Palestinesi in Esilio. Il Femminismo oltre gli Stereotipi
Mjriam Abu Samra
In “Palestina. Femminismi e Resistenza”, Rivista DWF - Donna Women Femme, Luglio 2018
“[…] I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger
So who's that brown woman screaming in a demonstration?
Sorry. Should I not scream?
I forgot to be your every orientalist dream, genie in a bottle, belly dancer, harem girl, soft spoken Arab
woman - 'Yes master. No master. Thank you for the peanut butter sandwiches raining down on us from
your F16s master.'
Yes my liberators are here to kill my children and call them collateral damage […]”1
“[...] Sono una donna araba di colore, vestiamo tutti i colori della rabbia
Chi è quella donna scura che urla durante una manifestazione?
Scusate. Non dovrei urlare?
Ho dimenticato di essere il tuo sogno orientalista, il genio della lampada, la ballerina del ventre, la
giovane nell’harem, la donna araba con la voce dolce -‘Sì padrone. No padrone. Grazie per i sandwiches
alla crema di arachidi che ci piovono addosso dai tuoi F16 padrone.’
Sì i miei liberatori sono qui per uccidere i miei figli e chiamarli danni collaterali [...]”
Questi versi della poetessa palestinese Rafif Ziadeh -che ho tentato di tradurre- sono la prima
risposta, immediata, convinta, che ho sentito di dare quando mi è stato chiesto cosa significa
essere una donna palestinese nata e cresciuta nella shatat occidentale. 2
Io sono uno dei tanti colori della rabbia e della complessa consapevolezza femminista che
caratterizza la lotta palestinese.
Infatti, mi sarebbe impossibile definire la mia identità di donna araba in Occidente senza inserire
la mia esperienza nel contesto più ampio del femminismo palestinese e senza analizzare le mille
sfumature di quella rabbia femminista di cui parla Ziadeh. Una rabbia che ha radici profonde,
che nasce dalla volontà di dare voce e forma ad una lotta che non ha un nemico solo, che non
cerca ‘solamente’ una liberazione di genere ma che è radicata nella consapevolezza della
complessità storica del concetto di patriarcato e del suo impatto profondo sulle strutture sociali
che spesso condizionano le relazioni ed i rapporti di potere nel mondo arabo ma anche in
Occidente.
Essere una donna palestinese nella diaspora occidentale significa cercare di tradurre questa
consapevolezza in un linguaggio che possa essere pienamente compreso dal movimento
Rafif Ziadeh ‘Shades of angers’ disponibile https://www.youtube.com/watch?v=m2vFJE93LTI
La traduzione letteale del termine Shatat è "Diaspora". È necessario precisare che la definizione di "Diaspora" non
descrive pienamente la dimensione reale dell’esilio palestinese in quanto "accetta una situazione di dispersione (...)
che implica l'astrazione del diritto al ritorno. Qualificare quella palestinese come una Diaspora significa eliminare il
linguaggio necessario per cambiare la loro situazione" (Kudmani). Tuttavia, per facilitare la lettura userò il termine
diaspora rimandando però ai limiti qui precisati.
1
2
femminista internazionale, sfatando preconcetti riduttivi su chi sono, come vivono e come e
perch è lottano le donne palestinesi. Significa contribuire alla lotta di liberazione delle donne e
di tutto il popolo palestinese in un contesto diverso, con strumenti diversi, capaci di farsi
comprendere da una società e una cultura dominate dalla retorica dello scontro di civiltà in cui
gli arabi, o ancora più genericamente i musulmani, sono ‘gli altrì, il diverso che incute paura. In
questa dicotomia, del noi contro loro, la condizione delle donne arabe viene presentata spesso
come emblema evidente e imbarazzante dell’arretratezza di un popolo che non sa modernizzarsi,
che va ‘educato’ o civilizzato in una –spesso anche inconsapevole- dinamica neocoloniale.
Questo approccio, paradossalmente, non fa altro che legittimare e riprodurre una immagine delle
donne come ‘soggetti privi di agenzia’, incapaci di agire o lottare indipendentemente, senza un
intervento salvifico esterno. Una visione che le riduce così, nuovamente, a vittime di quella
stessa dinamica di potere che in principio si vuole combattere.
In questo senso, essere una donna palestinese della diaspora occidentale significa confrontarsi
costantemente con il retaggio o, azzarderei, l’abitudine coloniale dell’Occidente e la conseguente
retorica buonista –ma anche arrogante- del salvatore bianco, che vede le donne arabe come
eterne vittime di un sistema (solitamente religioso, islamico) di oppressione patriarcale, incapaci
di emanciparsi e lottare da sé e per sé.
La donna araba che da buoni samaritani si vuole liberare è lo stereotipo esotico a cui fa
riferimento Ziadeh nella sua poesia. È la donna sottomessa, incapace di rivendicare i suoi diritti.
È la donna che non potrà ‘non’ riconoscere la superiorità dei valori occidentali, unici garanti
della sua libertà. Poco importa se quei valori sono gli stessi che uccidono i suoi figli, che hanno
creato e difeso per secoli uno dei più complessi meccanismi di oppressione della storia
dell’uomo, il colonialismo; e che oggi sono complici dell’ennesima ingiustizia, di un progetto di
colonialismo d’insediamento e pulizia etnica ancora in corso, quello sionista.
Ed è esattamente in questa contraddizione dell’impianto culturale e politico dell’Occidente che si
forma la mia identità di donna palestinese in diaspora. È da qui che nasce la mia rabbia. È dalla
necessità di relazionarmi ad un sistema che ancora si rapporta in maniera orientalista al mondo
arabo, elogiando al contempo in maniera sperticata Israele quale ‘unica democrazia del
Medioriente’ ed esaltandone le politiche di uguaglianza di genere, che si forma la mia
consapevolezza di donna oppressa da un sistema patriarcale molto più complesso di quello che
siamo abituati a denunciare: un patriarcato strutturale, talmente onnipresente da diventare quasi
impercettibile, un patriarcato culturale e politico che condiziona l’intero sistema internazionale e
i rapporti sociali e politici che lo caratterizzano al micro e macro livello.
In questo senso, i versi di Ziadeh sono ancora una volta rivelatori. La sua poesia prosegue:
“[…] And did you hear my sister screaming yesterday, as she gave birth at a checkpoint with Israeli
soldiers looking between her legs for their next demographic threat?
Called her baby girl Janeen
And did you her Amna Muna screaming behind her prison bars as they tear-gassed her cell?
‘We are returning to Falasteen’
I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger
But you tell me this womb inside of me will only bring you your next terrorist Beard wearing, gun waving,
towel head, sand nigger
You tell me I send my children out to die. But those are your 'copters, your F16s in our skys […]”3
“[...] E hai sentito mia sorella urlare ieri, mentre partoriva ad un checkpoint con soldati israeliani che
cercavano tra le sue gambe la loro ennesima minaccia demografica?
Ha chiamato sua figlia Jenin.
E hai sentito Amna Muna che urlava da dietro le sbarre della prigione mentre le lanciavano lacrimogeni
in cella?
“Ritorniamo in Palestina”
Io sono una donna araba di colore e vestiamo tutti i colori della rabbia
Ma tu mi dici che questo utero, dentro di me, può solo dare alla luce il tuo prossimo terrorista, con la
barba lunga, armato, col turbante in testa, un negro del deserto
Mi dici che mando i miei figli a morire ma quelli sono i tuoi elicotteri, i tuoi F16 nel nostro cielo [...] “
Ziadeh sottolinea come il progetto sionista di colonizzazione della Palestina e annichilimento,
cancellazione fisica e culturale del popolo indigeno, sia caratterizzato da una forte componente
di eteropatriarcato che svilisce le donne, le considera esclusivamente in funzione della loro
capacità riproduttiva e cerca in questo contesto di controllarne la vita e la morte.
Riprendendo le analisi di due famose intellettuali arabe femministe, Rana Sharif e Nadera
Shalhoub-Kevorkian, il professor David Lloyd dell’ Università di California di Riverside, ha
spiegato che il progetto di colonialismo di insediamento sionista dipende da, e si basa su,
strategie di dominazione incentrate su relazioni di genere tipiche delle società coloniali. 4 In
particolare, le donne palestinesi, nelle diverse geografie in cui si trovano, continuano a
confrontarsi e a combattere le pratiche di controllo del corpo -o per usare la definizione di
Foucault, le ‘strategie biopolitiche’- sioniste, ma anche della vita e della morte della popolazione
oppressa (quella che Mbembe definisce ‘necropolitica’).5 Israele impone il suo potere sulla vita e
sulla morte delle donne palestinesi regolandone i movimenti e addirittura, spesso, la possibilità di
procreare, impedendo, per esempio, l’accesso a strutture mediche, o il passaggio ai checkpoint
nella Cisgiordania occupata. A queste forme di controllo biopolitico, necropolitico e anche
geopolitico, si aggiunge la narrativa sionista che identifica tutte le donne palestinesi come
potenziali ‘bombe demografiche’. Queste pratiche di dominazione fisica ma anche psicologica si
associano inoltre alla violenza strutturale dell’occupazione sionista e al controllo dell’economia
della popolazione palestinese: tutti questi fattori congiunti hanno avuto un enorme impatto sul
tessuto sociale palestinese e ne hanno favorito la frammentazione e l’incapacità di superare
forme obsolete di patriarcato.
Ziadeh ‘Shades of angers’
David Lloyd, "It Is Our Belief That Palestine Is a Feminist Issue...," Feminists@law 4, no. 1 (2014)
https://journals.kent.ac.uk/index.php/feministsatlaw/rt/printerFriendly/107/282.
5
Nadera Shalhoub-Kevorkian, "Palestinian Feminist Critique and the Physics of Power: Feminists Between Thought
and Practice," Feminists@law 4, no. 1 (2014)
3
4
Il sionismo, e il suo impianto culturale paradossalmente elogiato in Occidente per la sua politica
di sostegno ai diritti delle donne e LGBTQ, continua a riprodurre le stesse dinamiche di
oppressione di genere che il colonialismo occidentale un tempo, e l’imperialismo culturale e
politico contemporaneo di oggi, hanno da sempre imposto.6
Ed è contro questo tipo di eteropatriarcato che da oltre un secolo le donne palestinesi lottano.
Solo tenendo presente questo complesso quadro storico-politico, il femminismo palestinese può
essere effettivamente compreso nella sua portata rivoluzionaria, superando la visione comune
della donna araba come vittima passiva di un sistema retrogado.
La storia del femminismo in Palestina è infatti fortemente intrecciata con la storia del movimento
di liberazione nazionale e l’ideologia rivoluzionaria che lo ha caratterizzato almeno fino alla crisi
politica innescata dagli accordi di Oslo e drammaticamente degenerata negli anni più recenti.
Il movimento di liberazione ha visto, infatti, una considerevole partecipazione delle donne nelle
pratiche di resistenza sociali e politiche in chiave anti-coloniale. Questa partecipazione attiva e’
sintomatica del ruolo fondamentale svolto dalle donne nella società palestinese e dell’influenza,
anche politica, che sono state in grado di esercitare nell’elaborazione ideologica e strategica del
movimento.
Diversi studi sulla declinazione femminile della lotta di liberazione hanno individuato due ambiti
principali a cui le donne hanno contribuito: quello più strettamente militante e politico, e quello
sociale. Più volte si e’ sottolineato come, ad esempio, dalla fine degli anni ‘60 in poi, pur non
avanzando in maniera adeguatamente proporzionale tra i ranghi della leadership del movimento,
le donne palestinesi siano state protagoniste di numerose azioni militari, abbiano partecipato a
esercitazioni armate e abbiano contribuito attivamente alla resistenza palestinese. 7 In questo
senso, una delle icone del diritto alla resistenza armata palestinese è stata –ed è ancora- una
donna, Leila Khaled; e ancora Shadia Abu Ghazaleh, meno conosciuta a livello internazionale
ma anch’essa esempio di grande coraggio femminile nella narrativa palestinese. Mogannam,
dottoranda all’Universita di California a San Diego, ha dimostrato, in questo contesto, come per
esempio gli anni libanesi dell’OLP siano stati caratterizzati da una massiccia partecipazione delle
donne sia palestinesi che libanesi tra le fila delle diverse fazioni schierate nella guerra civile. 8
Numerosi sono anche gli studi che hanno evidenziato il ruolo centrale delle donne in una forma
di resistenza ‘meno politica’, di stampo più prettamente sociale e quotidiano: le donne per
decenni hanno tenuto insieme il tessuto sociale palestinese, sono state loro le artefici del sumud,
della resilienza con cui ogni giorno il popolo palestinese ha affrontato l’oppressione
dell’occupazione. In questo senso, è ormai ampliamente dimostrato che durante la prima intifada
sono state le donne a garantire continuità alla lotta tramite la loro capacità auto-organizzativa e
6
Lloyd, "It Is Our Belief That Palestine Is a Feminist Issue...,"
Jennifer Mogannam, LNM-PLO Alliance : Unified Interests, Divided Power, MA diss., American University of
Beirut, 2012,
8
Mogannam, LNM-PLO Alliance : Unified Interests, Divided Power
7
alla cooperazione nella sfera sociale e privata. Centrale alla storia palestinese è l’impegno delle
donne nell’Unione Generale delle Donne Palestinesi (GUPW): formatasi già nel 1963, l’Unione
è stata tra le prime organizzazioni popolari ricostituitesi nel periodo post-Nakba. Aveva sedi in
tutto il mondo ed ha contribuito attivamente alla riorganizzazione della frammentata società
palestinese e all’elaborazione di strategie e ideologie politiche del movimento di resistenza. 9
In questo contesto, credo sia necessario guardare alle diverse forme di partecipazione femminile
alla vita politica palestinese nel suo insieme per apprezzarne le istanze rivoluzionarie e
femministe. Le dimensioni ‘militante’ e ‘sociale’ non possono essere scisse: sono due strategie
che scaturiscono dalla stessa visione, una visione che interpreta la liberazione nazionale
dall’oppressione coloniale come il primo passo necessario per l’emancipazione sociale e di
conseguenza per il superamento della struttura patriarcale e il raggiungimento dell’uguaglianza
di genere. In questo senso, il femminismo palestinese ha contribuito ad una analisi più sofisticata
e radicale del patriarcato individuandone il legame inscindibile con il sistema imperialista. La
liberazione nazionale e sociale, quindi, sono considerate due facce della stessa medaglia e sono
state concepite in una visione rivoluzionaria ed internazionalista della lotta congiunta dei popoli
oppressi.
Questa portata rivoluzionaria del femminismo palestinese è stata per troppo tempo ignorata dal
femminismo ‘mainstream’ internazionale che ha così fallito nell’individuare anche i meccanismi
di causa e effetto che hanno impedito una reale emancipazione delle donne nel tempo (non solo
nel mondo arabo di fatto).
Se, infatti, come ho anticipato, negli anni ‘60, ‘70 e fino alla prima intifada, il successo del
movimento di liberazione si è tradotto anche in una forma di emancipazione femminile, con la
crisi politica e strategica delle istituzioni palestinesi, cristallizzata dagli accordi di Oslo, anche il
processo di avanzamento sociale si è relativamente arrestato. Infatti, le nuove forme ancora più
asfissianti di controllo geopolitico e le limitazioni di movimento imposte dall’occupante, la
dipendenza economica sempre più stringente della società palestinese da Israele e dalla comunità
internazionale, l’annichilimento totale di ogni forma di resistenza popolare anche per mano della
stessa classe dirigente palestinese costretta ormai a servire da garante degli interessi di Israele e,
per finire, la ONGizzazione di tante iniziative popolari, hanno avvilito i tentativi di
emancipazione sociale e in alcuni casi hanno addirittura favorito un regredimento delle istanze di
liberazione sociale che erano state fin lì soddisfatte.
È in questo complesso quadro storico e politico, che sottolinea le responsabilità del progetto
coloniale sionista e dell’imperialismo occidentale che lo sostiene, che la questione femminile
palestinese andrebbe analizzata per essere meglio compresa. Le donne palestinesi ed arabe non
hanno bisogno di ‘essere salvate’ da un sistema patriarcale che loro hanno saputo comprendere
9
Si veda per esempio Laurie A. Brand, The Palestinians in the Arab World: Institution Building and the Search for
State (New York: Columbia University Press, 1988)
ed affrontare storicamente. Hanno invece bisogno di una solidarietà internazionalista che
riconosca le responsabilità occidentali anche nel sostenere e riprodurre quel sistema patriarcale.
Il paradosso del femminismo ‘mainstream’ occidentale è che finisce invece per rafforzare
discorsi orientalisti e dinamiche di oppressione che di fatto impediscono alle donne palestinesi di
liberarsi davvero.
Non è mia intenzione sminuire le difficoltà della condizione femminile in Palestina è n
sottovalutare lo stato di subordinazione ed oppressione a cui le donne sono costrette nel sistema
patriarcale che caratterizza mondo arabo (e non solo), ma da donna palestinese in Occidente
ritengo indispensabile problematizzare maggiormente la discussione, onde superare le
banalizzazioni insite in una percezione superficiale del femminismo arabo e palestinese. Da
donna araba di colore intendo, qui, rivendicare la mia identità, la mia volontà di “liberarmi” dagli
stereotipi orientalisti di cui siamo investite. E la nostra storia di femministe rivoluzionarie.
Da donna palestinese in esilio intendo esprimere tutta la mia rabbia, per l’incapacità della
narrativa dominante di comprendere la portata rivoluzionaria e femminista della lotta del mio
popolo e del ruolo della donna in questa lotta.
“I am an Arab woman of color and we come in all shades of anger
So let me just tell you, this womb inside of me will only bring you your next rebel
She'll have a rock in one hand and a Palestinian flag in the other
I am an Arab woman of color
Beware, beware, my anger”10
“Sono una donna araba di colore
Vestiamo tutti i colori della rabbia
Ti voglio avvisare, questo utero dentro di me darà alla luce solo la tua prossima rivoluzionaria
Avrà una pietra in una mano e la bandiera palestinese nell’altra
Sono una donna araba di colore
Stai attento, stai attento alla mia rabbia.”
10
Ziadeh ‘Shades of angers’