Teoria e prassi in Landolfi traduttore dal russo1
Niccolò Galmarini
Tommaso Landolfi rappresenta un vero unicum, nonché una delle figure più interessanti e
complesse del Novecento letterario italiano. A contribuire all’assoluta originalità di Landolfi hanno
senza dubbio concorso la sua formazione da slavista e il rapporto con le lettere russe, che lo
accompagnarono per tutta la vita, dagli anni fiorentini alla maturità, quando l’attività di traduzione,
seppur guardata con insofferenza, fu il suo principale mezzo di sostentamento, oltre a costituire uno
dei campi in cui la grandezza di Landolfi si manifestò con maggior fulgore. Nella sua opera
scrittura “originale” e scrittura “tradotta” appaiono in costante dialogo e possono essere considerate
e studiate in quanto espressioni di una comune sensibilità letteraria; lo dimostrano non solo le scelte
traduttive operate da Landolfi, ma anche i molteplici parallelismi fra i testi da lui tradotti e la sua
produzione originale in italiano, spesso segnati da contiguità cronologica (1).
Di fatto, pur nel rispetto del criterio filologico e della specificità dell’opera di ciascun autore, la
traduzione è sempre stata per Landolfi parte integrante del processo creativo.
Si è soliti individuare due fasi nell’attività traduttiva di Landolfi. Una prima fase, che copre
sostanzialmente gli anni ’30 e ’40, vide Landolfi dedicarsi a traduzioni dal tedesco, dal francese e
dal russo. In questa prima stagione la traduzione costituì una scelta spontanea e indirizzata solo agli
autori più amati, seppur principalmente dettata da motivi economici, un “lavoro alimentare”,
secondo la calzante definizione di Idolina Landolfi (2).
Dagli anni ’50, invece, dopo il matrimonio e la nascita dei figli, cominciò la seconda stagione di
Landolfi traduttore, che coincide con il periodo di collaborazione con Einaudi, fino alle ultime
traduzioni completate negli anni ’60. In questa fase, caratterizzata dall’impellente necessità
economica di lavorare, la traduzione era da lui vista come sottrazione di tempo alla composizione
delle sue opere. È in questo periodo che si intensificò l’insofferenza verso l’attività traduttiva, come
ben mostrano alcuni passi di Rien va: «Sono angosciato: dovrò forse per necessità di quattrini
ridurmi a fare alcunché di assolutamente inutile, traduzioni magari» (3); o ancora: «Da questo
quadro di miseria erano di necessità esclusi quei libri che dovevo leggere per recensirli, e dovevo
recensire per far quattrini; e, ora, quelli che sono obbligato a leggere per tradurli e obbligato a
tradurre pel medesimo motivo. Sicché si può capire quali siano i miei rapporti con questi ultimi. E
in una parola i miei interessi e la mia attività sono obbligati o non sono» (4).
L’inizio dell’attività di traduzione intrapresa da Landolfi va inquadrato in piena epoca fascista,
momento di spiccata tendenza conservatrice e xenofoba della cultura ufficiale italiana. Bisogna
tuttavia ricordare che si trattò anche di un periodo di grande fervore traduttivo orientato
prevalentemente verso la cultura angloamericana. Il lavoro di traduzione dal russo condotto da
Landolfi, dunque, se da una parte si inserì in una generale messa in discussione di modelli
linguistici, letterari e culturali dominanti, nonché di introduzione di discorsi minoritari e subalterni
nella cultura italiana contemporanea, dall’altra assunse, rispetto ad altre operazioni simili, caratteri
di maggiore originalità, proprio in quanto orientata verso un modello culturale così lontano da
quello italiano come quello russo.
Le prime traduzioni pubblicate da Landolfi furono alcuni racconti di Tolstoj usciti in rivista nel
’34, mentre nel ’41 vide la luce il primo volume tradotto, i Racconti di Pietroburgo di
Gogol’ (5). Quindi Landolfi si occupò dei testi inclusi nell’antologia Narratori russi (1948)
pubblicata da Bompiani (6). Poi fu la volta della collaborazione con Einaudi per cui uscirono nel
’60 Poemi e liriche di Puškin, nel ’61 Teatro e favole sempre di Puškin, nel ’63 Liriche e poemi di
1
Il contributo è stato pubblicato sul sito del Cento Studi Tommaso Landolfi nel 2015
(http://www.tommasolandolfi.net/teoria-e-prassi-in-landolfi-traduttore-dal-russo/).
Lermontov, nel ’64 le Poesie di Tjutčev e nel ’67 Il viaggiatore incantato di Leskov, dopo il quale
Landolfi chiuse il suo rapporto editoriale con la casa editrice in qualità di russista (7).
L’approccio teorico di Landolfi alla traduzione, pur non essendo stato mai dall’autore
organicamente espresso, è ricostruibile, oltre che naturalmente a partire dalla sua prassi traduttiva,
attraverso alcuni interventi critici pubblicati soprattutto fra gli anni ’30 e ’40 sotto forma di brevi
articoli e recensioni. Le traduzioni dei racconti di Tolstoj, ad esempio, sono accompagnate da una
nota introduttiva in cui Landolfi dichiara il principio che sta alla base delle proprie traduzioni,
ovvero quello della fedeltà:
Nella versione, in linea di massima più che letterale, ho scrupolosamente serbato, spesso con grave
pregiudizio dell’espressione italiana, tutte le particolarità o imperfezioni, stilistiche sintattiche e di
ogni genere, del testo. Le frequenti ripetizioni, dove non servono a dare un tono popolaresco alla
narrazione, le indecisioni e la provvisorietà del contesto, dove si riscontrano, e tutte le altre
caratteristiche che ognuno rileverà da sé, stanno a dimostrare che Tolstoj non ebbe il tempo o la
voglia di sottoporre alla sua implacabile lima quegli scritti. Ma non mi è parso che dovessero per
ciò essere alterate (8).
Nella recensione all’antologia di poesia russa tradotta da Renato Poggioli, La violetta
notturna (9), pur riconoscendo all’amico il merito di aver diffuso in Italia la conoscenza di poeti
poco noti o malamente tradotti, Landolfi gli rimprovera, in modo alquanto caustico, una scelta
fondamentale, ossia quella di rendere l’atmosfera originale piuttosto che la lettera, considerando la
traduzione finale una libera ricreazione poetica: «Si capisce (vorremmo senza giudicare il suo
metodo, invitare il Poggioli a rifletterci su per l’avvenire) che chi traduce − per restare nell’esempio
su citato − “dagli occhi di coniglio” con “guerci” si assume almeno una grave
responsabilità» (10). Nella recensione del ’37 intitolata Puškin e dedicata alla traduzione di Ettore
Lo Gatto dell’Evgenij Onegin, Landolfi esprime la propria idea di traduzione:
«Tradurre propriamente un poeta significa renderne non soltanto, anzi non tanto la lettera, quanto le
articolazioni e le inflessioni metriche, il piglio, le impostazioni, e minutamente le fasi, musicali e
via dicendo. Significa non tanto riprodurre un contesto, quanto un contesto armonico». E aggiunge:
«Una versione che da questi elementi voglia prescindere, o che si studi di trasporli secondo le leggi
e la tradizione dell’altra lingua, è una versione in prosa, […]» (11).
Lo scrittore di Pico riconosce appieno la difficoltà dell’impresa di tradurre poesia, legata soprattutto
alle scelte obbligate, e spesso al ribasso, che il traduttore si trova a fare:
alcuni traduttori preferiscono attribuire agli elementi musicali, altri invece a quelli letterali, ai
nessi e al contesto logici, la maggiore importanza. Non rimane pertanto che decidersi in favore dei
primi o dei secondi. Senonché si deve riflettere […] che altro sono i suaccennati elementi musicali,
autonomi e sollecitabili in vari modi, altro è propriamente lo schema metrico e il tipo di verso: a
tentar di ricreare liberamente il testo su un verso che non è quello originale, non si può mancare di
dar luogo a nuovi rapporti di ogni genere, visto che il secondo testo, il testo riflesso, entra allora
davvero a far parte di una nuova tradizione. Se ne conclude così apparente paradosso che le
circostanze più favorevoli per una libera ricreazione, nella misura che il termine designa
comunque una specie di versione, si trovano in una rigorosa fedeltà al metro originale, in quanto
questa lascia libera e invariata ogni impostazione ideale. Per converso, l’indipendenza dal metro
originale genera vorrei dire meccanicamente un’aderenza minuziosa e spesso superflua ad alcune
particolarità logiche del testo; il traduttore finisce, volente o nolente, col concedere una validità
esagerata ai limiti, per così dire, razionali e connettivi delle immagini, perdendone di vista il giro
sintattico, l’attacco fonetico ecc.; di valori puramente musicali non si vuol parlare dal momento
che egli ha rinunciato fin dal principio a quelli propri del testo; la versione infine tende, se si
guarda al caso limite, alla parafrasi in prosa.
A meno, ripeto, che non si trasfiguri in aperta creazione, nel qual caso invocare un qualsiasi testo
sarebbe arbitrario (12).
Anche in questo caso Landolfi propugna un approccio traduttivo basato sul rispetto semantico della
lettera e sulla fedeltà al testo, intesa, nel caso della poesia, come rigorosa riproduzione della
struttura metrica e armonica. Alla luce di questo brano si comprende per quale motivo Landolfi
prediligesse lo stile traduttivo di Angelo Maria Ripellino rispetto a quello di Renato Poggioli; in
particolare, egli ne apprezzava la fedeltà filologica e lo sforzo di serbare le sonorità e il senso
preciso dei testi di partenza, come emerge dalla recensione, ben più tarda, alla raccolta di poesie di
Pasternak curata da Ripellino:
Quali siano i criteri ai quali si è ispirato, egli stesso dichiara in una avvertenza là dove dice che si
trovava costretto dal suo «”sistema” di traduzione, che si propone il massimo di fedeltà lirica e
filologica, a trovare in ogni verso, oltre l’alone di magia sonora, il senso preciso delle
espressioni»; quali immense e talvolta insormontabili difficoltà possa avere incontrato nella sua
fatica, risulterà evidente a chi abbia letto ciò che precede; a quali risultati sia giunto, è superfluo
dire a chi conosca il suo valore di studioso e di interprete della letteratura russa (13).
In un articolo di qualche anno precedente, incluso in Gogol’ a Roma e dedicato alla raccolta
della Poesia russa del Novecento allestita da Ripellino (Guanda, ’54), Landolfi parla delle
traduzioni di quest’ultimo affrontando, oltre a quello della letteralità della traduzione, il tema della
traducibilità della poesia, che lo toccherà da vicino quando dovrà occuparsi di tradurre Puškin.
Stavolta la prospettiva sembra differire leggermente e le certezze sul principio di letteralità paiono
venire meno, così come la fiducia nella traducibilità della poesia:
Le versioni di Ripellino sono letterali. E qui calzerebbe la solita questione pregiudiziale, vecchia
quanto il mondo: è traducibile, generalmente parlando, la poesia? Certo che no, per quanta
diligenza e perfino congenialità vi ponga il traduttore: […]. Limitiamo invece la questione e
chiediamoci: nella esigua misura in cui la poesia debba considerarsi traducibile, è da preferire una
versione che, di necessità meno rigorosa, tenti riprendere i ritmi e le movenze originali per
trasferirli se possibile nell’ambito della lingua in cui si traduce, ovvero conviene tenersi contenuti a
una versione letterale e precisa? Qual’è, in altre parole, il minore dei due mali? Quesito aperto,
per quanto ci riguarda, poiché quello che si guadagna da una parte, seguendo una qualunque delle
due vie, si perde dall’altra (14).
L’idea dell’intraducibilità della poesia sembra avvicinare Landolfi ai formalisti russi, nel caso
particolare a Šklovskij, che in un articolo del 1923 affermava:
A rigor di termini, la traduzione è impossibile. […] Gli scrittori che lavorano essenzialmente
impiegando immagini e linguaggio “motori”, come Gogol’ e Leskov, o la strumentazione del verso
e il ritmo, come Puškin, non si possono tradurre, e nessuna versione rispecchierà il testo originale.
Dostoevskij si entusiasmava per l’umanità universale di Puškin, ma Puškin non sarà mai uno
scrittore per tutta l’umanità, mentre tale è potuto diventare lo stesso Dostoevskij, grazie alla
combinazione, nelle sue opere, di un soggetto complicato integrato con materiali filosofici (15).
Dai brani sin qui citati emerge che il principio di fedeltà all’originale risulta centrale nella
riflessione teorica di Landolfi, anche se egli si rende conto che l’idea stessa di fedeltà presenta
anch’essa dei limiti ed è da sottoporre al vaglio della prassi. Anche nel caso della sua personale
attività traduttiva, Landolfi fa della fedeltà alla lettera il cardine del proprio modo di affrontare il
testo tradotto. Lo ribadisce, ad esempio, nell’introduzione ai Racconti di Pietroburgo di Gogol’:
Due parole ora sulla versione. Colla quale, è presto detto, ci siamo studiati di aderire, per quanto
era possibile e ce lo concedevano le elementari leggi della nostra lingua, al testo originale. Di
questo cercammo di riprodurre non solo il piglio, ma persino le incongruenze, i costrutti faticosi, le
ridondanze, i luoghi comuni, le audaci o, se si vuole, arbitrarie temporazioni, la punteggiatura
eccetera. Insomma tutte le più minute particolarità; a costo d’affaticare in qualche luogo anche il
lettore. Che ne avrà, in compenso, un fraseggiato quasi sempre testuale. Non ci parve comunque
nostro diritto intervenire in alcun modo nel contesto (16).
Proprio nella traduzione dei Racconti di Pietroburgo, forse il suo capolavoro, egli cerca di mettere
in pratica tale principio. Un’analisi dettagliata delle traduzioni di Gogol’ è stata condotta di Valeria
Pala (17), che ha insistito molto sulla fedeltà delle traduzioni di Landolfi, mostrando come vi sia
presente un’estrema attenzione all’integrità dell’opera tradotta, ovvero alla lettera del testo, anche
quando ciò produce esiti assai stranianti in italiano. Landolfi riesce a rendere uno degli aspetti
fondamentali della prosa gogoliana, il senso fonico ritmico, rinunciando a porre ordine nel disordine
originario, a vantaggio di una supposta leggibilità del testo per il fruitore italiano. L’approccio
landolfiano al testo di Gogol’ si avvicina alla lettura formalista che ne diede Ejchenbaum, il quale,
in un suo celebre saggio, analizzò il racconto dal punto di vista della “semantica fonica”,
affermando che esso è basato sullo skaz, una tecnica tipicamente russa mirata a riprodurre
l’andamento della dizione orale, e che dunque in esso svolge un ruolo fondamentale l’involucro
fonico della parola che «diventa significante indipendentemente dal significato logico o
materiale» (18). A differenza degli altri traduttori di Gogol’, Landolfi sembra averlo compreso e si
sforza di riprodurre la coloritura emotiva, la sonorità, il ritmo dell’originale. Egli rinuncia ad
addomesticare il testo ed enfatizza le descrizioni di alcuni personaggi, cercando di riprodurne le
espressioni colorite del parlato, come nel caso di Akakij Akakievič, di cui evidenzia i difetti e i tic
linguistici. Egli, inoltre, coglie appieno un’altra caratteristica fondamentale di Gogol’, ovvero la
visione di un reale in cui il fantastico si fa strada aprendosi continui squarci. Tale aspetto era stato
completamente frainteso dalla critica realista, che interpretava l’opera dello scrittore in chiave di
denuncia sociale. Landolfi non attenua il carattere fantastico e grottesco, riuscendo a trasmetterne
nella traduzione il demonismo basso, animalesco che traspare dagli episodi (19).
Le scelte traduttive di Landolfi denotano il suo rifiuto di accettare l’immagine di Gogol’ scrittore
realista, che gli procurò l’accusa da parte di Vitaliano Brancati di scambiare Gogol’ per Poe.
Rinunciando nella traduzione a soluzioni addomesticanti, non considerando i personaggi gogoliani
“umiliati e offesi”, ed estromettendoli dalla loro supposta appartenenza alla letteratura di denuncia,
Landolfi fornisce al lettore italiano un’immagine di Gogol’ più in linea con quanto le più moderne
interpretazioni avrebbero messo in luce negli anni successivi. I Racconti di Pietroburgo sono da
considerare, rispetto alla contesto dell’epoca in cui furono presentati in Italia, un testo straniante, in
quanto proveniente da una lingua e una cultura periferica e riconducibile a un genere non canonico
e marginale nella cultura e nella letteratura dell’epoca. Nell’opera il meccanismo fantastico si
innesta a partire dal quotidiano artificioso e innaturale vissuto dai protagonisti, che viene ribaltato
attraverso l’attività onirica indotta dalla follia, dallo sdoppiamento e dalle situazioni fantastiche e
grottesche in cui essi sono calati. Ne scaturisce una nuova visione della realtà e dei rapporti fra gli
uomini. Landolfi, mirando a rendere il più possibile l’originalità e la letteralità del testo,
rifunzionalizza il discorso fantastico gogoliano per il lettori italiani. La sua operazione, che
valorizza l’alterità linguistica e ideologica del testo, assume i caratteri di un atto sovversivo e di
rottura con il canone dominante.
Va sottolineato che il rispetto del principio di fedeltà propugnato da Landolfi si rifà a una
concezione sostanzialmente tradizionale della traduzione, basata sull’idea che solo l’opera originale
sia portatrice di valore artistico autonomo e, quindi, irriproducibile attraverso una traduzione che
può solo sperare di avvicinarsi all’originale (20). Da ciò ha origine lo scetticismo circa l’opportunità
della traduzione letteraria e in particolare poetica. Tuttavia, circoscrivere l’approccio traduttivo
landolfiano al solo principio di fedeltà o letteralità appare, ad un’analisi più attenta, riduttivo. Egli
mostra di avere un’idea molto più complessa del concetto di fedeltà rispetto a quello di mero
rispetto della lettera, e lo dimostra nella prassi traduttiva con la molteplicità di approcci al testo da
tradurre che utilizza. Se è vero che le sue traduzioni presentano sempre un alto grado di letteralità,
egli non esita ad attuare scelte stilistiche finalizzate al massimo potenziamento espressivo della
lingua d’arrivo, anche laddove ciò implichi una violazione della lettera. Come ha osservato Idolina
Landolfi, lo scrittore «si picca di mantenere un’estrema fedeltà al testo, e poi meravigliosamente
traligna»; egli «non aderisce al testo che traduce, o meglio vi aderisce alla sua maniera: c’è più
Landolfi, naturalmente, che altro nel suo Gogol’, nel suo Leskov o nel suo Tolstoj». Di
conseguenza «l’autore medesimo ne risulta sì per un verso prevaricato, quasi schiacciato, ma al
contempo, e per la medesima ragione, esaltato, rendendo al massimo il suo inconfondibile
odore» (21).
Proprio le traduzioni da Gogol’, così attente alla lettera e alla fedeltà al testo, forniscono numerosi
esempi di tale procedimento (22). Quando Landolfi traduce è sì lucido interprete dell’originale, ma
anche inevitabilmente “scrittore”, in grado di calarsi nell’essenza dell’opera tradotta con modalità
traduttive mai univoche e prestabilite. Ciò appare evidente anche negli incipit di alcune sue
traduzioni che, confrontati con quelli di pur ottimi traduttori, dimostrano quanto la resa di Landolfi
sia più vaga, sospesa, assai lontana da una determinatezza scarsamente poetica e meccanicamente
vicina all’originale (23). Dunque, non è un’univoca aderenza alla lettera che interessa il Landolfi
traduttore, bensì tutti quegli elementi che, combinati assieme, riescono a trasmettere il carattere
essenziale dell’opera, quali la resa dell’originale da un punto di vista semantico e fonico-ritmico,
del suo impatto sul lettore, delle sue peculiarità espressive.
Se nella prosa egli sembra aver trovato, attraverso un approccio non rigido e multiforme alla
traduzione, un equilibrio e una chiave per risolvere le difficoltà connesse al tradurre, fu il compito
di tradurre Puškin a metterlo di nuovo davanti alle criticità del tradurre e, soprattutto, alla questione
della traducibilità della poesia. Come si è visto, già nella recensione del ’37 sull’Onegin di Lo Gatto
Landolfi aveva espresso molte riserve sulle scelte dello slavista, che oscillava «fra una minuziosità
d’interpretazione letterale, portata a ricalcare i nessi più che le immagini liberalmente intese […] e
una libertà di resa ritmica, e anche tonale, in seno alla tradizione italiana» (24), ovvero l’uso
dell’endecasillabo per il novenario giambico dell’originale. Inoltre, egli aveva già rilevato la
necessità di un’estensione del concetto di fedeltà, direzione verso cui sembra muoversi
progressivamente la sua riflessione teorica. Nell’introduzione a Poemi e liriche di Puškin (’60) egli
scrive:
Ma si potrebbe intanto, per esempio, dar luogo a una certa mia perplessità di traduttore, ignoro
bensì se davvero favorevole a Puškin. Essendomi io, cioè, proposto dapprima di tradurre questa
poesia secondo un criterio di puntigliosa trasposizione verbale, ben presto dovetti convincermi
esser quella la maniera più sicura per tradirla e tradire i suoi stessi «valori letterari»; e avendo per
converso tentato di attenermi alle sue musiche, ne ebbi risultato non meno lamentevole (25).
Partendo da una posizione di sostanziale sfiducia sulla possibilità di rendere la poesia in un’altra
lingua, nella prassi Landolfi assume, anche in questo caso, un atteggiamento non riducibile al solo
criterio di fedeltà. Emblematica è la scelta di affidarsi al verso libero: in contraddizione con quanto
dichiarato negli anni ’30, egli trasferisce, in linea con la tendenza novecentesca più diffusa, il
problema della resa poetica del testo originale esclusivamente agli altri livelli testuali, sforzandosi,
dunque, di conservarne la musicalità, il ritmo sintattico, il valore semantico. Inoltre, le sue versioni
puškiniane presentano spesso scelte estreme dal punto di vista espressivo rispetto all’italiano
standard (26). Come scrive Michele Colucci: «il verso di Landolfi, e non solo per l’assenza di rime,
risulta più aspro. […] lo stesso registro linguistico appare più arcaico, più corrivo al vocabolo
ricercato e desueto, qualche volta al toscanismo […]. Sull’altro piatto della bilancia sta però la
puntigliosa fedeltà al testo puškiniano, sta una sensibilità acutissima e sempre vigile, che […] sa
trovare il termine di folgorante pregnanza, ovvero sa riprodurre l’ordito fonico, l’intelaiatura
ritmica» (27).
A proposito di Liriche e poemi di Lermontov, lo scrittore non ha lasciato particolari riflessioni né
dichiarazioni programmatiche sul proprio approccio traduttivo. Analizzando le sue traduzioni,
emerge come il grado di rispetto dell’originale sia molto alto. Landolfi traduce le strofe quasi
interlinearmente, rispetta l’ordine sintattico del verso russo, arrivando a una «torsione
espressionistica»(28) dell’italiano; anche stavolta, però, opta per una resa mista dei metri originali
lermontoviani, basata sull’alternanza di novenari ed endecasillabi. Ne deriva un testo che tradisce
chiaramente il proprio carattere di traduzione, ma che riesce a mantenere il contesto armonico e le
particolarità fonico-ritmiche del testo di partenza (oltre che le incongruenze, le ridondanze,
l’andamento talvolta faticoso). Anche in questo caso, tuttavia, sono ravvisabili passaggi in cui, a
testimonianza dell’approccio multiforme di Landolfi alla traduzione, la presenza del traduttore si fa
più ingombrante e porta, ad esempio, a variazioni lessicali o a soppressioni di parti dell’originale,
come nel caso degli elementi troppo enfatici (29).
Alla luce di questa casistica, emergono due caratteristiche fondamentali dell’approccio traduttivo di
Landolfi: il primo è che il criterio di fedeltà propugnato negli scritti teorici, e l’aderenza assoluta
alle peculiarità più profonde dell’opera tradotta lo spingono a sacrificare, dove serva, la “bella resa”
in italiano, contrariamente alla prassi allora più diffusa; il secondo è che egli avverte i limiti del
concetto di fedeltà e passa progressivamente a considerarlo, da mero rispetto della lettera, come
qualcosa che investe un livello superiore, quello del rispetto lirico e di senso, da lui chiamato
“tono”, “piglio”, essenziale per trasmettere un’immagine autentica dell’opera e del suo autore. In
alcuni casi Landolfi non esita a sacrificare la fedeltà comunemente intesa al massimo
potenziamento espressivo della lingua d’arrivo e a intervenire di propria mano sull’opera tradotta.
Inoltre, sul piano teorico e pratico, egli mostra grandissima considerazione dell’alterità del testo di
partenza. Da qui la ragione per cui non esita ad adottare soluzioni che, nel senso di una stringente
letteralità o, al contrario, di una forzatura espressiva nella lingua d’arrivo, appaiono fortemente
stranianti per la cultura ricevente. Le sue riflessioni sembrano sposare il principio espresso da
Lotman, per cui «il linguaggio poetico non conosce una ripetizione semantica assoluta, perché la
stessa unità lessicale o perfino semantica, nella ripetizione, si viene a trovare in una posizione
strutturale diversa e, di conseguenza, assume un nuovo senso» (30). Ma non solo: quando Landolfi
afferma che nella riformulazione di un testo originale è inevitabile dare vita a nuovi rapporti di
vario genere, e che il testo ricreato entra a far parte di una nuova tradizione, egli appare ben
consapevole che la cultura che lo riceve ne ha inevitabilmente una propria percezione, diversa di
quella della cultura d’origine; tale consapevolezza sembra anticipare ciò che i moderni approcci dei
Translation Studies avrebbero messo in luce decenni più tardi, cioè che la traduzione è un prodotto
autonomo e creativo dotato di una specifica valenza culturale, in quanto atto dinamico che agisce
nel contesto socio-culturale in cui è prodotto (31). Naturalmente la riflessione teorica di Landolfi
non poteva ancora spingersi sino a questo punto e ciò spiega il suo pessimismo di fondo riguardo
alla possibilità di rendere l’alterità del testo tradotto nella cultura di arrivo e l’utilizzo da parte sua
di modalità traduttive di volta in volta differenti, in cerca del compromesso migliore.
La cosa importante da evidenziare in questo contesto è, dunque, che Landolfi, attraverso la propria
attività traduttiva e le riflessioni teoriche ad essa correlate, fornì un grandissimo apporto alla
moderna traduzione, indirizzandola verso criteri di serietà e rigore, di cui la tradizione italiana
dell’epoca difettava. D’altro canto, pur cercando con ogni sforzo di restituire un’immagine il più
autentica possibile degli autori tradotti, egli fu sempre ben consapevole dei limiti del concetto di
fedeltà, avvertendo con grande lucidità che il processo traduttivo inevitabilmente manipola e adatta
il testo di partenza, rispondendo soprattutto al canone della cultura ricevente e alle sue regole.
NOTE
(1) Si pensi, per esempio, alla ricca galleria di “uomini del sottosuolo” landolfiani che sembrano
trovare i loro antecedenti in Gogol’ o Dostoevskij; agli accenti dostoevskiani in opere quali Maria
Giuseppa, Cancroregina o La muta; alla fascinazione per la Kaštanka di Čechov che sembra
reincarnarsi nella cagnetta protagonista di Favola; o ancora, a Racconto d’autunno, un vero calco
del racconto di Ivan Bunin, La grammatica dell’amore.
(2) IDOLINA LANDOLFI, «Il piccolo vascello solca i mari». Tommaso Landolfi e i suoi editori.
Bibliografia degli scritti di e su Landolfi (1929-2006), Cadmo, Firenze 2015, vol. I, A carte
scoperte, p. 26.
(3) TOMMASO LANDOLFI, Rien va, in ID., Opere II (1960-1971), a cura di Idolina Landolfi,
Rizzoli, Milano 1992, p. 282.
(4) Ivi, p. 316. Sull’insofferenza di Landolfi verso la traduzione e il rapporto conflittuale con gli
autori tradotti si veda IDOLINA LANDOLFI, L'”infernale lavoro” del Landolfi traduttore, in «La
Scrittura», n. 2. 1996, pp. 6-14.
(5) I due racconti tolstoiani sono Tre morti e La morte di Ivan Il’ič, pubblicati su «Occidente» VII,
aprile-giugno 1934, pp. 7-20. I Racconti di Pietroburgo uscirono per Rizzoli nella collana «Il sofà
delle muse» diretta da Leo Longanesi.
(6) L’antologia fu ripubblicata da Vallecchi nel 1960 con il titolo Racconti russi, collana
«Cederna».
(7) ALEKSANDR PUŠKIN, Poemi e liriche, versioni, introduzione e note di Tommaso Landolfi,
Einaudi, Torino 1960, collana «I Millenni»; ID., Teatro e favole, Einaudi, Torino 1961, collana «I
Millenni»; MICHAIL LERMONTOV, Liriche e poemi, Einaudi, Torino 1963, collana «Nuova
Universale Einaudi»; Fëdor Tjutčev, Poesie, Einaudi, Torino 1964, Collezione di Poesia, con
prefazione di Angelo Maria Ripellino; Nikolaj Leskov, Il viaggiatore incantato, Einaudi, Torino
1967, collana «Nuova Universale Einaudi».
(8) TOMMASO LANDOLFI, Inediti di Leone Tolstoj, in «Occidente», a. III, vol. VII, aprilegiugno 1934, p. 7.
(9) RENATO POGGIOLI, La violetta notturna. Antologia di poeti russi del Novecento, Giuseppe
Carabba Editore, Lanciano 1933.
(10) TOMMASO LANDOLFI, Recensione a Renato Poggioli, La violetta notturna. Antologia di
poeti russi del Novecento, Carabba, Lanciano 1933, in «Occidente», a. III, vol. VI, gennaio – marzo
1934, p. 135. Landolfi si riferisce a un verso della Sconosciuta di Aleksandr Blok, dove gli occhi di
alcuni ubriachi sono paragonati a quelli dei conigli.
(11) ID., Puškin, in «Meridiano di Roma», a. II, n. 35, 29 agosto 1937, p. VIII.
(12) Ibid.
(13) ID., Pasternak col batticuore, in ID., Gogol’ a Roma, Adelphi, Milano 2002, p. 403,
recensione a BORIS PASTERNAK, Poesie, introduzione, traduzione e note di Angelo Maria
Ripellino, Einaudi, Torino 1957.
(14) TOMMASO LANDOLFI, Il Parnaso russo, in ID., Gogol’ a Roma, cit., pp. 180-181.
(15) VIKTOR ŠKLOVSKIJ, Letteratura e cinema, in GIORGIO KRAISKI, I formalisti russi nel
cinema, Garzanti, Milano 1971, p. 114.
(16) TOMMASO LANDOLFI, Introduzione, in NIKOLAJ GOGOL’, Racconti di Pietroburgo,
trad. da Tommaso Landolfi, Rizzoli, Milano 1941, p. 13.
(17) VALERIA PALA, Tommaso Landolfi traduttore di Gogol’, Bulzoni, Roma 2009, pp. 203-268.
Lo studio di Pala è condotto sulle traduzioni gogoliane di Landolfi, Ciampoli, Carafa d’Andria,
Alvaro, Zveteremich, Bazzarelli e Prina.
(18) BORIS EJCHENBAUM, Come è fatto il cappotto di Gogol’, in TSVETAN TODOROV, I
formalisti russi, Einaudi, Torino 1968, p. 254.
(19) Già in una recensione del ’35, Landolfi aveva posto in evidenza la relazione fra le
personificazioni demoniache dei racconti gogoliani e le deformazioni fantastiche che in essi si
ritrovano; si veda TOMMASO LANDOLFI, Religiosità di Gogol, in «L’Italia letteraria», a. XI, n.
16, 20 aprile 1935, p. 2.
(20) Si tratta del classico approccio dichiarato già da Schleiermacher (1813): «l’obiettivo di tradurre
come l’autore stesso avrebbe originariamente scritto nella lingua della traduzione non soltanto è
irraggiungibile, ma anche in sé vuoto e assurdo; chi, infatti, riconosce la virtù formatrice della
lingua, e come essa sia un tutt’uno con la peculiarità della nazione, deve anche ammettere che di
solito l’intera scienza dei grandi pensatori, compresa la possibilità di esprimerla, si è formata con e
attraverso la lingua»; FRIEDRICH SCHLEIERMACHER, Sui diversi modi di tradurre, in La
teoria della traduzione nella storia, a cura di Siri Nergaard, Bompiani, Milano 1993, pp. 167-168.
(21) IDOLINA LANDOLFI, L’«infernale lavoro» del Landolfi traduttore, cit., p. 14.
(22) Mi limito qui a citare un breve ma significativo passo dal Naso: «Gde eto, zver’ otrezal nos? −
zakričala ona s gnevom. − Mošennik! Pjanica! Ja sama na tebja donesu policii. Razbojnik kakoj!»;
Landolfi traduce: «Dove diamine sei andato a staccare un naso, animale? − gridò essa con ira. −
Radica di furfante! Ubriacone! Io stessa voglio denunziarti alla polizia! Guarda un po’ che razza di
masnadiero!». Appaiono evidenti le forzature, peraltro efficacissime, costituite da “radica di
furfante” per mošennik (lett. “truffatore”) e “masnadiero” per razbojnik (lett. “furfante”). Gli esempi
di questo genere nei Racconti di Pietroburgo sono moltissimi.
(23) Faccio mio l’esempio citato da Pia Pera (Tommaso Landolfi nello specchio russo, in Landolfi
libro per libro. Atti del convegno, Pico e Frosinone, 17-18-19 dicembre 1987, a cura di Tarcisio
Tarquini, Hetea Editrice, Alatri 1988, p. 36), che confronta l’esordio del Viaggiatore incantato di
Leskov tradotto da Landolfi e Lo Gatto. Landolfi traduce: “Navigavamo per il Ladoga dall’isola
Kovenec a Valaam e cammin facendo approdammo per qualche occorrenza del battello al porto di
Korela. Qui molti di noi ebbero la curiosità di scendere a terra e andarono su baldi cavallini
finlandesi in quella solitaria cittaduzza. Poi il capitano si dispose a seguitare il viaggio, e
ripartimmo (NIKOLAJ LESKOV, Il viaggiatore incantato, trad. di Tommaso Landolfi, Adelphi,
Milano 2010, p. 9). Lo Gatto invece traduce: “Navigavamo sul lago di Ladoga dall’isola di Kovenec
a Valaam e lungo il viaggio per necessità della navigazione il piroscafo si fermò nel porto di Korela.
Qui molti di noi ebbero curiosità di scendere a terra e si recarono su buoni cavallini finnici nella
piccola città deserta. Poi il capitano ordinò di continuare e ci staccammo di nuovo dalla riva”
(NIKOLAJ LESKOV, L’angelo sigillato – Il viaggiatore incantato, trad. di Ettore Lo Gatto,
Garzanti, Milano 1973, p. 93).
(24) TOMMASO LANDOLFI, Puškin, cit., p. VIII.
(25) ID, Introduzione, in ALEKSANDR PUŠKIN, Poemi e liriche, cit., p. 22.
(26) Si veda il seguente esempio tratto dalla lirica «V’amai: l’amore, forse, tuttavia» (1829): la
frase russa “Kak daj vam Bog ljubima byt’ drugim“, la cui traduzione letterale suona “Come dia a
voi Dio amata d’essere da un altro”, è resa da Landolfi con un’inversione ancora più estrema, ossia
“Come vi dia che un altro v’ami Iddio” (L’esempio è riportato anche da ANNELISA
ALLEVA, Tommaso Landolfi e Aleksandr Sergeevič Puškin, in «Diario perpetuo», Bollettino del
Centro Studi Landolfiani, a. IV, n. 4, 1999, p. 11.)
(27) MICHELE COLUCCI, Le traduzioni italiane del Novecento di poesia puškiniana, in ID., Tra
Dante e Majakovskij. Saggi di letterature comparate slavo-romanze, introduzione e cura di Rita
Giuliani, Carocci, Roma 2007, p. 266.
(28) VALENTINA PARISI, Tommaso Landolfi traduttore di Michail Lermontov, in Da poeta a
poeta. Del tradurre la poesia, Atti del convegno, Lecce, 20-22 ottobre 2005, a cura di Alizia
Romanovic e Gloria politi, Pensa MultiMedia, Lecce 2007, p. 609.
(29) Valentina Parisi rileva ad esempio la «sistematica strage» dell’esclamazione “Oh!”,
l’eliminazione di raddoppiamenti pleonastici di verbi o sostantivi, l’utilizzo di parole diverse nel
caso dello stesso termine nell’originale, il rifiuto di termini troppo abusati,
come demon (VALENTINA PARISI, Tommaso Landolfi traduttore di Michail Lermontov, cit., pp.
614-615).
(30) JURIJ LOTMAN, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Mursia, Milano 1972,
p. 151.
(31) Vale la pena qui citare l’apporto di Itamar Even-Zohar, per cui la traduzione, in quanto sistema
strutturato, agisce all’interno del polisistema letterario di una cultura come letteratura a tutti gli
effetti. Even-Zohar introduce, dunque, un principio dinamico nella traduzione prima assente, e
sostiene che essa assuma un ruolo primario o secondario in base alle circostanze che agiscono nel
polisistema; in polisistemi consolidati, come quello angloamericano, la letteratura tradotta mantiene
una posizione secondaria, in quelli più deboli, partecipa, invece, alla creazione di canoni linguistici
e culturali (si veda, ad es., ITAMAR EVEN-ZOHAR, La posizione della letteratura tradotta
all’interno del polisistema letterario, in Teorie contemporanee della traduzione, a cura di Siri
Nergaard, Bompiani, Milano 1995, pp. 225-238). Sulla scia di Even-Zohar, Venuti ha sostenuto il
potere della traduzione nella conservazione o revisione dei canoni letterari e dei paradigmi
concettuali dominanti. A lui si deve la distinzione fra due tipi di traduzione: quella addomesticante,
e quella straniante. La prima corrisponde, sostanzialmente, alla “bella infedele”, molto diffusa nella
cultura occidentale (e a essa Venuti attribuisce un subdolo carattere politico e ideologico in quanto
riduzione etnocentrica del testo straniero ai valori culturali della lingua d’arrivo); l’altra consiste
nella registrazione e nella valorizzazione della differenza linguistica e culturale del testo straniero
(si vedano: LAWRENCE VENUTI, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione,
Armando Editore, Roma 1999; ID., La formazione delle identità culturali, in Spettri del potere, a
cura di C. Bianchi, C. Demaria, S. Nergaard, Meltemi, Roma 2003; ID., The Scandals of
Translation, Routledge, London-New York 1998). Altri studi fondamentali in questo tipo di
approccio sono: HENRI MESCHONNIC, Poétique du traduire, Verdier, Lagrasse 1999;
GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK, The Politics of Translation, in The Translation Studies
Reader, a cura di L. Venuti, Routledge, London − NewYork 2012, pp. 369-378.