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Con Antigone contro Creonte

Antigone, nei tempi recenti, ha smesso di comparire solo nei titoli dei saggi di filosofia, letteratura e diritto 1 , per occupare le prime pagine dei quotidiani. Secondo tanti -e io concordo -la capitana Carola Rackete della Sea Watch 3 ha compiuto un'azione comparabile a quella della Antigone di Sofocle 2 .

Con Antigone contro Creonte: rivendicare e praticare un’autonomia all’altezza dei doveri inderogabili. di Laura Ronchetti Antigone e Carola: disobbedienza alle leggi in adempimento di un dovere Antigone, nei tempi recenti, ha smesso di comparire solo nei titoli dei saggi di filosofia, letteratura e diritto Tra di tanti mi limito a richiamare il mio L’autonomia e le sue esigenze, Milano, 2018, del quale qui si riprendono le riflessioni sull’Antigone di Sofocle., per occupare le prime pagine dei quotidiani. Secondo tanti - e io concordo - la capitana Carola Rackete della Sea Watch 3 ha compiuto un’azione comparabile a quella della Antigone di Sofocle Raffaele K. Salinari, Carola Rackete come Antigone, «prima delle leggi», in ilmanifesto, 28.06.2019, scrive “La memoria torna all’Antigone di Sofocle, che scelse la pietà verso il corpo del fratello insepolto e per questo fu condannata dalle leggi che il nuovo sovrano aveva promulgato”; Gaetano Azzariti, Che fare se il potere viola la costituzione, in ilmanifesto, 28.06.2019, scrive “Forse potremmo usare le parole di Antigone per intenderne la portata: «Non potevo consentire a un mortale di calpestare le leggi non scritte degli dèi. Io non potevo cadere nella loro condanna per paura di un uomo e della sua arroganza». Antigone pensava che fosse inaccettabile trasgredire la legge di natura, noi possiamo interrogarci se sia oggi possibile che l’arroganza del potere possa giungere a violare la costituzione”. Tomaso Montanari e Francesco Pallante, Antigone è la Costituzione, in ilmanifesto, 02.07.2019, scrivono: “Il nostro ordinamento giuridico è costruito per gradi gerarchici. Al vertice sta la Carta. Le leggi e i decreti stanno sotto. E ciò che sta sotto non può contraddire ciò che sta sopra, pena il suo annullamento da parte della Corte costituzionale. Carola Rackete ha assunto apertamente il rischio di violare la legge, convinta della sua contrarietà alla nostra Costituzione”. . Sebbene non tutte e tutti concordino con questo parallelismo tra Antigone e Carola Enrica Rigo e Lucia Gennari, Il diritto di Carola, in Dinamopress.it, 2 luglio 2019, affermano che “Sono stati in molti a paragonare Carola alla figura di Antigone. A noi pare che il suo atto non sia un appello a una qualche legge superiore, lo leggiamo piuttosto come una presa di responsabilità, articolata, appunto, attraverso l’esperienza e l’azione”; Lorenzo Gradoni e Luca Pasquet, Lisistrata a Lampedusa: una riflessione sul caso Sea Watch 3, in sidiblog, 6 luglio 2019, “A differenza di Antigone, che respinse il diritto della polis in nome della legge divina, la comandante della Sea Watch 3 si è scrupolosamente attenuta al diritto positivo e ciò, nonostante si sia trovata ad agire in un quadro politico e giuridico sempre più invaso da incertezze e contraddizioni, da norme collidenti ed ermeneutiche inconciliabili”. , mi preme evidenziare che, in entrambi i casi, due donne si sono assunte la responsabilità di disobbedire a ordini impartiti dal potere legittimo per adempiere a un dovere considerato inderogabile. Rackete ha violato l’odierno “editto di Creonte”, vale a dire il Decreto-legge Salvini Decreto legge14 giugno 2019 n. 53, art. 1 (art. 11, comma 1-ter, TUIM) sulla base del quale è stato adottato il decreto interministeriale del Ministro dell’interno, di concerto con quello delle infrastrutture e trasporti con cui si disponeva il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nel mare territoriale nazionale. sui porti “chiusi” (si badi!) alle sole navi delle ONG che onorano un’antichissima norma consuetudinaria, poi trasfusa nei più recenti trattati internazionali sul diritto del mare: il dovere di salvare le persone in pericolo in mare In questo caso, come si riporta nell’ordinanza del Gup di Agrigento del 12 giugno 2019 la Sea Watch 3 ha tratto in salvo le persone trovate in mare su “un gommone in condizioni precarie e nessuno aveva giubbotto di salvataggio, non avevano benzina per raggiungere alcun posto, non avevano esperienza nautica né equipaggio” e ha ritenuto porto non sicuro Tripoli, come riconosciuto anche dal Gup di Trapani il 23 maggio 2019. .  Certamente non meno antico è il dovere di dare degna sepoltura a qualunque defunto, anche ad un traditore della patria come Polinice: Antigone, disobbedendo all’editto di Creonte che imponeva di lasciare il corpo del fratello alla mercé dei rapaci e stabiliva la pena di morte per i trasgressori del divieto di sepoltura, non rivendica mai di rispondere a una sua propria legge, a quella della sua famiglia o di una presunta predisposizione femminile alla cura, quanto piuttosto alle “leggi non scritte degli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre”. Antigone, dunque, non si limita a far valere una propria intima necessità di sorella, di donna pronta al sacrificio per accudire il fratello, quanto di adempiere a una norma giuridica fino ad allora non contestata del corpus di leggi non scritte vigenti nel V secolo a.C. Si accoglie qui la tesi sostenuta da Giovanni Cerri, Il significato dell’espressione “leggi 
 non scritte” nell’Atene del V secolo A.C.: formula polivalente o rinvio ad un corpus giuridico di tradizione orale?, in Mediterraneo antico, XIII, 1-2, 2010, p. 139, che ribadisce quanto sostenuto dall’A. nel suo Legislazione orale e tragedia greca, Napoli, 1979: le leggi non scritte, prima della grande codificazione avvenuta alla fine della Guerra del Peloponneso nel 403 a.C., costituivano “un vero e proprio sistema legislativo di tradizione orale”. Innegabile è l’adesione di Antigone a questo corpus giuridico e alla visione della polis che esso restituisce e, perciò, assolve lei stessa al dovere di degna sepoltura che il neo re Creonte pretende di sospendere con una “legge-provvedimento”. Anche nel caso di Rackete ci troviamo di fronte a un’omissione da parte del potere legittimo, a causa della mancata individuazione di un porto sicuro da parte delle autorità competenti con connessa diffida a sbarcare in territorio italiano per la Sea Watch. Rackete, quindi, ha assolto al proprio dovere di assistenza dei naufraghi e di sbarco in un porto sicuro Previsto dalla Convenzione di Amburgo detta SAR e dalle connesse Linee guida.. Il porto sicuro che, dopo 17 giorni in mare con decine di persone a bordo, la capitana si è presa contro gli ordini ricevuti ricorda molto la degna sepoltura che Antigone ha voluto dare al fratello Polinice, che Creonte (zio di entrambi) imponeva restasse in balia delle fiere per espiare la colpa di aver mosso guerra contro la sua città, Tebe. Creonte negava, dunque, il diritto alla sepoltura del traditore sconfitto, in spregio della fondativa importanza attribuita alla sepoltura sin dalle più remote culture umane, mentre Salvini e i ministri confirmatari del provvedimento, con tutti i parlamentari che hanno convertito ben due Decreti-sicurezza, hanno negato il millenario diritto al porto sicuro nel quale approdare dopo aver fatto naufragio ed essere stati salvati dalla morte per annegamento. L’accanimento di Creonte contro un cadavere e gli affetti dei cari del defunto ricorda l’accanimento del ministro Salvini e dei suoi sostenitori contro vite umane stremate e contro le persone che si sono messe in mare soltanto al fine di salvarle e soltanto perché le istituzioni hanno declinato ogni responsabilità, contravvenendo a precisi obblighi internazionali. Disobbedienza e giudici Antigone non ha giudici terzi rispetto al re Creonte a cui rivolgersi, mentre Rackete ha varie giurisdizioni cui appellarsi: per due volte non ottiene soddisfazione (non solo presso il Tar, ma financo davanti alla Corte europea dei Diritti dell’uomo Sulla decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25 giugno 2019, Enrica Rigo e Lucia Gennari, Il diritto di Carola, cit., affermano che “il confine territoriale riemerge feroce nella decisione della Corte come limite al riconoscimento e alla protezione dei diritti: oltre le 12 miglia dalla costa l’Italia non è più responsabile, anche se è lei a tenerti sotto scacco”. ) e, proprio a causa di questa denegata giustizia, non trova alternativa se non quella di disobbedire agli ordini ricevuti di non avvicinarsi al porto di Lampedusa. È un’altra donna, la Gup di Agrigento, a giudicare che Carola abbia agito “in adempimento di un dovere” Così l’ordinanza di non convalida dell’arresto di Carola Rackete del Gup di Agrigento del 2 luglio 2019. L’adempimento di tale dovere rientra tra le ipotesi di scriminante previste dall’art. 51 c.p. in caso di salvataggio in mare per rischio di naufragio previsto da norme sovraordinate al c.d. “decreto sicurezza bis”: “dovere di soccorso” che non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino ad un porto sicuro. “Disobbedire era un dovere” ha detto la giudice penale Gup di Agrigento del 2 luglio 2019.. Il futuro ci dirà se anche la giustizia costituzionale saprà rendere giustizia dei principi fondamentali della nostra Costituzione che consacrano i “doveri inderogabili di solidarietà” (art. 2 Cost.), compresi quelli stabiliti da norme di diritto internazionale. Entrambe le donne, Antigone e Carola, hanno rivendicato le proprie azioni come inevitabili e se ne sono assunte la piena responsabilità. Entrambe, per giustificare le proprie scelte, hanno invocato norme superiori perché espressive dei diritti fondamentali inviolabili di ogni persona, dalla più condannabile come Polinice alle più vulnerabili come i naufraghi in mezzo al mare. Diritti inviolabili che, come sempre, impongono doveri inderogabili che la comunità e i suoi singoli componenti devono riconoscere e garantire. È in nome di tale piena adesione a norme considerate inviolabili che Sofocle più volte fa ripetere ad Antigone che seppellire suo fratello è un atto cui si impegna volontariamente, nella convinzione che sia giusto e nella piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni. Analogamente Rackete aderisce pienamente alla disciplina internazionale del diritto del mare nei sui più fondamentali principi e intende ottenerne la piena efficacia. Lo fa, con il suo equipaggio di mare e di terra, ricordando al mondo che quei doveri riguardano tutte e tutti e avverte quando sta per forzare il blocco navale. Anche Antigone rifiuta qualsiasi sotterfugio e rifiuta di agire in segreto, come le suggeriva la sorella Ismene. Quest’ultima non ritiene possibile sfidare apertamente il potere costituito, soprattutto perché “siamo donne, ricordalo, non possiamo batterci con gli uomini; chi ci governa è più forte e noi dobbiamo piegarci a quest’ordine e ad altri, ancora più penosi” (80-87). Antigone, invece, compie un gesto “privato”, la sepoltura di un congiunto, ma è perfettamente consapevole degli enormi risvolti politici e non meramente penali delle sue azioni. Insiste, infatti, che il suo gesto e il suo ripetuto rifiuto di rinnegarlo siano resi noti a tutti. La fine di Antigone: un avvertimento per le polis guidate da strategos Certamente le conseguenze in gioco nei due casi sono ben diverse perché chi avesse trasgredito l’editto di Creonte sarebbe stato condannato a morte, ipotesi non contemplata nel nostro ordinamento costituzionale. La fine delle due donne, infatti, è del tutto diversa: quella di Rackete piena di riconoscimenti, quella di Antigone degna di una tragedia greca. Creonte, sebbene tardivamente, si rende conto che la sua decisione di uccidere la nipote esorbitava dalla legge che la polis sentiva propria. Le conseguenze, tuttavia, sono inarrestabili e terribili: la decisione di Antigone di togliersi la vita per mano propria causerà una catena di suicidi (di Emone, figlio di Creonte e promesso sposo di Antigone, e della madre di Emone, moglie di Creonte). La tragica scelta di Antigone diventa così paradigmatica del caro prezzo che una comunità pagherà nel momento in cui non saprà rispettare le norme fondamentali, dunque superiori, costituenti la forma politica della polis. A riprova dell’accusa che Antigone muove a Creonte di esorbitare dai limiti che ogni potere legittimo incontra, l’imputata si rivolge allo zio re come strategos, vale a dire come detentore della forza, espressione della legge del più forte, e non come basileus, istitutore della legge dei cittadini. Sebbene fosse nel potere del re emanare editti che implicassero l’obbligo di obbedienza da parte di tutti, l’editto di Creonte, da un lato, rinnega la legge che prevedeva la sepoltura in patria di tutti i tebani, dall’altro, è più severo delle stesse usanze tradizionali che permettevano la sepoltura anche dei traditori, a patto avvenisse fuori dalla città. Lo stesso nome di Creonte, che in greco significa potente, suggerisce l’arroganza del potere che pretende “pieni poteri”. Un’arroganza che Creonte dimostra anche nei confronti dell’indovino Tiresia, interprete della volontà degli dei che, oggi come allora, chiede semplice pietas. Vi è nella tragedia, inoltre, la chiara indicazione che Creonte ritiene necessario punire la disobbediente nipote Antigone perché il suo comportamento potrebbe ispirare altre forme di ribellione rispetto al suo modello gerarchico. Creonte dice al Coro: “non schieratevi con chi trasgredisce” e, oltre, afferma: “già da tempo in questa città ci sono uomini che mormorano contro di me, non mi sopportano, e in segreto scuotono la testa, non vogliono piegare il collo sotto il giogo, non vogliono obbedirmi, come sarebbe giusto”. Al logos di Creonte, tutto basato sulla forza che si dichiara esercitata legittimamente per difendere la polis, Antigone viceversa oppone un nomos che rivendica un legame fondativo con la polis. Antigone stessa, infatti, dice che se l’assemblea dei cittadini fosse stata libera di esprimersi avrebbe condiviso la sua scelta, anche se la sua determinazione personale non dipende dall’opinione altrui (504-511). Dello stesso parere è Emone, promesso sposo di Antigone e figlio di Creonte. L’autonomia di Antigone quale paradigma da riscoprire La tragedia di Antigone rappresenta magistralmente la stretta connessione tra la determinazione individuale e il contesto relazionale e politico, con le loro reciproche interdipendenze. La seconda parte della tragedia, infatti, restituisce una corrispondenza tra il gesto di disobbedienza di Antigone con il sentire comune della comunità politica. La tragedia così come sopra ricostruita aiuta a cogliere il significato della scelta di Sofocle di attribuire ad Antigone l’appellativo di “autonoma”. L’Antigone di Sofocle, infatti, contiene il primo caso conosciuto della parola autonoμos (821) in riferimento al soggetto singolo, al punto che non manca chi ritiene che questa tragedia sia centrale proprio per l’aspirazione umana verso l’autonomia K. Tenenbaum, L’alterità inammissibile. Letture femminili di Antigone, in Antigone e la filosofia, a cura di P. Montani, Roma, 2001, p. 282, parlando del testo di M. ZAMBRANO, La tomba di Antigone, Milano, 1995. . L’uso del termine autonomia in riferimento a una persona, e non ad intere comunità, assume rilievo particolare anche per la sua eccezionalità, contando pochi casi in cinquecento anni di letteratura greca D. N. Mcneill, Antigone’s Autonomy, in Inquiry, Vol. 54, No. 5, October 2011, p. 411.. A mio modo di vedere una parola così extra ordinem in relazione a un soggetto singolo assume, nel contesto della tragedia, una forte valenza giuspolitica Si tratta secondo R. Rossanda, Antigone ricorrente, saggio introduttivo a Sofocle, Antigone, Milano, 1987, di un “moderno destino” se è vero che Antigone è definita dal Coro “autónomos, come colei che da sola si dà la sua legge”, se non altro intesa come “coscienza di una solitudine a nessuno imputabile se non a sé”, secondo una lettura diversa da quella qui proposta.. Se la tragedia sofoclea mette in scena un “conflitto irriducibile” G. Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Roma-Bari, 20105, pp. 283-285. tra Antigone e Creonte, secondo le diverse letture tra legge non scritta e legge degli uomini, tra suddito e re, tra famiglia e stato, tra cura e cittadinanza, tra differenza sessuale e patriarcato, tra diritto matrilineare e quello patriarcale, a mio parere mette in scena anche il conflitto tra autonomia ed eteronomia. La valenza giuspolitica dell’autonomia di Antigone può cogliersi se si considera che la maggior parte della tragedia si svolge al cospetto del Coro, l’Assemblea dei cittadini, di fronte ai quali Creonte si ritrova a fronteggiare l’appassionata retorica di Antigone. Il predicativo di autonoma rivolto ad Antigone è anzi pronunciato proprio dal Coro quando Antigone esce di scena per recarsi a morire autónomos. Quell’autónomos indica che la protagonista, pur consapevole delle nefaste conseguenze delle proprie azioni e parole, ha disobbedito all’ordine costituito per adempiere a un dovere e rivendica questa sua scelta perché il suo autos si riconosce in quel nomos inviolabile. L’autonomia di Antigone, dunque, non può essere confinata nel mondo della morale interna, nella legge interiore, ma deve essere collocata pienamente nello spazio politico che si forma nella zona di contatto tra il foro interno e quello pubblico: lei si autodetermina in coerenza e adesione al ordinamento cui sente di appartenere. La tragedia interroga anche l’autonomia intesa come libertà positiva di partecipare alla formazione delle norme giuridiche che si applicano a se stessi o meglio al mantenimento della loro efficacia giuridica: far valere l’attuale vigenza di un dovere inderogabile consente ai “destinatari” dell’ordinamento giuridico di percepirsi e di farsi valere come co-produttori, co-protagonisti, co-attori, delle norme giuridiche che ad essi si applicano. In altri termini, in questa tragedia emerge la stretta connessione tra l’autonomia individuale e quella collettiva, tra quella privata e quella pubblica, legate in un circolo virtuoso l’una all’altra. Riferita alla singola persona allude all’autodeterminazione personale, ma anche alla partecipazione di ogni persona alla determinazione delle norme generali ed astratte valevoli per l’intero ordinamento. Emerge, dunque, l’ipotesi che l’azione autonoma di Antigone abbia la valenza politica di un’autonomia della polis intesa come assemblea che è capace di darsi le proprie norme e, quindi, di rifiutare un comando che avverte come eteronomo. Antigone, dunque, è il mito fondativo dell’autonomia sia personale che pubblica, perché coniuga il soggetto con l’azione e li collega secondo un principio politico che connette la potestà personale di governarsi da sé con la dimensione istituzionale che consente l’autonomia dell’ordinamento intero. Consente, dunque, di risignificare il concetto di autonomia come punto di incontro tra un plesso di potere proprio della persona e la consapevolezza dell’interdipendenza, anche inter-individuale, insita nella dimensione sociale e politica. “Autonomia differenziata”: quando le differenze pretendono diseguaglianze Il concetto di autonomia, recando in sé l’insormontabile esigenza di mettere in connessione l’autos con il nomos, coinvolge ogni tipo di soggetto, da quello individuale fino a quello collettivo, sia esso sociale o territoriale. Il principio autonomistico, infatti, implica la capacità dell’ordinamento di riconoscere e promuovere “le esigenze dell’autonomia” (art. 5 Cost.). Darsi un proprio ordinamento, però, non significa isolare la libertà di autodeterminazione dagli altri principi del costituzionalismo, con particolare riferimento all’uguaglianza e alla solidarietà. Al contrario, soltanto la connessione tra questi principi consente di creare spazi di autonomia per i singoli, per i gruppi e per i territori. Quel che sempre si è opposto a leggere il principio autonomistico come collegato al principio di uguaglianza sostanziale, tuttavia, è l’idea liberale estremizzata nell’ordine giuridico neoliberista dell’autonomia individuale come assoluta indipendenza. Si tratta di una concezione che rende ipertrofica la volontà e le sue capacità, confinando nel mondo delle “colpe” le debolezze, le povertà e le eccentricità di vario genere. È il pensiero femminista che, a partire dalla decostruzione dell’infondato mito del soggetto indipendente, ha sviluppato una visione dell’autonomia in cui diventa centrale la dimensione relazionale consapevole delle reciproche forme di interdipendenza. È con tale pensiero e pratica che il costituzionalismo democratico può prendere atto che la Costituzione italiana fonda proprio un’accezione di autonomia alla luce degli altri principi fondamentali, con particolare riferimento agli articoli 1, 2, 3 e 11 della Costituzione. L’idea di autonomia che traspare dalla trama costituzionale, infatti, è quella del riconoscimento della dipendenza che ogni soggetto ha nei confronti dell’altro, in una prospettiva relazionale e sociale fortemente ancorata alla solidarietà, alla lealtà e al rispetto, in una logica di interdipendenza. Non c’è spazio, dunque, nel disegno costituzionale per un’autonomia come sinonimo di indipendenza o autosufficienza, astratti ideali che celano soltanto la logica tipicamente proprietaria dell’esclusione dell’altro dal proprio benessere. Se, viceversa, si comincia a teorizzare e praticare l’autonomia territoriale disconoscendo il rapporto di interdipendenza con le altre autonomie nell’ambito dell’unità del popolo, la con-vivenza si trasformerà in com-presenza tra indifferenti fino a produrre la frammentazione del popolo sovrano: un’autonomia differenziata che moltiplica le diseguaglianze trasformerà l’articolazione del popolo in comunità territoriali compartecipi dell’interesse nazionale in una sua scomposizione in comunità che si abbarbicano sul territorio regionale, convinte della propria autosufficienza che si atteggia ad indifferenza per le sorti del resto della nazione. È secondo questa logica che si sta giungendo all’apice del regionalismo competitivo che si allontana sempre di più da un’accezione positiva di autonomia, intesa come partecipazione all’individuazione e al perseguimento dell’interesse generale, che viceversa richiede una piena consapevolezza dell’interdipendenza tra le varie comunità regionali nella Repubblica una e indivisibile, tra i soggetti e le persone che compongono l’ordinamento. 1