Academia.eduAcademia.edu

Palestinesi in Esilio il Femminismo oltre gli Stereotipi

2018, Rivista DWF - Donne Women Femme

Cosa significa essere una donna palestinese nata e cresciuta nella shatat occidentale? Significa dare voce alla complessa consapevolezza femminista che caratterizza la lotta palestinese. Una lotta che non ha un nemico solo, che non cerca 'solamente' una liberazione di genere ma che è radicata nella consapevolezza della complessità storica del concetto di patriarcato e del suo impatto profondo sulle strutture sociali che spesso condizionano le relazioni ed i rapporti di potere nel mondo arabo ma anche in Occidente. Essere una donna palestinese nella diaspora occidentale significa cercare di tradurre questa consapevolezza in un linguaggio che possa essere pienamente compreso dal femminista internazionale, sfatando preconcetti riduttivi su chi sono, come vivono e come e perch lottano le donne palestinesi. In questo senso, essere una donna palestinese della diaspora occidentale significa confrontarsi costantemente con il retaggio o, azzarderei, l’abitudine coloniale dell’Occidente e la conseguente retorica buonista –ma anche arrogante- del salvatore bianco, che vede le donne arabe come eterne vittime di un sistema (solitamente religioso, islamico) di oppressione patriarcale, incapaci di emanciparsi e lottare da sé e per sé. Significa saper contestualizzare e ancorare la lotta femminista palestinese nel quadro piu' ampio della lotta di liberazione da un sistema coloniale imposto sull'intero popolo palestinese, un sistema di oppressione che si basa e perpetra dinamiche di patriarcato.

Palestinesi in Esilio. Il Femminismo oltre gli Stereotipi Mjriam Abu Samra In “Palestina. Femminismi e Resistenza”, Rivista DWF - Donna Women Femme, Luglio 2018 “[…] I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger So who's that brown woman screaming in a demonstration? Sorry. Should I not scream? I forgot to be your every orientalist dream, genie in a bottle, belly dancer, harem girl, soft spoken Arab woman - 'Yes master. No master. Thank you for the peanut butter sandwiches raining down on us from your F16s master.' Yes my liberators are here to kill my children and call them collateral damage […]”1 “[...] Sono una donna araba di colore, vestiamo tutti i colori della rabbia Chi è quella donna scura che urla durante una manifestazione? Scusate. Non dovrei urlare? Ho dimenticato di essere il tuo sogno orientalista, il genio della lampada, la ballerina del ventre, la giovane nell’harem, la donna araba con la voce dolce -‘Sì padrone. No padrone. Grazie per i sandwiches alla crema di arachidi che ci piovono addosso dai tuoi F16 padrone.’ Sì i miei liberatori sono qui per uccidere i miei figli e chiamarli danni collaterali [...]” Questi versi della poetessa palestinese Rafif Ziadeh -che ho tentato di tradurre- sono la prima risposta, immediata, convinta, che ho sentito di dare quando mi è stato chiesto cosa significa essere una donna palestinese nata e cresciuta nella shatat occidentale. 2 Io sono uno dei tanti colori della rabbia e della complessa consapevolezza femminista che caratterizza la lotta palestinese. Infatti, mi sarebbe impossibile definire la mia identità di donna araba in Occidente senza inserire la mia esperienza nel contesto più ampio del femminismo palestinese e senza analizzare le mille sfumature di quella rabbia femminista di cui parla Ziadeh. Una rabbia che ha radici profonde, che nasce dalla volontà di dare voce e forma ad una lotta che non ha un nemico solo, che non cerca ‘solamente’ una liberazione di genere ma che è radicata nella consapevolezza della complessità storica del concetto di patriarcato e del suo impatto profondo sulle strutture sociali che spesso condizionano le relazioni ed i rapporti di potere nel mondo arabo ma anche in Occidente. Essere una donna palestinese nella diaspora occidentale significa cercare di tradurre questa consapevolezza in un linguaggio che possa essere pienamente compreso dal movimento Rafif Ziadeh ‘Shades of angers’ disponibile https://www.youtube.com/watch?v=m2vFJE93LTI La traduzione letteale del termine Shatat è "Diaspora". È necessario precisare che la definizione di "Diaspora" non descrive pienamente la dimensione reale dell’esilio palestinese in quanto "accetta una situazione di dispersione (...) che implica l'astrazione del diritto al ritorno. Qualificare quella palestinese come una Diaspora significa eliminare il linguaggio necessario per cambiare la loro situazione" (Kudmani). Tuttavia, per facilitare la lettura userò il termine diaspora rimandando però ai limiti qui precisati. 1 2 femminista internazionale, sfatando preconcetti riduttivi su chi sono, come vivono e come e perch è lottano le donne palestinesi. Significa contribuire alla lotta di liberazione delle donne e di tutto il popolo palestinese in un contesto diverso, con strumenti diversi, capaci di farsi comprendere da una società e una cultura dominate dalla retorica dello scontro di civiltà in cui gli arabi, o ancora più genericamente i musulmani, sono ‘gli altrì, il diverso che incute paura. In questa dicotomia, del noi contro loro, la condizione delle donne arabe viene presentata spesso come emblema evidente e imbarazzante dell’arretratezza di un popolo che non sa modernizzarsi, che va ‘educato’ o civilizzato in una –spesso anche inconsapevole- dinamica neocoloniale. Questo approccio, paradossalmente, non fa altro che legittimare e riprodurre una immagine delle donne come ‘soggetti privi di agenzia’, incapaci di agire o lottare indipendentemente, senza un intervento salvifico esterno. Una visione che le riduce così, nuovamente, a vittime di quella stessa dinamica di potere che in principio si vuole combattere. In questo senso, essere una donna palestinese della diaspora occidentale significa confrontarsi costantemente con il retaggio o, azzarderei, l’abitudine coloniale dell’Occidente e la conseguente retorica buonista –ma anche arrogante- del salvatore bianco, che vede le donne arabe come eterne vittime di un sistema (solitamente religioso, islamico) di oppressione patriarcale, incapaci di emanciparsi e lottare da sé e per sé. La donna araba che da buoni samaritani si vuole liberare è lo stereotipo esotico a cui fa riferimento Ziadeh nella sua poesia. È la donna sottomessa, incapace di rivendicare i suoi diritti. È la donna che non potrà ‘non’ riconoscere la superiorità dei valori occidentali, unici garanti della sua libertà. Poco importa se quei valori sono gli stessi che uccidono i suoi figli, che hanno creato e difeso per secoli uno dei più complessi meccanismi di oppressione della storia dell’uomo, il colonialismo; e che oggi sono complici dell’ennesima ingiustizia, di un progetto di colonialismo d’insediamento e pulizia etnica ancora in corso, quello sionista. Ed è esattamente in questa contraddizione dell’impianto culturale e politico dell’Occidente che si forma la mia identità di donna palestinese in diaspora. È da qui che nasce la mia rabbia. È dalla necessità di relazionarmi ad un sistema che ancora si rapporta in maniera orientalista al mondo arabo, elogiando al contempo in maniera sperticata Israele quale ‘unica democrazia del Medioriente’ ed esaltandone le politiche di uguaglianza di genere, che si forma la mia consapevolezza di donna oppressa da un sistema patriarcale molto più complesso di quello che siamo abituati a denunciare: un patriarcato strutturale, talmente onnipresente da diventare quasi impercettibile, un patriarcato culturale e politico che condiziona l’intero sistema internazionale e i rapporti sociali e politici che lo caratterizzano al micro e macro livello. In questo senso, i versi di Ziadeh sono ancora una volta rivelatori. La sua poesia prosegue: “[…] And did you hear my sister screaming yesterday, as she gave birth at a checkpoint with Israeli soldiers looking between her legs for their next demographic threat? Called her baby girl Janeen And did you her Amna Muna screaming behind her prison bars as they tear-gassed her cell? ‘We are returning to Falasteen’ I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger But you tell me this womb inside of me will only bring you your next terrorist Beard wearing, gun waving, towel head, sand nigger You tell me I send my children out to die. But those are your 'copters, your F16s in our skys […]”3 “[...] E hai sentito mia sorella urlare ieri, mentre partoriva ad un checkpoint con soldati israeliani che cercavano tra le sue gambe la loro ennesima minaccia demografica? Ha chiamato sua figlia Jenin. E hai sentito Amna Muna che urlava da dietro le sbarre della prigione mentre le lanciavano lacrimogeni in cella? “Ritorniamo in Palestina” Io sono una donna araba di colore e vestiamo tutti i colori della rabbia Ma tu mi dici che questo utero, dentro di me, può solo dare alla luce il tuo prossimo terrorista, con la barba lunga, armato, col turbante in testa, un negro del deserto Mi dici che mando i miei figli a morire ma quelli sono i tuoi elicotteri, i tuoi F16 nel nostro cielo [...] “ Ziadeh sottolinea come il progetto sionista di colonizzazione della Palestina e annichilimento, cancellazione fisica e culturale del popolo indigeno, sia caratterizzato da una forte componente di eteropatriarcato che svilisce le donne, le considera esclusivamente in funzione della loro capacità riproduttiva e cerca in questo contesto di controllarne la vita e la morte. Riprendendo le analisi di due famose intellettuali arabe femministe, Rana Sharif e Nadera Shalhoub-Kevorkian, il professor David Lloyd dell’ Università di California di Riverside, ha spiegato che il progetto di colonialismo di insediamento sionista dipende da, e si basa su, strategie di dominazione incentrate su relazioni di genere tipiche delle società coloniali. 4 In particolare, le donne palestinesi, nelle diverse geografie in cui si trovano, continuano a confrontarsi e a combattere le pratiche di controllo del corpo -o per usare la definizione di Foucault, le ‘strategie biopolitiche’- sioniste, ma anche della vita e della morte della popolazione oppressa (quella che Mbembe definisce ‘necropolitica’).5 Israele impone il suo potere sulla vita e sulla morte delle donne palestinesi regolandone i movimenti e addirittura, spesso, la possibilità di procreare, impedendo, per esempio, l’accesso a strutture mediche, o il passaggio ai checkpoint nella Cisgiordania occupata. A queste forme di controllo biopolitico, necropolitico e anche geopolitico, si aggiunge la narrativa sionista che identifica tutte le donne palestinesi come potenziali ‘bombe demografiche’. Queste pratiche di dominazione fisica ma anche psicologica si associano inoltre alla violenza strutturale dell’occupazione sionista e al controllo dell’economia della popolazione palestinese: tutti questi fattori congiunti hanno avuto un enorme impatto sul tessuto sociale palestinese e ne hanno favorito la frammentazione e l’incapacità di superare forme obsolete di patriarcato. Ziadeh ‘Shades of angers’ David Lloyd, "It Is Our Belief That Palestine Is a Feminist Issue...," Feminists@law 4, no. 1 (2014) https://journals.kent.ac.uk/index.php/feministsatlaw/rt/printerFriendly/107/282. 5 Nadera Shalhoub-Kevorkian, "Palestinian Feminist Critique and the Physics of Power: Feminists Between Thought and Practice," Feminists@law 4, no. 1 (2014) 3 4 Il sionismo, e il suo impianto culturale paradossalmente elogiato in Occidente per la sua politica di sostegno ai diritti delle donne e LGBTQ, continua a riprodurre le stesse dinamiche di oppressione di genere che il colonialismo occidentale un tempo, e l’imperialismo culturale e politico contemporaneo di oggi, hanno da sempre imposto.6 Ed è contro questo tipo di eteropatriarcato che da oltre un secolo le donne palestinesi lottano. Solo tenendo presente questo complesso quadro storico-politico, il femminismo palestinese può essere effettivamente compreso nella sua portata rivoluzionaria, superando la visione comune della donna araba come vittima passiva di un sistema retrogado. La storia del femminismo in Palestina è infatti fortemente intrecciata con la storia del movimento di liberazione nazionale e l’ideologia rivoluzionaria che lo ha caratterizzato almeno fino alla crisi politica innescata dagli accordi di Oslo e drammaticamente degenerata negli anni più recenti. Il movimento di liberazione ha visto, infatti, una considerevole partecipazione delle donne nelle pratiche di resistenza sociali e politiche in chiave anti-coloniale. Questa partecipazione attiva e’ sintomatica del ruolo fondamentale svolto dalle donne nella società palestinese e dell’influenza, anche politica, che sono state in grado di esercitare nell’elaborazione ideologica e strategica del movimento. Diversi studi sulla declinazione femminile della lotta di liberazione hanno individuato due ambiti principali a cui le donne hanno contribuito: quello più strettamente militante e politico, e quello sociale. Più volte si e’ sottolineato come, ad esempio, dalla fine degli anni ‘60 in poi, pur non avanzando in maniera adeguatamente proporzionale tra i ranghi della leadership del movimento, le donne palestinesi siano state protagoniste di numerose azioni militari, abbiano partecipato a esercitazioni armate e abbiano contribuito attivamente alla resistenza palestinese. 7 In questo senso, una delle icone del diritto alla resistenza armata palestinese è stata –ed è ancora- una donna, Leila Khaled; e ancora Shadia Abu Ghazaleh, meno conosciuta a livello internazionale ma anch’essa esempio di grande coraggio femminile nella narrativa palestinese. Mogannam, dottoranda all’Universita di California a San Diego, ha dimostrato, in questo contesto, come per esempio gli anni libanesi dell’OLP siano stati caratterizzati da una massiccia partecipazione delle donne sia palestinesi che libanesi tra le fila delle diverse fazioni schierate nella guerra civile. 8 Numerosi sono anche gli studi che hanno evidenziato il ruolo centrale delle donne in una forma di resistenza ‘meno politica’, di stampo più prettamente sociale e quotidiano: le donne per decenni hanno tenuto insieme il tessuto sociale palestinese, sono state loro le artefici del sumud, della resilienza con cui ogni giorno il popolo palestinese ha affrontato l’oppressione dell’occupazione. In questo senso, è ormai ampliamente dimostrato che durante la prima intifada sono state le donne a garantire continuità alla lotta tramite la loro capacità auto-organizzativa e 6 Lloyd, "It Is Our Belief That Palestine Is a Feminist Issue...," Jennifer Mogannam, LNM-PLO Alliance : Unified Interests, Divided Power, MA diss., American University of Beirut, 2012, 8 Mogannam, LNM-PLO Alliance : Unified Interests, Divided Power 7 alla cooperazione nella sfera sociale e privata. Centrale alla storia palestinese è l’impegno delle donne nell’Unione Generale delle Donne Palestinesi (GUPW): formatasi già nel 1963, l’Unione è stata tra le prime organizzazioni popolari ricostituitesi nel periodo post-Nakba. Aveva sedi in tutto il mondo ed ha contribuito attivamente alla riorganizzazione della frammentata società palestinese e all’elaborazione di strategie e ideologie politiche del movimento di resistenza. 9 In questo contesto, credo sia necessario guardare alle diverse forme di partecipazione femminile alla vita politica palestinese nel suo insieme per apprezzarne le istanze rivoluzionarie e femministe. Le dimensioni ‘militante’ e ‘sociale’ non possono essere scisse: sono due strategie che scaturiscono dalla stessa visione, una visione che interpreta la liberazione nazionale dall’oppressione coloniale come il primo passo necessario per l’emancipazione sociale e di conseguenza per il superamento della struttura patriarcale e il raggiungimento dell’uguaglianza di genere. In questo senso, il femminismo palestinese ha contribuito ad una analisi più sofisticata e radicale del patriarcato individuandone il legame inscindibile con il sistema imperialista. La liberazione nazionale e sociale, quindi, sono considerate due facce della stessa medaglia e sono state concepite in una visione rivoluzionaria ed internazionalista della lotta congiunta dei popoli oppressi. Questa portata rivoluzionaria del femminismo palestinese è stata per troppo tempo ignorata dal femminismo ‘mainstream’ internazionale che ha così fallito nell’individuare anche i meccanismi di causa e effetto che hanno impedito una reale emancipazione delle donne nel tempo (non solo nel mondo arabo di fatto). Se, infatti, come ho anticipato, negli anni ‘60, ‘70 e fino alla prima intifada, il successo del movimento di liberazione si è tradotto anche in una forma di emancipazione femminile, con la crisi politica e strategica delle istituzioni palestinesi, cristallizzata dagli accordi di Oslo, anche il processo di avanzamento sociale si è relativamente arrestato. Infatti, le nuove forme ancora più asfissianti di controllo geopolitico e le limitazioni di movimento imposte dall’occupante, la dipendenza economica sempre più stringente della società palestinese da Israele e dalla comunità internazionale, l’annichilimento totale di ogni forma di resistenza popolare anche per mano della stessa classe dirigente palestinese costretta ormai a servire da garante degli interessi di Israele e, per finire, la ONGizzazione di tante iniziative popolari, hanno avvilito i tentativi di emancipazione sociale e in alcuni casi hanno addirittura favorito un regredimento delle istanze di liberazione sociale che erano state fin lì soddisfatte. È in questo complesso quadro storico e politico, che sottolinea le responsabilità del progetto coloniale sionista e dell’imperialismo occidentale che lo sostiene, che la questione femminile palestinese andrebbe analizzata per essere meglio compresa. Le donne palestinesi ed arabe non hanno bisogno di ‘essere salvate’ da un sistema patriarcale che loro hanno saputo comprendere 9 Si veda per esempio Laurie A. Brand, The Palestinians in the Arab World: Institution Building and the Search for State (New York: Columbia University Press, 1988) ed affrontare storicamente. Hanno invece bisogno di una solidarietà internazionalista che riconosca le responsabilità occidentali anche nel sostenere e riprodurre quel sistema patriarcale. Il paradosso del femminismo ‘mainstream’ occidentale è che finisce invece per rafforzare discorsi orientalisti e dinamiche di oppressione che di fatto impediscono alle donne palestinesi di liberarsi davvero. Non è mia intenzione sminuire le difficoltà della condizione femminile in Palestina è n sottovalutare lo stato di subordinazione ed oppressione a cui le donne sono costrette nel sistema patriarcale che caratterizza mondo arabo (e non solo), ma da donna palestinese in Occidente ritengo indispensabile problematizzare maggiormente la discussione, onde superare le banalizzazioni insite in una percezione superficiale del femminismo arabo e palestinese. Da donna araba di colore intendo, qui, rivendicare la mia identità, la mia volontà di “liberarmi” dagli stereotipi orientalisti di cui siamo investite. E la nostra storia di femministe rivoluzionarie. Da donna palestinese in esilio intendo esprimere tutta la mia rabbia, per l’incapacità della narrativa dominante di comprendere la portata rivoluzionaria e femminista della lotta del mio popolo e del ruolo della donna in questa lotta. “I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger So let me just tell you, this womb inside of me will only bring you your next rebel She'll have a rock in one hand and a Palestinian flag in the other I am an Arab woman of color Beware, beware, my anger”10 “Sono una donna araba di colore Vestiamo tutti i colori della rabbia Ti voglio avvisare, questo utero dentro di me darà alla luce solo la tua prossima rivoluzionaria Avrà una pietra in una mano e la bandiera palestinese nell’altra Sono una donna araba di colore Stai attento, stai attento alla mia rabbia.” 10 Ziadeh ‘Shades of angers’