvie ragioni, una risposta da parte del secondo, quella polemica potrebbe apparire più simile a un monologo. Infatti, nel tentativo di dare un giudizio complessivo al confronto, se da una parte è possibile rilevare in Manzoni la maturazione del pensiero illuminista lombardo, pagato però al caro prezzo di esperire, sebbene non direttamente, i traumi di vere e proprie cesure storiche. Basti pensare ai drammi della rivoluzione, del Terrore (riecheggiato da quel «complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo»53), e dell’esperienza napoleonica, in un rapporto di continuità tra i pensieri di Beccaria, Verri e Manzoni54, per capire come il nostro autore abbia fornito un impulso all’illuminismo lombardo, soprattutto tramite la ripresa e la valorizzazione di quella tradizione che la vecchia guardia illuminista si era limitata a spazzare via indistintamente. Tornando al giudizio, d’altra parte bisognerebbe individuare i limiti del punto di vista di Manzoni, che per quanto possa essere giusto ed imparziale, è tutt’altro che universale, anche se posto su assunti filosofici consolidati. Difatti se Manzoni sminuisce il riformismo di Verri tacciandolo cordialmente di parzialità e faziosità, è necessario considerare che l’accanimento che l’autore della Colonna pone nella ricerca delle responsabilità individuali, rischia di subordinare a queste le responsabilità storiche collettive e pubbliche. Queste ultime sono da collegarsi ai rapporti di forza sociali, e quindi a meccanismi prevalentemente impersonali, oggettivi e istituzionali (come le forme e le strutture del potere politico ed economico), oppure a convinzioni e credenze interpersonali, determinate dalla cultura e dal senso comune dominanti in un certo periodo: tutti fattori che limitano e a volte escludono la libera scelta 50 Ivi, pp. 422-423. Ivi, p. 424. 52 Ivi, p. 423-424. 53 Ivi, p.311. 54 Su questo rapporto di continuità si veda il già citato saggio di C. Riccardi, Introduzione, Le lezioni della storia e la passione del vero, Beccaria, Verri, Manzoni, contenuta in Storia della Colonna Infame di A. Manzoni, diretta da Giancarlo Vigorelli, edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, Milano 2002. 51 17 dell’individuo. Così Manzoni, procedendo negli anni, tende progressivamente a sottovalutare le condizioni oggettive della responsabilità storica e a valutare il comportamento dei singoli in rapporto alle scelte del libero arbitrio individuale. 2.3 Dalla Lettre a Monsieur Chauvet al saggio Del romanzo storico e dell’invenzione: il sopravvento della storia sulla poesia. Non a caso abbiamo raccontato la vicenda editoriale della Storia della Colonna Infame parallelamente all’evoluzione del pensiero manzoniano, che, per nostra sfortuna, ha avuto come momento culminante il rifiuto del romanzo, genere del quale il nostro autore sarebbe da considerare sicuramente uno dei più grandi maestri. I lavori letterari di Manzoni furono di ampissimo respiro, anche per merito dell’intensa elaborazione teorica, alla quale l’autore si dedicò costantemente, gettando le basi per quei suoi splendidi edifici di parole, che furono le sue liriche, le sue tragedie e i suoi romanzi. I saggi redatti e pubblicati da Manzoni furono davvero numerosi, ma la nostra attenzione si concentrerà su due di questi, i quali riteniamo possano considerarsi una sintesi del pensiero dell’autore in relazione al problema del rapporto tra storia e invenzione; problema che, per altro, divenne una vera e propria nevrosi55 che costrinse il poeta a rinunciare alla produzione di romanzi. I due saggi sono la Lettre a Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie56, pubblicata nel 1823, e Del romanzo e, in genere, de’ i componimenti misti di storia e d’invenzione57, edito nel 1845. L’arco di tempo, di ventitre anni, che separa l’edizione delle due opere comprende probabilmente uno dei periodi più intensi dell’attività letteraria manzoniana, ovvero quello in cui il nostro Alessandro si dedicò alla redazione e pubblicazione della “ventisettana”, alla revisione linguistica del testo per l’edizione “quarantana”, e, ovviamente, alla stesura e alla pubblicazione della Colonna. Nei due Su questo argomento si veda P. D’Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, il Mulino, Bologna 2013. 56 Manzoni terminò la Lettre già nel luglio del 1820, poco prima di lasciare Parigi per rientrare in Italia, e la affidò a Fauriel per pubblicarla, ma, com’è noto, la lettera fu pubblicata soltanto tre anni dopo. 57 Il saggio Del romanzo fu ispirato dalle dichiarazioni di Goethe sulla “ventisettana”. Infatti quando Manzoni apprese il parere del poeta sul romanzo (si veda la nota 7) sentì la necessita di intervenire, e tramite una lettera, che l’amico Gaetano Cattaneo stava scrivendo proprio a Goethe, comunicò a quest’ultimo che le osservazioni che s’era degnato di fare sul modo da lui tenuto nel romanzo nell’unire la storia con l’invenzione, lo avevano obbligato «a pensarci un po’ più seriamente che non avesse ancora fatto, e a cercare le ragioni». Inoltre confessava di essersi già messo all’opera, e gli promise che gli avrebbe inviato il saggio, Del romanzo appunto, non appena glielo avesse concesso la sua salute, non sempre benigna. Ma quella promessa non fu mantenuta perché Goethe morì nel 1832. 55 18 opuscoli, Manzoni ebbe una «rigorosa tendenza a oggettivare il fatto letterario, per sottrarlo sia alla falsa obiettività di arbitrarie regole poetiche, sia alle ancor più arbitrarie varianti e contaminazioni soggettive, che traducono un immotivato e colpevole sperimentare individuale»58. Inoltre, il primo dei saggi citati può essere considerato la base teorica del romanzo, per come lo intese Manzoni; mentre il secondo, scritto da un Manzoni ormai disilluso, mise in luce il fondamentale paradosso del genere romanzesco che lo spinse, infine, a rifiutare il romanzo come genere da praticare, preferendo di gran lunga la storia, per amore di quel vero al quale consacrò la sua intera produzione. Questa svolta potrebbe non apparire così repentina se si pensa al fatto che l’ultima opera letteraria dell’autore non fu un romanzo, ma bensì la Storia della Colonna Infame, che di non attestato altrove ebbe soltanto le lucide deduzioni e le riflessioni dell’autore, sempre in riferimento ai documenti, coi quali si confrontò con un piglio che dimostra le sue qualità di storiografo, di filologo e di filosofo. Dunque, in questo senso, la redazione della Colonna potrebbe benissimo considerarsi antesignana di quel sopravvento che la storia ebbe sulla poesia nella poetica manzoniana. E cercheremo di dimostrare questa tesi ricostruendo, tramite alcuni passi dei saggi indicati, l’evoluzione del pensiero manzoniano, allo scopo di mostrare chiaramente che, nella Colonna, l’autore mise in pratica assunti che espose teoricamente soltanto a posteriori. Pubblicata a seguito delle critiche mosse da Chauvet, un intellettuale e poeta militante francese, sul Conte di Carmagnola, la Lettre era già stata redatta definitivamente nel 1820, e fu affidata da Manzoni, prima del suo rientro in Italia, a Fauriel affinché si occupasse della pubblicazione, che avvenne però tre anni dopo. Nella lettera, redatta in lingua francese, Manzoni confessa che si decise a scrivere al poeta poiché le sue obiezioni gli sembrarono più acute di quelle mosse dalla critica ormai convenzionale, basata sul principio di verosimiglianza. Difatti Chauvet, schierato pur sempre a difesa del “dramma storico”, si permise di criticare Manzoni, partendo dall’assunto secondo il quale, il non rispettare le unità avrebbe comportato la perdita dell’unità dell’azione e della stabilità dei caratteri. Così, mentre Manzoni argomenta la definizione di unità d’azione, ci illumina su quello che egli ritiene di competenza dello storico: «Questo è il lavoro dello storico. Negli avvenimenti egli compie, per così dire, la cernita necessaria per giungere a tale unità di visione, tralascia tutto ciò che non ha alcun rapporto con in fatti più importanti e, valendosi così della rapidità del pensiero, accosta il più possibile tra loro questi ultimi, per presentarli 58 G. Bollati, Le tragedie di Alessandro Manzoni, contenuto in Tragedie di A. Manzoni, Einaudi, Torino 1965, p. IX. 19 in quell’ordine che alla mente piace trovarvi e di cui egli porta il tipo in se stesso»59. Quindi il lavoro dello storico richiede, per l’autore, una capacita di sintesi che gli consenta di selezionare gli argomenti per poterli mettere in relazione tra loro e orientarli in maniera che ne giovi la fruizione. Ma aggiunge anche quale differenza vi sia tra le finalità del poeta e quelle dello storico, manifestando prematuramente interesse e attenzione verso un argomento tanto controverso: «Tra il fine del poeta e quello dello storico v’è però una differenza che s’estende necessariamente alla scelta dei rispettivi mezzi. E, per parlare di tale differenza solo per quanto concerne propriamente l’unità d’azione, lo storico si propone di far conoscere una serie indefinita di avvenimenti; anche il poeta drammatico vuole rappresentare degli avvenimenti, ma con una progressione di sviluppo esclusivamente proprio della sua arte: cerca di mettere in scena una parte staccata della storia, un gruppo di avvenimenti il cui compiersi possa aver luogo in un tempo all’incirca determinato»60. Quindi, partendo dal differente intento di poeta e storiografo, comincia a delineare gli ambiti rispettivamente pertinenti a storia e poesia, sul quale si soffermerà in maniera più chiara qualche pagina avanti, dando una definizione di poesia differente rispetto al comune modo di concepirla. Infatti, secondo Manzoni «l’essenza della poesia non consiste nell’inventare fatti»61 e questa affermazione è comprovata dalla constatazione che tutti i più grandi scrittori drammatici «hanno evitato, con tanto più cura quanto più genio ebbero, di inserire nell’azione drammatica fatti di loro creazione»62. Ma sottratta alla poesia la pura immaginazione e il sentimento, che la renderebbero estremamente facile da praticare, non richiedendo alcuno sforzo intellettuale, quale sarebbe allora lo spazio che le rimane? Secondo Manzoni questo spazio equivale a quello che integra ciò di cui la storia non parla, ovvero, ciò che gli uomini «[…] hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni e i loro progetti, i loro successi e insuccessi, i discorsi con i quali hanno fatto e cercato di far prevalere le loro passioni e le loro volontà, con i quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, con i quali in una parola, «C’est là le travail de l’historien. Il fait, pour ainsi dire, dans les événemens, le triage nécessaire pour arriver à cette unité de vue; il laisse de côté tout ce qui n’a aucun rapport avec les faits les plus importans; et, se prévalant ainsi de la rapidité de la pensée, il rapproche le plus possible ces derniers entre eux, pour les presente dans cet ordre que l’esprit aime à y trouver, et dont il porte le type en lui-même». A. Manzoni, Lettre à M. Chauvet, contenuta in Scritti di Estetica, a cura di Umberto Colombo, Edizioni Paoline, Milano 1967, pp. 118-119. 60 «Mais il y a, entre le but du poëte et celui de l’historien, une différence qui s’étend nécessairement au choix de leurs moyens respectifs. Et, pour ne parler de cette difference qu’en ce qui regarde proprement l’unité d’action, l’historien se propose de faire connaître une suite indéfinie d’événemens: le poëte dramatique veut bien aussi représenter des événemens, mais avec un degree de développement exclusivement proper à son art: il cherche à mettre en scène une partie détachée de l’histoire, un groupe d’événemens dont l’accomplissement puisse avoir lieu dans un temps à peu prés déterminé». Ibid. 61 «[…] L’essence de la poésie ne consiste pas à inventer des faits». Ivi, pp. 210-211. 62 «Quant aux poëtes dramatiques en particular, les plus grands de chaque pays ont évité, avec d’autant plus de soin qu’ils ont eu plus de génie, de mettre en drame des faits de leur creation». Ivi, pp. 212- 213. 59 20 hanno manifestato la loro individualità»63. In altre parole la poesia drammatica consisterebbe nel «manifestare ciò che gli uomini hanno sentito, voluto e sofferto, mediante ciò che hanno fatto»64. Ma, una volta stabilite le competenze, qualche pagina dopo, Manzoni non dichiara esplicitamente che il romanzo sia il genere più adatto da praticare per esprimere il vero, arrivando ad affermare piuttosto che i romanzieri da Madame de Scudéry sino agli a quelli a lui coevi tendono sprovvedutamente a «creare fatti per adattarvi dei sentimenti»65. Tuttavia l’autore non ritiene che «questo genere di composizioni sia sostanzialmente falso»66, perché certi romanzi sono tanto validi da poter essere considerati «modelli di verità poetica»67, ma si tratta esclusivamente di quei romanzi i cui autori «dopo aver concepito in modo preciso e sicuro certi caratteri e certi costumi, hanno inventato azioni e situazioni conformi a quelle che hanno luogo nella vita reale, per estrinsecare le conseguenze di quei caratteri e di quei costumi»68. Bisogna però essere molto cauti perché «il rischio del genere romanzesco è il falso». La base teorica del romanzo è stata quindi gettata nella Lettre, e gli stessi principi esposti verranno poi rispettati nell’edizione del 1827 dei Promessi Sposi. In questo saggio è possibile notare come Manzoni ritenga che poesia e storia abbiano ambiti di competenza differenti, ma siano in realtà complementari, seppur la poesia abbia un ruolo subalterno alla storia, consistente nel colmare le lacune narrative di quest’ultima. Tuttavia poco più di un quindicennio dopo giungerà a posizioni radicalmente opposte nel saggio Del romanzo. Difatti nello scritto del’45 Manzoni discute immediatamente del paradosso che è insito nel romanzo storico, il quale, da una parte non rende il vero positivo distinguibile dalle cose inventate, mentre dall’altra se venisse operata al suo interno una distinzione del vero dall’invenzione verrebbe distrutta quell’unità ch’è vitale in questo genere letterario. Esposto questo problema, giunge alla conclusione che il romanzo storico «è un componimento nel quale riesce impossibile ciò che è necessario; nel quale non si possono conciliare due condizioni essenziali, e non si può nemmeno adempirne una, essendo «Ce que les homes ont execute: mais ce qu’ils ont pensé, les sentimens, qui ont acompagné leurs deliberations et leurs projets, leurs success et leurs infortunes; les discours par lesquels ils ont fait ou essayé de faire prévaloir leurs passions et leurs volontés sur d’autres passions et sur d’autres volontés, par lesquels ils ont exprimé leur colére, épanché leur tristesse, par lesquels, en un mot, ils ont révélé leur individualité». Ivi, pp. 214-215. 64 «Expliquer ce que les hommes ont senti, voulu et souffert, par ce qu’ils ont fait, volilà la poésie dramatique» Ivi, pp. 232- 233. 65 «Creér des faits pour y adapter des sentimens, c’est la grande tâche des romans, depuis mademoiselle Scudéri jusqu’à nos jours». Ibid. 66 «Je ne prétends pas pour cela que ce genre de composition soit essentiellement faux». Ibid. 67 «Il y a certainement des romans qui méritent d’être regardés comme des modéles de vérité poétique» Ibid. 68 «Ce sont ceux les auteurs, après avoir conçu, d’une manière precise et sure, des caractères et des moeurs, ont inventé des actions et des situations conformes à celles qui ont lieu dans le vie réelle, pour amener le développement de ces characters et de ces moeurs». Ibid. 63 21 inevitabile in esso e una confusione repugnante alla materia, e una distinzione repugnante alla forma; un componimento, nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa né stabilire, né indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un componimento insomma, che non c’è il verso giusto di farlo, perché il suo assunto è intrinsecamente contraddittorio»69. Una volta processato e condannato il romanzo, l’autore ne paragona i limiti a quelli della storia che intende come «qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani»70. Nella considerazione che ha Manzoni della storia e nel ruolo e nel lavoro che attribuisce allo storico, è possibile individuare l’esposizione teorica di scelte già praticate nella Colonna. Intanto, l’autore parte dalla teoria secondo la quale «de’ fatti reali, dello stato dell’umanità in certi tempi, in certi luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva»71, ed è appunto questo, ciò che la storia, posta in buone mani, si propone di fare. La storia inoltre «vi lascia anch’essa qualche volta nel dubbio, ma quando ci si trova essa medesima. Anzi (perché a chi è nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve. Non solo lo confessa apertamente, ma, all’occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di sostituirlo a delle false persuasioni. Vi fa dubitare perché ha voluto che dubitaste; non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò ch’era necessario a determinar l’assentimento. Nel dubbio provocato dalla storia, lo spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua possibilità»72. In queste parole sembra quasi di sentire l’eco dell’incipit della Colonna73, con la quale Manzoni processa il processo e smentisce una sentenza storica ormai data per valida nell’opinione comune, ripercorrendo quel tortuoso sentiero già battuto dal Verri. Inoltre, l’autore ci tiene a precisare il comportamento differente della storia rispetto al romanzo storico, la quale piuttosto che cercare a tutti i costi il consenso del lettore, procura allo spirito un giaciglio sul quale riposare, sebbene nel dubbio. Tornando al nostro saggio, Manzoni prosegue aggiungendo che «anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza A. Manzoni, Del romanzo e, in genere, de’ i componimenti misti di storia e d’invenzione, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2000, p.14. 70 Ivi, p. 19. 71 Ivi, p. 15. 72 Ivi, p. 16. 73 « I giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile». A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione TipograficoEditrice Torinese, Torino 2012, p. 307. 69 22 inconveniente, perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e distinguendolo così dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l’unità del racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte. È proposto motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo, come nel romanzo storico»74. La storia, dunque, lascia spazio alla verosimiglianza, fornendo la possibilità di formulare ipotesi, o immaginare epiloghi alternativi, senza il rischio di confondere l’invenzione con la verità, come fa lo stesso Manzoni nella Colonna, quando ipotizza avvenimenti non riportati nei documenti a causa di lacune o manomissioni, oppure, più semplicemente, quando pensa malinconicamente a come sarebbero potute andare le cose se si fosse data un’alternativa alla compassione. Infine, almeno per quanto riguarda l’interesse della nostra indagine, la storia «è la sola che possa riparare le sue omissioni»75, e ciò è significativo se si pensa all’enorme e puntiglioso lavoro documentario nel quale si cimentò l’autore per smentire le inesattezze e gli errori di Verri. A. Manzoni, Del romanzo e, in genere, de’ i componimenti misti di storia e d’invenzione, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2000, pp. 16-17. 75 Ivi, p. 19. 74 23 Capitolo 3 L’ultimo capitolo dei Promessi Sposi 3.1 Due testi comunicanti Negli ultimi anni, alcuni tra i più autorevoli interpreti di Manzoni hanno sottolineato l’importanza della Storia della Colonna Infame in funzione dei Promessi Sposi, e in quest’ultimo capitolo ci avvarremo del contributo di due di questi in particolare, ovvero Salvatore Silvano Nigro e Matteo Palumbo, per cogliere meglio, grazie alle loro brillanti intuizioni, in che modo le due opere siano congiunte. Nel presente saggio speriamo di essere riusciti a spiegare in maniera sufficientemente esaustiva il valore che l’opera ebbe per l’autore, il quale la pose come testo ineliminabile al termine del romanzo che non si conclude, con la parola “Fine”, se non oltre il termine della Colonna, a mo’ di vero e proprio capitolo conclusivo. In effetti, a una più approfondita lettura, è possibile rilevare che i due testi siano imprescindibilmente legati da un rapporto di complementarietà, che permette a ciascuno dei due di mettere a fuoco e ampliare alcuni temi contenuti nell’altro. Secondo Nigro76, le due opere furono disposte in questo modo da Manzoni affinché il verosimigliante novel di Renzo e Lucia potesse esibire delle invenzioni narrative compatibili con la storia, rispetto a un’inverosimile romance, eppure vero, esposto nella Colonna. Dunque Manzoni avrebbe fornito al suo romanzo, tramite la Colonna, una controparte reale e storicamente verificabile. E, ancora secondo Nigro, è possibile trovare un primo riscontro se si pensa che «Renzo è senz’altro un personaggio di fantasia. Ma quando a Milano, sulla strada, due donne lo additano come untore, e una di esse è un mostro di furore con tanto di bocca spalancata e di artigli, si sta replicando in una scena d’invenzione la scena madre, storicamente documentata, dalla quale prende avvio la macchina processuale della Colonna: due donnicciole, una delle quali è un’”infernal dea”, una Furia, riconoscono un untore che va per la sua strada»77. Anche Matteo Palumbo, sulla scia di Nigro, ritiene che «l’impronta d’autore fissa il rapporto stretto tra i due testi, e prolunga l’uno nelle pagine dell’altro»78. Inoltre, secondo Palumbo, oltre a una serie di corrispondenze tra episodi, ci sono temi, contenuti nei Promessi sposi, che vengono ripresi e amplificati nella Colonna, come «il male, l’ingiustizia, il furore delle passioni cieche, 76 S. S. Nigro, Dentro il panorama del romanzo. Introduzione, in A. Manzoni, I Promessi Sposi, Einaudi, Torino 2012. 77 Ivi, p. XVII 78 M. Palumbo, La Storia della Colonna infame, ovvero l’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, contenuto in A. Manzoni, I promessi sposi, diretta da F. de Cristoforo, Bur, Milano 2014, p. 1257. 24 l’innocenza perseguitata, la responsabilità delle scelte individuali, la persecuzione degli sventurati, l’arroganza di chi detiene il potere»79. I due testi sono così intrinsecamente legati che, ancora secondo Nigro, «la Colonna seleziona un’eziologia giuridica del dolore e della sofferenza. La rivela. E la impone come radice sotterranea del romanzo stesso». Tornando alle corrispondenze tra i due testi, basta pensare ai luoghi e alle circostanze rievocate nel romanzo, che nel saggio sul processo assumono un significato differente a causa del filtro della verisimiglianza venuto meno. Nella Colonna tutto è reale, nudo e crudo, e sembra ricomporre i pezzi di un puzzle che, apparentemente, nel romanzo risulta completo, col suo rassicurante lieto fine. Per cogliere altri elementi comuni basta pensare al dettaglio dell’Archivio di san Fedele, già citato nel romanzo come deposito dal quale sono stati recuperati i documenti utilizzati, oppure si pensi alla presenza di Ambrogio Spinola, con annessi riferimenti alla guerra di Monferrato, o a quella di don Gonzalo. Ancora Palumbo esserisce che «[…] le due opere rispettano un uguale fondamento estetico. Esse, infatti, applicano un modello di narrazione mista, che dipende in larga misura e nel rispetto della distinzione esplicita dei generi, da una comune idea. Entrambi, in altre parole, si servono di un identico impianto, che sostiene l’invenzione dei Promessi sposi come la volontà documentaria della Colonna infame»80. Questo aspetto implica la mescolanza di narrazione, intesa come racconto e affabulazione, con l’autenticità dei fatti esposti, storicamente documentati e verificabili. Palumbo ci tiene inoltre a precisare che «anche nella Storia della Colonna infame Manzoni applica la ragione estetica che rende legittimi i componimenti di storia e di invenzione. In questo caso, tuttavia, l’invenzione non consiste nella ideazione di personaggi fittizi, eppure verosimili, […]. I nuovi protagonisti appartengono interamente alle pagine della cronaca giudiziaria»81. Dunque, l’invenzione, non potendosi servire della verisimiglianza, utilizza canali alternativi per rianimare il passato. Così Manzoni per riuscire nel difficile compito di rendere interessante e coinvolgente la lettura del saggio, utilizza i testi originali degli interrogatori, come aveva già fatto Verri nelle Osservazioni. «In altre parole Manzoni conosce già l’arte di animare il documento, di renderlo attuale, riproponendo ancora nella sua asperità originaria, con gli elementi dialettali, con la sintassi incerta e quell’autentica cadenza parlata, drammatica e immediata, che sta fuori della grammatica: una lingua in parte stravolta che però viene ripresa e non adattata letterariamente»82. Scorrendo le pagine della Colonna è possibile rilevare come l’autore esibisca la presenza simultanea di due distinti registri espressivi, e si 79 Ivi, p. 1258. Ibid. 81 Ivi, p. 1260. 82 E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 89. 80 25 serve del corsivo per distinguere il materiale degli atti giudiziari dalla propria voce, che invece viene espressa con il carattere tondo. Palumbo osserva anche che sia il romanzo che il saggio hanno degli incipit molto simili, infatti, «entrambi esordiscono come se indicassero il prologo di un racconto, di cui è mostrata una scena perfettamente ordinaria, un giorno qualunque nell’esistenza di un uomo qualsiasi. Da questo preambolo apparentemente banale dipenderanno, come al sopraggiungere di un’inattesa burrasca, tutte le successive, devastanti conseguenze. Nei Promessi Sposi, come si sa, la passeggiata di don Abbondio, rasserenante come un rito quotidiano, sfocia sull’improvvisa e destabilizzante irruzione della violenza. La passeggiata di Guglielmo Piazza, a sua volta, prepara l’esplosione irrazionale del sospetto e dell’accusa, che finirà per schiacciare l’esistenza sua e di altri»83. La corrispondenza, che apparentemente potrebbe sembrare una poco significativa traccia testuale, è enfatizzata dal più sottile richiamo della memoria visiva del lettore: «i due personaggi da cui parte l’azione, don Abbondio e Guglielmo Piazza, quali sono rappresentati nella vignetta del romanzo e in quella corrispondente della Colonna, mostrano tra loro, a prima vista, una somiglianza impressionistica di abiti, che determina una comune aria di famiglia. Il mantello, il cappello teso sugli occhi, il cammino avviato lungo una piccola porzione di strada congiungono, prima che i diversi ruoli e funzioni li separino, i due attori all’interno di una vicenda che parte da loro e descrive un analogo percorso dentro i confini dell’ingiustizia»84. Probabilmente si tratta soltanto di una suggestione impercettibile, ma sappiamo che fu Manzoni stesso a dare delle indicazioni precise al Gonin sul contenuto delle vignette e sulla loro collocazione, e d’altronde si tratta di un collegamento immediato e iconico che insta perfettamente nelle aspettative dell’autore nei confronti dei lettori. Infatti, tutti coloro i quali si confrontano con i Promessi Sposi o la Colonna, sono chiamati a giudicare ogni volta sulle scelte possibili. Infine va considerato che «il romanzo di Renzo e Lucia si era concluso con la costruzione di una casa e la creazione di una famiglia. La Storia della colonna infame si apre nelle illustrazioni, con il monumento in frontespizio. E continuando a sfogliare, dietro il monumento, riappaiono i resti della casa distrutta di un innocente condannato al macello, alle mutilazioni, e alla dispersione delle ceneri. Ai figli amati e baciati di Renzo e Lucia seguono nella Colonna gli orfani sventurati degli “infami”»85. Dunque il cerchio si chiude e non potevamo che concludere con le parole di Nigro, che ci svelano uno dei significati M. Palumbo, La Storia della Colonna infame, ovvero l’ultimo capitolo dei Promessi Sposi, contenuto in A. Manzoni, I promessi sposi, diretta da F. de Cristoforo, Bur, Milano 2014, p. 1261 84 Ivi, pp. 1261-1262. 85 S. S. Nigro, Dentro il panorama del romanzo. Introduzione, in A. Manzoni, I promessi sposi, Einaudi, Torino 2012, p. XIX. 83 26 profondi del romanzo attraversato l’epilogo: i figli dei due giovani vivranno nella stessa epoca nella quale cresceranno anche i «legalmente spogliati» orfani del Mora, ammesso che riescano a sopravvivere alla peste. In questo modo la storia si riapre, il romanzo si piega alla Colonna, e il lettore riemerge da quell’oscuro incubo per tornare alla realtà, che, essendo stata teatro di quei fatti indicibili, potrà sembrargli meno rassicurante di prima. 3.2 Conclusioni La Storia della Colonna Infame è un testo di non facile lettura ma di sicuro interesse. Speriamo che il presente saggio sia stato sufficientemente chiaro nell’esplicare le molteplici sfaccettature per le quali l’opera può essere apprezzata. Abbiamo raccontato la storia delle sue origini e le sue vicende editoriali, ne abbiamo studiato la prospettiva e l’abbiamo riletta in funzione e delle Osservazioni sulla tortura di Verri e della saggistica manzoniana. Infine abbiamo scoperto la funzione di integrazione che questa fornisce al romanzo che la precede, constatando l’ulteriore complessità della macchina progettata e messa a punto da Manzoni. Dopo questo percorso l’opera può apparire con la dignità storica e letteraria che merita, aprendosi a quelle suggestioni che magari non siamo riusciti ancora a cogliere. La vera Colonna è stata abbattuta e la tortura abolita, ma a tutti coloro i quali è stata concessa la fortuna di conoscere l’opera di Manzoni, il ricordo di quei fatti e di quelle persone rimarrà indelebile, come a ricordare che il cammino della civiltà sia disseminato di capitoli bui, e la conoscenza di questi fantasmi del passato non può che educarci, aiutarci a crescere e, infine, giovare alla nostra dimensione etica e alla nostra natura umana. 27 Bibliografia G. Bollati, Le tragedie di Alessandro Manzoni, contenuto in Tragedie di A. Manzoni, Einaudi, Torino 1965. M. A. Cattaneo, Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. Illuminismo e diritto penale, Giuffrè, Milano 1987. P. D’Angelo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, il Mulino, Bologna 2013. C. Dionisotti, Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Il Mulino, Bologna 1988. R. Luperini, P. Cataldi, R. Marchiani, V. Tinacci, La scrittura e l’interpretazione, volume II, G. B. Palumbo Editore & C., Palermo 2004. A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, contenuta nelle Opere, volume quarto, tomo primo, a cura di L. Badini Confalonieri, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 2012. A. Manzoni, Del romanzo e, in genere, de’ i componimenti misti di storia e d’invenzione, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2000. A. Manzoni, Fermo e Lucia, a cura di S. S. Nigro, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2002. A. Manzoni, I promessi sposi, diretta da F. de Cristoforo, Bur, Milano 2014. A. Manzoni, I promessi sposi, a cura di S. S. Nigro, Einaudi, Torino 2012. A. Manzoni, Opere, a cura di L. Caretti, Mursia, Milano 1977. 28 A. Manzoni, Storia della Colonna Infame, diretta da G. Vigorelli, Centro Nazionale Studi Manzoniani, Milano 2002. A. Manzoni Storia della Colonna Infame, Sellerio editore Palermo, Palermo 1982. A. Manzoni, Scritti di Estetica, a cura di U. Colombo, Edizioni Paoline, Milano 1967. E. Raimondi, Letteratura e identità nazionale, Bruno Mondadori, Milano 1997. N. Tommaseo, G. Borri, R. Bonghi. Seguiti da Memorie Manzoniane di Cristoforo Fabris, Colloqui col Manzoni, a cura di G. Titta Rosa, Ceschina, Milano 1954. P. Verri, Osservazioni sulla tortura, Claudio Gallone editore, Milano 1997. 29