Luciano De Fiore
Pasolini e il Sessantotto: il tedoforo del desiderio?
Nel corso di un esame, ho chiesto ad uno studente cosa avesse originato il poema di Pasolini Il PCI ai Giovani! La risposta: i moti del ’68. Sic. I
moti. Come avrei risposto, ai miei tempi, se mi avessero interrogato sulle
insurrezioni del ’48, ma del 1848.
E in effetti, dal Sessantotto sono trascorsi 50 anni. Per molti, ormai,
è un’ombrosa preistoria. Anche Pier Paolo Pasolini appartiene, cronologicamente e non solo, a quel “prima”. A quello sfondo nebbioso e lontano
che assorbe avvenimenti come il Dopoguerra, il boom economico, l’Autunno caldo, l’egemonia politica democristiana e l’opposizione del Partito
Comunista Italiano. È morto tre anni prima della strage di via Fani, quattordici avanti la caduta del muro di Berlino, ventisei prima del crollo delle
Torri. Eppure, si riflette molto, ancora, sia sul Sessantotto, sia su Pasolini
che ne è stato uno dei protagonisti in Italia – insieme fiancheggiatore e
critico – e poi sul loro complesso e contraddittorio rapporto.
1. C’è un tempo per ereditare
Perché un’eredità si trasmetta, serve la temporalità; c’è bisogno che
un prima e un dopo si dispongano lungo il vettore del tempo. Un lascito
può solo venir trasmesso da chi precede e accolto o rifiutato da chi resta.
I grandi scrittori insegnano che le eredità più cospicue sono costituite da
ricordi, valori e sentimenti. E tuttavia, proprio quando è così strutturata,
una successione può risultare gravosa fin quasi all’insopportabilità e più
urgente può farsi sentire la tentazione di rinunciarvi. Oggi, in Italia e in
Europa, sembra prorompente l’esigenza di scrollarsi di dosso qualsivoglia investitura del passato, qualsiasi retaggio provenga dalla storia più
prossima, nel tentativo di affrancarsi da ogni tradizione politica, sociale,
Studi sartriani
Anno XII / 2018
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LUCIANO DE FIORE
culturale. È accaduto altre volte ed è stata una delle caratteristiche salienti
proprio del Sessantotto. Ma, quasi sempre, il vecchio ordine veniva scalzato dal nuovo, accompagnandosi la contestazione del passato all’emersione
di un diverso palinsesto sociale, nel quale valori e credenze della tradizione
venivano soppiantati da altri. Così, quando ad esempio la cultura italiana
decise di fare i conti col crocianesimo, il suo parziale rigetto si accompagnò ad uno sforzo di rifondazione su basi diverse. Accettando però in ogni
caso una vettorialità temporale forte, nella convinzione che comunque la
storia si orientasse secondo un’ottica di progresso.
Il che non solleva dalla fatica dell’ereditare. Accogliere un lascito, farlo
proprio, dovrebbe comportare uno sforzo, una disposizione vigile e critica.
Il che vale anche per quanto ci ha lasciato Pasolini, non c’è dubbio 1. Se
poi tra i sentimenti ereditati è compreso il desiderio, la questione si fa più
complessa ancora. Perché è ineludibile la domanda se sia mai possibile la
trasmissione efficace del desiderio e in che misura sia immaginabile ereditare la facoltà e la capacità di desiderare, e da chi. Il desiderio ha sempre a che
fare col futuro. Può però affondare le proprie radici nel passato più remoto,
cosicché a volte la promessa dell’avvenire - il marxiano e poi fortiniano/
pasoliniano sogno di una cosa – sembra davvero assumere le sembianze
dell’immagine dialettica di Benjamin, ciò che è stato in una determinata
epoca è sempre, al tempo stesso, il “da-sempre-già-stato”.
Pier Paolo Pasolini si è assunto proprio questo compito, pressoché
impossibile, di farsi tedoforo del desiderio così concepito, gravido di una
temporalità complessa e stratificata, e in un momento storico preciso e sfavorevole: quello in cui iniziava ad eclissarsi l’epoca dei grandi desideri condivisi, mentre quasi contemporaneamente veniva messo in mora il reale del
godimento, a partire dai primi anni Sessanta del Novecento2. Proprio mentre
sembrava voler imporre l’imperativo sadiano a godere, il capitalismo, autoproclamatosi macchina di godimento, bandiva la crociata contro il desiderio
(di futuro, di novità, di nuovi affetti, di ideali condivisi), preoccupandosi
insieme di annichilire negli individui anche la tensione verso quell’eccesso,
quella sproporzione che è il godimento stesso, a vantaggio della sua parvenza.
Dunque il capitalismo non mirava solo ad eclissare il desiderio, la soggettività
desiderante, ma anche il reale del godimento. Pasolini colse nel movimento
1
O non è forse meglio dimenticare Pasolini, prescinderne? «Assolutamente no, mangiarlo in
salsa piccante con un atto teppistico significa farlo proprio, assimilare la sua lezione, ma vuol
dire anche liberarlo e liberarci noi stessi da lui» (M. BIANCHI, Una storia impossibile. La ricezione di Pasolini nella letteratura italiana del XXI secolo, in «Lo Sguardo», 19, 2015 (III), p. 281).
2
Rispetto alla temporalità in Pasolini, mi permetto di rimandare al mio Risposte pratiche,
risposte sante. Pasolini, il tempo e la politica, Castelvecchi editore, Roma 2018.
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PASOLINI E IL SESSANTOTTO: IL TEDOFORO DEL DESIDERIO?
sessantottino la reazione legittima contro il primo obiettivo della crociata (la
mortificazione del desiderio), e si sentì perciò solidale e compagno di strada
degli studenti. Comprese però che questi ultimi non avevano affatto riconosciuto l’altro obiettivo, il sostanziale rifiuto di quell’eccesso del godimento,
ingestibile dal capitalismo perché fuori da ogni sua logica.
Seguire quindi l’itinerario di Pasolini in quegli anni, fino al Sessantotto e
oltre, non mette a fuoco soltanto il senso della sua adesione – e, al rovescio,
la portata delle sue critiche – allo spirito del Sessantotto, ma aiuta anche a
comprendere più in generale quanto sia arduo restar fedeli al proprio desiderio, e quanto complesso ed esposto allo scacco sia cercare di trasmetterne
la forza e la vettorialità. Vivere il proprio desiderio significa infatti esporsi
alle contraddizioni di un tempo costituito di tutto e di niente, capace di
portare in grembo la storia, dando senso anche agli avvenimenti quotidiani
più minuti, e anche di essere la fornace che tutto distrugge. Di costituire
quindi lo sfondo del Senso e insieme dell’insensato.
2. Trasmettere o testimoniare?
Non a caso, per Freud il compito dell’educatore rientrava tra i mestieri
impossibili. Se nello sforzo pedagogico rientra anche il tentativo di trasmettere la fiaccola del desiderio, e così lo concepiva Pasolini, il compito
diviene se possibile ancora più arduo, per tre motivi almeno.
In primo luogo, perché assolvere alla funzione di trasmettere la carica
desiderante è compito eminentemente paterno. E gli anni Sessanta sono stati
di gestazione a quell’evento protratto che, consumatosi poi a fine decennio
sulla spinta decisiva proprio del Sessantotto, Lacan ha denominato evaporazione del nome del Padre. E se di per sé è oltremodo complesso assumersi il
ruolo di padre educatore, rispettando il figlio senza che il lascito si trasformi
in una trasmissione forzata, in imposizione, diviene ancor più difficile nell’epoca del misconoscimento e della destituzione dell’autorevolezza paterna.
Pasolini stesso ha prima dovuto liberarsi dal peso insopportabile di una legge
che tollerava la sua libertà di figlio soltanto in modo negativo, non come
dominio sul mondo, ma come libertà dalla dannazione della legge. Poi,
guadagnata a caro prezzo la propria libertà, si è esposto come educatore e
pedagogo, anche – come vedremo – nei confronti della generazione dei contestatori sessantottini. I quali, grazie all’influenza dei Francofortesi, avevano
già rivisto il ruolo paterno nella formazione dell’autorità superegoica, facendo
del padre di famiglia certamente il primo (nel tempo) mediatore dell’autorità
sociale, declassandolo però da modello a riflesso di quella (Fromm). Mentre
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per Pasolini il ruolo pedagogico dei “padri” è restato sempre decisivo per il
processo di soggettivizzazione e di affrancamento dei giovani 3.
In secondo luogo, perché la trasmissione del desiderio avviene, diciamo
così, per contagio. Il desiderio non s’insegna: si testimonia. Pasolini lo ha
fatto al punto da riconoscersi in un motto del contropotere nero americano
di quegli anni che invitava a “gettare il proprio corpo nella lotta”: «Tu sai, tuttavia te l’ho detto, anziano amico, padre | un po’ intimidito dal figlio, ospite |
alloglotta potente dalle umili origini, | che nulla vale la vita. | Perciò io vorrei
soltanto vivere | pur essendo poeta | perché la vita si esprime anche solo con sé
stessa. | Vorrei esprimermi con gli esempi. | Gettare il mio corpo nella lotta»4.
In ultimo, perché il desiderio è sempre ancipite. Ha a che fare con
quel Lustprinzip che è tanto principio di piacere quanto di godimento,
espressione di vita e insieme della tendenza alla regressione e alla morte.
Insomma, Pasolini desiderando, sa di desiderare sia come Carlo di Polis,
sia di perseguire un godimento al dunque impossibile come il Carlo di
Tetis del suo capolavoro finale incompiuto, Petrolio.
Testimoniare questo desiderio frutto di un impasto di tempi (del passato
come del presente e del futuro) e di affetti (promossi dal desiderio e dettati
dal godimento) diviene il compito precipuo che scelse di assumersi negli
ultimi anni, attraverso opere indialettiche, spalancate sulla contraddizione del
vivere: la sceneggiatura del film mai realizzato su San Paolo, e poi Teorema,
La nuova gioventù, Salò e Petrolio. Film, poesie e scritture che incarnano quel
necessario «aspetto di inciampo» che contrassegna tutta la sua opera più
autentica, a testimonianza del corpo a corpo nel quale si lasciò coinvolgere,
corpo a corpo che, lungi dall’essere la sua impasse, è il punto di forza a partire
dal quale rilanciare anche oggi la sfida della sua opera. Questa, in particolare negli ultimi anni, è uno sforzo continuo per tenere aperto il Fuori, quel
che cade fuori dal simbolico, la vita che precede ogni ordine linguistico, il
«cristallo fuori dalla storia», la «materia vitale e pulsatile»5. Per anni Pasolini
3
Si veda sul tema l’ormai classico di E. GOLINO, Pasolini: il sogno di una cosa. Pedagogia, eros,
letteratura dal mito del popolo alla società di massa, Il Mulino, Bologna 1985 e la più recente
raccolta Pasolini e la pedagogia, a cura di R. Carnero e A. Felice, Marsilio, Venezia 2015.
4
P.P. PASOLINI, Poeta delle Ceneri, in ID., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano
2013, tomo II, p. 1287.
5
Hardt legge tutta la proposta pasoliniana fino al finire degli anni Sessanta come una strategia del “fuori”: «La mia ipotesi è che Pasolini sia guidato da ciò che potremmo chiamare
un comunismo del fuori. È un’idea che nasce già nel suo periodo friulano, quando Pasolini
scopre sia il desiderio sessuale, sia il comunismo come lotta che esiste solamente fuori […].
Questo comunismo si sovrappone a un desiderio che funziona solamente fuori: è in questa
dinamica che io leggerei tutta l’opera di Pasolini. Un’opera che è la costante ricerca di questo
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PASOLINI E IL SESSANTOTTO: IL TEDOFORO DEL DESIDERIO?
ne ha ricercato le tracce, sperando di trovarne delle sopravvivenze (una sua
parola-chiave) nell’uso dei dialetti, nel mondo contadino, nella sessualità
notturna, nei Paesi del Terzo e Quarto mondo che prese a visitare. Per capire
se anche nella faccia in ombra del pianeta stessero avanzando l’omologazione
e la distruzione delle culture particolari; o se ancora permanevano sacche
di resistenza in grado di opporsi – magari ingenuamente – all’accelerazione
artificiale della nuova società industriale, intenta planetariamente a schiacciare ogni tradizione. Alla ricerca di un paesaggio interiore altro da quello del
passato, colmo di nostalgia ma senza rimpianti. E altro anche da quello, che il
presente stava illividendo, delle borgate romane, un paesaggio violento, meridionale, ingiallito dalla povertà e dal rancore crescente. Alla ricerca dunque
di un terzo paesaggio, del sogno, che ancora si illudeva di ritrovare grazie ai
viaggi in Paesi come l’India, e poi lo Yemen, l’Eritrea, il Brasile. Nel Sud del
mondo chissà che non pulsasse con una propria forza un tempo diverso dal
tempo lineare dello sviluppo che aveva prevalso al Nord; un tempo circolare,
segregato nelle civiltà extraurbane, in cui si avesse ancora cura delle tradizioni
e trovasse uno spazio il sacro: «Io sono ateo, ma il mio rapporto con le cose
è pieno di mistero e di sacro. Per me niente è naturale, nemmeno la natura».
Affascinato dalla possibilità che per il Sud non si desse di necessità il passaggio a quello sviluppo neocapitalista che aveva ormai sfregiato il volto del
Nord, compromettendone innanzitutto i corpi.
Quelle tracce, a suo avviso, erano l’unico antidoto alla furia omologatrice e distruttiva del turbocapitalismo borghese. Naturalmente, Pasolini
sapeva benissimo che questo fuori non era un luogo né tanto meno un’epoca dove tornare nostalgicamente: non un paradiso perduto, ma quella
vita gravida di contraddizione, che coincide con sé stessa, potenza che è
già sempre atto. Una vita gonfia di realtà, apparentabile a quel reale con
cui Lacan identificava quel che non funziona, ciò che fa attrito, quel che
inceppa e inciampa. Coglie nel segno Alex Pagliardini, sottolineando che
per Pasolini il reale consisteva proprio in queste sue tracce. Dunque, per
affermare il reale occorreva a suo avviso innanzitutto riafferrare e ri-calcare
quelle tracce, difenderle da chi le stava cancellando 6.
fuori: dall’universo contadino friulano, al sottoproletariato di Roma fino al Terzo mondo. Il
fuori è, beninteso, anche un fuori mistico-cristiano, mistico-greco». M. DOTTI (a cura di),
Pasolini sotto il segno di Paolo. Dialogo con Michael Hardt, in Omaggio a Pasolini. Mutazioni e
antropologia di una crisi, in «Communitas», 49, 2011; online: http://tysm.org/pasolini-sottoil-segno-di-paolo-dialogo-con-michael-hardt/ (ultimo accesso: 06.11.2018).
6
A. PAGLIARDINI, Sulle tracce del reale. Linee di fuga del godimento in Lacan e Pasolini, in «operaviva», 22.06.2018, online: https://operavivamagazine.org/sulle-tracce-del-reale/ (ultimo
accesso: 18.09.2018).
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LUCIANO DE FIORE
Il primo avversario era dunque la borghesia che, vale la pena ricordarlo, per Pasolini non era una classe sociale, ma una vera e propria malattia 7.
Dilagante attraverso il potere borghese, il grande omologatore dei corpi
e poi delle coscienze, il sistema capitalistico di produzione e consumo
che stava ormai imponendosi a tutti e ovunque in Occidente, nelle città
come nelle campagne, distruggendo ogni alternativa possibile e ogni valore altro. Di qui la sua obiezione al movimento del Sessantotto, nuovo e
giovane popolo di barbari, che gli sembrava rischiasse di fatto di facilitare
i processi di omologazione e turboconsumismo sempre più inarrestabili
nella modernità, rendendosi addirittura complice del nemico di classe e
di civiltà. La lotta degli studenti borghesi era infatti rivolta innanzitutto
contro la tradizione tout court, senza distinguere il grano dalla pula, con
ciò aiutando di fatto il sistema a rigenerarsi, cancellando il passato.
Quando, pochi anni dopo, inizierà a scrivere da corsaro, rimprovererà
ai giovani “capelloni” la loro disponibilità nei fatti a lasciarsi fagocitare dal
potere della moda, dettata dall’“universo orrendo” di una modernità che
così proseguiva la sua marcia trionfale inglobando i presunti antagonisti,
in realtà utili aiutanti. Ma ancor più avrebbe rimproverato loro, questa sì,
una colpa: quella di non aver discusso dialetticamente con i loro padri 8.
Viceversa, secondo Pasolini il progresso nasce dal rapporto, per quanto teso
e avversativo, con la Legge. Chiudersi e negarsi al confronto non solo non
fa crescere, ma diviene un fattore omologante e regressivo. E infatti il neocapitalismo consumistico della Nuova Preistoria gli appare contrassegnato
proprio dall’isterilirsi dei legami sociali, dal loro calcificarsi.
Nella «misteriosa volontà a non essere figli»9 dei ragazzi del Sessantotto,
7
«Spesso parlerò con violenza contro la borghesia: anzi, sarà questo il tema centrale
del mio discorso settimanale. E so benissimo che il lettore resterà “sconcertato” (si dice
così?) da questa mia furia: ebbene, la cosa sarà chiara quando avrò specificato che io per
borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una
malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la
combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all’opposizione, ai “soli” (come son io)» (P.P. PASOLINI, da «Il Caos» sul «Tempo» (1968), in ID.,
Scritti sulla politica e sulla società, cit., p. 1097).
8
«I capelli lunghi dei ragazzi sono divenuti simbolo di qualcos’altro: di una condanna astiosa
e indiscriminata contro i genitori. Padri che, Freud alla mano, vanno certamente contestati.
Tuttavia, il linguaggio del corpo di quei giovani capelloni alza contro di essi «una barriera
insormontabile» che ha finito con l’isolarli, «impedendo loro, coi loro padri, un rapporto
dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico – sia pure drammatico ed estremizzato
– essi avrebbero potuto andare avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, “superare” i
padri» (ID., Scritti corsari, in ID., Scritti sulla politica e sulla società, cit., p. 277).
9 ID., La volontà di non essere padre, in «Tempo», 46, 9 novembre 1968, poi in Dialoghi
174
PASOLINI E IL SESSANTOTTO: IL TEDOFORO DEL DESIDERIO?
Pasolini legge dunque la rinuncia a farsi carico, sia pur criticamente, di
qualsiasi eredità. Ma non ci sono figli innocenti. La loro “colpa” consisteva
nell’acritica accettazione della vettorialità del tempo borghese, senza neppur
concepire la possibilità che si desse una storia alternativa, che si dovesse
tornare indietro, col pungo chiuso, e ricominciare daccapo10. Questa colpa
accomunava quei giovani ai loro padri da giovani: non aver creduto che
potesse esistere una storia alternativa a quella che stavano vivendo, alla «storia borghese»: «Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno
una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino a oggi, con inconscio
razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi. La storia era la loro
storia» 11. Pasolini, al dunque, criticava l’incapacità dei giovani Sessantottini
di incarnare un’autentica istanza di cambiamento in grado di mettere in
discussione e sovvertire l’ordine della società, proponendone un altro totalmente nuovo. In sostanza, criticava la loro incapacità di produrre il reale.
3. Giovani in loden blu
La critica di Pasolini era dirompente e impietosa. Bisogna però dire, a
questo punto, che una qualche ingenerosità si può cogliere nella contraddizione in cui Pasolini stesso era rimasto intrappolato, in qualche modo
tradito da quello stesso prezioso intrecciare i tempi nel quale eccelleva, da
lettore di Gramsci qual era. Nella traccia già incisa, già depositatasi e che
lui tanto privilegiava in quanto reale, prevaleva il passato. Ma il reale è
piuttosto il tracciarsi stesso delle tracce, ciò che lascia tracce, e che dunque
dovrebbe venir distinto con cura dalle sue impronte, sempre più evanescenti
(A. Pagliardini). In Petrolio, così come nello scambio di battute a monte
dell’intervista con Furio Colombo, il pomeriggio prima di venir ucciso,
Pasolini sembra invece essere perfettamente cosciente della distinzione e
dell’elemento di assoluto presente della traccia che si fa, nel mentre che si
con i lettori, ora in ID., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1137.
10
«Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo […]. Perché se la nostra cultura,
non potrà e non dovrà più essere la cultura della povertà, si trasformi in una cultura
comunista […]. Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo. Non vi
troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere
eterno. Il vostro problema non sarà più il problema di salvare il salvabile» (ID., Appunto
per una poesia in terrone, in La nuova gioventù, in ID., Tutte le poesie, a cura di W. Siti,
Mondadori, Milano 2003, tomo II, p. 502).
11
ID., I giovani infelici, in Lettere luterane, in ID., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p.
175
LUCIANO DE FIORE
fa. Quando la sovrapposizione fra tracce e reale lo induce a «produrre tracce
del reale», è allora che incontriamo il Pasolini più perturbante e vitale. Più
spesso, invece, è indotto a «difendere le tracce», esponendo così la curvatura
più nostalgica e angosciosa della sua opera, la convinzione dell’irrimediabile
destino di perdita di quei segni, della sparizione di ogni fuori.
Anche all’indomani degli scontri di Valle Giulia, in piena primavera
del ’68, sceglie di attestarsi su di una linea di difesa. La stessa che, pochi
anni dopo, presidierà nell’estremo suo Saluto e augurio, offrendo di portare avanti quel compito testamentario, sacro e ingrato, al più diverso e
lontano da sé, ad un giovane fascista 12. Quella che nelle intenzioni voleva essere una riflessione accorata in forma di poesia, diviene uno sfogo,
un’invettiva che accomuna soggetti diversi e glieli inimica tutti. Il poema,
Il PCI ai giovani!, inizialmente destinato alla pubblicazione su “Nuovi
Argomenti”, esce sull’“Espresso” col titolo redazionale, sbagliato, di Vi
odio, cari studenti: un pamphlet in versi sulla rivolta studentesca a Roma. A
Valle Giulia gli scontri, duri, avevano visto su opposte sponde studenti in
tumulto e poliziotti sottoproletari, a difesa dell’ordine borghese. Pasolini
rimprovera agli universitari un ritardo storico: dovevano prendersela
non con la Polizia, ma con il Partito Comunista, e parecchi anni prima.
Trasformarlo con le loro idee. Ma non è tardi: di qui l’appello ad assalire
Federazioni, a invadere cellule, ad occupare Botteghe Oscure, sede storica
del Partito. Non lo hanno fatto, e allora, «quando ieri a Valle Giulia avete
fatto a botte | coi poliziotti, | io simpatizzavo coi poliziotti. | Perché i poliziotti sono figli di poveri» 13.
L’esordio di quei “brutti versi”, come lui stesso li definisce, aveva un’indubbia forza provocatoria: «Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di ars retorica,
[…]: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. Spero cha la cattiva
volontà del mio buon lettore “accetti” la provocazione, dato che si tratta
di una provocazione a livello simpatetico»14. Ne aveva anche analizzato i
motivi. Gli intellettuali di venti o trent’anni prima, appena usciti dalla guerra, potevano guardare alla borghesia, per così dire, dall’esterno, attraverso
un’ottica mutuata dalle altre classi sociali, facendo «dell’odio traumatico per
la borghesia, anche una giusta prospettiva in cui integrare la nostra azione».
Mentre per un giovane sessantottino la cosa si pone diversamente: «Per lui
12
ID., Saluto e augurio, in La nuova gioventù, in ID., Tutte le poesie, cit., tomo II, pp. 513-518.
ID., Il PCI ai giovani!, in «Nuovi Argomenti»,10, aprile-giugno 1968. Poi, in ID.,
Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1981², pp. 151-159.
14
Ivi, p. 156. In Empirismo eretico, Pasolini fa seguire alla poesia un’Apologia, in cui ne
spiega le ragioni.
13
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è molto più difficile guardare la borghesia attraverso lo sguardo di un’altra
classe sociale. Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli
operai, da una parte, e i contadini ex-coloniali, dall’altra. Insomma, attraverso il neocapitalismo la borghesia sta diventando la condizione umana.
Chi è nato in questa entropia, non può in nessun modo, metafisicamente,
esserne fuori. È finita. Per questo provoco i giovani: essi sono presumibilmente l’ultima generazione che vede degli operai e dei contadini: la
prossima generazione non vedrà intorno a sé che l’entropia borghese» 15.
I giovani celerini che si erano battuti con gli studenti sono quindi da
compatirsi, «umiliati dalla perdita della qualità di uomini | per quella di
poliziotti». Disumanizzati dalla divisa: «Hanno vent’anni, la vostra età,
cari e care. | Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
| Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! | I ragazzi poliziotti |
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione | risorgimentale) | di figli
di papà, avete bastonato, | appartengono all’altra classe sociale. | A Valle
Giulia, ieri, si è così avuto un frammento | di lotta di classe: e voi, cari
(benché dalla parte | della ragione) eravate i ricchi, | mentre i poliziotti
(che erano dalla parte | del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, |
la vostra! In questi casi, | ai poliziotti si danno i fiori, cari». Dai versi stessi,
come da altre prese di posizione, è chiaro che in ogni caso Pasolini si sentiva
dalla parte del Movimento studentesco, per quanto non in totale sintonia.
Ma comunque quel tanto da indurlo a ritenere, pochi mesi dopo che «la
Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il
qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude,
borboniche, papaline», scrive ne Il caos, la nuova rubrica affidatagli proprio
nella primavera del ’68 sul settimanale “Tempo Illustrato”. Gli studenti
sono dunque «dalla parte della ragione» e la polizia «dalla parte del torto».
E tuttavia il paradossale intervento su “L’Espresso” tendeva a spiegare però
perché non ci si può attendere una rivoluzione solo dagli studenti: perché
sono figli di borghesi. L’onere di una rivoluzione del modello economico e
civile italiano non poteva spettare che agli operai, dei quali infatti la stampa
borghese e la TV diffidavano, mentre provavano simpatia accondiscendente
verso gli studenti. La classe operaia – nel ’68, ma negli anni Settanta già
non sarà più così – è considerata da Pasolini ancora l’unica reale antagonista
del potere capitalistico. Per quanto sia gli operai, sia i contadini poveri si
stessero rapidamente conformando al modello consumistico – «malgrado
la loro mitizzazione operata dagli intellettuali marcusiani e fanoniani, me
15
Ivi, p. 158.
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compreso, ma ante litteram», ha l’onestà di scrivere16.
Il Pasolini de Il PCI ai giovani! anticipa i temi, ed anche alcuni toni,
dell’intellettuale “luterano” e “corsaro” che avrà successo negli anni seguenti, decidendo di affidare l’espressione del proprio “pensiero interventista”
ai media più diffusi e autorevoli, i giornali e le riviste della borghesia. La
rabbia che attraversa almeno la prima metà di quella composizione lascia
comprendere forse anche meglio la sua polemica, moralistica, contro la
“bruttezza” dei protagonisti di quel Sessantotto, «anno che i fascisti per
un pezzo non smetteranno di benedire», per aver favorito il ricompattarsi
delle forze della reazione. Il movimento degli studenti portava in piazza,
senza saperlo, la crisi della borghesia italiana. Accanto ai significati forti
e condivisibili della protesta studentesca, vedeva nel movimento anche
(anche, e non solo) le agitazioni insensate e velleitarie, i risentimenti a
vuoto, gli scossoni prodotti da una classe in difficoltà, non più a proprio
agio nei valori del Dopoguerra e non ancora del tutto pronta ad assimilare
le parole d’ordine dell’opulenza consumistica.
Strattonato tra i corni della propria più intima contraddizione, Pasolini
pare stritolato tra una residua speranza nel progredire della storia ed una
ormai sedimentata convinzione che sia impossibile un progresso accumulativo – il detestato sviluppo – che non preveda strappi: «Penso che la
disperazione è oggi l’unica reazione possibile all’ingiustizia e alla volgarità
del mondo, ma solo se individuale e non codificata. La codificazione della
disperazione in forme di contestazione puramente negativa è una delle grandi minacce dell’immediato futuro (come l’atomica o la cultura di massa).
Essa non può non far nascere degli estremismi, che, arrivando alla coincidenza diabolica di irrazionalismo e pragmatismo, finiscono col divenire
nuove forme di fascismo: magari fascismo di sinistra»17.
La sua polemica si presta quindi anche ad una lettura “da sinistra”:
Pasolini – intuì con prontezza Volponi – riteneva che il Sessantotto non fosse
tanto espressione della crisi delle forze di opposizione, del movimento operaio, quanto piuttosto della parabola critica della borghesia, chiamata a un salto
epocale, che comportava l’abbandono di valori consolidati e l’adozione di
nuovi modelli. La civiltà borghese aveva rinunciato al sentimento del sacro,
per secoli radicato nel cuore della vita umana, sostituendolo con l’ideologia
del benessere e del potere. Pasolini ne coglieva i tratti ancora indistinti, e pur
senza proporre soluzioni, si sentiva in dovere di richiamare l’attenzione sul
fatto «che ha avuto inizio una nuova era, diversa dalla precedente così come
16
17
P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1981, p. 159.
ID., da «Il Caos» sul «Tempo» 1968, in Scritti sulla politica e sulla società, cit., p. 1110.
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PASOLINI E IL SESSANTOTTO: IL TEDOFORO DEL DESIDERIO?
l’epoca dell’agricoltura è diversa da quella in cui si raccoglievano i prodotti
spontanei della terra», spiega in un’intervista a Jean Duflot.
Se questo è vero, la sua opera più sessantottina è Teorema, pubblicato
come romanzo nel marzo proprio di quell’anno e poi come film presentato in settembre alla Mostra di Venezia. Una famiglia alto-borghese viene
sconvolta dalla visita di un Ospite misterioso: che non è Gesù, né Eros,
ma l’inviato di un Jehovah impietoso – spiega lo stesso Pasolini – che con
la propria presenza corporale toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. Il
reale qui incede attraverso la sessualità erotica dell’Ospite, perturbando e
sconvolgendo gli assetti e le convenzioni famigliari. È il dio che distrugge
la buona, ipocrita coscienza borghese. Solo Emilia, la serva, reagisce positivamente al tocco dell’altro, trasformando sé stessa. Ci riesce, «perché
non ha ancora del tutto reciso i legami con quel mondo dove il mistero,
il sacro e il divino avevano un posto, e dove la razionalità non era l’unica
forza dominante per comprendere, ma anche per modificare la realtà» 18.
Sempre rispondendo a Duflot, Pasolini ricollega la tematica di Teorema
alla beat generation: «È in questi tempi che culmina, nel campo della poesia e delle arti, la rivolta contro il dominio della società e del benessere.
Tutti sanno che poi questa rivolta sboccherà nella deflagrazione della rivolta studentesca, nelle università americane e successivamente, nel mese di
maggio, in Francia». Tuttavia, quella rivolta sconta quel peccato originale
di cui si è detto, un peccato che accomuna quei figli che la inverano ai loro
padri: il ritenere che la storia possa essere solo una storia borghese. In uno
degli interludi che punteggiano Teorema romanzo, Pasolini cala una scure
impietosa sui costumi di questi giovani intelligenti, di famiglie agiate,
“convittori castristi che saltano i pasti a Monza”, “finti giovani di Torino
in loden blu”, “Pierini universitari che vanno a occupare l’Aula Magna
chiedendo il Potere anziché rinunciarvi una volta per sempre”:
Di cosa parlano i giovani del 1968 – coi capelli
barbarici e i vestiti edoardiani, di gusto
vagamente militare, e che coprono membri infelici come il mio,
se non di letteratura e di pittura? E questo
che cosa significa se non evocare dal fondo
più oscuro della piccola borghesia il Dio
sterminatore, che la colpisca ancora una volta
per colpe ancora maggiori di quelle maturate nel ’38?
18
A. LUCCI, Motivi ascetici nel cinema di Pier Paolo Pasolini, in Una disperata vitalità. Pier
Paolo Pasolini: sguardi interdisciplinari e tensioni pedagogiche, a cura di A. Amendola, M.
Attinà e P. Martino, Pensa editore, San Cesario di Lecce 2017, pp. 56-57.
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LUCIANO DE FIORE
Solo noi borghesi sappiamo essere teppisti,
e i giovani estremisti, scavalcando Marx e vestendosi
al mercato delle Pulci, non fanno altro che urlare
da generali e ingegneri contro generali e ingegneri.
È una lotta intestina.
Chi veramente morisse di consunzione,
vestito da mugik, non ancora sedicenne,
sarebbe il solo forse ad avere ragione.
Gli altri si scannano fra loro 19.
19
P.P. PASOLINI, Teorema, Garzanti, Milano 1991, p. 152.
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