«LA·GUERRA·
CHE·VERRA'/
2014
1914
/NON·E'·LA·
PRIMA»
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VARIAZIONI
BELLICHE
Gabi Scardi
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Luglio 2014: il momento è grave. La violenza incalza. La guerra è
intorno a noi, con l’immancabile seguito di profughi in fuga; costante, onnipresente, tangibile. Il Medio Oriente intero, l’Est europeo e diversi paesi
dell’Africa, solo per citare le maggiori fonti di notizie di questi giorni. Gli
aggiornamenti che arrivano quotidianamente sono terribili.
Guerre di eserciti e guerre intestine; focolai che divampano e dopo le
fasi acute si “stabilizzano”, guerre di cui non si vede la fine, ripetitive con la
loro contabilità che smette di fare notizia per lasciar spazio ad altro.
Nessun motivo di ottimismo. “Tu non uccidere”, recita il quinto comandamento; ma la sua forza sembra affievolirsi inesorabilmente. La violenza e il conflitto organizzato che, nel suo mutare di forme, tecnologie e
circostanze, ne è una variante, accompagnano la storia dell’uomo da sempre. Abituati a questa convivenza, noi consumiamo le immagini che i conflitti ci offrono, mentre viviamo asserragliati nelle abitudini. Tesi tra la difficoltà di capire e di pronunciarci, di intervenire, scegliamo di non vedere, di
non sentire; non vogliamo turbare, non vogliamo essere turbati, cerchiamo
di non indignarci.
Invece la questione ci riguarda.
La guerra non è un incidente e non può essere intesa come episodio
imprevisto e isolato. Non solo le sue componenti, le sue ricadute e le sue
conseguenze si ritrovano nella vita di ogni giorno. Ma il conflitto nasce nella
viscosità del quotidiano.
Ne gettiamo i semi quando accettiamo di vivere nell’ambiguità, quando arretriamo di fronte alle complessità, quando coltiviamo la diffidenza e
rifiutiamo di impegnarci dinanzi alla franchezza dell’interlocuzione, e optiamo per l’asserzione a scapito della proposta; quando diamo per scontata
la piccola sopraffazione e sottovalutiamo gli effetti dell’offesa, anteponiamo
ciò che ci separa a ciò che ci accomuna e lasciamo che le posizioni si polarizzino. Mali minori, per i quali risulta facile autoassolversi.
Una riflessione su cosa sia stato essere uomini nel XX secolo e su
cosa sia vivere nel XXI non può dunque prescindere dall’analisi delle grandi
guerre che hanno segnato la storia e che affliggono il presente.
La Prima guerra mondiale, in particolare, fu un passaggio epocale,
cesura a partire dalla quale leggere quanto avvenuto in seguito; non è un
caso che Eric J. Hobsbawm nel suo Age of Extremes: The Short Twentieth
Century, 1914-1991 definisca il Secolo Breve proprio a partire dal 1914, l’anno che, nella sua visione, segna, il crollo della civiltà occidentale come si
era andata formando nell’Ottocento; e che ne individui la conclusione nel
1991, con il dissolvimento dell’Unione Sovietica e l’inizio di un’altra tremenda guerra, quella dei Balcani. Come sottolinea lo stesso Hobsbawm, la Prima guerra mondiale non solo coinvolse tutte le maggiori potenze europee
e le loro estensioni coloniali, ma indusse l’intervento degli Stati Uniti contro la Germania. Paradossalmente proprio allora, accomunata nell’immane
massacro che la scuoteva, l’Europa si venne a configurare in modo chiaro,
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e con quel primo approdo nel vecchio continente delle truppe d’oltremare
l’idea stessa di Occidente si manifestò compiutamente.
Ora, a distanza di un secolo, il centenario della Prima guerra mondiale ci impone un riesame.
Ci troviamo così a rileggere questa guerra nei suoi pretesti, nei suoi
contesti, nelle sue caratteristiche militari, geopolitiche, economiche e nelle
sue – in molti casi inenarrabili – contingenze. Rivediamo la temperie culturale a cui afferì, le energie che assorbì e a cui, viceversa, diede luogo, le alterazioni individuali e sociali che generò, le dinamiche e le conseguenze storiche che scatenò, tra cui quelle che portarono alla Seconda guerra mondiale.
Quelle vicende ci scuotono ancora: come e più di altre guerre, la
Grande Guerra mise alla prova l’uomo e la società, inflisse ferite, comportò
traumi, segnò il contesto sociale e il paesaggio stesso, autorizzò l’inaudito,
fino al limite del non ritorno. La sua storia è tuttora difficile da ascoltare e
da comprendere per la complessità dei significati e delle implicazioni, per
la flagranza con cui vi si manifestò un potere in grado d’irregimentare la
vita e di disporre la morte di massa. In quel breve lasso di tempo, infatti, il
rapporto tra l’individuo e la collettività, e l’ufficialità dello Stato, subì una
trasformazione radicale. Singolo.
Sta a chi resta confrontarsi con le ceneri di quel passato e con la consapevolezza del male possibile. “Conosciamo noi stessi soltanto fin dove
siamo stati messi alla prova” scrive Wislawa Szymborska in Un minuto di
silenzio per Ludwika Wawrzynska.
Ma confrontarsi con la Prima guerra mondiale nel suo centenario
significa soprattutto riesaminare il secolo che da essa ci separa e che ad essa
ci unisce; cent’anni di conflittualità, cent’anni di variazioni belliche – così
Amelia Rosselli, figlia della guerra, intitolò una propria raccolta di poesie –
in cui l’uomo ha continuato a mettere la propria conoscenza al servizio della
distruzione fino a rendere la vita e la morte altrettanto disumane.
Riflettere sulla guerra significa interrogarsi sul presente, e renderci
conto di cosa siamo, di come, cambiamo, e di cosa invece persiste.
Ma l’impresa non è facile; si tratta di resistere da un lato alle grandi
narrazioni che ci vengono somministrate, dall’altro alla sempre maggiore
difficoltà che abbiamo di fronte alla storia. Come scrive François Hartog
nel suo Regimi di storicità: “siamo passati dal futurismo al presentismo: si
pensa sempre meno al futuro. Il passato viene letto in termini di memorie,
piuttosto che di storia, e il presente viene sempre più vissuto in termini di
risposta all’immediato, mentre il futuro viene sempre meno pensato”.
Ecco: crediamo che le commemorazioni abbiano senso se si collocano tra un passato da metabolizzare e un futuro da costruire; e se, piuttosto
che ispirarsi a un generico e spesso conciliante dovere di ricordare, da un
lato fanno riferimento al rigore dell’indagine storica, dall’altro all’imperativo di un’assunzione di responsabilità: si tratta di lavorare su noi stessi e di
fare i conti con ciò che siamo, ciò che siamo diventati e che potremo essere.
Questa può dunque costituire un’occasione per ricollocarci in un
orizzonte complessivo e per riflettere sulla violenza annidata nell’uomo; su
cosa possiamo generare; su come le persone ordinarie possono agire, reagire; su come il conflitto sia una tentazione, e la rimozione un rischio sempre
presente; mentre anche vivere la consapevolezza e l’ansia della guerra sono
antidoti importanti.
In questo arduo compito ci può aiutare lo sguardo degli artisti; i quali, pur parlando con voce singola e personale, riescono, attraverso le proprie
opere, a esprimere qualcosa che è di noi tutti. E al contempo, nella loro
diversità, rispecchiano l’irriducibile unicità dei soggetti, dei punti di vista e
delle posizioni. Lo fanno in nome della loro indipendenza da ambiti disciplinari e da vincoli di parte; un’indipendenza che non implica disimpegno,
al contrario: essere artisti è sentirsi parte di un’epoca, cercare di coglierne i
tratti essenziali attraverso un lavoro, mai deferente, d’indagine, di scavo, di
vigilanza critica.
Proprio attraverso l’arte ci possiamo dunque chiedere cosa significhi,
per l’uomo di oggi, considerarsi parte della storia.
Se l’impegno degli artisti ci è prezioso, è perché i loro modi obliqui,
talvolta arbitrari rispetto alla verità storica, ma capaci di cogliervi indizi
latenti, li portano a seguire come sensori le tracce meno ovvie, a compiere
carotaggi in aree impreviste, a mettere a fuoco dettagli, a riconsiderarli, a
confrontare, incrociare, intrecciare, innestare. È da questa sorta di compartecipazione attiva e problematica che prendono forma le loro opere. Così,
laddove la guerra tende a irrigidire le posizioni, a incanalare le volontà, a
uniformare le visioni; laddove la storia tende a congelare il racconto in una
versione univoca e spesso riduttiva, lì gli artisti, con le loro visioni laterali e
con le loro scelte soggettive, possono rappresentare una preziosa forma di
resistenza dello sguardo all’appiattimento, alle convenzioni accreditate; e il
loro apporto può contribuire ad accrescere la nostra percezione della storia
e ad evidenziarne non solo sfaccettature e aspetti imprevedibili, ma soprattutto il vitale legame che ha con noi.
Certo, si tratta di sprazzi e di frammenti, di narrazioni parziali e non
lineari; certo, sono modeste proposte: gli artisti, da soli, non cambiano il
mondo. Ma possono contribuire ad attivare il pensiero e ad acuire l’attenzione, a inoculare nella nostra vita un senso di possibilità, di progettualità,
di indipendenza; e le loro intuizioni possono risultare profetiche.
E se nei momenti di sconforto viene da chiedersi cosa ne possa fare,
il mondo, dell’arte, possiamo tornare ai primi decenni del Novecento, e
constatare quanto premonitorio fu, per esempio, il senso di catastrofe che,
già prima del 1914, informava l’estetica di artisti come Kokoschka. Quanto
profetiche furono le opere di pittori come Otto Dix, Georg Grosz, Meidner
o Beckman, di scrittori come Karl Kraus, di attivisti come Ernst Friedrich;
tutte figure che, già nell’esprimere la disperazione sociale e il collasso morale e politico, la regressione intellettuale di una nazione mutilata dalla Prima
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guerra mondiale, vi colgono con allarmata evidenza i segnali di un nuovo,
imminente disastro.
Le opere esposte nell’ambito della mostra La guerra che verrà non è
la prima ci parlano della necessità di assicurare, nella nostra quotidianità,
un senso di vigilanza critica e la presenza di una memoria storica che l’arte
ha da sempre la facoltà di tramandare.
Senza illuderci di aver potuto comporre, in questa sede, un panorama
minimamente esaustivo, abbiamo cercato di dare spazio ad artisti – molti
altri ce ne sarebbe piaciuto presentare – di diverse generazioni.
Alcuni di loro alla Prima guerra mondiale parteciparono, ed ebbero
la forza di rappresentare dal vivo l’esperienza vissuta; è il caso dei piccoli disegni di grande forza di Pietro Morando, di Anselmo Bucci, di Egger-Lienz,
di Luc-Albert Moreau, che seppero testimoniare gli eventi e rappresentare la sofferenza insostenibile con forte partecipazione emotiva, ma senza
cedere al patetico né al macabro. Altri, come Max Beckmann o Vallotton,
eseguirono disegni e tele una volta tornati allo studio.
Altri artisti furono coinvolti nel secondo conflitto mondiale; pensiamo solo alla consistenza fisica delle opere di Alberto Burri, ai coaguli, ai
grumi rappresi, agli strappi e alle ustioni, al tormento che egli inflisse alle
proprie tele, dando così implicitamente forma sensibile alle memorie di un
medico tra guerra e prigionia.
Altri ancora, più vicini a noi nel tempo, hanno testimoniato la continuità del passato nel presente lavorando su archivi o rifacendosi a immagini preesistenti per parlare di situazioni quanto mai attuali. Come Yael
Bartana nel cui video Degenerate Art Lives gli invalidi di guerra dipinti da
Otto Dix si moltiplicano andando a formare un inesauribile drappello di relitti grotteschi e dolenti che marcia, marcia senza fine; e attraversa la storia
giungendo fino a noi, come a rappresentare un disastro che non accenna a
fermarsi. O come Sandow Birk con le sue Depravities of War: una serie di
xilografie in cui, muovendosi sulla falsariga dell’omonima serie di Jacques
Callot, ma esplodendo le dimensioni delle tavole per adattarle alla scala
americana, Birk “illustra” diverse fasi dell’incursione USA in Iraq. In queste opere, che una lunga tradizione con protagonisti come Goya e Hogarth
ci fa apparire familiari, Birk fornisce testimonianza del presente e opera
un’accusa spietata, ma accorata, contro la violenza, l’ingiustizia, il sopruso,
l’offesa alla dignità umana.
Di fatto sono numerosi gli artisti che, intenzionalmente e con forza,
attraverso il proprio lavoro, cercano di scuoterci dall’incoscienza e dal torpore emotivo in cui viviamo.
Le loro opere, talvolta dirette, talaltra metaforiche, non si esauriscono nella valenza testimoniale, ma assurgono ad atti di accusa. D’altra parte questi artisti tendono ad evitare la spettacolarità: le lacerazioni e i lutti
dell’ultimo secolo hanno proscritto ogni possibile grandiloquenza, e ogni
ridondanza rischierebbe di negare la tragedia senza attenuanti della guerra.
Tra le figure nelle cui opere la violenza della storia trova estrema
espressione ci sono artisti come Fabio Mauri, che con straordinario rigore
intellettuale si è sempre interrogato sulla relazione che regola i rapporti tra
il soggetto e l’autorità, tra l’esecutore e la vittima; sul potere che demolisce
la volontà e genera individui ubbidienti, senza pensiero, pronti ad assoggettarsi agli ordini, qualunque essi siano; e, viceversa, sulla dignità, sulla
capacità di distinguere, di prendere posizione, di rifiutarsi.
O come Miroslaw Balka, con la sua attitudine a riflettere sulla storia,
sulle sue tracce, onnipresenti e ineludibili, e sulla sua influenza, spesso traumatica, sull’individuo. Le sue opere, potentemente allusive, sono frammenti di un vissuto personale e collettivo profondamente drammatico.
O, ancora, come William Kentridge che, in opere sempre intrise di
impegno etico, unisce linguaggio di animazione, immagini d’archivio e teatro delle ombre con colonne sonore in cui si fondono musiche da operetta
e canti popolari; il tutto per raccontare lo svolgersi su più piani della storia;
che è fatta di vicende private che s’inseriscono in un contesto collettivo, di
voci ufficiali e di altre, soggettive, che solo a posteriori riescono a farsi sentire.
C’è Artur mijewski, con i suoi video radicali, graffianti, disturbanti,
che mettono in questione il potere nelle sue diverse forme e ne evidenziano
l’ambiguità, e l’ubiquità, e la capacità di alterare i rapporti e di impregnare
di sé ogni cosa, prima tra tutte il corpo, che è sempre, al contempo, individuale e sociale.
E ci sono i filmmaker Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi. Partendo dall’assunto che la storia ufficiale, con la sua retorica e con le sue
manipolazioni, non ha riportato che una parvenza, filtrata e orientata, di
ciò che fu; e che il racconto ufficiale ha una controparte antieroica nell’enorme quantità di vicende rimaste inascoltate, Gianikian e Ricci Lucchi si
dedicano da decenni a un’impresa titanica: una sorta di scavo archeologico, antropologico ed emotivo della storia condotto a partire da immagini
dedotte da archivi storici o amatoriali; milioni di immagini, i cui dettagli
vengono isolati, quindi rimontati, rallentati, ricolorati, rinquadrati. Così i
margini diventano centro e le comparse diventano protagonisti, recuperando la possibilità di rappresentazione di cui la storia le aveva private. La
Prima guerra mondiale così com’è stata sul fronte orientale e i suoi terribili
postumi trovano nella loro Trilogia della Guerra un’espressione asciutta e
durissima. Al medesimo periodo Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian
hanno dedicato il video Carrousel de Jeux: un’opera struggente che nasce
non dal loro archivio di immagini, ma da una collezione di giocattoli, diecimila in tutto, sepolti nell’oblio e da loro ritrovati nella zona delle Dolomiti.
Vi si vede un paio di mani che scarta i pacchi in cui queste reliquie sono
conservate e, una per una, le mostra. Espressione della società che li generò
e della sua ideologia, marchiati con indicazioni di provenienza come marchiati furono, nel fisico e nell’anima, gli uomini che in quell’epoca e in quei
luoghi vissero; carichi di memoria, molti segnati o rovinati dal tempo, forse
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dalla guerra, i giocattoli esprimono contingenza, transitorietà, un senso di
perdita, di abbandono; evocano corpi feriti e rappresentano l’infanzia, e i
sogni, gli universi di bimbi ai quali capitò in sorte di crescere mentre intorno a loro il mondo esplodeva; intere generazioni perdute dalla guerra; una
conta dei morti.
Come questi filmmaker, anche Harun Farocki lavora per smantellare
la retorica dominante e sottrarre i fatti a una frammentazione che, deliberatamente, ne impedisce la corretta visione. Attraverso i suoi montaggi che
integrano immagini di origine diversa - girate dall’artista o preesistenti, assunte dai mass media, dai dispositivi di sorveglianza, dalla propaganda politica - Farocki ricontestualizza fatti, ricostruisce nessi. La consapevolezza
che l’immagine ha il perverso potere di rendere persino la violenza “bella” è
all’origine di un’inflessibile asciuttezza formale.
In Inextinguishable Fire (1969), per esempio, l’artista ci pone a confronto con una secca constatazione: “When napalm is burning, it is too late
to extinguish it. You have to fight napalm where it is produced: in the factories”. E una fabbrica viene nominata: si chiama Dow Chemical, si trova nel
Midland, Michigan. L’azienda punta sulla razionalizzazione tecnologica, su
un avanzamento scientifico fatto cieco nelle finalità. Il lavoro al suo interno
si basa su una parcellizzazione estrema; così si arriva ad obnubilare, nei
lavoratori stessi, la consapevolezza soggettiva del suo contenuto; e l’oggetto
in questione, il napalm, potrà essere prodotto secondo formule sempre più
letali senza che si levi resistenza alcuna. Paradossalmente, ci dice Farocki,
non solo la distanza, ma anche la vicinanza estrema può rendere la violenza
intangibile; con la nostra muta complicità.
La relazione tra tecnologia, politica e violenza è anche il fulcro della
serie di video Serious Games.
In questo caso al centro della serie sono gli operatori di droni al lavoro nelle loro postazioni. L’utilizzo di droni sta modificando i principi della
politica, l’esperienza della guerra e del combattimento, e il nostro stesso
rapporto con il contesto. I videogiochi, le animazioni, il computer, i linguaggi di programmazione – creati in molti casi su commissione dei Ministeri della Difesa – l’impatto psicologico di una guerra che si combatte con
nemici lontani migliaia di chilometri, il senso di una realtà instabile in cui
i confini tra combattimento, gioco, finzione non sono più chiari; tutta la
complessità etica di una guerra caratterizzata da nuove, estreme forme di
asimmetria emerge in queste opere. Grazie alle tecnologie digitali il male si
fa più rarefatto e, parafrasando Hannah Arendt, la sua banalità anche più
lampante.
Ma anche prima che il combattimento si trasformasse in algida esecuzione, si tentava di tenere la guerra “a distanza”. È reagendo a questa constatazione che Martha Rosler realizzò, nel 1967, Bringing the War Home:
una serie di montaggi in cui immagini tratte dalle notizie della guerra in
Vietnam contaminano la dimensione protettiva e rassicurate di interni
domestici da pubblicità. A prendere forma sono incontri ravvicinati: tra
la soave lentezza di vite borghesi e il caos della battaglia, con i soldati, i
corpi, le ferite, le esplosioni, il fango e il movimento convulso della guerra.
Ciononostante, nei montaggi, le cose paiono procedere come d’ordinario;
come a dire che qualsiasi immagine può essere neutralizzata da una società
che consuma tutto; qualsiasi collisione può essere ammortizzata; come già
ci raccontava Farocki, il mercato delle armi prospera; e noi continuiamo a
difendere vite fatte di comfort e di sicurezze alimentando guerre che si svolgono “fuori”: lontano da casa, lontano dal territorio nazionale.
Al mercato delle armi si accompagna quello dell’odio. Lo dice con
potenza Chris Burden, con il suo predicatore immerso in uno sproloquio
fanatico e forsennato, irrazionale; accecato da un odio acerrimo e smisurato, che impedisce di immaginare qualsiasi convivenza. I toni forti hanno
presa facile, il mondo continua a dimostrarlo. Il contagio emozionale può
condurre al peggio.
Esiste una correlazione tra l’ipertrofia della violenza, l’anestetizzazione che l’enorme diffusione delle immagini può indurre e il pericolo di una
feticizzazione della violenza; questo corto circuito, con le sue conseguenze,
è da sempre al centro delle riflessioni di Alfredo Jaar, che instancabilmente
si interroga su come la cultura possa interagire con il più vasto contesto
sociale e politico. Attraverso la sua opera Jaar testimonia vicende umane,
sonda i paesaggi, le politiche, gli effetti dell’economia globale; si confronta
con questioni non troppo occulte, ma che la nostra coscienza tende a rimuovere; dà spazio alle vittime e ai testimoni delle grandi urgenze umanitarie;
e insiste sulla retorica attraverso la quale i media filtrano e trasmettono le
informazioni. Spinto proprio da questa sensibilità, nel 1994, tre settimane
dopo la fine del conflitto ruandese, Jaar si recava a Kigali e poi sulla frontiera fra Ruanda ed ex-Zaire. Dagli incontri con i sopravvissuti, dalle visite
ai luoghi del massacro e ai campi profughi raccoglieva testimonianze e migliaia di fotografie. Tornato negli Stati Uniti, lotterà per trovare forme che
possano rendere giustizia alle storie raccolte evidenziandone per quanto
possibile la terribilità ma sottraendole al voyeurismo. Così nasce il Ruanda Project di cui fa parte Field, Road, Cloud: tre lightbox con fotografie di
splendidi paesaggi africani – un campo da tè, un sentiero bordato di alberi,
immerso in una luce calda, una nuvola bianca che fluttua nel blu perfetto
del cielo – cui sono abbinate piccole mappe disegnate e annotate a mano.
Il carattere lussureggiante dei siti ripresi ci invita alla contemplazione; gli
appunti di Jaar definiscono sinteticamente luoghi e date e dicono di efferati
massacri avvenuti poco tempo prima in quegli stessi posti; il contrasto è
stridente. Dopo il dolore, lo scenario si è ricomposto con superiore indifferenza, in una dimensione cosmica di organico superamento. Una realtà postuma il cui imperturbabile splendore si coniuga con il mutismo del dolore.
Si sviluppa a partire dal vissuto più personale, e cerca di ricomporre
il passato e il presente, l’opera Green Green Grass of Home di Maja Bajevic
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e Emmanuel Licha: vediamo Bajevic camminare su un prato verde, in Svizzera – paese neutrale per eccellenza – e ricostruire a lenti passi il perimetro
della casa dei suoi nonni, mentre Licha, seguendo le sue descrizioni, lo disegna al tratto: il senso di questo esercizio di memoria sta nel fatto che la casa
è stata sottratta a Bajevic durante la guerra dei Balcani; gli artisti stanno
dunque facendo riferimento a una dolorosa situazione di esilio, di sradicamento, di perdita, di nostalgia; stanno dando forma alla precarietà di ogni
cosa, anche delle mura che ci dovrebbero proteggere.
Ed è la memoria personale a rivivere anche nel video Natural Mystic
di Anri Sala: memoria di un paesaggio sonoro. Un ragazzo ricrea in una sala
di registrazione l’esperienza uditiva di un missile Tomahawk, come quelli
che cadevano su Sarajevo durante il lungo assedio del 1992-96: un sibilo
che lacera l’aria, seguito da un’esplosione. In questa testimonianza diretta, concisa, intensa e realistica della quotidiana convivenza con la guerra,
prendono forma il pericolo che incombe, la tensione che congela, la sospensione che dilata l’istante.
Altri contesti sofferti, quelli mediorientali, hanno dato il via, in questi
decenni, a un’ampio numero di opere; come la serie di fotografie Fait che
Sophie Ristelhueber ha scattato in Kuwait pochi mesi dopo la fine della
guerra. Resti di trincee, tracce di carri armati, crateri di bombe che segnano
il paesaggio si alternano, nelle sue immagini, a cicatrici che solcano visi
invecchiati dagli stenti: l’epidermide della terra e quella dell’uomo sono accomunate dagli effetti della guerra.
O come l’installazione Detroit di Amir Yatziv. L’artista parte dal ritrovamento fortuito di alcune mappe di un’area di addestramento militare
situata a Sud di Israele, Detroit. Detroit è una ricostruzione in scala 1:1 di
un paese palestinese “tipo”. Yatziv intraprende una vera e propria indagine,
e la documenta: presenta la mappa a una serie di architetti e urbanisti senza
rivelare di cosa si tratti; chiede loro di identificare il luogo e di definirne il
carattere. Ne consegue una serie di congetture e supposizioni basate sulla
struttura della città e riguardanti carattere, collocazione geografica di questo sito, che pur così ben documentato, si nega e sfugge a ogni identificazione; supposizioni nel segno della vita per un sito che, gli interpellati non
lo possono sapere, ne rappresenta la negazione. L’opera vive dunque nella
tensione tra la realtà e le ipotesi; ipotesi che, per il fatto stesso di venire formulate, proiettano su questo luogo-fantasma altre possibili realtà.
Fa riferimento allo stile documentario, per scardinarlo dall’interno,
anche Éric Baudelaire con il dittico The Dreadful details. Che, dopo la primissima impressione di trovarci davanti alla scena di un’esecuzione avvenuta in Iraq, constatiamo essere una messa in scena: si tratta infatti di una
rappresentazione fotografica costruita per sezioni giustapposte. Lo sfondo,
in cartongesso, è stato realizzato da un artigiano di Hollywood sulla base di
una documentazione giornalistica; e anche le figure, che a uno sguardo iniziale esprimono dinamismo, sono cristallizzate in pose artefatte. All’effetto
iper-reale contribuisce la profusione di dettagli di disparata origine. The
Dreadful details è un concentrato di punti di vista e di interpretazioni possibili; un’immagine che può nascere solo a posteriori, per accumulazione,
e che riguarda un tema estremo, paradigmatico, l’apice dell’orrore: l’esecuzione. Baudelaire evidenzia così quanto profondamente orientati dai media
siano il nostro sguardo e le nostre stesse sensazioni.
Abbandona invece il linguaggio asciutto del documentario Michal
Rovner, sebbene i suoi video siano realizzati a partire da istantanee. Rovner
le rifotografa, ingrandisce, rielabora; le figure si riducono così a piccole sagome nere e finiscono per trascendere tempo storico, nazionalità, ogni contingenza. Border, in particolare, è basato su riprese effettuate lungo il confine tra Israele e il Libano: una linea densa di significato politico che l’artista
percorre nel tentativo, non riuscito, di attraversarla. Anche in questo caso
immagini e conversazioni sono sottratte alla dimensione soggettiva e aneddotica per diventare metafore della tensione tra opposti: tra i due paesi, ma
anche tra istanze diverse, l’unire e il separare che ogni confine rappresenta,
la realtà e la finzione, l’azione e la sospensione, la permanenza e la fragilità.
Paesaggi sono anche quelli di Thomas Ruff e di Magdalena Jetelová.
In entrambi i casi si tratta di nottuni. Ruff li fotografa attraverso dispositivi militari che amplificano e filtrano le luci esistenti. L’effetto di un verde
eccessivo, esprime l’ossessione per una visibilità integrale e trasmette un
senso sinistro di allarme e di sorveglianza; Jetelová invece fotografa i bunker del Vallo Atlantico: monoliti ormai in procinto di disintegrarsi, erosi
dal tempo e dalla natura; quindi combina le immagini di questi enormi
sarcofaghi con testi tratti dal libro di Paul Virilio Archeologia del bunker; in
questo caso, ad emergere è l’ossessione per la difesa e la protezione.
La devastazione per eccellenza, quella, istantanea, che colpì Hiroshima, è il punto di partenza del film di Jean-Gabriel Périot; che ha assemblato
centinaia di filmati e di fotografie di origine diversa per raccontare il prima
e il dopo di quel momento spartiacque. Al centro della città, della sua continua trasformazione, sta, come landmark imprescindibile, l’unico elemento
rimasto visibile, seppur in rovina, dopo l’esplosione del 1945: il Gen-Baku
Dôme, oggi parte dell’Hiroshima Memorial. È intorno a questo luogo, che
funge da elemento di continuità, ma anche da memento mori, che la città è
rinata e si è andata sviluppando come luogo dei flussi e dell’energia.
È devastazione che trasforma anche quella attestata da Gohar Dashti: una devastazione interiore che resta, che contamina tutto e, come un
filtro, altera la comprensione del mondo. Perché, come dice Dashti, per chi
ha sperimentato il conflitto “tutto è un ricordo di guerra”; e tale ne è l’impatto che “guerra e vita sono inseparabili, procedono di pari passo, convivendo simultaneamente e in parallelo”. Allora il peso delle esperienze vissute impregna di sé ogni cosa; come, in Slow Decay, una goccia di sangue che
si affaccia su una garza immacolata e lentamente la tinge di rosso; neppure
un angolo può restare incolume.
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Ma è una trasformazione profonda anche quella testimoniata dalle
fotografie, intense ma antispettacolari, di Paola De Pietri; che ha percorso i
territori montani in cui si combatté la Grande Guerra per attestare quanto,
a quel tempo, il paesaggio sia stato manipolato, sfruttato, ferito dall’uomo;
e come, d’altra parte, inesorabilmente la natura si sia saputa riappropriare
di ciò che le pertiene: trincee, bunker, camminamenti, postazioni d’artiglieria sono ancora presenti, talvolta visibili, più spesso intuibili appena.
Sono paesaggi pure le due opere in mostra di Mateo Maté: l’installazione Restricted Area, in cui la sagoma dell’Europa, realizzata con dei
distanziatori, solleva questioni sul significato dei confini: chi li stabilisce,
secondo quali criteri? In nome di chi? È giusto? E perché? E chi definisce,
chi regola il diritto di accesso?
Mentre la serie Paesaje Uniformado fa riferimento tanto alla pittura
di paesaggio tradizionale quanto alla tecnica del camouflage, e costituisce
un’acuta riflessione sulla percezione del territorio in tempo di guerra, ma
anche sul senso e sul ruolo della pittura che, proprio con l’esplodere della
Prima guerra mondiale, si vide destituita della sua stessa essenza.
Durante quel tempo estremo, infatti, fu relativamente esiguo il numero di artisti che riuscirono a trasporre l’esperienza bellica in fieri. Impegnati loro stessi sul fronte, spaesati, paralizzati dalle dimensioni, dalle
modalità, dalle caratteristiche inedite e imprevedibili di questa guerra terribile, molti artisti si dovettero rendere conto che quella realtà era irrappresentabile, e che un linguaggio adeguato non esisteva. Quello, vitalistico,
che le avanguardie avevano elaborato prima dell’inizio del conflitto, doveva
risultare svuotato di senso rispetto all’esperienza vissuta.
Molti artisti furono invece coinvolti, in quel periodo, nella realizzazione di camouflage: un dispositivo che nasceva allora, in funzione di una
guerra moderna che esigeva non più di mostrarsi, ma di mimetizzarsi. Ecco
allora gli artisti farsi, per la prima volta, artefici non del manifestarsi della
visione, ma di una forma di invisibilità.
Quanto il camouflage e la mimetica, con il loro portato di significati,
si sapranno imprimere nell’immaginario collettivo, lo testimonieranno, per
il resto del Novecento e ancora oggi, il cinema, la moda, e anche l’arte; che
ne vedrà l’adozione da parte di numerosi artisti tra i quali Alighiero Boetti
con i suoi Mimetico.
Se l’opera di Mateo Maté mantiene una distanza critica e, senza mollare la presa, si sa tingere di umorismo, la tragedia del mondo sembra concentrarsi nel lavoro di Berlinde De Bruyckere che esprime il dolore vivo,
quello del corpo, della carne dilaniata. Lo sgomento a fronte della micidiale
potenza distruttiva delle nuove armi è un tema ricorrente nei racconti della
Grande Guerra. Fu allora che l’uomo sperimentò il massacro di massa ad
opera di armi e dispositivi bellici di nuovo genere. E tra le immagini più
spaventose lasciateci ci sono quelle dei corpi dei soldati scaraventati dalle esplosioni lontano, in alto, fin sugli alberi. Brandelli di corpi appesi a
rami, ridotti essi stessi a moncherini scarnificati, compaiono nelle fotografie
dell’epoca e nelle opere di Luc-Albert Moreau, di Otto Dix e di molti altri.
È sotto l’impressione di questo tipo di immagini, che l’artista ha realizzato In Flanders Fields: un’opera crudele, straziante, capace di evocare
l’esperienza assoluta, diretta, sempre unica e singolare del dolore. Ma non
solo; De Bruyckere incarna l’orrore in corpi di cavallo: presentato da sempre come forte e fiero alter ego dell’uomo in battaglia, ancora anacronisticamente lanciato alla carica nelle opere dell’avanguardia interventista, con In
Flanders Fields il cavallo ci si presenta come vittima innocente: spogliato di
ogni retorica, memore di ciò che fu, ma ridotto a massa amorfa spaventosa
e ripugnante, questo è il corpo massacrato dalla guerra.
Esistono, forse, risposte possibili a questo senso di desolazione senza
riscatto. Opus 21, di Alfredo Jaar, ne potrebbe rappresentare una. Siamo nel
1981. Un anno prima di lasciare il Cile sotto la pressione politica di Pinochet, Jaar esegue e filma una performance solitaria consistente nel suonare
un clarinetto fino allo sfinimento, senza averne capacità alcuna. I suoni che
genera sono disarmonici, disarticolati, soffocati, disperati; una sorta di lungo gemito di protesta. Opus 21 è una narrazione sottile, ma ad alta intensità
emotiva. È ispirata alla fotografia, scattata da Susan Meiselas, di un guerrigliero sandinista che, in Nicaragua, suona un clarinetto dietro una barricata. Ci parla di violenza e di poesia al contempo, della necessità sempre viva,
anche nei momenti più estremi, di ricomporre qualcosa di se stessi.
E a una sorta di ricomposizione giunge Lida Abdul: nel suo video In
Transit, protagonista è la fantasia poetica di un gruppo di bambini afgani
che cerca di far volare il relitto di un aereo russo crivellato di colpi, abbandonato a terra in quello che fu, in passato, un campo di calcio. Il deserto
sullo sfondo, una temporalità dilatata, un senso di sospensione; l’azione, di
una semplicità perturbante, ha la ricorsività di un rito, l’ampiezza di una
metafora; ma parla di un presente vitale, carico di desiderio. Ad onta del
disastro che devasta da decenni il paese, di contro alla paura che riduce
all’impotenza e induce a tenere gli occhi bassi, i bambini guardano il cielo e
sognano di volare. In Transit è, insieme, atto di accusa e appello al cambiamento; una petizione per un altro mondo.
Così la situazione bellica è diventata luogo e sorgente di pensiero poetico: perché quando la rovina incombe e sembra in procinto di inghiottire
tutto, lì una luce residuale può illuminare la condizione umana nella sua
fragilità e nella sua grandezza generando un’intensità, una forma di pienezza sconosciuta. Come nelle righe di scrittori quali Ungaretti, Rebora,
Montale, ma anche di tanti anonimi spinti dall’urgenza espressiva, l’immaginario si fa alternativa e forma di resistenza.
In molti modi diversi, ma evitando sempre i modelli precostituiti,
gli artisti, dei conflitti del nostro tempo, sanno prendere in considerazione
fatti, pratiche, relazioni, gesti, figure: taluni si calano nel contesto operando
carotaggi in aree inesplorate, scardinando, con spirito analitico, l’informa-
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VARIAZIONI BELLICHE
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zione mistificata che riceviamo, e sondando l’eredità immateriale, gli aspetti non ufficiali o non storicizzati; altri tendono a trascendere la contingenza
per recuperare una visione d’insieme.
Ad accomunarli è una coscienza civile che li mette al centro della
realtà e li spinge a immaginare qualcosa di diverso da ciò che esiste, o, almeno, da ciò che emerge. In questo senso l’arte è una grande riserva; per quanto scuro sia il tema che affronta, mettere in campo le energie dell’immaginazione è segno di vitalità. E non si tratta solo degli artisti, ma dell’intimo
scambio che si può instaurare tra l’artista e il suo interlocutore; si tratta,
insomma, di mobilitare l’immaginazione e le intelligenze di tutti.
L’esercizio non è fine a se stesso; certo le visioni degli artisti non possono avere un nesso strumentale con la realtà ordinaria; ma, convogliate
nelle attività di ogni giorno, possono diventare parte della nostra maniera
di affrontare la vita e di intervenire nel reale dibattito quotidiano.
In un mondo tragicamente incagliato, incapace di risolvere differenze e diffidenze altrimenti che nella polarizzazione del conflitto, il contributo
degli artisti può costituire una contromisura rispetto all’univocità del pensiero e delle soluzioni; ci può aiutare a vivere la presenza della memoria storica nella quotidianità, ad affrontare il non senso e a reagire alla perversa,
ma potente, attrazione che la guerra non smette di esercitare.
Ciò che sta avvenendo intorno a noi ci dice una semplice, spaventosa
realtà: abbiamo rubricato il Novecento come secolo dei genocidi; con i conflitti mondiali, con la Shoah, con il Grande Crimine perpetrato contro gli
Armeni, di cui sta per ricorrere il centenario; con i massacri a sfondo etnico
dei Balcani, del Ruanda; con il conflitto del Caucaso e le guerre del Sudan,
del Darfur; e l’elenco può continuare a lungo.
Se la guerra che verrà non sarà certo la prima, non è detto che il peggio sia alle nostre spalle. Rinchiuderci, adagiarci nell’acquiescenza e nell’indifferenza, pensare solo al prossimo breve momento non è una soluzione.
Le opere degli artisti ci invitano a farci carico di ciò che avviene; in
posta c’è la possibilità di combattere la passività generalizzata e l’isolamento, di vincere l’apatia e l’indifferenza. Occorre evitare il rischio della rimozione e tenera alta la soglia di attenzione, è intraprendere una riflessione
che è anche confronto stringente con noi stessi: per renderci conto di cosa
siamo, di come si cambia e di cosa persiste; della nostra finitudine e del
nostro lato oscuro.
È vero, noi stiamo dentro e fuori, e comprendere esige fatica; si tratta, d’altra parte, di uno sforzo dovuto, se vogliamo salvarci da noi stessi: il
rischio di perdere la pace è tangibile, la violenza genera altra violenza, e non
solo sopraffà chi la subisce, ma erode il mondo di tutti. Ed esistono anche i
peccati di omissione.
Partendo da questa consapevolezza, possiamo cercare alternative
all’ostinata tendenza del genere umano a ragionare in termini di fronti opposti.
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OPERE