Jérémie Lefebvre
Un’estetica del narratore
Le funzioni letterarie del narratore in Kaputt di Curzio Malaparte
tra risonanze proustiane, onnipresenza e disincarnazione
1
SOMMARIO
Introduzione
3
I. A proposito del narratore nella finzione letteraria in generale
4
II. Attitudine generale del narratore in Proust e Malaparte
7
III. Un confronto tra le funzioni del narratore in Proust e Malaparte
10
La funzione parresiastica
10
La funzione iniziatica
12
La funzione periscopica
15
La funzione generica
18
La funzione infra-narrativa
21
La funzione visuale
26
IV. Funzioni specifiche del narratore in Malaparte
30
La funzione documentaria/giornalistica
30
La funzione revelatrice
34
La funzione eroica
37
La funzione profetica
42
La funzione defensiva
45
La funzione centrifuga
49
La funzione allegorica
52
Conclusione: Virtù e limiti letterari del narratore in Kaputt
57
2
Introduzione
Per esaminare la scrittura malapartiana mancano gli strumenti critici, dal
momento che la sua opera viene quasi esclusivamente studiata sulla scorta della
biografia, mentre lo studio letterario risulta trascurato a favore di una critica
storico-politica. La problematizzazione estetica, in particolare, sembra ostacolata
dal problema ideologico posto dall’itinerario specifico dell’autore in quanto esso
traspare quasi in ogni pagina dell’opera, di cui costituisce l’elemento principale
di strutturazione; ci troviamo qui di fronte a un fenomeno di annientamento del
fatto letterario da parte del fatto storico, la cui ampiezza può sorprendere il
ricercatore francese: noi abbiamo il nostro grande pittore dell’orrore bellico nella
figura di Louis-Ferdinand Céline, il cui itinerario, seppure meno concretamente
politico, rivela una compromissione col fascismo ben più radicata di quella
malapartiana, perché più intima, più profonda, esplicitamente xenofoba; tuttavia,
dalla sua morte in poi Céline è stato ininterrottamente studiato, esaminato,
celebrato in quanto inventatore di una forma letteraria, di una lingua, di
procedimenti estetici considerati determinanti nella letteratura del Novecento 1. In
una prospettiva storica e sociologica, sarebbe interessante analizzare le ragioni
del silenzio della critica letteraria italiana sull’opera di Malaparte ; in questa tesi,
nonostante la scarsa bibliografia critica, ci proponiamo di delineare un approccio
estetico alla scrittura malapartiana.
Come iniziare tale esame senza rischiare di annegare nella portata del
compito, nella molteplicità tanto degli oggetti di studio quanto degli approcci
possibili, e nella ricerca di strumenti critici in grado di favorire una lettura
sistematica e metodologicamente coerente della proposta letteraria malapartiana?
Capita frequentemente di fornire a posteriori una giustificazione
metodologica a scelte ispirate dapprima dalla sensibilità. Ce ne asterremo,
preferendo che la nostra riflessione si appoggi su una base di onestà, e
Tra i numerosi saggi pubblicati sull’argomento, ricordiamo in particolare Henri Godard, À travers Céline, la littérature, coll.
Blanche, éditions Gallimard, 2014 ; Yves Pagès, Les Fictions du politique chez L.-F. Céline, Paris, Seuil, 19941 (Paris,
Gallimard, 20102); Michel Bounan, L'Art de Céline et son temps, Paris, Allia, 1997.
1
3
attribuendo all’intuizione, riconosciuta in quanto tale e ricondotta ai propri limiti,
delle proprietà stimolanti in grado di sostenere l’indagine intellettuale.
La scelta di questo argomento è stata originata proprio da un’intuizione ;
o, meglio, una serie di impressioni, nel corso della nostra prima lettura di Kaputt,
che contribuivano tutte a far emergere l’ipotesi di una corrispondenza non
soltanto tematica, ma anche estetica con Alla ricerca del tempo perduto di
Marcel Proust. L’intuizione più forte riguardava la posizione del narratore che, al
di là delle opposizioni immediatamente percepibili, ci sembrava condividere con
quello di Proust una stessa contraddizione tra onnipresenza e disincarnazione.
Approfondendo l’esame di queste tangenze, abbiamo osservato che esse ci
permettevano di accedere a una comprensione della scrittura di Kaputt che
sarebbe stata ben più difficile partendo da uno studio focalizzato sul proprio
oggetto, non soltanto perché permetteva l’approccio comparativo in sé, ma anche
perché permetteva di prendere in prestito alcuni strumenti di analisi e qualche
prospettiva d’approccio alla bibliografia critica della Ricerca del tempo perduto,
ossia, in poche parole, di utilizzare quest’ultima come punto di appoggio
metodologico per esaminare la scrittura di Kaputt.
Proporremo dunque in questa tesi uno studio comparativo delle funzioni
letterarie del narratore nella Ricerca e in Kaputt, per utilizzare in seguito la
critica proustiana come diaframma attraverso il quale approfondire alcuni
elementi di analisi delle specicifità dell’ « io » malapartiano, delle sue virtù e dei
suoi limiti letterari.
I. A proposito del narratore nella finzione letteraria in generale
In primo luogo, non è forse inutile ricordare alcune proposte di definizione
del narratore, quali sono state recentemente raccolte da Sylvie Patron2. Secondo
il teorico strutturalista Gérard Genette, il narratore è una « prima persona »,
« emittente fisico » e « responsabile » del racconto, che presenta un carattere
2
Sylvie Patron, Le Narrateur : introduction à la théorie narrative, Paris, Armand Colin, 2009.
4
« fittizio » ; da parte sua, il teorico ceco Lubomír Doležel identifica tre concetti
del narratore: la « personificazione del racconto », l’ « istanza effettiva di
produzione del racconto » e la « rappresentazione finzionale dell’istanza di
produzione del racconto nel racconto stesso » ; per il critico americano Seymour
Chatman, ci sono solo due tipi di narratore: quello « manifesto » e quello
« nascosto » ; infine, il ricercatore austriaco Franz K. Stanzel individua tre
situazioni narrative : la « prima persona », in cui il narratore è collocato dentro il
mondo dei personaggi, la narrazione « autoriale », in cui è esterno al mondo dei
personaggi, e la narrazione « figurale », in cui il narratore è un personaggio che
non si rivolge al lettore.
Queste accezioni condividono il fatto di attribuire al narratore una
funzione di “matrice” rispetto al materiale della finzione, e di porre
implicitamente la scelta, da parte dell’autore, di un determinato tipo di narratore
in quanto determinante per la natura e le caratteristiche del racconto. Per noi,
permettono un primo approccio della figura del narratore, tanto della Ricerca
quanto in Kaputt, nella misura in cui tutte queste definizioni si combinano,
coesistono, si succedono secondo i momenti del racconto in entrambe opere – ad
eccezione del narratore « figurale », dato che il Narrateur di Proust e quello che
chiameremo il Corrispondente (il narratore di Kaputt, corrispondente di guerra
nell’Europa occupata) non cessano mai di rivolgersi al lettore.
Eppure, se tentiamo di stabilire una gerarchia tra la natura dei diversi tipi
di narratore, scopriamo delle preponderanze diversamente ripartite tra il
Narrateur e il Corrispondente. Secondo la definizione di Genette, il Narrateur è
effettivamente una
« prima persona », un « emettente fisico » che è
« responsabile » del racconto, e presenta un carattere « fittizio » anche se viene
ispirato e nutrito dalla personalità e dalla biografia reale dell’autore, come
sottolinea Jean-Yves Tadié quando, prima di elencare le differenza tra Proust e il
Narrateur, ammette che sarebbe « vain de nier les ressemblances entre l’auteur et
son personnage, assez nombreuses pour avoir pu égarer3 »; mentre il
Corrispondente malapartiano, pur essendo anche lui una « prima persona » che
3
Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, « Tel » - Paris, Gallimard, 1971, p.22.
5
svolge il ruolo di « emettente fisico » ed è « responsabile » del racconto, presenta
invece un carattere reale: rivendica la propria identità con l’autore e, in varie
occasioni, viene chiamato da personaggi con il suo nome. Secondo i tre concetti
di Doležel, il Narrateur e il Corrispondente incarnano alternativamente la
« personificazione del racconto », (in particolare nelle descrizioni d’impressioni,
di fantasie, di sogni ad occhi aperti o notturni), l' « istanza effettiva
di
produzione
la
del
racconto »
(nel
flusso
narrattivo-descrittivo),
e
« rappresentazione finzionale dell’istanza di produzione del racconto nel
racconto stesso » (attraverso la raffigurazione delle interazioni fra il narratore e il
suo ambiente); tuttavia, la « personificazione del racconto » occupa un posto
essenziale, se non quantitativamente maggioritario, nel testo proustiano, spesso
dedicato alla ricerca di completezza nell’esplorazione analitica della sensibilità
del Narrateur, mentre il Corrispondente di Kaputt si limita ad incursioni
episodiche nella propria soggettività, privileggiando la produzione effettiva di un
racconto dedicato all’osservazione del mondo esterno. Adottando la divisione più
schematica di Chatman tra narratore « manifesto » e « nascosto », troviamo in
Proust una dominanza quasi assoluta del narratore manifesto, mentra la parte “Un
amour de Swann”4 , i cui fatti risalgono a un’epoca anteriore alla nascita del
Narrateur, sembra interamente raccontata da un narratore nascosto (anche se
scopriamo, in modo aneddotico, che si tratta di « souvenirs d’une autre personne
de qui [il] les avai[t] appris5 ») ; mentre in Kaputt l’aspetto manifesto del
narratore è costante e privo di qualsiasi ambiguità. Infine, a seconda della loro
distanza di osservazione, i due narratori oscillano in modo equilibrato tra le due
prime situazioni definite da Stanzel: la « prima persona » posizionata all’interno
del mondo descritto, e la narrazione « autoriale » esterna a questo mondo.
Se ci concentriamo sulle divergenze, possiamo far emergere da quel primo
approccio generico l’immagine di un Narrateur proustiano caratterizzato
soprattutto da una prima persona « fittizia » emittente e responsabile del
racconto, con una « personificazione » fortissima, e quella di un Corrispondente
4
5
Marcel Proust « Un amour de Swann », in A la recherche du temps perdu I., Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990.
Ibid.
6
malapartiano caratterizzato da una prima persona « reale » emittente e
responsabile del racconto, ma che svolge principalmente la funzione di « istanza
effettiva di produzione del racconto ». Tuttavia, se questa differenza di
proporzione fra gli elementi che caratterizzano la natura del narratore può essere
utilizzata per dimostrare un’opposizione tra gli usi che ne fanno i due autori, essa
risulta anche dalla differenza fra i materiali narrativi di per sé, ossia fra le
situazioni e i contesti attraversati e descritti nella Ricerca e in Kaputt, i quali,
anche nell’ipotesi in cui fossero vissuti e narrati dalla stessa persona, non
potrebbero esserlo in modo simile, poiché non potrebbero toccare gli stessi tasti
della sensibilità, né suscitare lo stesso tipo di reazioni.
II. Attitudine generale del narratore in Proust e Malaparte
Leggendo la Recherche, risulta che la prima persona proustiana osserva
inanzitutto se stessa attraverso il mondo di cui viene circondata. Tale fenomeno
non è soltanto generale e diffuso, ma può essere anche corroborato numerosi
esempi particolari, come il racconto delle passeggiate dalla parte di Méséglise le
cui caratteristiche derivano tutte dal fatto che il Narrateur le fa sempre « après de
longues heures passées sur un livre »6 ; o la conversazione sulla spiaggia di
Balbec con la marchesa di Cambremer la cui interminabile elencazione delle
parole
serve a giustificare
l’impressione
percepita
dal
Narrateur
di
un’intelligenza che gli sembra « entièrement inutile »7. Quest’idea della centralità
dell’osservazione di sé contraddice l’analisi di Martine Gantrel secondo cui il
Narrateur, « tout en initiant son lecteur à tous les replis de son intériorité et aux
multiples facettes de sa vie mondaine, […] reste lui-même en retrait, s’effaçant
cérémonieusement devant son lecteur pour le laisser contempler à son aise le
spectacle qu’il lui offre »8 ; mentre viene invece appoggiata da Léo Bersani per
cui il Narrateur « en décrivant le monde, […] lui donne la forme d’un reflet
6
Ibid., p. 52.
Marcel Proust, A la Recherche du temps perdu V, Folio-Gallimard, 1988, p. 206
8
Martine Gantrel, Proust et Gide : le « je » narrateur et ses effets perlocutoires, Bulletin des Amis d’André Gide – XXXIV,
151 – juillet 2006, p.430-431.
7
7
presque allégorique de sa propre imagination » 9, e soprattutto da Theodor
Adorno, per cui « personne n’a été plus loin que Marcel Proust dans [l’] allergie
à la forme du compte rendu. Son œuvre se situe dans la tradition du roman
réaliste et psychologique, au stade de la décomposition dans l’extrême
subjectivité. »
10
E, ancora : « Le narrateur institue en quelque sorte un espace
intérieur qui lui évite d’entrer dans le monde étranger en faisant un faux-pas, que
pourrait révéler le ton faux de celui qui feint d’être un familier de ce monde.
Insensiblement, le monde est aspiré dans cet espace intérieur – cette technique a
été baptisée monologue intérieur – et le moindre événement extérieur apparaît
[…] comme un morceau d’intériorité, un moment du flux de conscience ».
Troviamo qui un punto di convergenza indiretto tra la forma di
soggettività del Narrateur e quella del Corrispondente: sebbene in Kaputt il
narratore non lasci nessuno spazio all’esame di se stesso, tanto meno a un’analisi
approfondita della propria sensibilità, la voce del Corrispondente non descrive un
paesaggio o un personaggio senza avvolgerlo di emozione estetica, di lirismo
morale o di metafore comparative assimilabili alla soggettività più esplicita, e su
questo potrebbe basarsi la stessa analisi adorniana di un mondo « aspiré dans cet
espace intérieur », in cui ogni minimo evento sembra « un morceau d’intériorité,
un moment du flux de conscience ». Il Corrispondente di Kaputt mostra le cose al
lettore soltanto attraverso il prisma della propria soggettività. Nelle prime pagine,
mentre esce nel parco del Principe Eugenio di Svezia a Stoccolma, il desiderio
che la guerra finisca orienta interamente la sua percezione dell’ambiente esterno:
la luce decrescente gli dà « un senso di pace e di serenità », si sente sollevato
« dopo l’interminabile giorno» in Lapponia con il suo « crudelissimo sole senza
tramonto », poi l’ombra lo avvolge come « una coperta di lana » e l’aria che va
rinfrescando ha per lui « un tepore, un odore di donna ». Saturato di elementi
visuali e olfattivi, quel passaggio è nondimeno invaso dalla sensibilità dell’
« io »: si capisce che il « crudelissimo sole senza tramonto » simboleggia la
guerra che non finisce mai, e che non bisogna vedere in quel passaggio un
9
Léo Bersani, « Déguisements du moi et art fragmentaire », in Recherche de Proust (coll.), Paris, Points-Littérature, 1980
Theodor Adorno, Notes sur la littérature, 1958, 1961, 1965, 1974, trad. Sibylle Muller, Paris, Flammarion, 2004, p. 40.
10
8
giardino al tramonto, ma un giardino al tramonto visto da un uomo consumato
dalla guerra che sogna solo di addormentarsi tra le braccia di una donna.
All’inizio del capitolo « Le renne », lo stesso Corrispondente descrive il Generale
Dietl servendosi di numerosi elementi sensibili: i capelli sono « cascanti sulla
fronte come la frangia dei paggi del Masaccio », il viso dalla pelle « color verde e
giallo » e lo sguardo segnano « quella lenta dissoluzione, simile alla lebbra, cui
gli esseri umani soggiacciono fatalmente nell’estremo nord » e Dietl guarda il
Corrispondente con « uno sguardo di bestia mansueta e rassegnata », con
l’occhio « meraviglioso e bestiale » che richiama a quest’ultimo la maniera in cui
lo guardavano i soldati tedeschi che « s’aggiravano tristi e assorti nelle profonde
foreste della Lapponia ». Qui appare il personaggio con una precisione che non
serve a raffigurarlo quanto a rafforzare, con l’orientamento univoco della
sensibilità del Corrispondente, l’idea di imminenza della sconfitta tedesca.
Comune ai due narratori, la centralità della soggettività svolge però delle
funzioni molto diverse nelle due opere. In Proust, secondo Jean-Yves Tadié, essa
serve inanzitutto all’esplorazione di sé per costituire un « lien indestructible,
toujours invoqué par l’auteur [entre] le je impersonnel et la structure de l’œuvre »
11
, legame mediante il quale la soggettività condiziona talmente il romanzo nella
sua integralità da scomparire, facendo del Narrateur « un moyen privilégié
d’analyse intérieure, surtout quand il s’agit de l’analyse d’une vocation »12. In
Malaparte, la soggettività è un accesso al solo mondo esterno. Per Gianni Grana,
l’« invadente presenza » della prima persona « ingenera psicologicamente e [...]
fisiologicamente gli accenti di intelligenza offesa e di dignità ferita, di
risentimento e rancore personale, di orrore della guerra e di solidarietà coi vinti e
caduti », et pone un’identità « esemplare e quasi simbolica: quella dell’uomo
europeo, di un testimone che tende a proporsi come la coscienza dell’Europa
tradita e oppressa, dell’Europa caduta dove muore tutto ciò che vi “ha di nobile,
di gentile, di puro”13 ». È noto il narcissismo dell’uomo Malaparte, ciò che il suo
amico il pittore Orfeo Tamburi chiamava « ses prétentions à se mettre
11
Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.32.
Ibid.
13
Gianni Grana, Curzio Malaparte, Milano, Marzorati Editore, 1961, p. 66.
12
9
personnellement en vedette »14, e quel tratto di carattere non è oggetto in Kaputt
di alcuna dissimulazione – come vedremo più avanti – ma, lungi dall’incarnarsi
nell’introspezione, si perde nell’imperativo di pensare il mondo esterno e di
contemplarne non soltanto l’orrore, ma anche la dolcezza e la bellezza. Questa
soggettività, costantemente alle prese con la consustanzialità della forza e della
vulnerabilità, della raffinatezza e della crudeltà, della freschezza e della
putrefazione, sembra soprattutto preoccupata di renderne ogni manifestazione
con precisione, se non con compiacimento, in modo da provocare nel lettore lo
stesso spavento, la stessa ammirazione e lo stesso disgusto. Ambigua per il suo
narcisismo, che è paradossale in quanto esclusivamente rivolto verso l’esterno,
essa racconta l’ambiguità del mondo, e lo fa con toni ambigui: Gianni Grana nota
« un irriducibile estetismo, ma equilibrato a sua volta dall'intensità della reazione
morale. Di qui il tono di gran lunga più pacato e misurato, di calmo e risoluto
distacco quasi impartecipe, che spesso assume la narrazione proprio dove la
materia è più crudele, macabra e nauseabonda.15 »
III. Un confronto tra le funzioni del narratore in Proust e Malaparte
a. La funzione parresiastica
In merito al romanzo moderno, Adorno osserva che la riflessione
« émerge au travers de la pure immanence de la forme », in quanto « prise de
position contre le mensonge de la représentation, c’est-à-dire en réalité contre le
narrateur lui-même, qui cherche à corriger son intervention inévitable en
devenant le commentateur suprêmement lucide des événements.16 » Tale
particolarità implica nel materiale letterario una centralità delle Verità che, in
quanto non deriva dalla dimostrazione né dall’argomentazione, ma dall’esempio,
raggiunge l’idea foucaldiana di « parresia » che invita le persone a curarsi
« d’eux-mêmes, c’est-à-dire de leur raison, de la vérité et de leur âme » 17. Senza
14
Orfeo Tamburi, Malaparte à contre-jour, Paris, Denoël, 1979, p.80.
Ibid., p. 62.
16
Ibid., p.41.
17
Michel Foucault, Le Gouvernement de soi et des autres II : Le Courage de la vérité, Paris, Gallimard, 2009.
15
10
mostrare di preoccuparsi di attestare ciò che descrive, il Narrateur presenta al
lettore il processo attraverso il quale si avvicina alla verità del mondo e degli
esseri. Gli mostra le tappe della propria riflessione, gli confessa le difficoltà che
incontra, condivide con lui i propri errori di comprensione e di giudizio. Proprio
perché espone la sua ricerca della verità, dice la verità. Il celebre brano sulla
madeleine esemplifica questo processo : il Narrateur vi esplora in modo
estremamente dettagliato i movimenti della propria coscienza alle prese con la
memoria e la sensibilità, moltiplicando le esitazioni e le incertezze: « Et je
recommence à me demander quel pouvait être cet état inconnu, qui n’apportait
aucune preuve logique mais l’évidence de sa félicité, de sa réalité devant laquelle
les autres s’évanouissaient. Je veux essayer de le faire réapparaître. Je rétrograde
par la pensée au moment où je pris la première cuillerée de thé. […] Je demande
à mon esprit un effort de plus, de ramener encore une fois la sensation qui
s’enfuit. […] Arrivera-t-il jusqu’à la surface de ma claire conscience, ce
souvenir, l’instant ancien que l’attraction d’un instant identique est venue de si
loin solliciter, émouvoir, soulever tout au fond de moi ? Je ne sais. Maintenant je
ne sens plus rien, il est arrêté, redescendu peut-être ; qui sait s’il remontera
jamais de sa nuit ? Dix fois il me faut recommencer, me pencher vers lui ». Al
termine di questa lotta interiore, l’istante epifanico « Et tout d’un coup le
souvenir m’est apparu » costituisce la rivelazione insperata non di una verità, ma
della Verità, chiara e lampante, che designa il Narrateur come servo devoto,
pronto a qualsiasi sforzo per farla emergere. Il fatto di dimostrare pur non
dimostrando, soltanto tramite un’esposizione di se stesso meticolosa e priva di
compiacimento, la cui buona fede viene attestata dalle contraddizioni e dalle
debolezze anticipatamente confessate, istituisce il Narrateur come parresiasta
tanto più affidabile in quanto non sembra cercare di ispirare la fiducia,
limitandosi ad essere se stesso. Nella Recherche, la ricorrenza di questo tipo di
dispositivo ne garantisce l’efficacia: il lettore non dimentica mai di avere a che
fare con una persona sincera che, temendo sempre di sbagliare, non può voler
ingannare. Il Corrispondente adotta spesso le stesse tecniche per raggiungere lo
statuto di parresiasta, come quando evoca una conversazione sulla terrazza di
Montecarlo Beach dicendo « La Principessa di Piemonte parve molto turbata
11
dalle mie parole, e vidi che arrossiva leggermente. Io m’ero già pentito di averle
parlato in quel modo. Temevo di averla offesa. Ma dopo qualche istante mi
disse... » ; nel seguito del dialogo questa precauzione iniziale garantisce
l’accuratezza e la fedeltà della restituzione. Poco oltre, quando la Principessa
afferma ingenuamente « Tutto finirà bene, vedrà, il nostro popolo è
meraviglioso »18, egli rafforza l’impatto della risposta « il nostro popolo è molto
infelice » confidando prima al lettore : « [...] avrei voluto risponderle : “Abbiamo
già perso la guerra, tutti abbiamo perso la guerra, anche Lei”. Ma mi trattenni. »
La necessità di consolidare l’affidabilità del discorso è ancora più evidente
quando racconta a soldati romeni di essersi avvicinato a Hitler: « Gli stivali di
Hitler sono abbastanza belli. Io li ho visti da vicino. Non ho mai parlato a Hitler,
ma gli ho guardato gli stivali da vicino. Sono senza speroni.19 » In questo
passaggio, il fatto di precisare che non ha « mai parlato » a Hitler ma che ne ha
visto gli stivali rende incontestabile il fatto che l’ha visto da vicino.
b. La funzione iniziatica
La Recherche è già stata paragonata alla Commedia di Dante dalla
ricercatrice Anne Teulade, per la quale « les parentés les plus évidentes entre les
deux œuvres tiennent d'abord à leur dimension initiatique » con un eroe-narratore
il cui percorso « constitue une exploration du monde doublé d'un apprentissage
personnel » che passa per « les tâtonnements, l'errance dans l'erreur et la
pénombre », prima che le « visions » facciano « entrevoir la possibilité d'un
salut20 ». Inoltre, il Narrateur potrebbe sintetizzare in un personaggio unico le
figure di Dante e Virgilio, in quanto è contemporaneamente l’avventuriere
candido smarrito in un mondo interamente costituito di enigmi, e quello che
illumina e guida il lettore attraverso lo stesso mondo di cui non cessa di chiarire,
nel momento stesso in cui le scopre, le sottigliezze. La situazione iniziale del
romanzo si organizza attorno al ricordo di esser stato, da bambino, condannato
ogni sera alla solitudine e al senso di abbandono nella propria camera, perduto
18
Curzio Malaparte, Kaputt, Milano, Mondadori, 2001, p.458.
Ibid., p.478.
20
Anne Teulade, « Proust et l’épopée de Dante », in Proust, l’étranger, ed. by Karen Haddad-Wotling and Vincent Ferré,
Amsterdam, Rodopi, 2010.
19
12
nelle tenebre del proprio immaginario così come Dante nella « selva oscura ». Il
lettore viene immediatamente chiamato in causa attraverso l’evocazione di un
territorio condiviso che rimanda all’esperienza più intima e sensibile: la propria
infanzia; ma viene immediatamente preso per mano, guidato, orientato attraverso
il racconto dalla curiosità estrema del Narrateur per ciò che struttura alla radice
ogni elemento della cosidetta ora di coricarsi: la fantasticheria ansiosa, la perdita
di controllo dei pensieri, le deformazioni della percezione, le diverse modalità
dell’attesa e dell’ottenimento del « baiser du soir » ; il discorso non è mai
sovrastante ma rientra nel work in progress, negli scavi a cielo aperto, trascina il
lettore in un’ esplorazione instancabile, e gli fa condividere nel corso delle
pagine, mano a mano che il Narrateur cresce, fa il suo ingresso nel mondo, la sua
progressiva comprensione della complessità di quel mondo, senza mai
considerare niente come stabilito in modo definitivo. Quando la sua
rappresentazione idealizzata della duchessa di Guermantes viene confrontata alla
donna reale di cui è diventato il vicino, assistiamo alla disgregazione, dettaglio
dopo dettaglio, del suo immaginario: dapprima egli la scopre che gioca « ce rôle,
si inférieur à elle, de femme élégante21 » ; poi condividiamo il suo apprendimento
di una condotta ragionevole, quando capisce che le sue passieggate quotidiane
per incrociare la duchessa esasperano quest’ultima; infine arriva l’ammissione
tanto attesa nel suo entourage, e le conseguenze che ne derivano: la completa
caduta del prestigio di Oriane, al cui proposito si ritroverà poi a dire « Nos
relations étaient fondées sur un malentendu qui ne pouvait manquer de se
manifester dès que mes hommages, au lieu de s'adresser à la femme relativement
supérieure qu'elle croyait être, iraient vers quelque autre femme aussi
médiocre22 ». Il lettore scopre la Guermantes mediante la scoperta che ne fa il
Narrateur, e sebbene venga illuminato in quella messa a nudo dall’arte della sua
guida nell’analizzare le proprie osservazioni e costruire il proprio giudizio, in
nessun momento, come sottolinea Tadié, ha « l’impression que le narrateur en
sait plus que lui23 ». In Kaputt, invece, il Corrispondente conosce il mondo
21
Marcel Proust, A la recherche du temps perdu III, Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990, p. 23.
Marcel Proust, A la recherche du temps perdu IV, Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990, p. 187.
23
Ibid., p.37.
22
13
attraverso il quale trascina il lettore, e la sua opinione è fatta sin dall’inizio sulla
natura di quel mondo, come si evince dalla risposta perentoria che fa allo
scrittore svedese Axel Munthe quando costui, durante una passeggiata a Capri, lo
interroga sulla crudeltà dei tedeschi: « La loro crudeltà è fatta di paura […], sono
malati di paura. Sono un popolo malato, un “krankes Volk”.24 » La regola di
progressività che solitamente presiede ai processi di iniziazione viene sin
dall’inizio violata da questa rivelazione immediata della tesi generale di Kaputt
sul funzionamento della violenza nazista. Attraverso le tappe successive del
racconto, la posta in gioco non sembra essere quella di condividere col lettore
l’apprendimento del protagonista, ma piuttosto di insegnargli ciò che
quest’ultimo sa. Si può parlare al riguardo di iniziazione diretta, o più
precisamente di pedagogia, il che implica la tendenza a infantilizzare il lettore
usando spesso la retorica della favola per bambini, così come all’inizio del
capitolo IV, quando il Corrispondente risponde al Reichminister Frank
autoproclamato « Re tedesco di Polonia »: « Ho parlato con molti Re, ho
pranzato nei loro palazzi e nei loro castelli ma nessuno di loro mi ha mai detto: io
sono il Re25 » ; o di cadere in uno stile didattico quando, seduto accanto allo
stesso Frank sull’orlo del Fiume Juutuanjoki in Finlandia, si imbarca in una
meditazione interiore che prende la forma di una lezione sulla vera natura dei
tedeschi, messa a nudo dall’imminenza della loro sconfitta; la descrizione è allora
visuale, elencativa, piattamente esplicativa per andare dalla descrisione precisa
del paesaggio fino alla constatazione inequivocabile della disperazione dei
soldati della Wehrmacht che « avevano acquistato la disperata umiltà delle bestie
selvatiche, il loro misterioso senso della morte26 ». Il ruolo di pedagogo del
Corrispondente s’incarna anche, in tutto il libro, nella sua tendenza alla
ripetizione. Alcune informazioni e riflessioni, nonché alcuni elementi visuali e
metaforici, ritmano il testo alla maniera di richiami delle regole di una specie di
grammatica generale della guerra. Le meditazioni sulla natura profonda della
Germania e dei tedeschi, e le variazioni sul tema della paura che sta alla base
24
Kaputt., p.441.
Ibid., p.503.
26
Ibid., p.862.
25
14
della loro crudeltà ritornano spessissimo; si nota poi il ricorrere frequente – che
rasenta a tratti l’ossessione – delle metafore che usano la figura del cadavere e
della putrefazione: l’inverno del 1941 viene paragonato a un « gran corpo in
decomposizione27 » ; si ripete anche il paragone dei girasoli con « grandi occhi
neri […] dalle lunghe ciglia dorate28 », come è frequente un uso smoderato
dell’immagine degli occhi: luccicanti, febbricicanti o penetranti, la loro centralità
è quasi onnipresente in Kaputt, particolarmente nell’uso del paradosso. Per il
Corrispondente, gli occhi dei cadaveri sono viventi, come quelli dei cavalli
congelati nel lago Làdoga, « sbarrati », nei quali « bruciava ancora la fiamma
bianca del terrore29 », mentre gli occhi degli uomini rimandano a quegli degli
animali, come abbiamo già visto in merito al ritratto del Generale Dietl. Per
Malaparte, gli occhi ricordano la vita che, precedente alla morte, le attribuisce un
senso; indicano l’innocenza e la debolezza la cui repressione provoca la caduta
nella barbarie; costituiscono un’irruzione della Verità in mezzo alle apparenze.
Quest’uso metaforico degli occhi raggiunge il suo apice nel passaggio
sull’occhio di vetro del Feldwebel in un villaggio d’Ucraina. Catturato un
ragazzino nel campo dei partigiani, l’ufficiale guercio promette di lasciarlo in
vita se questi riesce a indovinare quale dei due occhi è di vetro, e il bambino
risponde : « L’occhio sinistro » ; « Come hai fatto ad accorgertene ? » ; « Perché
dei due è l’unico che abbia qualcosa di umano30 ».
c. La funzione periscopica
Il Narrateur proustiano, per quanto sia introspettivo nelle sue
interrogazioni, è nondimeno immerso in una società molto chiusa di cui esamina
con precisione i membri e i loro comportamenti, comunicando al lettore lo stesso
senso di partecipazione attiva. Dal momento che non lascia mai trasparire intorno
a sé alcun pensiero recondito che lo agita e non esprime mai agli altri protagonisti
la spietata mancanza di indulgenza con cui li giudica, possiamo dire che vede
senza esser visto, e costituisce dunque un periscopio ad uso del lettore che può,
27
Ibid., p.490.
Ibid., p. 466.
29
Ibid., p. 493.
30
Ibid., p. 768-769.
28
15
per il suo tramite, circolare tranquillamente, senza essere visto, nelle alte sfere
inaccessibili alla gente comune, in maniera tanto più realistica in quanto avrà
dapprima affrontato, in osmosi con il suo « Dante-Virgilio » addentrandosi
progressivamente nelle esclusive cerchie del Faubourg Saint-Germain, la
difficoltà a penetrare quei salotti. Fatto questo, grazie al principio di parresia
menzionato sopra, non c’è più posto per il dubbio quanto alla veridicità della
buona accoglienza del Narrateur fra i principi e le duchesse più selettivi nelle
loro frequentazioni: sappiamo quante battute d’arresto ha subito prima di essere
accolto da loro. L’acutezza che mostra, poi, nella sua percezione dell’alta società,
oltrepassa ampiamente i limiti della mera osservazione, poiché sfiora il dono
della lettura del pensiero, se non addirittura dei pensieri reconditi, come dimostra
questo passaggio, relativo a una rappresentazione di Fedra, durante la quale il
Narrateur osserva e studia gli atteggiamenti degli spettatori: « Peut-être Mme de
Guermantes aurait-elle le lendemain un sourire quand elle parlerait de la coiffure
un peu trop compliquée de la princesse, mais certainement elle déclarerait que
celle-ci n'en était pas moins ravissante et merveilleusement arrangée ; et la
princesse, qui, par goût, trouvait quelque chose d'un peu froid, d'un peu sec, d'un
peu couturier, dans la façon dont s'habillait sa cousine, découvrirait dans cette
stricte sobriété un raffinement exquis.31 » Ma questa precisione onnisciente dello
sguardo viene controbilanciata, se non contraddetta, dal fatto che il Narrateur
non cessa mai di sbagliarsi e di essere smentito nella sua lettura del mondo.
Come sottolinea Tadié, l’intera opera potrebbe essere divisa « entre ce que le
narrateur a vu, et ce qu’il a su – cru voir et cru savoir32 », poiché la dinamica
generale del romanzo implica la perpetua scoperta di ciò che è, in
contrapposizione a ciò che sembra di essere : « connaître tout, tout voir est
l’idéal du narrateur, mais jamais réalisé33 ». Il lettore è nondimeno costantemente
messo, per il suo tramite, nella situazione di una « mosca sul muro » che può
tanto meglio vedere in quanto non è vista. E gode del medesimo privilegio
leggendo Kaputt, in cui le alte sfere, altrettanto inaccessibili alla gente comune,
31
A la recherche du temps perdu III, p. 47.
Proust et le roman, p.54.
33
Ibid., p.57.
32
16
non son più soltanto quelle di un’aristocrazia qualsiasi, ma anche quelle del
potere nazista. Il Corrispondente vi si comporta spesso come una spia vera e
propria, adottando l’atteggiamento più amichevole e trovandosi ammesso – e
molto apprezzato – nell’intimità ristretta dei più terribili dirigenti del Reich; ne
deriva talvolta un’atmosfera famigliare che mostra al lettore la parte simpatica,
persino calorosa di grandi criminali, fino al punto di aprire con loro dei campi di
immedesimazione per lo meno imbarazzanti. Troviamo questa situazione in
relazione al Generale Frank quando il Corrispondente conclude una serata nel
suo appartamento privato fra gli invitati « abbandonati nei profondi divani
viennesi e nelle larghe poltrone coperte di morbida pelle di daino […] a fumare e
discorrere34 » ; le parole del Generale,
in quell’occasione,
esprimono
benevolenza verso i popoli occupati: « Gli operai polacchi […] non sono i
migliori d’Europa, ma nemmeno i peggiori. Se vogliono, sanno lavorar molto
bene » e aggiunge, dissertando sulla natura del popolo polacco : « Credo [...] che
finga di dormire. [...] In fondo, non domanda di meglio che lasciarsi amare 35 »;
poi, quando la conversazione affronta il tema del livello d’igiene delle donne
polacche, si lascia scappare un’informazione aneddotica – aneddotica stando al
tono negligente e mondano con cui viene fornita : « In Germania hanno trovato
il modo di fare il sapone con una materia che non costa nulla, e di cui vi è molta
abbondanza. Ne ho già ordinata una grande quantità da distribuire alle signore
polacche, perché possano lavarsi »; e quando il Corrispondente si stupisce che si
tratti di sterco umano e chiede con un’innocenza che non può ingannare il lettore
se « è un buon sapone », il Generale risponde: « Eccellente [...]. L’ho provato per
radermi e ne sono rimasto incantato36. » In questo tipo di immersione estrema, il
Corrispondente non si accontenta di dissimulare il proprio antinazismo ma entra
nei panni del simpatizzante nazista fino al punto di condividerne empaticamente
le sensazioni, raccontando, ad esempio, che, nel salotto dello stesso Frank, dopo
aver fatto un brindisi, gli « girava un po’ la testa » e che si sentiva «
34
Kaputt., p.527.
Ibid., p.529
36
Ibid., p.530.
35
17
piacevolmente disposto37 ». Tale maniera di confondersi interamente nel campo
nemico, oltre al porre la questione etico-storica del livello di compromissione
reale dell’autore a cui il narratore è ispirato, si allinea all’osservazione estetica di
Grana che insiste sul ruolo svolto in Kaputt dall’ironia in quanto « modulo
espressivo di una reazione morale » che « concorre a realizzare […] la tonalità
fondamentale del racconto, un’intonazione ambigua di pietà distaccata e dura, di
pena lucida e acerba, di giudizio acre, dissimulato e persino inasprito nei mots
d’esprit di un frivolo cinismo salottiero38 ». Per ottenere tale rafforzamento del
proprio giudizio, il Corrispondente malapartiano non si accontenta quindi di
offrire al lettore una visione periscopica dell’intimità dei criminali, ma gli
impone anche una forma di immedesimazione con loro; questo processo ambiguo
è interessante in quanto riflette una visione generale della guerra come luogo del
paradosso in cui orrore e bellezza risultano strettamente intrecciati – come nella
descrizione surreale della strage degli ebrei di Jassy – per non dire
interdipendenti, come rivelano la maggior parte degli episodi che descrivono
cene mondane; esso caratterizza e condiziona anche una funzione specificamente
malapartiana del narratore sulla quale torneremo, ossia quella della rivelazione.
d. La funzione generica
Per quanto sia onnipresente, il Narrateur proustiano, come osserva JeanYves Tadié, « nous reste mystérieux », perché diventa la « demeure obscure mais
intime du lecteur », insieme eroe, attore e spettatore della propria azione ; « il
garde jusqu’à la fin du récit quelque chose de l’obscurité de la chambre nocturne
où nous l’avons rencontré la première fois. Paradoxe, alors qu’il est le héros dont
les pensées secrètes, les interprétations – les causes – d’actes qu’il ignore luimême nous soient toutes connues. […] Nous passons au travers et ne le voyons
pas, comme pour nous-mêmes39 ». Martine Gantrel condivide questa posizione,
ma vede in ciò una maggiore intenzionalità da parte del Narrateur, il quale « tout
en initiant son lecteur à tous les replis de son intériorité et aux multiples facettes
37
Ibid., p.606.
Curzio Malaparte, p. 70.
39
Proust et le roman, p.30.
38
18
de sa vie mondaine, […] reste lui-même en retrait, s’effaçant cérémonieusement
devant son lecteur pour le laisser contempler à son aise le spectacle qu’il lui
offre40 ». Il Narrateur si lascia conoscere in sottofondo, attraverso gli interessi, le
angoscie, le ossessioni che emergono dal suo racconto, ma non si descrive mai,
lascia in ombra la maggior parte degli elementi ordinari di caratterizzazione di un
individuo. Funziona come un involucro ad uso del lettore, un vestito nel quale
siamo invitati a entrare per accedere al racconto, un luogo che non conosciamo,
ma grazie al quale conosciamo. Paradossalmente, questo posizionamento è tale
da rafforzare il legame col lettore, perché, come spiega Gantrel, « l’intimité entre
instance narratrice et instance réceptrice du discours littéraire ne vient pas […]
d’un face à face toujours recommencé […] mais au contraire de ce que l’une et
l’autre instance regardent ensemble et toujours […] du même côté ». Di fatto,
quando ripensiamo alla Recherche dopo averla letta, non ci ricordiamo di aver
ascoltato le confidenze di un protagonista affascinato dalla duchessa di
Guermantes, amico di Saint-Loup e geloso delle amiche di Albertine, ma
piuttosto di esser stati noi stessi affascinati dalla duchessa di Guermantes, amici
di Saint-Loup e gelosi delle amiche di Albertine. In Le Temps retrouvé, il
Narrateur stesso dà la chiave di lettura di tale posizione “in disparte”
dell’autore : « En réalité, chaque lecteur est, quand il lit, le propre lecteur de soimême. L’ouvrage de l’écrivain n’est qu’une espèce d’instrument optique qu’il
offre au lecteur afin de lui permettre de discerner ce que, sans ce livre, il n’eût
peut-être pas vu en soi-même41. A tale proposito, si può parlare di genericità del
Narrateur che, per concedere spazio al lettore, giunge a una dimensione
universale, non cancellandosi attivamente, ma tralasciando sempre di rivendicare
direttamente se stesso, in modo che le specificità della sua personalità, per quanto
manifeste,
rimangono
secondarie
e
prendono
corpo
soltanto
tramite
l’immedesimazione del lettore.
Apparentemente, il Corrispondente di Kaputt funziona in maniera opposta.
Sin dall’inizio, questi afferma l’originalità della propria personalità; scopriamo
« Proust et Gide : Le « je » narrateur et ses effets perlocutoires », Bulletin des amis d’André Gide, XXXIV, 151, juillet 2006,
p.430-431.
41
A la recherche du temps perdu VII, p. 217-218.
40
19
prima di tutto la sua franchezza che emerge dalla maniera in cui « quasi per
modo inconscio » racconta al Principe Eugenio di Svezia l’aneddoto dei
« prigionieri russi che, accecati e abbrutiti dalla fame, mangiavano i cadaveri dei
loro compagni […] sotto gli occhi impassibili degli ufficiali e dei soldati
tedeschi », e, in seguito, egli rivendica il modo insistente la propria sensibilità:
« Sentivo che se egli [il Principe] avesse parlato, se mi avesse rivolto una sola
parola, se mi avesse toccato la mano, forse mi sarei messo a piangere 42 ».
Scopriamo poi la sua capacità di fare apertamente dell’ironia sulle atrocità
naziste, non solo durante le cene mondane ma anche al fronte, come in Ucraina
quando dichiara a un caporale che prevede di portare un prigioniero russo fino a
Balta senza nutrirlo né restituirgli gli stivali : « Fareste più presto ad ammazzarlo,
non ti pare ? » ; la maniera poi in cui restituisce, nei minimi dettagli, la
discussione durante la quale convince il caporale a cedergli l’onere di condurre il
prigioniero, ci fa capire che in quel momento non è più un corrispondente di
guerra che racconta: è un eroe. Il narratore di Kaputt non s’incarna
nell’esplorazione interrogativa di un « io » vertiginoso, ma in un’esposizione
« dall’esterno », nella fiera rappresentazione di un « io » che potremmo definire
privo di interiorità, tanto essa sembra inaccessibile al dubbio, allo scrupolo e
all’approssimazione. Se poi aggiungiamo a tale interiorità labile l’assenza di
legami affettivi nel corso del racconto, l’assenza cioè di vita amorosa e
famigliare tanto nel presente quanto nella memoria del Corrispondente, si giunge
un livello di impersonalità tale che i tratti di carattere citati sopra, in quanto
incidono a malapena sullo svolgimento dei fatti e non costituiscono mai materiale
di analisi o di simbolizzazione estetica, fungono da attribuiti artificiali, persino
arbitrari, e soprattutto irrilevanti in mezzo al disastro della guerra. L’incarnazione
relativa del Corrispondente è assimilabile alla trasparenza del Narrateur per la
maniera di scomparire di fronte alla potenza della realtà circostante; essa
trasforma il protagonista in figura interscambiabile.
42
Kaputt., p.446-447.
20
e. La funzione infra-narrativa
Nella Recherche, ci sono presenti numerosi « racconti nel racconto » che
interrompono il flusso narrativo, alla stessa stregua di altre varianti formali come
le scene dialogate, i « pastiche » letterari e gli estratti di corrispondenza, e
permettono di « recevoir des nouvelles de personnages qu’on ne voit pas,
d’événements auxquels on n’a pas assisté43 ». Sono integrati al racconto generale
per mezzo della parentesi che è per Proust, secondo André Ferré, « un symbole
du mouvement de pensée et de composition qui lui est propre 44 ». Il più
importante di tali excursus è indubbiamente « Un amour de Swann », la cui
durata si avvicina a quella di un romanzo completo, e che beneficia di
un’autonomia strutturale tale da essere oggetto di un’edizione separata, sebbene
l’episodio sia perfettamente integrato nell’insieme del romanzo. « Un amour de
Swann » si distingue per lo sdoppiamento della figura del Narrateur, il cui tipo di
sensibilità si ritrova nella figura di Swann, una specie di avatar la cui situazione
prefigura le ossessioni sentimentali del Narrateur divenuto adulto e la sua
posizione ambigua nel milieu mondano; Odette de Crécy e la Verdurin vi
sembrano annunciare, in sedicesimo e in modo quasi caricaturale, Albertine e la
duchessa di Guermantes. Ma si trovano molti altri racconti nel racconto, che
spesso si distingono per la loro violenza e la loro funzione emblematica. Tra di
essi, ricordiamo quello dello sputo della signorina di Vinteuil, che viene
introdotto da una forma molto proustiana, cioè molto prolissa, del tradizionale
« c’era una volta » : « C'est peut-être d'une impression ressentie aussi auprès de
Montjouvain, quelques années plus tard, impression restée obscure alors, qu'est
sortie, bien après, l'idée que je me suis faite du sadisme. On verra plus tard que,
pour de tout autres raisons, le souvenir de cette impression devait jouer un rôle
important dans ma vie. C'était par un temps très chaud45… » Segue la storia della
figlia del compositore Vinteuil che, ancora in lutto per il padre e prossima ad
avere rapporti sessuali con un’amica, accetta la sfida perversa di sputare sul
ritratto del defunto. La conclusione concede un’autonomia all’infra-racconto pur
43
Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.373.
André Ferré, « La ponctuation de Marcel Proust », Bulletin Marcel Proust n°7, 1957, p.324.
45
A la recherche du temps perdu I, p. 157.
44
21
conferendogli una portata morale: « Je n'en entendis pas davantage […] mais je
savais maintenant, pour toutes les souffrances que pendant sa vie M. Vinteuil
avait supportées à cause de sa fille, ce qu'après la mort il avait reçu d'elle en
salaire.46 » Il Narrateur sviluppa poi un’analisi del comportamento della ragazza
che, sfumando il giudizio sul suo gesto, vi attribuisce una possibile forma di pietà
filiale. Un altro racconto, più breve, fatto al Narrateur da Saint-Loup, mette in
scena un uomo che Charlus avrebbe una volta fatto picchiare perché costui gli
aveva fatto delle avance. L’episodio comincia con « Un jour un des hommes qui
est aujourd’hui des plus en vue dans le faubourg Saint-Germain47 » e si conclude
con una considerazione di Saint-Loup sulla gentilezza attuale dello zio, al cui
proposito nessuno immagginerebbe « le nombre d’hommes du peuple, lui si
hautain avec les gens du monde, qu’il prend en affection, qu’il protège, quitte à
être payé d’ingratitude. Ce sera un domestique qui l’aura servi dans un hôtel et
qu’il placera à Paris, ou un paysan à qui il fera apprendre un métier. C’est même
le côté assez gentil qu’il y a chez lui, par contraste avec le côté mondain ».
Questa volta, non è il Narrateur a raccontare una storia per sostenere lo sviluppo
del proprio pensiero, ma un altro personaggio, e l’aneddoto non viene
direttamente sfruttato, poiché sul momento ne viene a galla soltanto la maniera di
esprimersi di Saint-Loup; ma esso nutre in profondità, e in modo indiretto, una
problematica secondaria dell’opera, vale a dire l’allusione all’omosessualità; per
mezzo di perifrasi, l’aneddoto permette a questo tema di immettersi nel racconto
generale ben prima di venire esplicitamente affrontato. L’infra-narrazione svolge
quindi nella Ricerca due ruoli distinti : quello di parabola, e quello di
cristalizzazione. In Kaputt, essa assolve essenzialmente a una funzione di
rafforzamento del discorso dell’autore, o della sua situazione, fornendo esempi di
ciò che denuncia e sottolineando con aneddoti la maniera in cui la guerra associa
costantemente orrore e bellezza, terrore e disinvoltura. Durante una cena da
Frank, il Corrispondente, alla vista di un’oca arrosto che per lui simboleggia il
popolo polacco martoriato, viene preso da un senso di compassione che lo
sprofonda nel ricordo della vecchia Principessa Radziwill « in piedi sotto la
46
47
Ibid., p. 161.
A la recherche du temps perdu II, p. 317.
22
pioggia fra le rovine della Stazione di Varsavia », la quale, dopo che un ufficiale
tedesco le ha portato una sedia, dice a proposito degli occupanti: « C’est
incroyable comme ils se sentent chez eux, ces pauvres gens48 »; poi, dopo averci
raccontato che ha gridato ironicamente « Feuer ! » all’arrivo dell’oca arrosto,
prosegue con la storia della Principessa Radziwill, per tornare infine al presente
della cena, in cui i commensali ridono di gusto dello scherzo. Il lettore, assunto a
confidente dei tragici pensieri reconditi del Corrispondente, viene poi colpito
dall’allegrezza volgare che regna intorno al tavolo dei nazisti. L’excursus assume
una funzione ancor più interessante qualche pagina più avanti, quando il
Corrispondente, durante un’altra cena mondana a Varsavia, risponde con un
aneddoto a Frank, secondo il quale i pogrom « sono una leggenda ». Dopo aver
fatto un brindisi con lui, si mette a « narrare la cronaca dei fatti avvenuti nella
nobile città di Jassy ». Il capitolo termina con questo annuncio fatto al lettore,
che troverà seguito nell’intero capitolo seguente, dedicato al racconto del
massacro. Orbene, emerge rapidamente che questo « racconto nel racconto » non
è, non può essere, quello ascoltato dal governatore Frank con cui cena il
Corrispondente. Il capitolo inizia come un giallo, in medias res, senza nessuna
presentazione del momento, del luogo o della situazione: « Spinsi la porta, ed
entrai. La casa era vuota, si vedeva che era stata abbandonata all’improvviso. Le
tende delle finestre erano state strappate… » La forma è chiaramente quella del
racconto letterario e non orale, con descrizioni visuali, con dettagli secondari
estremamente numerosi e con una focalizzazione sull soggettività dell’ « io »
narrante, esattamente all’opposto di una semplice restituzione fattuale.
Soprattutto, si insiste sulla sensibilità all’atmosfera di terrore che regna nella
città, un orrore per la violenza e un’esaltazione onirica del popolo ebreo
martoriato che non potrebbero essere espresse così dettagliatamente né così
apertamente dal Corrispondente di fonte al governatore senza smascherarlo.
Siamo dunque davanti a un « doppio racconto nel racconto », uno dei quali ci è
esclusivamente destinato, mentre l’altro, assente dal testo ma narrativamente
attivo, si limita probabilmente a riferire i metodi di arresto e di assassinio degli
48
Kaputt, p. 517-519.
23
ebrei di Jassy, poiché all’inizio del capitolo seguente il governatore Frank
risponde chiedendo tranquillamente al Corrispondente: « Quanti ebrei sono morti
a Jassy, quella notte ? » dichiarando poi: « È una cifra rispettabile […] ma il
modo non è onesto. Non si fa così.49 » Altri passaggi infra-narrativi occupano un
posto più aneddotico nel discorso generale, come la storia dello spettro di via
Kàlevala à Helsinki, la prima di una serie di tre « storie » consecutive che
alimentano il tema malapartiano della supremazia della Natura, sottolineando
l’atmosfera irreale dell’estate subartica. Questo passaggio è nettamente
circoscritto dal suo annuncio da parte del diplomatico Agustín de Foxá : « Hai
sentito parlare dello spettro di via Kàlevala ? » e la sua conclusione al presente
sulla « strana inquietudine », la « specie di febbre fredda » che « s’impadronisce
dei popoli del Nord nelle “notti bianche” d’estate ». Il seguente, quello del
prigioniero sovietico che pugnala un prete nella sua cella perché vuole « uccidere
Dio », viene annunciato come una parabola vera e propria, per illustrare
l’affermazione del Corrispondente « Il maggior problema moderno è pur sempre
il problema religioso50 ». E come le parabole del Vangelo, il racconto infranarrativo scandalizza una parte dell’uditorio, nella fattispecie la Contessa
Mannerheim che esclama: « Ma è orribile ! […] Come si può concepire l’idea di
uccidere Dio ? » Il lettore osserverà, ovviamente, che non è la morte del prete a
sconvolgere la Contessa ma proprio « l’idea di uccidere Dio », così come non era
il massacro degli ebrei du Jassy a disturbare Frank, quanto il modus operandi. Il
Corrispondente prosegue quasi immediatamente con un terzio racconto, quello di
Spin, il cane del ministro Mameli a Belgrado, che costituisce a sua volta un
capitolo intero. Annunciato come una storia che « [si mise] a narrare » agli stessi
commensali, l’infra-racconto assume, così come l’episodio del pogrom di Jassy,
una forma letteraria destinata soltanto al lettore, anche se tale « traduzione » non
è stavolta giustificata da un pericolo, e non ha poi un seguito nella fictio
narrativa: non è seguita da alcuna reazione da parte dell’uditorio, né da una
« chiusura di virgolette », cosicché il capitolo seguente presenta una continuità di
narrazione poco coerente: dal punto di vista strettamento logico, potremmo
49
50
Ibid., p. 604.
Ibid., p. 721.
24
dedurne che tutto il resto di Kaputt sia raccontato dal Corrispondente nel corso
della stessa cena alla Legazione di Spagna di Helsinki. Tale confusione fra i
campi narrativi non nuoce tuttavia né alla potenza dell’argomento né alla
dinamica del racconto; potremmo dire, al massimo, che non porta a propendere
per la verosomiglianza – e ancora meno per l’esattezza – autobiografico-storica
di Kaputt; oppure, in una prospettiva più positiva, che contribuisce a collocare il
testo in una frontiera interessante tra realismo e simbolismo tragico. Ma l’uso
dell’infra-narrazione trova il suo apice nella serie di storie che racconta il
Corrispondente alle sue amiche Louise ed Ilse in un bar di Potsdam. Qui il
dispositivo viene portato all’estremo, il che rende il capitolo intero una vera e
propria raccolta di racconti, legati tra loro dall’ostinazione con cui il
Corrispondente
intende
appassionare
le
sue
interlocutrici
con
storie
alternativamente atroci e amene: prima quella dei soldati tedeschi nel bar
Europeiski che « non avevano palpebre » con la loro « pupilla che si dilatava e si
restringeva in mezzo all’occhio sbarrato e fisso, nel vano sforzo di evitare la
luce51 » ; segue la storia dei genitori napoletani che, per rassicurare i loro figli,
fanno credere loro che gli aerei inglesi non sganciano bombe ma i giocattoli che
loro stessi hanno preventivamente nascosto nel giardino; poi la storia di Huxley,
che si vede rimproverare dal re Georgio V e da sua moglie di aver fatto morire un
bambino alla fine del suo romanzo Point counterpoint ; poi la storia, già evocata,
dell’occhio di vetro dell’ufficiale tedesco, identificato da un ragazzino partigiano
ucraino e che si conclude, in risposta alla domanda di Louise a proposito della
sorte riservata al bambino, con un finale degno di una favola: « L’ufficiale lo
baciò sulle due guance, lo vestì d’oro e d’argento ; e fatta venire una berlina reale
tirata da otto cavalli bianchi e scortata da cento corazzieri dalle corazze
splendenti inviò il ragazzo a Berlino: dove Hitler lo accolse come il figlio di un
re, fra le acclamazioni della folla, e gli diede sua figlia in isposa 52 » ; c’è
un’ironia evidente, e quando l’interlocutrice risponde « non poteva finir che
così », non dobbiamo considerarla ingenua, quanto piuttosto grata del pudore con
cui il Corrispondente passa sotto silenzio l’esito reale della storia, se non
51
52
Ibid., p. 756.
Ibid., p. 769.
25
addirittura complice di un effetto d’ironia tragica destinato al lettore. Ma a quel
lieto fine che non inganna nessuno fa seguito l’abominevole storia del recipiente
pieno di occhi umani offerto al Poglawnik di Croazia Ante Pavelic, a sua volta
seguita da quella, amena, dei figli di Tatiana Colonna, che pensavano che i
passeri fossero bombardieri, poi quella della cena mondana sulla riva del
Wannsee, cui segue quella del suicidio di Giuseppina von Stum, e, infine, la
storia particolarmente sconvolgente delle studentesse ebree del bordello di
Soroca che si sapevano condannate alla fucilazione al termine delle loro tre
settimane di schiavitù sessuale. In tutto, si tratta di nove « racconti nel racconto »
che si succedono senza sosta e vengono imposti dal Corrispondente alle sue
amiche; nove storie sulla guerra che, con la loro potenza emblematica, prendono
posto in ciò che Grana definisce la « memoria lirica » del narratore che « si
realizza attraverso le emozioni di una realtà eccezionale, trasferite in immagini
violente dove gli episodi della cronaca tendono ad assumere un valore assoluto,
di “epica contemporanea”53 ».
f. La funzione visuale
Il Narrateur proustiano non è un pittore naturalista. Nella maggior parte
dei casi, ci mostra gli avvenimenti soltanto attraverso le considerazioni che ne
trae; l’aspetto strettamente visivo della restituzione non è però assente della
Recherche, sebbene sia in generale limitato all’essenziale e intrecciato con la
difficoltà di vedere, come leggiamo all’apparire del personaggio di Swann: « On
ne le reconnaissait en effet qu'à la voix, on distinguait mal son visage au nez
busqué, aux yeux verts, sous un haut front entouré de cheveux blonds presque
roux, coiffés à la Bressant54 ». In generale, per quanto riguarda le descrizioni dei
personaggi, il Narrateur trascura la dimensione strettamente visiva a favore di
quella intellettuale; così la « dame en rose » che incontra da suo zio, e che non è
altro che Odette de Crécy, personaggio centrale che ritroveremo in « Un amour
de Swann », cviene dipinta « en robe de soie rose avec un grand collier de perles
au cou », mentre finisce di « manger une mandarine », con la precisazione che
53
54
Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66.
A la recherche du temps perdu I, p. 14.
26
« ne différait pas des autres jolies femmes [qu’il avait] vues quelquefois dans [sa]
famille. » ; segue una valutazione che ci precisa qualcosa sul Narrateur e sulla
maniera in cui costruisce il proprio giudizio sulla personalità della signora
suddetta, attraverso la descrizione di alcuni tratti del suo aspetto fisico: « [Elle]
avait le même regard vif et bon, elle avait l’air aussi franc et aimant. Je ne lui
trouvais rien de l’aspect théâtral que j’admirais dans les photographies d’actrices,
ni de l’expression diabolique qui eût été en rapport avec la vie qu’elle devait
mener ». Tale maniera di non limitarsi a descrivere il visibile ma di utilizzarlo
per accedere all’interiorità, che prosegue per tutto il romanzo, dimostra quanto il
visibile sia piegato alla riflessione, quando non è addirittura il prodotto di una
riflessione. Così, quando il Narrateur ritrova Odette a dista nza di una decina di
anni: « Elle semblait avoir tant d’années de moins qu’autrefois. Sans doute, cela
tenait en partie à ce qu’elle avait engraissé, et, devenue mieux portante, avait l’air
plus calme, frais, reposé, et d’autre part à ce que les coiffures nouvelles, aux
cheveux lissés, donnaient plus d’extension à son visage […]. Mais une autre
raison de ce changement consistait en ceci que, arrivée au milieu de la vie, Odette
s’était enfin découvert, ou inventé, une physionomie personnelle, un « caractère »
immuable, un « genre de beauté », et sur ses traits décousus […] avait appliqué
ce type fixe, comme une jeunesse immortelle.55 » Nell’insieme, i ritratti proposti
dal Narrateur rientrano più nella stilizzazione e nell’evocazione che nella
restituzione, e spesso le indicazioni esteriori sembrano fornite solo in quanto
nutrono la soggettività dello sguardo, oppure alimentano un tema portante del
romanzo, come questo ritratto di Robert de Saint-Loup, che suggerisce
un’omosessualità ancora ignorata non soltanto dal Narrateur, ma forse anche dal
personaggio stesso : « je vis, grand, mince, le cou dégagé, la tête haute et
fièrement portée, passer un jeune homme aux yeux pénétrants et dont la peau
était aussi blonde et les cheveux aussi dorés que s'ils avaient absorbé tous les
rayons du soleil. Vêtu d'une étoffe souple et blanchâtre comme je n'aurais jamais
cru qu'un homme eût osé en porter, et dont la minceur n'évoquait pas moins que
le frais de la salle à manger la chaleur et le beau temps du dehors, il marchait
55
A la recherche du temps perdu II, p. 186.
27
vite.56 » Anche il paesaggio è, per il Narrateur, un materiale di esplorazione
analitica, o ancora uno specchio che riflette la sua immagine, come a Balbec,
quando paragona il volo degli uccelli a « un jet d’eau, comme un feu d’artifice de
vie […] qui rattachait à la réalité les paysages [qu’il avait] devant les yeux »,
senza i quali avrebbe pututo credere « qu’ils n’étaient qu’un choix, chaque jour
renouvelé, de peintures qu’on montrait arbitrairement dans l’endroit où [il se
trouvait] et sans qu’elles eussent de rapport nécessaire avec lui. Une fois c’était
une exposition d’estampes japonaises : à côté de la mince découpure de soleil
rouge et rond comme la lune, un nuage jaune paraissait un lac contre lequel des
glaives noirs se profilaient ainsi que les arbres de sa rive […]. Un autre jour la
mer n’était peinte que dans la partie basse de la fenêtre dont tout le reste était
rempli de tant de nuages poussés les uns contre les autres par bandes
horizontales, que les carreaux avaient l’air, par une préméditation ou une
spécialité de l’artiste, de présenter une « étude de nuages.57 » Ma che si tratti di
dettagli materiali, di traduzioni del visibile nell’immaginario o dell’immaginario
nel visibile, l’insieme degli elementi visivi invocati dal Narrateur persegue lo
stesso obiettivo d’identificazione e di comprensione delle realtà interiori. La
restituzione proustiana della visione è per natura analitica. In Malaparte, essa è
soprattutto uno strumento di visualizzazione ad uso del lettore. Quando il
Corrispondente ci mostra la moglie del governatore Frank, lo fa parlando di una
« maschera di sensualità » e di « qualcosa di puro, di malinconico, di astratto
[che] splendeva tuttavia nel suo sguardo », mentre il governatore di Cracovia
appare « magro, elegante, dalla fronte innocente, dalle mani bianche, che neppure
il sangue di Dolfuss era riuscito a macchiare58 ». Anche il paesaggio di Varsavia
viene descritto in maniera precisa e realistica, con l’aggiunta di un procedimento
di antropomorfismo che, sebbene classico sul piano formale, rafforza
efficacemente l’immagine tragica di una città sconfitta dall’occupante: « La città
giaceva supina, avvolta nel suo sudario di neve, sotto un cielo chiaro che la falce
56
Ibid., p. 296.
Ibid., p. 370.
58
Kaputt, p. 520-521.
57
28
sottile della luna illuminava con timido raggio.59 » Man mano che procede il
racconto, il Corrispondente fa uso di metafore più singolari per mostrare non la
realtà materiale ma il modo in cui la tragedia della guerra modifica la maniera di
vedere le cose. Prendiamo l’esempio della sua descrizione del cielo di Ucraina
dove « il temporale si avvicinava occupando a poco a poco tutto il cielo, come
un’immensa rana » di cui si vedeva il ventre « palpitare nel respiro affannoso60 »;
e soprattutto la visione straordinaria, durante il pogrom di Jassy, nella quale ebrei
« piccoli, goffi, panciuti, camminavano lungo la grondaia delle nuvole reggendo
con una mano un immenso ombrello bianco », formando nel cielo « un paesaggio
dipinto da Chagall » popolato di « angeli ebrei, di nuvole ebree, di cani e di
cavalli ebrei, dondolantisi a volo sulla città61 ». Qui, la sublimazione estetica
sostituisce il resoconto del massacro e, nell’eufemizzare l’orrore, nel
simboleggiarlo, conferisce anticipatamente alla Shoah una monumentalità
storica. Questo passaggio può sembrare sfasato rispetto al registro del racconto
ma costituisce un punto culminante della soggettività febbrile del Corrispondente
che, in maniera generale, come sottolinea Grana, « non si sovrappone alle cose
[…] ma anzi, nel riverbero acceso dei propri stati d’animo, delle proprie
emozioni e reazioni, ne esaspera il rilievo illusoriamente “obbiettivo” di
smisurata e tragica crudeltà62 ». Un altro passaggio rappresentativo di questa
dinamica è quello che mostra le ragazze ebree di Socora nascoste nei campi
prima di essere catturate e costrette alla prostituzione dai tedeschi : « Vivevano
da giorni e giorni nascoste nei campi, dentro il grano, distese nei solchi fra le alte
spighe dorate come dentro una calda foresta d’alberi d’oro, si muovevano adagio
adagio, per non far oscillare le spighe63. » In queso caso, l’estetizzazione
dell’orrore può a prima vista sembrare gratuita tanto la scrittura è fluida; ma essa
costituisce la struttura che conferisce alle vittime un’esistenza reale, in quanto
inserita in una Natura che ignora la loro sorte e si occupa soltanto di essere di per
sé. Questo procedimento permette alla situazione di oltrepassare l’aneddoto pur
59
Kaputt, p. 526.
Ibid., p. 480.
61
Ibid., p. 594.
62
Curzio Malaparte, p. 66.
63
Kaputt, p. 811.
60
29
suscitando l’immedesimazione del lettore, e di farlo senza esplicitarlo,
semplicemente attraverso l’evocazione, tramite la precisione visiva dello
scenario, del reale vissuto dalle ragazze, accostabile a un reale riconoscibile da
tutti. Inoltre, il Corrispondente, sebbene non condivida la passione del Narrateur
per l’arte, a volte vi fa riferimento : « Forse perché sua madre era inglese, io
pensavo che Ilse era il ritratto dell’Innocenza, quale lo avrebbe dipinto
Gainsborough. No, sbagliavo [...] V’era qualcosa, in Ilse che manca al paesaggio
inglese e alla pittura di Gainsborough: alcunché di estroso, una capricciosa
pazzia. Ilse era piuttosto il ritratto dell’Innocenza quale lo avrebbe dipinto
Goya64. » Tale uso un po’ aneddotico dell’arte può risultare dalla posizione
mondana del Corrispondente che, pur discostandosi dal Narrateur per l’uso che
ne fa, è ad esso assimilabile per il fatto di descrivere se stesso attraverso le
descrizioni che fa dei suoi personaggi. E quando il professore Michihiko
definisce il Narrateur un « io » che « méconnaît les autres, qui ne peut regarder
les objets extérieurs qu'à travers sa propre vision65 », pensiamo immediatamente
al Corrispondente malapartiano – ad eccezione del fatto che la visione del
Narrateur si pensa essa stessa, mentre quella del Corrispondente sembra parlare
di lui a sua insaputa.
IV. Funzioni specifiche del narratore in Malaparte
a. La funzione documentaria/giornalistica
Il Corrispondente malapartiano non fa una semplice comparsa nel mondo
che descrive; non è neanche un attore dei drammi che racconta: ciò che succede
in Kaputt non succede a lui. Vede il mondo e i suoi drammi, ne è il testimone. Il
suo statuto di corrispondente di guerra non è un elemento del patto narrativo; si
tratta semplicemente del suo mestiere, dello statuto che gli permette di viaggiare
da uno spazio all’altro e di entrare nei palazzi requisiti dai nazisti. Nella realtà,
64
Kaputt, p. 770.
Michihiko Suzuki, Le « je proustien ». in Bulletin de la société des amis de Marcel Proust et des amis de Combray, n°9,
1959, p.80.
65
30
Malaparte faceva regolarmente pervenire articoli al “Corriere della Sera”, alcuni
dei quali gli valsero gli arresti domiciliari per contenuto polemico. Non si parla
mai di articoli in Kaputt, neanche delle aspettative individuali e politiche legate
alla loro pubblicazione; tutto avviene come se il Corrispondente beneficiasse di
uno statuto puramente ad honorem, ossia di un salvacondotto che gli desse tutti i
vantaggi del mestiere – in primo luogo la libertà di circolazione – senza mai
imporgli i vincoli afferenti. Tuttavia, la matrice del testo di Kaputt non può
essere altro che questa missione compiuta da Malaparte, e la funzione
documentaria e giornalistica del Corrispondente, sebbene non vi appaia mai
direttamente, vi traspare spesso. Fin dall’inizio del testo, lo sguardo del Principe
Eugenio che vede passare dei cavalli viene descritto in modo molto diretto :
« Visto così, di profilo, contro la luce stanca del tramonto66 ». Nella maniera in
cui mescola giudizio personale e aneddoto quando evoca dettagliatamente il
personaggio di Svartström, con l’osservazione « Io gli volevo bene, avevo
cominciato a voler bene a Svartströmil giorno in cui l’avevo visto impallidire
[…] per quel pezzo di carne umana che i sissit avevano trovato nel tascapane di
un paracadutista russo67 », l’efficacia della cronaca giornalistica prevale
sull’intento letterario in quanto risparmia al lettore ogni sforzo di comprensione o
di identificazione, poiché dà per scontata la sua adesione faccendo direttamente
ed esclusivamente appello all’empatia e al « buon senso ». Ci si può interrogare
sulla natura dell’ « io » che adotta tali procedimenti: dobbiamo forse considerare
questa vena giornalistica un elemento costitutivo della voce narratrice di
Malaparte stesso, oppure un elemento romanzesco del racconto? Mentre l’ « io »
proustiano, nella maniera in cui « rompt avec le moi pour devenir personnage68 »,
è il risultato di un’elaborazione cosciente e commentata dell’autore
69
che
permette di certificarne l’origine, si può affrontare il processo di construzione
dell’ « io » malapartiano soltanto dal punto di vista critico, a partire dall’opera
compiuta ; la virtuosità letteraria di Malaparte impedisce di supporre che egli
66
Kaputt, p. 436.
Ibid., p. 495.
68
Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.21
69
Lettera di Proust a René Blum del 23 febbraio 1913 : « Je ne sais pas si je vous ai dit que ce livre était un roman. Du moins,
c’est encore du roman que cela s’écarte le moins. Il y a un monsieur qui raconte et qui dit : “Je”. »
67
31
abbia semplicemente ignorato queste concessioni allo stile giornalistico, ma che
dire della loro intenzionalità e della loro funzione precisa? Troviamo una
possibile risposta quando il Corrispondente osserva, nel corso di un pranzo dal
governatore Fischer a Varsavia : « In nessuna parte d’Europa il tedesco m’era
mai apparso così nudo, così scoperto, come in Polonia. Nel corso della mia lunga
esperienza di guerra, m’ero venuto persuadendo che il tedesco non ha alcuna
paura dell’uomo forte, dell’uomo armato che lo affronta con coraggio, e gli tien
testa. Il tedesco ha paura degli inermi, dei deboli, dei malati.70 » Vi appare
chiaramente che la dimensione giornalistica affonda le sue radici e trova la sua
legittimità in una dinamica d’indagine, come se l’unico ruolo del Corrispondente
fosse di introdursi il più vicino possibile ai tedeschi per svelare – e permettere al
lettore di svelare – il mistero della loro crudeltà; il che sembra confermato dal
seguito del paragrafo: « Il tema della “paura”, della crudeltà tedesca come effetto
della paura, era divenuto il tema fondamentale di tutta la mia esperienza71. » Tale
stile può essere una maniera di rivendicare, ad intervalli regolari, questa funzione
giornalistica del narratore, omettendo di truccarla con l’estetizzazione, o meglio,
dimostrandola attraverso una forma estetica che opta per l’impatto immediato a
dispetto dell’ampiezza e delle complessità letterarie. Peraltro, questo stile non è
mai mantenuto per più di qualche paragrafo: rafforza l’effetto di irruzione del
reale durante l’evocazione di eventi precisi, ma fa posto alla scrittura letteraria
ricca di metafore e di paragoni non appena si tratta di far emergere il senso
profondo dei suddetti eventi. Di fatto, durante lo stesso pranzo a Varsavia, lo stile
ritrova una dimensione pienamente romanzesca, cioè contemporaneamente lirica
ed analitica, per sviluppare il tema della paura consustanziale all’identità tedesca,
salvo poi prendere un’altra direzione e ritrovare il tono aneddotico del reportage:
« Io ascoltavo le parole dei commensali con una pietà e un orrore, che invano mi
sforzavo di nascondere : quando Frank […] si volse a me con un sorriso ironico e
mi domandò : “Siete stato a vedere il ghetto, mein lieber Malaparte ?”.72 » Segue,
per più di due pagine, una restituzione estremamente fattuale e concreta della
70
Kaputt, p. 537.
Ibid.
72
Ibid., p. 538.
71
32
visita del Corrispondente al ghetto di Varsavia, così come l’avremmo potuto
leggere nel “Corriere della sera” se non fosse stato controllato dai censori, prima
che, di nuovo, la sensibilità letteraria dell’autore non s’impadronisca delle
immagini evocate per rielaborarle a partire dalle proprie ossessioni, nella
fattispecie quella degli occhi; il resto del racconto di quella visita oscilla tra
restituzione giornalistica ed evocazione estetica, l’una sostenuta dall’altra e
traendone un supplemento di potenza di evocazione,. Questa doppia retorica, che
permette non soltanto di informare ma di convincere, si alterna con la connivenza
pura, che riappare molto spesso nel testo e in cui l’adesione etica del lettore viene
data per scontata. Malaparte la rafforza in qualche caso stabilendo una familiarità
col lettore, anch’essa frequente nella forma del reportage, così come avviene nel
passaggio di Jassy, quando il Corrispondente passa al presente per descrivere
l’atmosfera che regna in città qualche ora prima del massacro degli ebrei: « C’è
proprio qualcosa nell’aria. Ha ragione il mio amico Kane. Deve accadere
qualcosa. Si sente che deve accadere qualche disgrazia. Si sente nell’aria, nella
pelle, nelle punte delle dita.73 » In questo passaggio, la scrittura aderisce
interamente al ritmo del commento parlato, sembra che il assuma la postura di un
compagno che cammina al fianco del narratore attraverso la città anormalmente
calma. Tale maniera d’imporre il reale nella sua immediatezza non riguarda
soltanto il registro di linguaggio adoperato, ma anche la produzione di immagini
e di sensazioni: « Ed è ancora giorno, non è ancora suonato il coprifuoco. Il vento
gonfia le chiome degli alberi, il sole manda un odore di miele.74 » Quando
l’elemento visivo non è soltanto centrale nel testo, ma appare così nella sua
durata, potremmo quasi parlare di « penna-cinepresa » usando – invertendolo –
un concetto del regista francese Alexandre Astruc. Ce n’è un esempio lampante
durante il viaggio del Corrispondente nei pressi di Leningrado: « Laggiù, a circa
cinquanta metri da noi, dietro le siepi di fil di ferro, dietro la doppia linea delle
trincee e delle casematte sovietiche, si vedevano due soldati russi camminare
nella neve allo scoperto, lungo il ciglio di un bosco, portando in spalla un tronco
di abete. Camminavano in cadenza, dondolando le braccia, con una cert’aria di
73
74
Ibid., p. 573.
Ibid.
33
spavalderia. » Contrariamente al flusso di coscienza proustiano che mostra gli
eventi soltanto tramite l’analisi del Narrateur, questa « penna-cinepresa »
malapartiana, sebbene usata in modo occasionale, opera un contrappeso potente
al
racconto
generale,
dominato
dall’espressione
della
sensibilità
del
Corrispondente e del suo punto di vista sulla guerra; costituisce, dando
l’impressione di condividere delle fonti, un punto d'appoggio forte per
l’interpretazione proposta in merito agli eventi, e permette forse, per effetto di
contrappeso, di impedire ai passaggi più lirici o più fantasiosi di ostacolare la
credibilità generale del testo. La voce del Corrispondente si fa ancora
giornalistica con la presa di distanza dalla propria soggettività, ossia con una
forma di oggettivazione del soggettivo accostabile alle voci fuori campo di film
documentari e che possiamo trovare, per esempio, in modo evidente all’inizio del
capitolo « Sigfrido e il salmone », nella descrizione elencativa della natura
lappone: « Da più di un mese percorrevo le forestie della Lapponia, la tundra
lungo la Liza, le deserte, algide, nude pietraie del fiordo di Petsamo, sull’Oceano
glaciale, le foreste di pini e i bianchi boschi di betulle sulle rive del lago di Inari
(…)75 » ; da queste immagini che si succedono emergono poi le figure di soldati
tedeschi « sdentati, calvi, dal viso giallo e rugoso, dagli occhi umili e disperati di
bestia selvatica76 » che ispirano al Corrispondente un’analisi metaforica della
decadenza della Wehrmacht, il cui lirismo appare imbrigliato, incastonato nelle
immagini di paesaggi come la formattazione di un articolo è costretta dal numero
di caratteri limitato.
b. La funzione rivelatrice
Grazie
alla
sua
penetrazione
degli
ambienti
più
esclusivi,
il
Corrispondente è in grado di condividere col lettore la sua osservazione dell’élite
nazista e le riflessioni che ne ricava. Questo processo di infiltrazione lo avvicina
al Narrateur proustiano; eppure mentre Proust limita l’azione del Narrateur nel
Faubourg Saint-Germain a quella di un osservatore-passamuri che viene accolto
ovunque allo stesso modo, Malaparte mette in scena un Corrispondente che non
75
76
Ibid., p. 862.
Ibid.
34
si accontenta di guardare, di ascoltare e di elaborare ciò che percepisce: vi svolge
un ruolo attivo. Prende parte alle conversazioni dei dirigenti nazisti in uno spirito
estremamente amichevole, usando il suo buon umore ed il suo umorismo che
suscitano molta simpatia nei suoi confronti. Durante il primo pranzo in
compagnia di Hans Frank, si lancia in una specie di comico virtuosismo verbale
col governatore sul tema dell’identità polacca e della governabilità dei popoli
cattolici in generale, finisce per suscitare una grande curiosità da parte di Frank
sul tema della governabilità degli italiani e gli risponde con un compiacimento
che, nella fattispecie, permette al lettore di conoscere il punto di vista di
Malaparte sui rapporti tra Mussolini e la Chiesa cattolica. In maniera generale,
questa conversazione tra il Corrispondente e il covernatore generale è ricca di
insegnamenti sulla funzione del narratore in Kaputt, torneremo più avanti su
alcuni dei suoi aspetti; ciò che qui ci interessa è la maniera in cui essa permette di
rivelare il nazismo di Frank. Passando per snodi grazie ai quali il Corrispondente,
tramite idee provocatorie e lusinghe quali « Hitler è la madre di questo nuovo
popolo tedesco77 » o « Debbo riconoscer che stasera, entrando nel Wavel, mi
parevea di entrare in una Corte italiana del Rinascimento78 », suscita di volta in
volta l’ammirazione e l’esasperazione del suo interlocutore, stimola la sua voglia
di discutere, in modo che dopo il racconto atroce dell’ebreo russo fucilato perché
si è rifiutato di rispondere a una domanda fatta in tedesco, Frank reagisce con una
risata e un giudizio divertito sull’atteggiamento dell’ufficiale (che ha ordinato di
fucilare l’ebreo mentre, se fosse stato un uomo di spirito, avrebbe riso
dell’audacia), e prosegue parlando della sua ambizione di elevare il territorio di
Cracovia al rango di « isola di civiltà e di cortesia nel cuore della barbaria
slava79 ». Così, Frank rivela – dopo aver affermato che i tedeschi non sono
barbari ma « signori » – il livello della propria barbarie nei confronti degli ebrei,
di cui considera l’esecuzione arbitraria – al massimo – una semplice mancanza di
gusto. Più avanti, il Corrispondente si spinge ancora più in là, facendosi
addirittura l'avvocato del diavolo; pur discutendo del tasso di mortalità nei ghetti
77
Ibid., p.507.
Ibid., p. 508.
79
Ibid., p. 511.
78
35
ebrei, scherza con tutti sulle misure prese per diminuirlo, per poi dichiarare
tranquillamente: « Bisognerebbe trattarli come topi, dar loro il veleno come ai
topi. Sarebbe più spiccio.80 ». Il governatore di Varsavia Fischer gli risponde che
è inutile, che gli ebrei muoiono da soli a migliaia; il Corrispondente giudica la
percentuale importante e predice che il ghetto sarà presto vuoto se gli ebrei
« continuano così81 », lasciando intendere che questi muoiano di propria
iniziativa. Frank osserva allora: « Non si possono far calcoli, in materia di ebrei
[…]. Più ne muoiono, e più crescono di numero ». Ma la spirale di provocazioni
continua da parte del Corrispondente. La sua dichiarazione « Gli ebrei si ostinano
a aver bambini […] è tutta colpa dei bambini » fa scattare una diatriba del
governatore generale a proposito della sporcizia dei bambini ebrei e l’incapacità
della « razza ebrea » a prendersi cura dei propri figli. Man mano che si
succedono le professioni di fede antisemite edulcorate dal « ben parlare »
mondano, gli ospiti reagiscono con risate incantate, mentre il Corrispondente
descrive ad uso del solo lettore, in una sconvolgente parentesi, l’ampiezza della
miseria e della sofferenza dei bambini dei ghetti ebrei di Polonia. Ma non
abbandonna per questo il suo atteggiamento conviviale e divertente, anzi alla fine
fa un brindisi a « la libera Repubblica dei ghetti di Polonia82 », il che suscita
nuove risate; quest’allegria intenerisce Frank e lo spinge a farsi l’avvocato della
Germania « vittima di abominevoli calunnie », affermando « noi non siamo un
popolo di assassini ». In questo capitolo, la violenza nasce appunto dal contrasto
totale, potremmo dire assoluto, tra il tono amichevole e sensibile della
conversazione e la violenza estrema dell’ideologia da essa rivelata; la duplicità
del Corrispondente permette questa messa in rilievo in due modi: a livello
formale, attraverso l’opposizione tra la simpatia dei personaggi e il loro livello di
crudeltà, e a livello strutturale, attraverso la maniera in cui il Corrispondente
induce gli interlocutori a manifestare il loro nazismo fingendo di condividerlo, il
che provoca discorsi terribili, dai quali poi egli trae conclusioni parziali,
focalizzate sull’individuo, definendo ad esempio Hans Frank un « singolare
80
Ibid., p. 548.
Ibid.
82
Ibid., p. 606.
81
36
miscuglio d’intelligenza crudele, di finezza e di volgarità, di brutale cinismo e di
raffinata sensibilità83 », senza mai esprimersi precisamente sul nazismo in quanto
tale. Troviamo un altro esempio d’intervento rivelatore nell’episodio situato in
Ucraina, durante l’autunno del 1941, nel corso della cosidetta « caccia ai cani »
che mira ad evitare gli attentati con cane-bomba sotto i carri armati. Il
Corrispondente dichiara al Sonderführer di Melitopol : « Quando li avrete
ammazzati tutti, quando in Russia non ci saranno più cani, andranno i ragazzi
russi a ficcarsi sotto il ventre dei vostri carri »; e l’altro risponde: « Ach, sono
tutti della stessa razza, tutti figli di cani84 » mentre il Sonderführer si allontana
« sputando per terra con profondo disprezzo ». L’incitazione ad esprimere ciò
che il nazismo comporta di più spregevole, vale a dire la riduzione delle vittime
allo stato di materiale, trova il suo culmine all’inizio del capitolo « Sigfrido e il
salmone », a proposito della pelle umana trasformata in cuoio: il Corrispondente
stesso affronta il tema prenendo a pretesto un episodio che risale al Settecento
italiano, nel castello dei Conti di Conversano, e domandando a bruciapelo al
governatore generale Frank: « Con la pelle di tutti gli ebrei che avete massacrati
durante questa guerra, quante centinaia di migliaia di poltrone si potrebbero
ricoprire di pelle umana ? », e questo risponde: « La pelle di ebreo non è buona a
nulla. » Niente viene aggiunto nel seguito del capitolo a proposito dello
sfruttamento dei corpi degli ebrei dai nazisti; sembra che sia data per scontata,
per Malaparte, la conoscenza del fatto da parte del lettore, e che bastino alcune
perifrasi per integrarlo nel testo.
c. La funzione eroica
In Kaputt il Corrispondente non sembra perseguire direttamente un
obiettivo di messa in evidenza della natura profonda del nazismo, ma piuttosto
lascia libero corso al suo gusto per la conversazione mondana e per la propria
valorizzazione in quanto uomo di spirito amante dell’ironia e della provocazione,
il quale non si stanca di catturare l’attenzione di una tavola intera attorno ai
soggetti più controversi. Si comporta quasi da burattinaio della cena mondana
83
84
Ibid., p. 607.
Ibid., p. 708.
37
che, per la sua intelligenza e il suo tempismo, domina senza nessuna difficoltà gli
uomini più terribili e più temuti dell’epoca, e lo fa senza che questi si sentano
umiliati, senza mai intaccare la simpatia che ispira loro. A prima vista, questa
maniera virtuosa di regnare sull’entourage, questa forma di potere sociale
contemporaneamente non riventicato e incontestato, questa presenza che spicca e
di cui nessun intervento passa mai inosservato, richiama fortemente il posto
d’onore occupato dalla duchessa di Guermantes nelle cene mondane della
Recherche. Eppure la duchessa non è mai voce narrante, è un personaggio trattato
dall’esterno dal Narrateur che ne è dapprima affascinato, poi l’esamina da cima a
fondo in ogni occasione e, infine, la giudica con severità estrema. Nel corso del
romanzo, Oriane de Guermantes non perde mai il suo potere di fascinazione sul
mondo, ma lo perde sul Narrateur, il che porta il lettore a distaccarsi a sua volta
dall’ammirazione generale per considerare la duchessa con distanza critica, e a
condividere nei suoi confronti il sentimento estremamente ambivalente del
Narrateur tra ammirazione, amicizia, perplessità, divertimento e disprezzo. In
Kaputt, nessuno orienta lo sguardo del lettore sul Corrispondente se non il
Corrispondente stesso, che regna in modo assoluto sugli altri personaggi e sulla
materia testuale insieme. Non si impone soltanto come brillante ospite e fine
retorico, si impone come eroe. Evidentemente, si tratta di un eroismo di natura
soprattutto letteraria, se non simbolica, poiché non si attribuisce nessun gesto di
grande coraggio; tuttavia, l’audacia che dimostra nelle sue conversazioni con
Hans Frank è tale da conferirgli lo statuto di una specie di formidabile
Arlecchino nel paese dei criminali di Stato, sprezzante o ignaro del pericolo che
incorre nel rinviare costantemente all’interlocutore l’immagine della sua
barbarie. Quest’ironia coraggiosa si manifesta dapprima fuori dai ranghi del
potere, quando il Corrispondente si trova in Ucraina, di fronte ai soldati rumeni
che maltrattano il prigioniero russo. Dopo averli rimproverati di non nutrirlo,
ordina al caporale di dare un cucchiaio all’uomo, poi, sentendo che intendono
portarlo a piedi fino a Balta senza gli stivali, dice: « Fareste più presto ad
ammazzarlo, non ti pare85 ? », e propone dunque di portarlo personalmente con la
85
Ibid., p. 479.
38
propria macchina. Quest’episodio si caratterizza per la sua durata e il suo
svolgimento in tempo reale, nonché per la precisione di dettaglio nella
discussione, e per l’economia di linguaggio, che spinge verso l’intento
documentario analizzato sopra. Tale episodio, soprattutto,
presenta il
Corrispondente in veste di salvatore, per un duplice motivo: in primo luogo
direttamente, perché mette fine ad una situazione di violenza che potrebbe
costare la vita ad un uomo, in secondo luogo indirettamente, perché adottando
questa posizione in modo autoritario, riafferma il primato della civiltà sulla
barbarie, non soltanto agli occhi dei soldati che lo circondano ma anche a quelli
del lettore. Quando Frank gli chiede, più avanti, durante una conversazione sulle
condizioni di vita nel ghetto di Varsavia, se ha notato « l’enorme differenza che
c’è tra i bambini tedeschi e quelli ebrei », il Corrispondente risponde a tono: « I
bambini dei ghetti non sono bambini86 ». Anche qui, l’eroismo presenta due
aspetti: prima quello della riprovazione aperta, dovendo l’affermazione essere
compresa dal lettore come l’inizio di una frase la cui fine non può essere che
« perché avete distrutto la loro infanzia », poi quello dell’elogio del popolo ebreo
i cui bambini « hanno le ali » come affermerà poco dopo, scatenando le risate
dell’assemblea, incapace di cogliere il riferimento agli angeli. Quest’eroismo del
Corrispondente che afferma contemporaneamente lo statuto di martire e la
grandezza intrinseca delle vittime del nazismo, è strettamente letterario: sembra
inscenare il Corrispondente in quanto unico personaggio nauseato dalla sorte
riservata agli ebrei e che lo esprima apertamente, mentre questa posizione può
essere realmente colta solo dal lettore. Per Frank e i suoi amici, la ragione
sottintesa per cui i bambini del ghetto non sono bambini è semplicemente che gli
ebrei sono topi. La dimensione eroica si fa ancora più evidente, se non altrettanto
determinante, quando il Corrispondente chiede in seguito allo stesso Frank
« Perché non vi dedicate voi pure a qualche lavoro femminile ?87 », adottando la
condotta di una specie di buffone del re le cui familiarità e prese in giro vengono
accettate grazie a una specie si eccezione statutaria; tale posizione, benché poco
rischiosa, risulta eroica in quanto rappresenta una maniera di rivolgersi senza
86
87
Ibid., p. 549.
Ibid., p. 608.
39
paura a un grande criminale nazista, il che, secondo la teoria generale di Kaputt,
che riconduce alla paura la crudeltà dei tedeschi, non lo pone su un piano di
parità con Frank ma largamente al di sopra di lui; e questa dominazione
simbolica viene rafforzata dalla tranquillità che l’accompagna, dalla maniera cioè
estremamente rilassata con cui il Corrispondente trasforma la conversazione nella
parodia di una riflessione politica nella quale la funzione di Frank è
completamente ridicolizzata. Quando afferma « Il popolo polacco sarebbe senza
dubbio assai più felice se avesse un Generalgouverneur che ricama88 », si può
prevedere che il suddetto Generalgouverneur si mostri doppiamente infastidito
dall’evocazione del suo modo di governare e dalla problematica della felicità dei
polacchi, invece non sembra del tutto sentirsi attaccato, anzi: scoppia a ridere e si
vanta orgogliosamente di ricamare « sulla tela della nuova Europa », poi esce
dalla stanza « con passo reale ». In questa lunga scena, la dimensione eroica del
Corrispondente viene evidenziata dall’audacia delle sue parole, dalla tranquillità
assoluta del suo atteggiamento, e dalla maniera in cui si lancia, subito dopo la
partenza di Frank, in una fantasticheria estetica ispirata dal paesaggio che vede
dalla finestra, senza manifestare alcun disagio, quasi avesse già dimenticato una
conversazione il cui significato ha turbato emotivamente il lettore. Tale maniera
di confondersi con la « banalità del male », per riprendere l’espressione di
Hannah Arendt, e di farlo oltrepassando di molto il livello di dissimulazione
strettamente necessario alla propria sicurezza, arrivando fino a condividere
l’assenza di emozione dei criminali dinanzi al crimine e dando prova di
noncuranza nei contesti più tragici, ci interroga sul livello di compromissione del
Corrispondente col nazismo e avvolge il suo eroismo in un velo di ambiguità;
poi, qualche pagina più avanti, l’intrattenitore-cortigiano ci rivela che rischia la
vita per far passare a famiglie polacche lettere, pacchi di viveri e denaro da parte
di parenti rifugiati in Italia, non senza precisare che « la consegna di
corrispondenza clandestina, anche di una sola lettera, proveniente dall’estero, a
cittadini polacchi, era punita con la morte89 ». Qui l’eroismo del Corrispondente
sembra non privo di vanteria, e di compiacimento per quella vanteria, se
88
89
Ibid., p. 609.
Ibid., p. 615.
40
prendiamo in considerazione il modo vanaglorioso con cui riferisce, con divizia
di dettagli, la maniera brillante con cui assolve questo compito; tuttavia, dopo
essersi vantato di farlo in parte come se fosse un gioco, « spinto dalla coscienza
di compiere un’opera di umana solidarietà e di pietà cristiana, e insieme al
desiderio di beffar[si] di Himmler, di Frank, e di tutta la loro macchina
poliziesca90 », giunge al punto di concludere che se ha vinto è perché i tedeschi
disprezzano l’avversario al punto da non immaginare che egli possa controllare le
regole del cricket. Questa lunga autocelebrazione non sarà dunque servita a
valorizzare il narratore quanto a dimostrare la debolezza dei tedeschi. L’eroismo
raggiunge qui il suo apice, poiché si spinge fino al punto di prendersi gioco di se
stesso, di ridicolizzarsi a favore di una proposta politica. Si impone poi senza
ambiguità, senza contrappunto né maschera, e senza traccia di vanità, nel
racconto del giorno afoso in cui un treno di deportati appare fermo sulla strada di
Podul Iloaiei in pieno sole, mentre il macchinista e le guardie stanno riposando
all’ombra. Appena arrivato sul posto, il Corrispondente ordina ai soldati: « Aprite
subito i carri91 » e non demorde dalla richiesta finché il capostazione non lo
soddisfa – troppo tardi poiché, appena aperte le porte, centinaia di cadaveri si
riversano sul binario. E lo ritroviamo subito dopo, al termine dell’ellisse, molto a
suo agio con Hans Frank con cui si vanta baldanzosamente di aver fatto affari nel
mercato nero proprio sotto il naso di Himmler. Da quel tipo di alternanze emerge
la strana sensazione di una messinscena di se stesso a tratti nobilmente pudica e a
tratti infantilmente vanitosa, quindi profondamente instabile, che giunge a
squalificare se stessa in quanto messinscena di se stesso fino ad una forma di
disincarnazione della figura del narratore, a vantaggio di semplici dispositivi
narrativi, di elementi retorici privi di implicazione morale in sé, i quali hanno
come finalità la sola produzione di un discorso sul mondo esterno. L’ipotesi di
un’irrealtà estetica del narratore è rilevante in quanto permette di riflettere, alla
luce di una nuova prospettiva, sulle questioni relative alla dimensione
autobiografica del testo e alla posizione ideologica dell’autore; essa è compatibile
anche con la riflessione di Adorno sulla dimensione metafisica del romanzo
90
91
Ibid.
Ibid., p. 638.
41
moderno che sarebbe prodotta « par son objet concret : une société dans laquelle
les hommes sont arrachés les uns aux autres et à eux-mêmes.92 » e conforta
l’identificazione di Kaputt come opera sulla guerra, non soltanto sul piano del
contenuto ma anche dal punto di vista strutturale: in quell’Europa in piena
decadenza, l’individuo stesso viene distrutto, la sua continuità spazzata via
dall’istinto di sopravvivenza che spinge a una crescente adattabilità e induce al
cameleontismo. In tal senso, l’eroismo del Corrispondente si deve intendere in
chiave simbolica: Malaparte assegna al narratore le caratteristiche dell’europeo
contemporaneo, del quale il suo libro è anche il ritratto avvincente; Gianni Grana
conferma il ruolo emblematico di un narratore che « pone innanzi, almeno in
astratto, più che l’individualità privata e mondana dell’autore, una identità
esemplare e quasi simbolica: quella dell’uomo europeo, di un testimone che
tende a proporsi come la coscienza dell’Europa tradita e oppressa, dell’Europa
caduta dove muore ciò che vi “ha di nobile, di gentile, di puro” »93 .
d. La funzione profetica
Spesso associata alla dimensione eroica del Corrispondente nel corso del
racconto, la sua funzione profetica sembra però dapprima isolata, attraverso
un’affermazione breve e netta che sembra rientrare nella parabola: al Principe
Eugenio che ammette di invidiare la vita di Axel Munthe a Capri e si domanda se
a quest’ultimo piacciano veramente i fiori e gli uccelli, il narratore risponde
semplicemente: « Les fleurs l’aiment beaucoup », poi, a proposito degli uccelli:
« lo prendono per un vecchio albero, per un albero secco94 ». Siamo ancora
all’inizio di Kaputt, e queste sono le prime parole pronunciate dal
Corrispondente; parole poetiche, simboliche, che gli attribuiscono come prima
qualità la facoltà di affrancarsi dalla razionalità pura per aprire agli altri le porte
di un mondo più vasto di quello materiale, e aprire loro gli occhi sul senso
nascosto delle cose. Alla fine del suo lungo discorso al Principe, descrive la
delicatezza delle mani del prigioniero russo che ha salvato in Ucraina e, vedendo
92
Theodor Adorno, Notes sur la littérature, p. 39.
Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66.
94
Kaputt, p. 438.
93
42
il Principe guardarsi le mani, gli dichiara, dopo un solenne « Ed io gli dissi » che
richiama l’evangelico « In verità vi dico » : « Le mani di un meccanico, di un
pilota di carro armato, di un udarnik del terzo Piatelika, non sono meno belle
delle vostre. Son le stesse mani di Mozart, di Stradivarius, di Picasso, di
Sauerbruch95 ». « Amen », potrebbe rispondere il Principe Eugenio che trova poi
la propria maniera di inginocchiarsi nel sorridere e nel dire « arrossendo
leggeramente » che si sente ancora più fiero delle proprie mani. Ma la
dimensione profetica del Corrispondente appare in modo più esplicito durante la
sua prima discussione con Hans Frank, nelle prime pagine del capitolo « I
Topi », quando il governatore si vanta di essere « il Re tedesco di Polonia96 ». La
retorica usata, fatta di asserzioni quali « Ho parlato con molti Re, ho pranzato con
molti Re, nei loro palazzi e nei loro castelli, ma nessuno di loro mi ha mai detto:
Io sono il Re », o di false conferme come « Infatti, non lo meritano » (riferendosi
all’onore di avere « un padrone tedesco ») seguite da affermazioni falsamente
divertite quali « Peccato che non siate un polacco » e da domande sibilline come
« Voi siete cattolico, non è vero? » rivelano una retorica prossima a quella di
Cristo quando si rivolge ai discepoli, ad esempio sulle rive del lago di Tiberiade:
« Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a
Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per
compiere. » (Gv 6, 5-6). Qui si confonde il Corrispondente-profeta col
Corrispondente-eroe per la maniera in cui ha la meglio sull’interlocutore grazie
alla sua superiorità; in questa scena precisa, si tratta di umiliare Frank senza che
questi se ne acorga, a vantaggio quindi del solo lettore, smascherandolo in quanto
uomo di potere grezzo, privo di perspicacia, e tanto pieno di sé da non poter
distinguere il sarcasmo dalla lusinga sincera; contemporaneamente, si tratta di
presentare il Corrispondente come colui che diffonde il Verbo, che difende la
dignità delle vittime. Non ci stupiremo del suo schieramento, alcune pagine più
avanti, « dalla parte dell’oca, dalla parte di Bichette e della sedia solitaria sotta la
95
96
Ibid., p. 485.
Ibid., p. 503.
43
pioggia, sul marciapiede fangoso, tra le rovine della Stazione di Varsavia 97 ». A
volte, i doni profetici del Corrispondente si riassumono in brevi intuizioni, come
quel pensiero, in reazione all’affermazione di Frank che dice di meditare
« sull’avvenire della Polonia » nel suo studio : « e io sorrisi, pensando
all’avvenire della Germania98 ». Altrove, egli si immerge in vere e proprie visioni
allegoriche, come quella del cielo di Jassy durante il massacro degli ebrei,
trasfigurato in un « cielo ebreo di Chagall, popolato di angeli ebrei, di nuvole
ebree, di cani e di cavalli ebrei, dondolantisi a volo sulla città » con dei
« suonatori ebrei di violino seduti sui tetti delle case » e delle « coppie di amanti
ebrei distesi a mezz’aria sull’orlo di una nuvola verde come un prato99 » che
contrasta con il rumore atroce delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Questa
maniera di rappresentare il popolo ebreo sotto forma di allegoria celeste
assomiglia ad un elogio funebre, quasi un’allegoria escatologica in cui, come è
detto nel Vangelo, « gli ultimi saranno i primi ». Visionario e predicatore, il
Corrispondente-profeta è anche un sensitivo: mediante il verbo, rivela ciò che il
visibile dissimula, strappa il velo delle apparenze in un intento di edificazione e
di sensibilizzazione; possiamo osservare questo atteggiamento durante il suo
incontro con le amiche Ilse e la principessa Louise von Preussen, quando Louise
si stupisce dell’estrema giovinezza di due soldati tedeschi ciechi e lui risponde
che sono fortunati perché la guerra « non li ha mangiati. La guerra non mangia i
cadaveri, divora soltanto i soldati vivi »; segue una diatriba amara sulla barbaria,
l’antropofagia e il livello di civiltà dei tedeschi che finisce con questa insistente
constatazione: « Il popolo tedesco non mangia i cadaveri. Un popolo civile non
mangia i cadaveri. Mangia gli uomini vivi.100 » Si può anche considerare in ciave
profetica la maniera in cui il Corrispondente si mette poi a raccontare a Louise e
Ilse una serie di storie più o meno lunghe, alternativamente commoventi ed
atroci, ciascuna delle quali sviluppa una sua simbologia sulla guerra e, come le
parabole di Gesù, produce sull’assistenza un effetto di fascino e di
destabilizzazione. Sembra che la funzione profetica del narratore si esaurisca in
97
Kaputt, p. 519.
Ibid., p. 526.
99
Ibid., p. 594.
100
Ibid., p. 754.
98
44
questa profusione di racconti edificanti, visto che nel seguito di Kaputt il
Corrispondente è solo un testimone attento, modestamente occupato ad
attraversare gli eventi pur cercando di non perdervi troppo della sua distanza e
lucidità.
e. La funzione defensiva
La simpatia di Malaparte nei confronti del regime fascista, se si è conclusa
con una rottura violenta e definitiva, non è stata per questo meno profonda, forte,
oggetto di un impegno entusiasta fino alla fine degli anni 20 che ha lasciato
profonde tracce nelle memorie e macchiato la reputazione dello scrittore,
soprattutto durante l’immediato dopoguerra. Per il lettore di Kaputt che conosce
minimamente l’itinerario politico dell’autore, la maniera in cui il Corrispondente
si pone come eroe prende talvolta la dimensione di un argomento a discolpa, se
non di un appello vero e proprio a favore di Malaparte. Se alcuni elementi, come
vedremo più avanti, sembrano quasi esser stati inseriti nella narrazione con
l’unico intento di « fare luce sulla personalità dell’imputato » davanti al tribunale
della storia, altri danno l’impressione di esser stati concepiti per agire in modo
indiretto sull’opinione che il Corrispondente ispira. Così sin dal primo capitolo,
al termine del brillante monologo nel quale difende l’idea del carattere equestre
dell’essenza svedese, il Principe Eugenio gli pone una mano sul braccio e,
commosso, gli dice affettuosamente: « Ne partez pas pour l’Italie, restez encore
quelque temps en Suède : vous guérirez de tout ce que vous avez souffert.101 »
Capiamo allora che il Principe analizza l’eloquenza febbrile del Corrispondente
come l’espressione di uno sconvolgimento della sensibilità dovuto alla guerra, e
che percepisce la sua sofferenza. Il Principe, la cui alta statura morale e la cui
grande dignità sono quasi stabilite preliminarmente al racconto, sembra
rappresentare qui il giudice esemplare, quello che considera l’anima prima
dell’individuo, quello la cui sollecitudine permette al Corrispondente di prendere
coscienza di ciò che sente, e di spiegarlo al lettore, ossia il « disgusto » e
l’ « umiliazione » all’idea di dover « attraversar la Germania, ritrovar quei visi
101
Ibid., p. 452.
45
tedeschi disfatti dall’odio e dalla paura102 » prima di ritrovare i suoi visi italiani,
« avviliti, pallidi di fame » sotto il giogo di Mussolini, il che gli ispira « un senso
di pietà e di rivolta103 ». Il Principe capisce quello che succede nell’animo del suo
amico, sebbene reso esplicito solo per il lettore; ed ecco come viene formulata la
sua reazione: « Il Principe Eugenio mi fissava in silenzio ; capiva quel che
avveniva dentro di me, quale angoscia mi opprimeva[...] »; qual’è la necessità di
precisare al lettore che il Corrispondente viene compreso al di là delle sue parole
e identificato il maniera intuitiva in quanto antifascista ed antinazista, se non per
tentare di dissipare un dubbio preliminare – siamo proprio all’inizio di Kaputt –
al racconto, cioè un pregiudizio del lettore? Tramite questo passaggio, Malaparte
sembra affermare: « Sono un uomo distrutto dalla guerra, inorridito dalla
Germania di Hitler e dall’Italia di Mussolini, forse non mi credete voi ma non si
è sbagliato il Principe Eugenio, lui ha capito tutto questo senza che io debba
dirlo ». Generalmente giudicato, come riassume Grana, « insincero, artefatto e
calcolato104 », accusato anche da Moravia di « s'être servi de la littérature comme
d'un piédestal pour élever la statue de son propre ego105 », è facile supporre che
l’autore senta la necessità di difendersi. In un certo senso, tutti gli elementi che
contribuiscono a dare del Corrispondente un’immagine incompatibile col
fascismo in generale, o con le condanne morali pronunciate contro Malaparte,
possono essere collegati a questa dinamica di difesa. Rientrano in questa strategia
anche la funzione parresiastica, che controbilancia la dimensione mondana del
Corrispondente, la funzione documentaria/giornalistica, che induce lo scrupolo di
veridicità al posto delle dinamiche di seduzione, di ideologia e di propaganda, la
funzione rivelatrice, che porta il nazismo a svelarsi in tutto il suo orrore, e infine
l’eroismo, in quanto viene interamente messo al servizio di una critica del
nazismo, se non di una vera e propria resistenza sul campo. Alcuni passaggi
sembrano mostrare in modo più esplicito un narratore che prende le difese
dell’autore, comunque desideroso di stabilire – se non riabilitare – la sua
102
Ibid., p. 453.
Ibid.
104
Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 7.
105
René de Ceccatty, « "Malaparte, vies et légendes", de Maurizio Serra : Malaparte, "génial et dégueulasse" », Le Monde des
Livres, 23 juin 2011.
103
46
immagine morale: ancora in compagnia del Principe Eugenio, al termine del suo
lungo racconto sui cavalli ghiacciati del lago Làdoga, quando il Principe gli dice
« vous êtes cruel, j’ai pitié de vous », il Corrispondente risponde « Je vous en
suis reconnaissant » poi « J’ai moi-même pitié de moi. J’ai honte d’avoir pitié de
moi106 » ; una confessione in forma di mise en abyme di fronte alla quale il lettore
più prevenuto contro l’autore-narratore-fascista-narcisista-mondano può soltanto
constatare la sua assoluta buona fede e osservare in lui la facoltà di riconoscersi
fragile – una qualità profondamente incompatibile con l’essere-fascista. Qualche
pagina più avanti, durante una cena con Hans Frank, dopo aver descritto con
forza l’arrivo dell’oca arrosto sulla tavola identificandola con un partigiano
polacco giustiziato dai nazisti, grida « Feuer! » suscitando le risa di tutti e
conclude interiormente « Oh sì, mi sentivo dalla parte dell’oca, non dalla parte di
coloro che puntavano il fucile, né di coloro che gridavano “Feuer !” né di tutti
coloro che dicevano: “Ganz Kaputt! L’oca è morta” »; la maniera in cui ripete
più volte « Mi sentivo dalla parte dell’oca » crea un effetto incantatorio che si
può spiegare soltanto con la necessità di scongiurare il sospetto inverso; se fosse
stata sola, tale insistenza potrebbe esser controproducente, in quanto potrebbe
esser identificata ad una forma molto poco convincente di compiacimento e di
autocommiserazione; ma essa si pone in contrasto con la terrificante allegria
degli altri ospiti e fa piuttosto l’effetto di una specie di mantra, di antidotto
all’indifferenza generale. Questa emozione da dissimulare gli fa tornare in mente
il ricordo di Bichette, la Principessa Radziwill « in piedi sotto la pioggia fra le
rovine della stazione di Varsavia107 », della quale dipinge un ritratto dagli echi
proustiani, che richiama per la sua dignità e tenerezza la maniera in cui il
Narrateur evoca la propria nonna, e che si conclude con la professione di fede
già citata sopra: « Io mi sentivo dalla parte dell’oca, dalla parte di Bichette e della
sedia solitaria sotto la pioggia, sul marciapiede fangoso, tra le rovine della
Stazione di Varsavia108 ». Sembrerebbe quasi di ascoltare un avvocato che
conclude la sua arringa finale prima di ritornare a sedersi in attesa del verdetto.
106
Kaputt, p. 498.
Ibid., p. 517.
108
Ibid., p. 519.
107
47
L’insistenza con cui viene espressa la compassione nei confronti delle vittime
della guerra è una costante che rientra nella funzione defensiva del
Corrispondente. Ne troviamo un esempio chiaro e lampante nella descrizione
della voce del dottor Alesi, il direttore ebreo delle carceri di Regina Coeli
riapparso a Jassy, che viene paragonato a un paesaggio dall’orrizonte « immenso
e libero, illuminato a picco da una luce serena ed uguale, soavissima, che
macchiava di penombre trasparenti le valli, penetrava il segreto dei boschi,
rivelava il mistero dello splendore argenteo dei fiumi e dei laghi in fondo alla
pianura, e il tremolar delicato della marina109 ». In questo passaggio, Malaparte
non si accontenta di restituire a una vittima ebrea del nazismo la sua umanità, ma
ne esalta la personalità fino al punto di farne una figura sovrumana, con la
potenza di evocazione e gli strumenti metaforici abitualmente usati nella retorica
amorosa. Usa questa stessa energia per raccontare il martirio delle ragazze ebree
di Soroca catturate dai tedeschi, poi costrette a prostituirsi e, infine, assassinate:
si tratta per il Corrispondente di condividere col lettore il suo incontro reale,
lungo, con quelle ragazze, ossia di fargliele incontrare personalmente. Gli preme
di non limitarsi a commuovere tratteggiando la loro sofferenza, ma di mostrare la
complessità delle loro personalità, la loro intelligenza e la loro dignità, come nel
caso di Lisa, che dice con ironia: « Sì, diventerò certamente una grande artista »,
o di Susanna, che dichiara : « Sapete chi vincerà la guerra ? Credete forse che la
vinceranno i tedeschi, gli inglesi, i russi ? La guerra la vinceremo noi. Lublia,
Zoe, Marica, io, e tutte quelle come noi. La vinceranno le puttane.110 » Questo
brano prende tutta la sua dimensione di arringa difensiva in favore di Malaparte
quando Louise, alla quale il Corrispondente ha raccontato quel ricordo, gli
domanda se le ragazze « savaient qu’on allait les fusiller » e lui risponde : « Elles
le savaient. Elles tremblaient de peur d’être fusillées. Oh ! Elles le savaient. Tout
le monde le savait, à Soroca.111 » Con tale risposta, come potrebbe il lettore del
dopoguerra, ancora sotto shock per la scoperta dell’ampiezza dei crimini
commessi dai regimi hitleriani e mussoliniani, non sentirsi in empatia col
109
Ibid., p. 580.
Ibid., p. 822.
111
Ibid., p. 824.
110
48
Corrispondente? Come potrebbe ancora associare al fascismo un uomo così
intento a testimoniare della guerra dal punto di vista dei martiri?
f. La funzione centrifuga
Nella Recherche i personaggi si distingono dal Narrateur non soltanto per
le loro azioni, ma anche per i loro discorsi e le loro opinioni. Proust stesso
rivendica questa dicotomia assoluta, giungendo a scrivere « Tandis que j’écrivais
mon livre, je sentais que si Swann m’avait connu et avait pu user de moi, j’aurais
su rendre Odette amoureuse de lui112 » o, ancora, anticipando in una lettera il
seguito di La parte di Guermantes : « Cela va se gâter sans qu’il y ait de ma
faute. Mes personnages ne tournent pas bien ; je suis obligé de les suivre là où
me mène leur défaut ou leur vice aggravé113 ». La maggior parte dei personaggi
delle Recherche viene definita in opposizione al Narrateur, in quanto pensano e
agiscono in modo molto diverso da lui; che sia nel male, come la duchessa di
Guermantes che brilla per la sua cattiveria contrariamente al Narrateur che –
nonostante la severità dei suoi giudizi – non perde mai la sua benevolenza, o nel
bene, come la nonna che dissimula la propria malattia sotto un’attitudine leggera
per non dare fastidio a nessuno, mentre lui si adopera per suscitare
preoccupazione nei suoi cari; oppure insieme nel male e nel bene, come Charlus,
la cui agressività dissimula una generosità profonda, mentre la gentilezza del
Narrateur è pari solo al suo egoismo. Non è che Proust consideri il suo
Narrateur completamente singolare; è che quello che lo interessa, quello su cui
lavora, è proprio l’impressione di divario tra l’individuo e il mondo estreno, un
mondo del quale i suoi congeneri costituiscono la parte più misteriosa, comunque
quella il cui mistero gli pone i maggiori problemi. Di conseguenza, le similitudini
non sono per forza inesistenti: semplicemente, non sono ritenute interessanti dal
Narrateur. In Kaputt, la frontiera è meno impermeabile. In primo luogo, essa è
meno spessa, nella misura in cui il Corrispondente non sembra provare nessuna
difficoltà a comprendere il mondo che lo circonda e non sviluppa nessuna analisi
di se stesso che lo spinga a interrogare la maniera in cui gli appaiono gli altri; le
112
113
Marcel Proust, Correspondance, XIII, a cura di Philippe Kolb, Paris, Plon, 1970-1993, p. 119.
Ibid., XIX, p. 514.
49
modalità della sua percezione non sono mai un soggetto, il suo giudizio non
sembra subire nessuna fluttuazione: sappiamo sin dalla settima pagina del
racconto, durante la sua conversazione con il Principe Eugenio di Svevia, che per
lui la crudeltà dei tedeschi è « fatta di paura », che sono « malati di paura114 », e
questa teoria non cessa mai di essere sopportata e suffragata fino alla fine del
penultimo capitolo, nel passaggio in cui il Generale von Heunert, alle prese con
un salmone che rifiuta di lasciarsi catturare, esprime la sua furia con un accento
di « sottile inquieta paura115 », e poi ordina di fucilare il pesce a bruciapelo. A
questa coerenza del punto di vista si aggiunge una tendenza del Corrispondente
ad attribuire a certi personaggi reazioni, battute, idee che sembrano uguali alle
sue, quasi si trattasse di presentare al lettore una garanzia dell’esattezza della sua
percezione e della sua analisi degli eventi. Il primo personaggio a funzionare
come un riflesso del Corrispondente è il Principe Eugenio che, dal punto di vista
psicologico, ne differisce solo per una specie di candore, o piuttosto d'ignoranza;
spesso la loro conversazione assomiglia meno a un dialogo tra due individui
distinti che a un dispositivo letterario destinato a dare rilievo al pensiero del
narratore per mezzo di un gioco di domande e risposte, ossia a un dialogo
interiore tra se stessi e una versione anteriore di se stessi. Il Principe potrebbe
essere un Corrispondente così com’era prima che la guerra scoppiasse e gli
mostrasse la realtà del mondo; un alter ego inchiodato al mondo dell'anteguerra,
anzi dell'ante-Prima guerra, perfettamente definito dalle reminiscenze di una
Parigi della Belle-Epoque di cui non sappiamo davvero chi dei due non si ricordi;
le domande fatte dal Principe non sono mai sorprendenti né destabilizzanti, ma
corrispondono, invece, esattamente a ciò di cui al Corrispondente piace parlare, e
lo mettono in valore con la loro ingenuità: contrariamente al Principe, questi ha
avuto un contatto diretto con la guerra, da cui torna schiacciato; ma nasconde
virilmente al Principe il suo sfinimento e la sua emotività, mentre il Principe lo
smaschera, come abbiamo visto sopra, e alla fine del capitolo versa una lacrima
al cui proposito ci possiamo chiedere a chi appartenga veramente, prima di
concludere sorridendo, come per scusare l'emotività dell'amico piuttosto che la
114
115
Kaputt, p. 441.
Ibid., p. 882.
50
propria: « N'en dites rien à Axel Munthe, je vous prie. C'est un vieux malin. Il
raconterait à tout le monde qu'il m'a vu pleurer.116 » La funzione centrifuga
consiste proprio in questa maniera in cui la personalità del Corrispondente
oltrepassa i limiti della propria individualità per incarnarsi in altri personaggi, per
prolungarvisi. Più che di funzione, dovremmo forse parlare di attributo, essendo
il Corrispondente molto più oggetto che soggetto di tale fenomeno; sono alcuni
dei personaggi che sembrano aver come funzione quella di dare il cambio alla
sua presenza singolare, di condividere il suo stato d'animo ; così de Foxà, durante
una cena a Helsinki, esprime il suo punto di vista di spagnolo sulla Spagna
servendosi
esattamente
della
stessa
retorica
che
verrebbe
usata
dal
Corrispondente, della stessa tendenza cioè a pronunciare delle sentenze generali
come « L'Espagne est pleine de couvents et de pets de nonne », « Les peuples
latins sont pourris », o « Bisogna essere cattolici per capire e amare la Spagna, la
vera Spagna, quella di Dio. Poiché Dio è cattolico e spagnolo117 ». Questa
disseminazione di alcuni tratti della personalità del Corrispondente conduce ad
un effetto di armonizzazione strutturale del racconto che oppone al potere nazista
collettivo una specie di « disperazione antinazista » incarnata da diversi
personaggi nei quali coesistono ironia, osservazione della decadenza dell'Europa
e nostalgia per un'età dell'oro aristocratica. Ma il fenomeno di straripamento della
personalità del Corrispondente può varcare i confini ideologici, particolarmente
per quanto riguarda il suo acume ironico, che ritroviamo ad esempio nei
Panzerschützen quando egli domanda a loro perché si ostinino tanto a cacciare i
cani, in Ucraina, e che gli rispondono « Domandatelo ai cani118 ». Esso può
anche mantenere il Corrispondente in una posizione di distanza enigmatica,
incaricandosi al suo posto di trarre delle conclusioni, come fa Louise poco dopo
aver ascoltato la serie delle sue storie : « Ciò che la guerra ha di più orrendo è
proprio quel che ha di gentile. Je n’aime pas voir sourire les monstres119 ». Nel
pronunciare tali parole, Louise permette al Corrispondente di non recitare tutte le
parti ; non solo questa ridistribuzione del suo pensiero conferisce a quest'ultimo
116
Ibid., p. 464.
Ibid., p. 674-675.
118
Ibid., p. 703.
119
Ibid., p. 757.
117
51
fondamenta e sostegni, ma permette anche alla figura del Corrispondente di
mantenersi in una posizione di attore, delegando, se non relegando l'intento
moralista all'esterno. Ma il movimento centrifugo della sensibilità narratrice
agisce anche in maniera puramente plastica sulla materia testuale, come all'inizio
del capitolo « Of their sweet deaths » in cui Louise e Ilse dialogano fra loro di
fronte al Corrispondente, molteplicando le affermazioni sentenziose, ironiche e
simboliche come « La guerra non mi tocca, non può nulla contro di me », « Non
abbiamo bisogno di un altro piccolo Gesù », « Ognuno di noi può salvare il
mondo », « La guerra non mi può sporcare », « c’est nous-mêmes qui souillons
nos enfants dans notre ventre » oppure « Je m’en fous de la guerre120 » in una
retorica dell'enfasi profetica abbondantemente praticata dal Corrispondente sin
dall'inizio del racconto, quindi immediatamente identificabile in quanto sua
caratteristica. Qui, l'effetto ottenuto è quello di una moltiplicazione quasi visuale
dell'istanza narratrice, di una frammentazione della sua percezione che viene
proiettata attorno al lettore, come se ogni frase fosse come una specie di
proiettile. La forza centrifuga trova qui la sua espressione massima, quella
dell'esplosione, il che costituisce una strategia per mostrare che nella guerra tutto
è guerrra, anche la coscienza della guerra, e che in tale contesto niente sfugge alla
logica della collisione. Sarà poi ancora Louise a dire al posto del Corrispondente,
qualche istante più tardi : « Il n’y a plus de ciel en Europe121 ».
g. La funzione allegorica
Tutti gli aspetti della funzione centrifuga sembrano concorrere a un
rafforzamento e a un’estensione della presenza del narratore da cui può derivare,
se vi aggiungiamo alcune proprietà delle sue funzioni eroica e profetica, una
sensazione di onnipotenza vera e propria. Tuttavia, a forza di esser dilatata e
amplificata a dismisura, la soggettività del Corrispondente perde la sua
dimensione individuale; la sua voce, seguendo l’esempio di quella del direttore
delle carceri di Regina Coeli, assume le caratteristiche di un paesaggio, o
perlomeno di un materiale plastico e visuale usato dall’autore così come i colori e
120
121
Ibid., p. 785.
Ibid., p. 786.
52
le immagini che invadono il suo racconto; parecchi elementi relativi al giudizio
individuale, quali il crollo dell’Europa e la paura connaturata ai tedeschi, si
ritrovano così trattati dall’autore come motivi decorativi che sono oggetto di
variazioni stilistiche secondo i supporti sui quali vengono applicati, e diventano
così elementi estetici, allo stesso titolo della neve di Finlandia e dei girasoli di
ucraini. In questo contesto, che cosa diventa la loro matrice, ossia la persona del
Corrispondente? Gianni Grana afferma che questa, essendo confrontata a una
realtà eccezionale le cui immagini costituiscono una forma di epopea
contemporanea, « non si sovrappone alle cose fino a diminuirle e oscurarle, ma
anzi, nel riverbero acceso dei propri stati d’animo, delle proprie emozioni e
reazioni, ne esaspera il rilievo illusoriamente “obiettivo” di smisurata e tragica
crudeltà » e che si fa cioè identità « esemplare e quasi simbolica122 ». La funzione
allegorica del narratore di Kaputt deriva contemporaneamente da questa
disseminazione della sua soggettività, dall’assenza di posta in gioco personale nel
racconto, e dal mondo esterno che gli detta la propria conflittualità incessante e la
propria assenza di speranza. Il Corrispondente è come l’Europa in guerra: invaso
(dalla misera e dalla violenza che lo circondano e danno luogo a storie terribili
ch’egli non può fare a meno poi di raccontare), esaurito (lo è sin dall’inizio del
racconto, come fa notare il Principe Eugenio, e fino alla fine, quando si ritrova in
vista di Napoli « stanco, deluso, avvilito123 » a tal punto che la mera visione del
mare basta a procurargli le lacrime), e corrotto (dall’onnipresenza del male che lo
affascina, che gli dà ossessioni, lo insensibilizza, lo rende cinico ed impotente). È
anche un narratore che, in un certo modo, muore durante tutto il libro: ognuno
dei suoi incontri con gli amici sembra una cerimonia di addio nella quale
s’intenerisce come se sapesse di non rivedere mai più il suo interlocutore; un
interlocutore di cui riassume spesso la personalità attraverso formule solenni
come « Ah ! si je pouvais souffrir comme vous !124 » (per il Principe Eugenio),
« Merci, je n’accepte de politesses que de mes amis125 » (per la Principessa
122
Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66.
Kaputt, p. 938.
124
Ibid., p. 499.
125
Ibid., p. 519.
123
53
Radziwill), o « J’ai pitié d’être femme126 » (per Louise). Osserviamo anche che
ogni reminiscenza del passato affiora nella sua mente con grande potenza
emozionale, quasi si trattasse della sua vita intera che gli passa davanti agli occhi
nell’ora dell’ultimo respiro, così come ogni paesaggio è caricato di malinconia
quasi si trattasse dell’ultima immagine del mondo che gli è dato di vedere.
L’identificazione si precisa quando il Corrispondente dichiara, alla fine della
prima parte, che l’Europa sta morendo con tutto quello che vi è « di nobile, di
gentile, di puro127 », mentre lui stesso non cessa e non cesserà d’incarnare
appunto ciò che viene ordinariamente considerato « nobile » (frequenta soltanto
l’élite e l’aristocrazia), « gentile » (sta « dalla parte dell’oca ») e « puro » (non
lascia mai che la mostruosità circostante gli macchi l’anima o influenzi il suo
giudizio). Possiamo anche trovare un’allegoria dell’Europa in guerra nella
diluzione generale della sua identità, nel suo errare, nella sua tristezza, nella sua
assenza di scopo preciso, e soprattutto nella sua passività: spesso direttamente
confrontato all’esercizio della violenza nazista spinta al suo parossismo, il
Corrispondente reagisce in modo limitato, non soltanto nei suoi atti – il che è
comprensibilie, considerando il pericolo – ma anche nei suoi pensieri che,
sebbene denotino una grande sensibilità nei confronti della sofferenza incontrata,
si traducono raramente in indignazione vera e propria. Più spesso, il
Corrispondente sembra provare nei confronti di Hans Frank, ad esempio,
un’attrazione fatta di timore, di ammirazione, di orrore e di disprezzo, vale a dire
un insieme di sentimenti e di domande che sembrano rientrare in una specie di
studio neutrale del Male, quasi la prossimità con il potere nazista incidesse su di
lui come un anestetico parziale che annienta in lui ogni possibilità di reazione
vera e propria, trasformando l’attore chiamato in causa in spettatore
semplicemente interessato a livello intellettuale. Questa maniera di assistere alla
distruzione di quanto c’è « di nobile, di gentile, di puro », ossia alla propria
distruzione, quasi senza opporre alcuna resistenza, questa tendenza alla passività,
sono analoghe a quelle che i regimi totalitari dell’epoca rimproverano alle
democrazie parlementari che li hanno preceduti, e che la storia a sua volta
126
127
Ibid., p. 825.
Ibid., p. 499.
54
rimprovererà all’Europa di fronte a quei regimi totalitari. Il compiacimento
mostrato dal Corrispondente nello stringere amicizia con i carnefici, non soltanto
con ironia quando propone un brindisi alla « libera Repubblica dei ghetti di
Polonia » ma dando loro addirittura consigli, come quando dichiara: « Se volete
vincere la guerra, voi non potete distruggere la patria dell’operaio. Non potete
distruggere le macchine, le officine, le industrie. […] Mi pare che il senso di
questa guerra sia tutto qui, o in gran parte.128 », quel compiacimento assomiglia
molto alla maniera in cui l’Europa, la stessa che il Corrispondente stesso
rimpiange tanto, quest’Europa aristocratica, delicata e pura, si è traviata
assecondando l’ascesa dei regimi totalitari. C’è anche una vera e propria
corruzione intellettuale del Corrispondente che, a più riprese, condivide col
lettore il suo turbamento dinanzi al processo di reificazione degli ebrei, mentre
lui stesso si dedica ad un’essenzializzazione permanente non soltanto dell'essere
tedeschi ma anche dell'essere polacchi, francesi, spagnoli e italiani; così rivela
quanto la sua mente sia impregnata degli strumenti di analisi propri al nazismo.
Dal punto di vista biografico, possiamo sicuramente
leggere questa
contaminazione come un portato dell’antica simpatia fascista dell’autore, e trarne
poi alcune considerazioni interrogative sulla realtà e sulla profondità della sua
evoluzione politica ulteriore; dal punto di vista dell’opera, questo tipo di elementi
contribuisce a fare del Corrispondente una figura emblematica di ciò di cui soffre
l’Europa intera. La sua impotenza, in particolare, ad agire contro la violenza
fascista e nazista – ad eccezione di qualche trasporto clandestino di pacchi e di
qualche azione puntuale, casuale, come il fatto di portare con sé il prigioniero
russo condannato a camminare senza stivali fino a Balta o di far aprire i vagoni
del treno di deportati fermato in pieno sole – rappresenta l’impotenza dell’Europa
ad impedire le atrocità e i massacri sul proprio territorio. Il Corrispondente è, il
più delle volte, atterrito di fronte a quanto può vedere e sentire; uno stato che non
va sottovalutato, che non è compensato dalla sua abitudine di raccontare degli
aneddoti, di fare indovinelli o di fare l’avvocato del diavolo durante le
interminabili conversazioni che ha con i suoi contatti politici e mondani: il
128
Ibid., p. 528-529.
55
carattere ricorrente, quasi automatico di tali interventi, conferisce loro una
sfumatura di vanità, gratuità e inefficacia; del resto, possiamo osservare che le
dichiarazioni che dovrebbero provocare più apertamente l’interlocutore
mettendolo di fronte alla propria ignominia provocano soltanto reazioni divertite,
al massimo sconcertate, comunque falliscono – ammesso che tale sia il loro
obiettivo – nel destabilizzare e, tanto meno, nel mettere in discussione. Quando
prende in giro Frank autoproclamato Re tedesco di Polonia, dicendogli « Ho
parlato con molti Re [...] nessuno di loro mi ha mai detto: io sono il Re129 », il
governatore non mostra di essere offeso, ma riconosce subito: « Io non sono un
vero Re ». E quando il Corrispondente continua nella stessa direzione, dicendogli
che come cattolico Frank dovrebbe ritenersi « eguale ai polacchi », il
Governatore generale sembra ignorare l’accusa malcelata di comportarsi da
dittatore e, lungi dal mostrarsi offeso, si lamenta di « quanto sia difficile
governare un popolo cattolico130 ». Quando poi, la stessa sera, dice alla moglie di
Frank, che plaude al talento di pianista del marito: « Sì, un grande artista […] ed
è con questo pianoforte che egli governa il popolo polacco 131 », quest’ultima si
intenerisce e dice: « Oh ! Vous comprenez si bien les choses ! », rivelando con
questa frase di non aver colto l’ironia dell’interlocutore, così come il marito
quando il Corrispondente gli dice in seguito che « I bambini ebrei hanno le
ali132 ». In tal senso, dal punto di vista pratico, possiamo affermare che per il
narratore, dire equivale spesso a non dire, e che la sua maniera di opporsi è
spesso sinonimo di consenso. Questo paradosso della forza impotente – forza
dell’indignazione, dell’esame critico della violenza all’opera intorno a lui, e
impotenza a tradurre questa coscienza in atti – coincide anche con l’idea di
paralisi patologica che caratterizza l’Europa dell’epoca. La funzione allegorica
appare infine attraverso l’onnipresenza plastica del narratore, la sua maniera di
viaggiare incessantemente tra i ricordi splendidi dell’anteguerra e il presente
terribile, tra Stoccolma e Helsinki, tra Jassy e Napoli, tra la tavola di Hans Frank
ed i campi di girasoli dell’Ucraina, e soprattutto tra la disinvoltura mondana,
129
Ibid., p. 503.
Ibid., p. 504.
131
Ibid., p. 527.
132
Ibid., p. 552.
130
56
l’empatia tragica e la disperazione esistenziale: anche l’Europa in guerra occupa
tutti quei territori contemporaneamente, incarnando cioè un’analoga molteplicità
di constesti e di situazioni, un’analoga ampiezza geografica, sociale, politica, e
un’analoga memoria straziante dei tempi felici della pace.
Conclusione : virtù e limiti letterari del narratore in Kaputt
Durante tutto il racconto, il Corrispondente funge contemporaneamente
per il lettore da figura di identificazione e da guida attraverso l’Europa in guerra.
A tale titolo, forti dell’esame dettagliato al quale ci siamo dedicati, possiamo
adesso attribuire al narratore di Kaputt un certo numero di virtù letterarie, cioè di
caratteristiche suscettibili di sostenere la narrazione, di rafforzare o di arricchire
il discorso che la sottointende, e di suscitare la partecipazione intellettuale del
lettore.
Il Corrispondente dice la verità. La verità che dice non è quella del
Narrateur proustiano, il quale condivide con il lettore una dinamica interiore che
consiste nel tendere verso la verità mediante l’individuazione, la comprensione e
la dissipazione dei diversi elementi estetici che la dissimulano o che la
falsificano; la verità espressa dal Corrispondente è insieme più semplice e più
accessibile: risiede interamente nella buona fede con cui questi condivide la
precisione e la soggettività della sua percezione. La questione degli strumenti
estetici di questa percezione, tanto cara a Proust, non è da risolvere – oppure è
già risolta – per Malaparte, e comunque non si pone. Eppure, la soggettività del
Corrispondente non si nasconde. Il suo racconto non finge di essere altro che una
testimonianza estremamente personale. La verità che comunica è prima di tutto
ed esclusivamente la sua verità. Sin dalle prime pagine, lo rivendica situandosi
col lettore sul piano della confidenza: « Dopo tanti mesi di selvaggina solitudine
nell’estremo nord, fra i làpponi, cacciatori d’orsi, pastori di renne, pescatori di
salmone, le scene, ormai dimenticate, di una vita pacifica e laboriosa che io
contemplavo con meraviglia nelle vie di Stoccolma, mi davano una specie di
ebbrezza, quasi di smarrimento. [...] L’ombra dei primi tramonti dava alla
57
gentilezza femminile un che di segreto, di misterioso133. » Tale maniera di
attribuire al lettore il ruolo di destinatario prediletto, di prescelto al quale rivolge
la restituzione intima del suo vissuto e delle sue osservazioni, costituisce un patto
di antenticità che crea le condizioni di accettazione del racconto. Il lettore viene
messo nella posizione in cui si troveranno Louise ed Ilse prese in ostaggio non
dalla valanga dei racconti del Corrispondente in sé, ma dall’amicizia forte che vi
preesiste e ne garantisce l’onestà. Tuttavia, questa fiducia suscitata non
acorrisponde a una delega senza riserve in favore del Corrispondente, non
annienta ogni senso critico nei suoi confronti: essa è compensata dall’ambiguità
della sua posizione, e dall’ingenuità – involontaria? controllata? – con cui
quest’ultimo lascia trasparire i suoi difetti: snobismo, compiacimento narcisisto,
tendenza all’autocommiserazione; il lettore si trova nella contraddizione di
provare contemporaneamente verso il Corrispondente irritazione ed empatia
profonda, se non una disapprovazione altrettanto intensa, il che gli permette di
essere al tempo stesso affascinato dal racconto e in grado d’interrogarsi
sull’antropologia della guerra che gli viene proposta, nonché sulle idee nazionali
del Corrispondente e sulla pertinenza della sua analisi delle radici della violenza
nazista. Eppure si può ritenere che quei tratti del carattere del Corrispondente
rivestono una forma di astrazione, in quanto non vengono associati a nessun
obiettivo personale; al massimo appaiono come un corollario della sua
appartenenza a un ceto sociale in cui regnano tradizionalmente snobismo ed
autocompiacimento; difetti stereotipati, quindi, i quali, se consideriamo la loro
assenza
totale
d’impatto
sullo
svolgimento
dei
fatti,
conferiscono
paradossalmente al Corrispondente una specie d’impersonalità, comunque una
personalità che non viene mai pienamente incarnata; in tal senso, sono uno
strumento d’identificazione « puro » per il lettore, funzionano come un
travestimento sotto il quale possiamo circolare pur rimanendo invisibili,
irriconoscibili nell’abito puramente convenzionale del mondano.
Potremmo contraporre a quest’idea di « a-personalità » del Corrispondente
la sua sensibilità estrema, la precisione della sua percezione, e soprattutto
133
Ibid., p. 443-444.
58
l’originalità del suo immaginario: vedere in una città innevata un cadavere
avvolto nel proprio sudario, o in un cielo in tempesta una rana dal ventre
pulsante, soffermarsi sui minimi dettagli della storia di un cagnolino che
preferisce il rumore di un fucile da caccia a quello dei cannoni, denota
un’interiorità originale e ben identificata, spesso in grado di stupire il lettore, se
non di limitare la sua immedesimazione. Ma tali peculiarità non riguardano
nessun profilo sociale, rientrano nella libertà con cui ogni coscienza può capire e
interpretare in profondità quello che percepisce; soprattutto, esse rimandano
all’infanzia e alla sua assenza di una scala di valori diversa da quella soggettiva,
quell’età in cui ciò che succede a un cagnolino può meritare un esame più attento
del destino di una nazione intera, non perché le cose non vi abbiano la loro
importanza reale, ma perché l’importanza reale non gerarchizza ancora tra le
cose; nella fattispecie, la storia del cane Spin, nell’eufemizzare l’aberrazione pura
della guerra, contribuisce all’edificazione di un’immagine di questa guerra dal
punto di vista degli innocenti e delle vittime. Proprio grazie a questa sensibilità
infantile che ha saputo mantenere, il Corrispondente apre gli occhi del lettore, lo
libera dalla chiusura mentale di un giudizio strettamente razionale, gli dà accesso
a una comprensione più completa del reale. Quest’anima infantile contribuisce
anche a spiegare la facilità con cui il Corrispondente circola al centro del potere
nazista e la disinvoltura con cui partecipa alle conversazioni più spaventose:
gioca. Gioca a lasciar credere ai suoi nemici che è uno di loro, per dimostrare al
lettore chi sono. Nel contesto del patto narrativo proposto all’inizio del libro, che
elegge il lettore a confidente, quest’idea del gioco permette di accettare la
connivenza del narratore col potere nazista, conferendogli lo stesso statuto
eccezionale che Hanz Frank gli accorda: quello di buffone, di quella stessa
categoria di cui Erasmo diceva: « Les plus grands rois les goûtent si fort que plus
d'un, sans eux, ne saurait se mettre à table ou faire un pas, ni se passer d'eux
pendant une heure134 », e che svolgono anche presso di loro il ruolo di rivelatori,
di specchio grottesco. Essendo il Corrispondente insieme bambino e buffone, la
sua compromissione coi nazisti risulta una compromissione « per finta », e una
134
Erasme, Éloge de la folie, XXXVI.
59
compromissione per una buona causa, poiché permette l’informazione e
l’edificazione del lettore. Infine, nonostante la quasi assenza di atti di resistenza
concreta da parte sua, l’anima infantile associata alla posizione di buffone appare
nell’opera come l’espressione di un’innocenza e di una libertà interiore che si
oppongono fortemente al nazismo e alle sue dinamiche di distruzione e di
oppressione. Possiamo dunque dire che nel Corrispondente, il bambino e il
buffone vincano in generale sull’amico dei carnefici, e che lo utilizzino per
mostrare il Male e sconfiggerlo. E sebbene la voce narrante non sia di buon
auspicio per il futuro dell’Europa, sebbene si compiaccia nella descrizione di una
civiltà che crolla e di una barbarie che vince, la sua natura stessa testimonia
l’impossibile vittoria dei totalitarismi, la loro impotenza ultima ad asservire
l’anima umana e a regnare sulle coscienze. In maniera generale, l’ambiguità di
posizione della voce narrante è interessante perché rende piu complesso il modo
di affrontare il tema della guerra, e fornisce al lettore l’esempio di una sensibilità
e di un insieme di posizioni che non sia tale da avvincerlo con un eroismo
idealizzato e manicheo né da confortare un’idea positiva di se stesso col
controesempio di una personalità vile o complice della violenza totalitaria. Le
diverse posizioni del Corrispondente lo mostrano alternativamente, o
simultaneamente, coraggioso e vigliacco, interessato e indifferente, partigiano e
collaborazionista. Quest’ambiguità produce anch’essa un effetto fortissimo di
verosomiglianza, in quanto si costituisce in figura narratrice, quindi in premessa
e in regola generale del racconto in cui domina l’aspetto caotico del presente: per
tutta la durata del testo, il funzionamento del Corrispondente rispecchia il mondo
esterno in cui si susseguono e si intrecciano senza sosta l’atroce e il bello, il
grave e l’irrisorio, il comico e il tragico. Lontano dai racconti agiografici sulla
Resistenza, lontano dalle testimonianze sulla Shoah, Kaputt non è un testo
edificante. È questa la sua singolarità e una parte importante della sua forza
letteraria.
Ma tale forza non riesce ad annientare le debolezze prodotte da quelle
stesse caratteristiche, a cominciare da una tendenza ad attenersi alla superficie del
reale; il Corrispondente è restio all’analisi di se stesso, ma la maniera in cui
60
guarda il mondo esterno non è neppure analitica. La funzione documentariagiornalistica è al riguardo emblematica della sua tendenza ad accontentarsi, per
dipingere le situazioni che incontra, di descriverle in modo visuale, fattuale, e di
riferire sull’effetto immediato che producono sulla sua sensibilità. Il campo
dell’analisi vera e propria che implica dinamiche razionali di esame, di
confronto, di deduzione, di elaborazione e di giudizio, è assente della proposta
generale di Kaputt. Lo possiamo considerare compensato da o sostituito col
campo interpretativo, in particolare mediante la funzione che abbiamo chiamato
« profetica » : le proposte di analogie abbondano in tutto il racconto, che si tratti
di equiparare l’umano all’animale, la disperazione alla morte o il fiore all’esilio,
e rendono il contesto generale dell’occupazione nazista un’immensa parata
simbolica in cui la Natura sembra intenzionalmente sembra mettere in scena la
tragedia sino alla scelta dei suoi cieli, in cui i soldati della Wehrmacht avanzano
senza palpebbre come morti viventi nelle foreste di Finlandia, in cui i bambini
del ghetto di Varsavia appena ammazzati prendono il volo come uccelli.
Possiamo deplorare una certa facilità di questa scelta dell’impressionismo, o
perlomeno deplorarne il sistematismo, nella misura in cui la potenza inesauribile
di tali immagini ostacola il distanziamento e scoraggia i tentativi di approccio e
di comprensione razionale o politica del reale. E possiamo capire questo partito
preso, dal punto di vista del patto narrativo, considerando il profilo sociale del
Corrispondente, quella postura mondana in cui il senso delle cose, la loro
spiegazione, i loro ingranaggi non sono inesistenti ma sono dati per scontati, e
quindi, dal momento che ognuno sa da tempo a cosa attenersi sul significato del
reale, non resta altro che trarne divertimento, creare a partire da esso, produrre
immagini, raccontare storie; tuttavia, un’assenza di pensiero riflessivo così
costante consituisce indubbiamente, a considerare l’ambizione esaustiva di un
testo che cerca vistosamente l’esaurimento dei significati della crudeltà nazista,
un limite letterario di Kaputt.
Il secondo punto debole prodotto dal funzionamento del Corrispondente
deriva da quella mancanza di sguardo analitico, ossia un certo esaurimento del
materiale letterario che, essendo ridotto a un numero limitato di immagini e di
61
simboli, viene sovrasfruttato, da cui un’impressione di ridondanza, se non di
ruminazione patologica man mano che prosegue il racconto; non si tratta soltanto
della ricorrenza di elementi puntuali, quali i girasoli paragonati ad occhi o i
tedeschi dipinti come animali tristi; si tratta anche di modalità analoghe di
apparizione di elementi simbolici come l’ironia leggiadra dei carnefici,
instancabilmente illustrata dalle conversazioni con Hans Frank, o la splendida
dignità delle vittime, la quale si manifesta in modo simile a proposito della
Principessa Radziwill, delle ebree prostitute di Soroca, di Louise Von
Hohenzollern o di Giuseppina von Stum prima del suicidio. Declinate come
variazioni sul tema, queste immagini possono finire per dare l’impressione di una
mancanza d’ispirazione, o di una tendenza dell’autore a produrre stereotipi
invece di dedicarsi alla specificità di ogni situazione o personaggio. Impressione
di ridondanza spesso, e talvolta di prolissità, soprattutto quando il Corrispondente
dipinge le scene mondane nei minimi dettagli e in tempo reale, come a Roma
nelle alte sfere del potere mussoliniano135, in cui si succedono interminabilmente
le battute spacciate per spiritose e gli scherzi amari di un’oligarchia in piena
decadenza, senza che nessun contrappunto estetico né intellettuale venga
arricchire la piatta ricostituzione di dialoghi anch’essi piatti.
Infine, la funzione defensiva del Corrispondente, questa tendenza cioè ad
indossare senza dirlo la toga dell’avvocato per perorare la causa dell’autore
insistendo talvolta piuttosto pesantemente sui minimi elementi atti a suscitare
l’ammirazione o l’empatia, e soprattutto a dissipare ogni idea di connivenza col
fascismo al suo riguardo, può apparire una violazione del patto narrativo fondato
sull’elezione del lettore al grado di confidente, e non di giudice. Soprattutto,
possiamo ritenere che questa funzione attira sull’insieme dell’opera un sospetto
di insincerità, di compiacimento e di calcolo nell’espressione dell’indignazione e
dell’emotività, e poi trarne un giudizio globale di inautenticità della proposta;
l’interesse
e
gli
interrogativi
suscitati
dal
testo
possono
risultarne
considerevolmente indeboliti.
135
Kaputt., p. 885-937.
62
In maniera generale, sembra impossibile scegliere irrevocabilmente tra i
differenti aspetti del narratore di Kaputt, tanto questo è all’immagine dell’autore:
a seconda del punto di vista a partire dal quale lo consideriamo, il Corrispondente
apparirà come una cinepresa da documentarista, come un Virgilio che guida il
lettore attraverso i gironi successivi dell’inferno nazista, o come un fattore di
smarrimento, a seconda delle sue visioni allucinate e degli sviluppi caotici della
sua estetica della disperazione; ma anche contemporaneamente come un modello
e un contro-modello. L’approccio che abbiamo tentato per classificare e
descrivere le sue funzioni principali, paragonandole cioè a quelle del Narrateur
proustiano, ci ha consentito di distinguerne più facilmente le specificità pur
affrontandole dal punto di vista strettamente letterario, e soprattutto di
compensare la volatilità intrinseca dell’oggetto di studio con il rigore degli
strumenti estrinseci usati per esaminarlo. Ne risulta un’immagine di narratore
schiacciante, frammentaria, spesso conflittuale, che possiamo facilmente
ricondurre alla dimensione del personaggio, così come possiamo facilmente
ricondurre il personaggio alla dimensione di rappresentazione dell’autore stesso;
eppure, ci sembra che quest’esame abbia permesso di evidenziare le dinamiche
letterarie prodotte dal Corrispondente, e soprattutto di isolare una sua funzione
decisiva, in quanto ne stabilisce la peculiarità vera e propria, pur conferendogli
una legittimità: la funzione allegorica, per cui il narratore di Kaputt si costituisce
in riflesso antropomorfico dell’Europa occupata, sconvolta, avvelenata,
quell’Europa di cui condivide lo sgomento e le contraddizioni, di cui non cessa di
costruire e di costituire un ritratto avvincente.
Parigi, 2017.
63
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64