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Un'estetica del narratore

Le funzioni letterarie del narratore in "Kaputt" di Curzio Malaparte - tra risonanze proustiane, onnipresenza e disincarnazione. 2017.

Jérémie Lefebvre Un’estetica del narratore Le funzioni letterarie del narratore in Kaputt di Curzio Malaparte tra risonanze proustiane, onnipresenza e disincarnazione 1 SOMMARIO Introduzione 3 I. A proposito del narratore nella finzione letteraria in generale 4 II. Attitudine generale del narratore in Proust e Malaparte 7 III. Un confronto tra le funzioni del narratore in Proust e Malaparte 10 La funzione parresiastica 10 La funzione iniziatica 12 La funzione periscopica 15 La funzione generica 18 La funzione infra-narrativa 21 La funzione visuale 26 IV. Funzioni specifiche del narratore in Malaparte 30 La funzione documentaria/giornalistica 30 La funzione revelatrice 34 La funzione eroica 37 La funzione profetica 42 La funzione defensiva 45 La funzione centrifuga 49 La funzione allegorica 52 Conclusione: Virtù e limiti letterari del narratore in Kaputt 57 2 Introduzione Per esaminare la scrittura malapartiana mancano gli strumenti critici, dal momento che la sua opera viene quasi esclusivamente studiata sulla scorta della biografia, mentre lo studio letterario risulta trascurato a favore di una critica storico-politica. La problematizzazione estetica, in particolare, sembra ostacolata dal problema ideologico posto dall’itinerario specifico dell’autore in quanto esso traspare quasi in ogni pagina dell’opera, di cui costituisce l’elemento principale di strutturazione; ci troviamo qui di fronte a un fenomeno di annientamento del fatto letterario da parte del fatto storico, la cui ampiezza può sorprendere il ricercatore francese: noi abbiamo il nostro grande pittore dell’orrore bellico nella figura di Louis-Ferdinand Céline, il cui itinerario, seppure meno concretamente politico, rivela una compromissione col fascismo ben più radicata di quella malapartiana, perché più intima, più profonda, esplicitamente xenofoba; tuttavia, dalla sua morte in poi Céline è stato ininterrottamente studiato, esaminato, celebrato in quanto inventatore di una forma letteraria, di una lingua, di procedimenti estetici considerati determinanti nella letteratura del Novecento 1. In una prospettiva storica e sociologica, sarebbe interessante analizzare le ragioni del silenzio della critica letteraria italiana sull’opera di Malaparte ; in questa tesi, nonostante la scarsa bibliografia critica, ci proponiamo di delineare un approccio estetico alla scrittura malapartiana. Come iniziare tale esame senza rischiare di annegare nella portata del compito, nella molteplicità tanto degli oggetti di studio quanto degli approcci possibili, e nella ricerca di strumenti critici in grado di favorire una lettura sistematica e metodologicamente coerente della proposta letteraria malapartiana? Capita frequentemente di fornire a posteriori una giustificazione metodologica a scelte ispirate dapprima dalla sensibilità. Ce ne asterremo, preferendo che la nostra riflessione si appoggi su una base di onestà, e Tra i numerosi saggi pubblicati sull’argomento, ricordiamo in particolare Henri Godard, À travers Céline, la littérature, coll. Blanche, éditions Gallimard, 2014 ; Yves Pagès, Les Fictions du politique chez L.-F. Céline, Paris, Seuil, 19941 (Paris, Gallimard, 20102); Michel Bounan, L'Art de Céline et son temps, Paris, Allia, 1997. 1 3 attribuendo all’intuizione, riconosciuta in quanto tale e ricondotta ai propri limiti, delle proprietà stimolanti in grado di sostenere l’indagine intellettuale. La scelta di questo argomento è stata originata proprio da un’intuizione ; o, meglio, una serie di impressioni, nel corso della nostra prima lettura di Kaputt, che contribuivano tutte a far emergere l’ipotesi di una corrispondenza non soltanto tematica, ma anche estetica con Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. L’intuizione più forte riguardava la posizione del narratore che, al di là delle opposizioni immediatamente percepibili, ci sembrava condividere con quello di Proust una stessa contraddizione tra onnipresenza e disincarnazione. Approfondendo l’esame di queste tangenze, abbiamo osservato che esse ci permettevano di accedere a una comprensione della scrittura di Kaputt che sarebbe stata ben più difficile partendo da uno studio focalizzato sul proprio oggetto, non soltanto perché permetteva l’approccio comparativo in sé, ma anche perché permetteva di prendere in prestito alcuni strumenti di analisi e qualche prospettiva d’approccio alla bibliografia critica della Ricerca del tempo perduto, ossia, in poche parole, di utilizzare quest’ultima come punto di appoggio metodologico per esaminare la scrittura di Kaputt. Proporremo dunque in questa tesi uno studio comparativo delle funzioni letterarie del narratore nella Ricerca e in Kaputt, per utilizzare in seguito la critica proustiana come diaframma attraverso il quale approfondire alcuni elementi di analisi delle specicifità dell’ « io » malapartiano, delle sue virtù e dei suoi limiti letterari. I. A proposito del narratore nella finzione letteraria in generale In primo luogo, non è forse inutile ricordare alcune proposte di definizione del narratore, quali sono state recentemente raccolte da Sylvie Patron2. Secondo il teorico strutturalista Gérard Genette, il narratore è una « prima persona », « emittente fisico » e « responsabile » del racconto, che presenta un carattere 2 Sylvie Patron, Le Narrateur : introduction à la théorie narrative, Paris, Armand Colin, 2009. 4 « fittizio » ; da parte sua, il teorico ceco Lubomír Doležel identifica tre concetti del narratore: la « personificazione del racconto », l’ « istanza effettiva di produzione del racconto » e la « rappresentazione finzionale dell’istanza di produzione del racconto nel racconto stesso » ; per il critico americano Seymour Chatman, ci sono solo due tipi di narratore: quello « manifesto » e quello « nascosto » ; infine, il ricercatore austriaco Franz K. Stanzel individua tre situazioni narrative : la « prima persona », in cui il narratore è collocato dentro il mondo dei personaggi, la narrazione « autoriale », in cui è esterno al mondo dei personaggi, e la narrazione « figurale », in cui il narratore è un personaggio che non si rivolge al lettore. Queste accezioni condividono il fatto di attribuire al narratore una funzione di “matrice” rispetto al materiale della finzione, e di porre implicitamente la scelta, da parte dell’autore, di un determinato tipo di narratore in quanto determinante per la natura e le caratteristiche del racconto. Per noi, permettono un primo approccio della figura del narratore, tanto della Ricerca quanto in Kaputt, nella misura in cui tutte queste definizioni si combinano, coesistono, si succedono secondo i momenti del racconto in entrambe opere – ad eccezione del narratore « figurale », dato che il Narrateur di Proust e quello che chiameremo il Corrispondente (il narratore di Kaputt, corrispondente di guerra nell’Europa occupata) non cessano mai di rivolgersi al lettore. Eppure, se tentiamo di stabilire una gerarchia tra la natura dei diversi tipi di narratore, scopriamo delle preponderanze diversamente ripartite tra il Narrateur e il Corrispondente. Secondo la definizione di Genette, il Narrateur è effettivamente una « prima persona », un « emettente fisico » che è « responsabile » del racconto, e presenta un carattere « fittizio » anche se viene ispirato e nutrito dalla personalità e dalla biografia reale dell’autore, come sottolinea Jean-Yves Tadié quando, prima di elencare le differenza tra Proust e il Narrateur, ammette che sarebbe « vain de nier les ressemblances entre l’auteur et son personnage, assez nombreuses pour avoir pu égarer3 »; mentre il Corrispondente malapartiano, pur essendo anche lui una « prima persona » che 3 Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, « Tel » - Paris, Gallimard, 1971, p.22. 5 svolge il ruolo di « emettente fisico » ed è « responsabile » del racconto, presenta invece un carattere reale: rivendica la propria identità con l’autore e, in varie occasioni, viene chiamato da personaggi con il suo nome. Secondo i tre concetti di Doležel, il Narrateur e il Corrispondente incarnano alternativamente la « personificazione del racconto », (in particolare nelle descrizioni d’impressioni, di fantasie, di sogni ad occhi aperti o notturni), l' « istanza effettiva di produzione la del racconto » (nel flusso narrattivo-descrittivo), e « rappresentazione finzionale dell’istanza di produzione del racconto nel racconto stesso » (attraverso la raffigurazione delle interazioni fra il narratore e il suo ambiente); tuttavia, la « personificazione del racconto » occupa un posto essenziale, se non quantitativamente maggioritario, nel testo proustiano, spesso dedicato alla ricerca di completezza nell’esplorazione analitica della sensibilità del Narrateur, mentre il Corrispondente di Kaputt si limita ad incursioni episodiche nella propria soggettività, privileggiando la produzione effettiva di un racconto dedicato all’osservazione del mondo esterno. Adottando la divisione più schematica di Chatman tra narratore « manifesto » e « nascosto », troviamo in Proust una dominanza quasi assoluta del narratore manifesto, mentra la parte “Un amour de Swann”4 , i cui fatti risalgono a un’epoca anteriore alla nascita del Narrateur, sembra interamente raccontata da un narratore nascosto (anche se scopriamo, in modo aneddotico, che si tratta di « souvenirs d’une autre personne de qui [il] les avai[t] appris5 ») ; mentre in Kaputt l’aspetto manifesto del narratore è costante e privo di qualsiasi ambiguità. Infine, a seconda della loro distanza di osservazione, i due narratori oscillano in modo equilibrato tra le due prime situazioni definite da Stanzel: la « prima persona » posizionata all’interno del mondo descritto, e la narrazione « autoriale » esterna a questo mondo. Se ci concentriamo sulle divergenze, possiamo far emergere da quel primo approccio generico l’immagine di un Narrateur proustiano caratterizzato soprattutto da una prima persona « fittizia » emittente e responsabile del racconto, con una « personificazione » fortissima, e quella di un Corrispondente 4 5 Marcel Proust « Un amour de Swann », in A la recherche du temps perdu I., Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990. Ibid. 6 malapartiano caratterizzato da una prima persona « reale » emittente e responsabile del racconto, ma che svolge principalmente la funzione di « istanza effettiva di produzione del racconto ». Tuttavia, se questa differenza di proporzione fra gli elementi che caratterizzano la natura del narratore può essere utilizzata per dimostrare un’opposizione tra gli usi che ne fanno i due autori, essa risulta anche dalla differenza fra i materiali narrativi di per sé, ossia fra le situazioni e i contesti attraversati e descritti nella Ricerca e in Kaputt, i quali, anche nell’ipotesi in cui fossero vissuti e narrati dalla stessa persona, non potrebbero esserlo in modo simile, poiché non potrebbero toccare gli stessi tasti della sensibilità, né suscitare lo stesso tipo di reazioni. II. Attitudine generale del narratore in Proust e Malaparte Leggendo la Recherche, risulta che la prima persona proustiana osserva inanzitutto se stessa attraverso il mondo di cui viene circondata. Tale fenomeno non è soltanto generale e diffuso, ma può essere anche corroborato numerosi esempi particolari, come il racconto delle passeggiate dalla parte di Méséglise le cui caratteristiche derivano tutte dal fatto che il Narrateur le fa sempre « après de longues heures passées sur un livre »6 ; o la conversazione sulla spiaggia di Balbec con la marchesa di Cambremer la cui interminabile elencazione delle parole serve a giustificare l’impressione percepita dal Narrateur di un’intelligenza che gli sembra « entièrement inutile »7. Quest’idea della centralità dell’osservazione di sé contraddice l’analisi di Martine Gantrel secondo cui il Narrateur, « tout en initiant son lecteur à tous les replis de son intériorité et aux multiples facettes de sa vie mondaine, […] reste lui-même en retrait, s’effaçant cérémonieusement devant son lecteur pour le laisser contempler à son aise le spectacle qu’il lui offre »8 ; mentre viene invece appoggiata da Léo Bersani per cui il Narrateur « en décrivant le monde, […] lui donne la forme d’un reflet 6 Ibid., p. 52. Marcel Proust, A la Recherche du temps perdu V, Folio-Gallimard, 1988, p. 206 8 Martine Gantrel, Proust et Gide : le « je » narrateur et ses effets perlocutoires, Bulletin des Amis d’André Gide – XXXIV, 151 – juillet 2006, p.430-431. 7 7 presque allégorique de sa propre imagination » 9, e soprattutto da Theodor Adorno, per cui « personne n’a été plus loin que Marcel Proust dans [l’] allergie à la forme du compte rendu. Son œuvre se situe dans la tradition du roman réaliste et psychologique, au stade de la décomposition dans l’extrême subjectivité. » 10 E, ancora : « Le narrateur institue en quelque sorte un espace intérieur qui lui évite d’entrer dans le monde étranger en faisant un faux-pas, que pourrait révéler le ton faux de celui qui feint d’être un familier de ce monde. Insensiblement, le monde est aspiré dans cet espace intérieur – cette technique a été baptisée monologue intérieur – et le moindre événement extérieur apparaît […] comme un morceau d’intériorité, un moment du flux de conscience ». Troviamo qui un punto di convergenza indiretto tra la forma di soggettività del Narrateur e quella del Corrispondente: sebbene in Kaputt il narratore non lasci nessuno spazio all’esame di se stesso, tanto meno a un’analisi approfondita della propria sensibilità, la voce del Corrispondente non descrive un paesaggio o un personaggio senza avvolgerlo di emozione estetica, di lirismo morale o di metafore comparative assimilabili alla soggettività più esplicita, e su questo potrebbe basarsi la stessa analisi adorniana di un mondo « aspiré dans cet espace intérieur », in cui ogni minimo evento sembra « un morceau d’intériorité, un moment du flux de conscience ». Il Corrispondente di Kaputt mostra le cose al lettore soltanto attraverso il prisma della propria soggettività. Nelle prime pagine, mentre esce nel parco del Principe Eugenio di Svezia a Stoccolma, il desiderio che la guerra finisca orienta interamente la sua percezione dell’ambiente esterno: la luce decrescente gli dà « un senso di pace e di serenità », si sente sollevato « dopo l’interminabile giorno» in Lapponia con il suo « crudelissimo sole senza tramonto », poi l’ombra lo avvolge come « una coperta di lana » e l’aria che va rinfrescando ha per lui « un tepore, un odore di donna ». Saturato di elementi visuali e olfattivi, quel passaggio è nondimeno invaso dalla sensibilità dell’ « io »: si capisce che il « crudelissimo sole senza tramonto » simboleggia la guerra che non finisce mai, e che non bisogna vedere in quel passaggio un 9 Léo Bersani, « Déguisements du moi et art fragmentaire », in Recherche de Proust (coll.), Paris, Points-Littérature, 1980 Theodor Adorno, Notes sur la littérature, 1958, 1961, 1965, 1974, trad. Sibylle Muller, Paris, Flammarion, 2004, p. 40. 10 8 giardino al tramonto, ma un giardino al tramonto visto da un uomo consumato dalla guerra che sogna solo di addormentarsi tra le braccia di una donna. All’inizio del capitolo « Le renne », lo stesso Corrispondente descrive il Generale Dietl servendosi di numerosi elementi sensibili: i capelli sono « cascanti sulla fronte come la frangia dei paggi del Masaccio », il viso dalla pelle « color verde e giallo » e lo sguardo segnano « quella lenta dissoluzione, simile alla lebbra, cui gli esseri umani soggiacciono fatalmente nell’estremo nord » e Dietl guarda il Corrispondente con « uno sguardo di bestia mansueta e rassegnata », con l’occhio « meraviglioso e bestiale » che richiama a quest’ultimo la maniera in cui lo guardavano i soldati tedeschi che « s’aggiravano tristi e assorti nelle profonde foreste della Lapponia ». Qui appare il personaggio con una precisione che non serve a raffigurarlo quanto a rafforzare, con l’orientamento univoco della sensibilità del Corrispondente, l’idea di imminenza della sconfitta tedesca. Comune ai due narratori, la centralità della soggettività svolge però delle funzioni molto diverse nelle due opere. In Proust, secondo Jean-Yves Tadié, essa serve inanzitutto all’esplorazione di sé per costituire un « lien indestructible, toujours invoqué par l’auteur [entre] le je impersonnel et la structure de l’œuvre » 11 , legame mediante il quale la soggettività condiziona talmente il romanzo nella sua integralità da scomparire, facendo del Narrateur « un moyen privilégié d’analyse intérieure, surtout quand il s’agit de l’analyse d’une vocation »12. In Malaparte, la soggettività è un accesso al solo mondo esterno. Per Gianni Grana, l’« invadente presenza » della prima persona « ingenera psicologicamente e [...] fisiologicamente gli accenti di intelligenza offesa e di dignità ferita, di risentimento e rancore personale, di orrore della guerra e di solidarietà coi vinti e caduti », et pone un’identità « esemplare e quasi simbolica: quella dell’uomo europeo, di un testimone che tende a proporsi come la coscienza dell’Europa tradita e oppressa, dell’Europa caduta dove muore tutto ciò che vi “ha di nobile, di gentile, di puro”13 ». È noto il narcissismo dell’uomo Malaparte, ciò che il suo amico il pittore Orfeo Tamburi chiamava « ses prétentions à se mettre 11 Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.32. Ibid. 13 Gianni Grana, Curzio Malaparte, Milano, Marzorati Editore, 1961, p. 66. 12 9 personnellement en vedette »14, e quel tratto di carattere non è oggetto in Kaputt di alcuna dissimulazione – come vedremo più avanti – ma, lungi dall’incarnarsi nell’introspezione, si perde nell’imperativo di pensare il mondo esterno e di contemplarne non soltanto l’orrore, ma anche la dolcezza e la bellezza. Questa soggettività, costantemente alle prese con la consustanzialità della forza e della vulnerabilità, della raffinatezza e della crudeltà, della freschezza e della putrefazione, sembra soprattutto preoccupata di renderne ogni manifestazione con precisione, se non con compiacimento, in modo da provocare nel lettore lo stesso spavento, la stessa ammirazione e lo stesso disgusto. Ambigua per il suo narcisismo, che è paradossale in quanto esclusivamente rivolto verso l’esterno, essa racconta l’ambiguità del mondo, e lo fa con toni ambigui: Gianni Grana nota « un irriducibile estetismo, ma equilibrato a sua volta dall'intensità della reazione morale. Di qui il tono di gran lunga più pacato e misurato, di calmo e risoluto distacco quasi impartecipe, che spesso assume la narrazione proprio dove la materia è più crudele, macabra e nauseabonda.15 » III. Un confronto tra le funzioni del narratore in Proust e Malaparte a. La funzione parresiastica In merito al romanzo moderno, Adorno osserva che la riflessione « émerge au travers de la pure immanence de la forme », in quanto « prise de position contre le mensonge de la représentation, c’est-à-dire en réalité contre le narrateur lui-même, qui cherche à corriger son intervention inévitable en devenant le commentateur suprêmement lucide des événements.16 » Tale particolarità implica nel materiale letterario una centralità delle Verità che, in quanto non deriva dalla dimostrazione né dall’argomentazione, ma dall’esempio, raggiunge l’idea foucaldiana di « parresia » che invita le persone a curarsi « d’eux-mêmes, c’est-à-dire de leur raison, de la vérité et de leur âme » 17. Senza 14 Orfeo Tamburi, Malaparte à contre-jour, Paris, Denoël, 1979, p.80. Ibid., p. 62. 16 Ibid., p.41. 17 Michel Foucault, Le Gouvernement de soi et des autres II : Le Courage de la vérité, Paris, Gallimard, 2009. 15 10 mostrare di preoccuparsi di attestare ciò che descrive, il Narrateur presenta al lettore il processo attraverso il quale si avvicina alla verità del mondo e degli esseri. Gli mostra le tappe della propria riflessione, gli confessa le difficoltà che incontra, condivide con lui i propri errori di comprensione e di giudizio. Proprio perché espone la sua ricerca della verità, dice la verità. Il celebre brano sulla madeleine esemplifica questo processo : il Narrateur vi esplora in modo estremamente dettagliato i movimenti della propria coscienza alle prese con la memoria e la sensibilità, moltiplicando le esitazioni e le incertezze: « Et je recommence à me demander quel pouvait être cet état inconnu, qui n’apportait aucune preuve logique mais l’évidence de sa félicité, de sa réalité devant laquelle les autres s’évanouissaient. Je veux essayer de le faire réapparaître. Je rétrograde par la pensée au moment où je pris la première cuillerée de thé. […] Je demande à mon esprit un effort de plus, de ramener encore une fois la sensation qui s’enfuit. […] Arrivera-t-il jusqu’à la surface de ma claire conscience, ce souvenir, l’instant ancien que l’attraction d’un instant identique est venue de si loin solliciter, émouvoir, soulever tout au fond de moi ? Je ne sais. Maintenant je ne sens plus rien, il est arrêté, redescendu peut-être ; qui sait s’il remontera jamais de sa nuit ? Dix fois il me faut recommencer, me pencher vers lui ». Al termine di questa lotta interiore, l’istante epifanico « Et tout d’un coup le souvenir m’est apparu » costituisce la rivelazione insperata non di una verità, ma della Verità, chiara e lampante, che designa il Narrateur come servo devoto, pronto a qualsiasi sforzo per farla emergere. Il fatto di dimostrare pur non dimostrando, soltanto tramite un’esposizione di se stesso meticolosa e priva di compiacimento, la cui buona fede viene attestata dalle contraddizioni e dalle debolezze anticipatamente confessate, istituisce il Narrateur come parresiasta tanto più affidabile in quanto non sembra cercare di ispirare la fiducia, limitandosi ad essere se stesso. Nella Recherche, la ricorrenza di questo tipo di dispositivo ne garantisce l’efficacia: il lettore non dimentica mai di avere a che fare con una persona sincera che, temendo sempre di sbagliare, non può voler ingannare. Il Corrispondente adotta spesso le stesse tecniche per raggiungere lo statuto di parresiasta, come quando evoca una conversazione sulla terrazza di Montecarlo Beach dicendo « La Principessa di Piemonte parve molto turbata 11 dalle mie parole, e vidi che arrossiva leggermente. Io m’ero già pentito di averle parlato in quel modo. Temevo di averla offesa. Ma dopo qualche istante mi disse... » ; nel seguito del dialogo questa precauzione iniziale garantisce l’accuratezza e la fedeltà della restituzione. Poco oltre, quando la Principessa afferma ingenuamente « Tutto finirà bene, vedrà, il nostro popolo è meraviglioso »18, egli rafforza l’impatto della risposta « il nostro popolo è molto infelice » confidando prima al lettore : « [...] avrei voluto risponderle : “Abbiamo già perso la guerra, tutti abbiamo perso la guerra, anche Lei”. Ma mi trattenni. » La necessità di consolidare l’affidabilità del discorso è ancora più evidente quando racconta a soldati romeni di essersi avvicinato a Hitler: « Gli stivali di Hitler sono abbastanza belli. Io li ho visti da vicino. Non ho mai parlato a Hitler, ma gli ho guardato gli stivali da vicino. Sono senza speroni.19 » In questo passaggio, il fatto di precisare che non ha « mai parlato » a Hitler ma che ne ha visto gli stivali rende incontestabile il fatto che l’ha visto da vicino. b. La funzione iniziatica La Recherche è già stata paragonata alla Commedia di Dante dalla ricercatrice Anne Teulade, per la quale « les parentés les plus évidentes entre les deux œuvres tiennent d'abord à leur dimension initiatique » con un eroe-narratore il cui percorso « constitue une exploration du monde doublé d'un apprentissage personnel » che passa per « les tâtonnements, l'errance dans l'erreur et la pénombre », prima che le « visions » facciano « entrevoir la possibilité d'un salut20 ». Inoltre, il Narrateur potrebbe sintetizzare in un personaggio unico le figure di Dante e Virgilio, in quanto è contemporaneamente l’avventuriere candido smarrito in un mondo interamente costituito di enigmi, e quello che illumina e guida il lettore attraverso lo stesso mondo di cui non cessa di chiarire, nel momento stesso in cui le scopre, le sottigliezze. La situazione iniziale del romanzo si organizza attorno al ricordo di esser stato, da bambino, condannato ogni sera alla solitudine e al senso di abbandono nella propria camera, perduto 18 Curzio Malaparte, Kaputt, Milano, Mondadori, 2001, p.458. Ibid., p.478. 20 Anne Teulade, « Proust et l’épopée de Dante », in Proust, l’étranger, ed. by Karen Haddad-Wotling and Vincent Ferré, Amsterdam, Rodopi, 2010. 19 12 nelle tenebre del proprio immaginario così come Dante nella « selva oscura ». Il lettore viene immediatamente chiamato in causa attraverso l’evocazione di un territorio condiviso che rimanda all’esperienza più intima e sensibile: la propria infanzia; ma viene immediatamente preso per mano, guidato, orientato attraverso il racconto dalla curiosità estrema del Narrateur per ciò che struttura alla radice ogni elemento della cosidetta ora di coricarsi: la fantasticheria ansiosa, la perdita di controllo dei pensieri, le deformazioni della percezione, le diverse modalità dell’attesa e dell’ottenimento del « baiser du soir » ; il discorso non è mai sovrastante ma rientra nel work in progress, negli scavi a cielo aperto, trascina il lettore in un’ esplorazione instancabile, e gli fa condividere nel corso delle pagine, mano a mano che il Narrateur cresce, fa il suo ingresso nel mondo, la sua progressiva comprensione della complessità di quel mondo, senza mai considerare niente come stabilito in modo definitivo. Quando la sua rappresentazione idealizzata della duchessa di Guermantes viene confrontata alla donna reale di cui è diventato il vicino, assistiamo alla disgregazione, dettaglio dopo dettaglio, del suo immaginario: dapprima egli la scopre che gioca « ce rôle, si inférieur à elle, de femme élégante21 » ; poi condividiamo il suo apprendimento di una condotta ragionevole, quando capisce che le sue passieggate quotidiane per incrociare la duchessa esasperano quest’ultima; infine arriva l’ammissione tanto attesa nel suo entourage, e le conseguenze che ne derivano: la completa caduta del prestigio di Oriane, al cui proposito si ritroverà poi a dire « Nos relations étaient fondées sur un malentendu qui ne pouvait manquer de se manifester dès que mes hommages, au lieu de s'adresser à la femme relativement supérieure qu'elle croyait être, iraient vers quelque autre femme aussi médiocre22 ». Il lettore scopre la Guermantes mediante la scoperta che ne fa il Narrateur, e sebbene venga illuminato in quella messa a nudo dall’arte della sua guida nell’analizzare le proprie osservazioni e costruire il proprio giudizio, in nessun momento, come sottolinea Tadié, ha « l’impression que le narrateur en sait plus que lui23 ». In Kaputt, invece, il Corrispondente conosce il mondo 21 Marcel Proust, A la recherche du temps perdu III, Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990, p. 23. Marcel Proust, A la recherche du temps perdu IV, Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990, p. 187. 23 Ibid., p.37. 22 13 attraverso il quale trascina il lettore, e la sua opinione è fatta sin dall’inizio sulla natura di quel mondo, come si evince dalla risposta perentoria che fa allo scrittore svedese Axel Munthe quando costui, durante una passeggiata a Capri, lo interroga sulla crudeltà dei tedeschi: « La loro crudeltà è fatta di paura […], sono malati di paura. Sono un popolo malato, un “krankes Volk”.24 » La regola di progressività che solitamente presiede ai processi di iniziazione viene sin dall’inizio violata da questa rivelazione immediata della tesi generale di Kaputt sul funzionamento della violenza nazista. Attraverso le tappe successive del racconto, la posta in gioco non sembra essere quella di condividere col lettore l’apprendimento del protagonista, ma piuttosto di insegnargli ciò che quest’ultimo sa. Si può parlare al riguardo di iniziazione diretta, o più precisamente di pedagogia, il che implica la tendenza a infantilizzare il lettore usando spesso la retorica della favola per bambini, così come all’inizio del capitolo IV, quando il Corrispondente risponde al Reichminister Frank autoproclamato « Re tedesco di Polonia »: « Ho parlato con molti Re, ho pranzato nei loro palazzi e nei loro castelli ma nessuno di loro mi ha mai detto: io sono il Re25 » ; o di cadere in uno stile didattico quando, seduto accanto allo stesso Frank sull’orlo del Fiume Juutuanjoki in Finlandia, si imbarca in una meditazione interiore che prende la forma di una lezione sulla vera natura dei tedeschi, messa a nudo dall’imminenza della loro sconfitta; la descrizione è allora visuale, elencativa, piattamente esplicativa per andare dalla descrisione precisa del paesaggio fino alla constatazione inequivocabile della disperazione dei soldati della Wehrmacht che « avevano acquistato la disperata umiltà delle bestie selvatiche, il loro misterioso senso della morte26 ». Il ruolo di pedagogo del Corrispondente s’incarna anche, in tutto il libro, nella sua tendenza alla ripetizione. Alcune informazioni e riflessioni, nonché alcuni elementi visuali e metaforici, ritmano il testo alla maniera di richiami delle regole di una specie di grammatica generale della guerra. Le meditazioni sulla natura profonda della Germania e dei tedeschi, e le variazioni sul tema della paura che sta alla base 24 Kaputt., p.441. Ibid., p.503. 26 Ibid., p.862. 25 14 della loro crudeltà ritornano spessissimo; si nota poi il ricorrere frequente – che rasenta a tratti l’ossessione – delle metafore che usano la figura del cadavere e della putrefazione: l’inverno del 1941 viene paragonato a un « gran corpo in decomposizione27 » ; si ripete anche il paragone dei girasoli con « grandi occhi neri […] dalle lunghe ciglia dorate28 », come è frequente un uso smoderato dell’immagine degli occhi: luccicanti, febbricicanti o penetranti, la loro centralità è quasi onnipresente in Kaputt, particolarmente nell’uso del paradosso. Per il Corrispondente, gli occhi dei cadaveri sono viventi, come quelli dei cavalli congelati nel lago Làdoga, « sbarrati », nei quali « bruciava ancora la fiamma bianca del terrore29 », mentre gli occhi degli uomini rimandano a quegli degli animali, come abbiamo già visto in merito al ritratto del Generale Dietl. Per Malaparte, gli occhi ricordano la vita che, precedente alla morte, le attribuisce un senso; indicano l’innocenza e la debolezza la cui repressione provoca la caduta nella barbarie; costituiscono un’irruzione della Verità in mezzo alle apparenze. Quest’uso metaforico degli occhi raggiunge il suo apice nel passaggio sull’occhio di vetro del Feldwebel in un villaggio d’Ucraina. Catturato un ragazzino nel campo dei partigiani, l’ufficiale guercio promette di lasciarlo in vita se questi riesce a indovinare quale dei due occhi è di vetro, e il bambino risponde : « L’occhio sinistro » ; « Come hai fatto ad accorgertene ? » ; « Perché dei due è l’unico che abbia qualcosa di umano30 ». c. La funzione periscopica Il Narrateur proustiano, per quanto sia introspettivo nelle sue interrogazioni, è nondimeno immerso in una società molto chiusa di cui esamina con precisione i membri e i loro comportamenti, comunicando al lettore lo stesso senso di partecipazione attiva. Dal momento che non lascia mai trasparire intorno a sé alcun pensiero recondito che lo agita e non esprime mai agli altri protagonisti la spietata mancanza di indulgenza con cui li giudica, possiamo dire che vede senza esser visto, e costituisce dunque un periscopio ad uso del lettore che può, 27 Ibid., p.490. Ibid., p. 466. 29 Ibid., p. 493. 30 Ibid., p. 768-769. 28 15 per il suo tramite, circolare tranquillamente, senza essere visto, nelle alte sfere inaccessibili alla gente comune, in maniera tanto più realistica in quanto avrà dapprima affrontato, in osmosi con il suo « Dante-Virgilio » addentrandosi progressivamente nelle esclusive cerchie del Faubourg Saint-Germain, la difficoltà a penetrare quei salotti. Fatto questo, grazie al principio di parresia menzionato sopra, non c’è più posto per il dubbio quanto alla veridicità della buona accoglienza del Narrateur fra i principi e le duchesse più selettivi nelle loro frequentazioni: sappiamo quante battute d’arresto ha subito prima di essere accolto da loro. L’acutezza che mostra, poi, nella sua percezione dell’alta società, oltrepassa ampiamente i limiti della mera osservazione, poiché sfiora il dono della lettura del pensiero, se non addirittura dei pensieri reconditi, come dimostra questo passaggio, relativo a una rappresentazione di Fedra, durante la quale il Narrateur osserva e studia gli atteggiamenti degli spettatori: « Peut-être Mme de Guermantes aurait-elle le lendemain un sourire quand elle parlerait de la coiffure un peu trop compliquée de la princesse, mais certainement elle déclarerait que celle-ci n'en était pas moins ravissante et merveilleusement arrangée ; et la princesse, qui, par goût, trouvait quelque chose d'un peu froid, d'un peu sec, d'un peu couturier, dans la façon dont s'habillait sa cousine, découvrirait dans cette stricte sobriété un raffinement exquis.31 » Ma questa precisione onnisciente dello sguardo viene controbilanciata, se non contraddetta, dal fatto che il Narrateur non cessa mai di sbagliarsi e di essere smentito nella sua lettura del mondo. Come sottolinea Tadié, l’intera opera potrebbe essere divisa « entre ce que le narrateur a vu, et ce qu’il a su – cru voir et cru savoir32 », poiché la dinamica generale del romanzo implica la perpetua scoperta di ciò che è, in contrapposizione a ciò che sembra di essere : « connaître tout, tout voir est l’idéal du narrateur, mais jamais réalisé33 ». Il lettore è nondimeno costantemente messo, per il suo tramite, nella situazione di una « mosca sul muro » che può tanto meglio vedere in quanto non è vista. E gode del medesimo privilegio leggendo Kaputt, in cui le alte sfere, altrettanto inaccessibili alla gente comune, 31 A la recherche du temps perdu III, p. 47. Proust et le roman, p.54. 33 Ibid., p.57. 32 16 non son più soltanto quelle di un’aristocrazia qualsiasi, ma anche quelle del potere nazista. Il Corrispondente vi si comporta spesso come una spia vera e propria, adottando l’atteggiamento più amichevole e trovandosi ammesso – e molto apprezzato – nell’intimità ristretta dei più terribili dirigenti del Reich; ne deriva talvolta un’atmosfera famigliare che mostra al lettore la parte simpatica, persino calorosa di grandi criminali, fino al punto di aprire con loro dei campi di immedesimazione per lo meno imbarazzanti. Troviamo questa situazione in relazione al Generale Frank quando il Corrispondente conclude una serata nel suo appartamento privato fra gli invitati « abbandonati nei profondi divani viennesi e nelle larghe poltrone coperte di morbida pelle di daino […] a fumare e discorrere34 » ; le parole del Generale, in quell’occasione, esprimono benevolenza verso i popoli occupati: « Gli operai polacchi […] non sono i migliori d’Europa, ma nemmeno i peggiori. Se vogliono, sanno lavorar molto bene » e aggiunge, dissertando sulla natura del popolo polacco : « Credo [...] che finga di dormire. [...] In fondo, non domanda di meglio che lasciarsi amare 35 »; poi, quando la conversazione affronta il tema del livello d’igiene delle donne polacche, si lascia scappare un’informazione aneddotica – aneddotica stando al tono negligente e mondano con cui viene fornita : « In Germania hanno trovato il modo di fare il sapone con una materia che non costa nulla, e di cui vi è molta abbondanza. Ne ho già ordinata una grande quantità da distribuire alle signore polacche, perché possano lavarsi »; e quando il Corrispondente si stupisce che si tratti di sterco umano e chiede con un’innocenza che non può ingannare il lettore se « è un buon sapone », il Generale risponde: « Eccellente [...]. L’ho provato per radermi e ne sono rimasto incantato36. » In questo tipo di immersione estrema, il Corrispondente non si accontenta di dissimulare il proprio antinazismo ma entra nei panni del simpatizzante nazista fino al punto di condividerne empaticamente le sensazioni, raccontando, ad esempio, che, nel salotto dello stesso Frank, dopo aver fatto un brindisi, gli « girava un po’ la testa » e che si sentiva « 34 Kaputt., p.527. Ibid., p.529 36 Ibid., p.530. 35 17 piacevolmente disposto37 ». Tale maniera di confondersi interamente nel campo nemico, oltre al porre la questione etico-storica del livello di compromissione reale dell’autore a cui il narratore è ispirato, si allinea all’osservazione estetica di Grana che insiste sul ruolo svolto in Kaputt dall’ironia in quanto « modulo espressivo di una reazione morale » che « concorre a realizzare […] la tonalità fondamentale del racconto, un’intonazione ambigua di pietà distaccata e dura, di pena lucida e acerba, di giudizio acre, dissimulato e persino inasprito nei mots d’esprit di un frivolo cinismo salottiero38 ». Per ottenere tale rafforzamento del proprio giudizio, il Corrispondente malapartiano non si accontenta quindi di offrire al lettore una visione periscopica dell’intimità dei criminali, ma gli impone anche una forma di immedesimazione con loro; questo processo ambiguo è interessante in quanto riflette una visione generale della guerra come luogo del paradosso in cui orrore e bellezza risultano strettamente intrecciati – come nella descrizione surreale della strage degli ebrei di Jassy – per non dire interdipendenti, come rivelano la maggior parte degli episodi che descrivono cene mondane; esso caratterizza e condiziona anche una funzione specificamente malapartiana del narratore sulla quale torneremo, ossia quella della rivelazione. d. La funzione generica Per quanto sia onnipresente, il Narrateur proustiano, come osserva JeanYves Tadié, « nous reste mystérieux », perché diventa la « demeure obscure mais intime du lecteur », insieme eroe, attore e spettatore della propria azione ; « il garde jusqu’à la fin du récit quelque chose de l’obscurité de la chambre nocturne où nous l’avons rencontré la première fois. Paradoxe, alors qu’il est le héros dont les pensées secrètes, les interprétations – les causes – d’actes qu’il ignore luimême nous soient toutes connues. […] Nous passons au travers et ne le voyons pas, comme pour nous-mêmes39 ». Martine Gantrel condivide questa posizione, ma vede in ciò una maggiore intenzionalità da parte del Narrateur, il quale « tout en initiant son lecteur à tous les replis de son intériorité et aux multiples facettes 37 Ibid., p.606. Curzio Malaparte, p. 70. 39 Proust et le roman, p.30. 38 18 de sa vie mondaine, […] reste lui-même en retrait, s’effaçant cérémonieusement devant son lecteur pour le laisser contempler à son aise le spectacle qu’il lui offre40 ». Il Narrateur si lascia conoscere in sottofondo, attraverso gli interessi, le angoscie, le ossessioni che emergono dal suo racconto, ma non si descrive mai, lascia in ombra la maggior parte degli elementi ordinari di caratterizzazione di un individuo. Funziona come un involucro ad uso del lettore, un vestito nel quale siamo invitati a entrare per accedere al racconto, un luogo che non conosciamo, ma grazie al quale conosciamo. Paradossalmente, questo posizionamento è tale da rafforzare il legame col lettore, perché, come spiega Gantrel, « l’intimité entre instance narratrice et instance réceptrice du discours littéraire ne vient pas […] d’un face à face toujours recommencé […] mais au contraire de ce que l’une et l’autre instance regardent ensemble et toujours […] du même côté ». Di fatto, quando ripensiamo alla Recherche dopo averla letta, non ci ricordiamo di aver ascoltato le confidenze di un protagonista affascinato dalla duchessa di Guermantes, amico di Saint-Loup e geloso delle amiche di Albertine, ma piuttosto di esser stati noi stessi affascinati dalla duchessa di Guermantes, amici di Saint-Loup e gelosi delle amiche di Albertine. In Le Temps retrouvé, il Narrateur stesso dà la chiave di lettura di tale posizione “in disparte” dell’autore : « En réalité, chaque lecteur est, quand il lit, le propre lecteur de soimême. L’ouvrage de l’écrivain n’est qu’une espèce d’instrument optique qu’il offre au lecteur afin de lui permettre de discerner ce que, sans ce livre, il n’eût peut-être pas vu en soi-même41. A tale proposito, si può parlare di genericità del Narrateur che, per concedere spazio al lettore, giunge a una dimensione universale, non cancellandosi attivamente, ma tralasciando sempre di rivendicare direttamente se stesso, in modo che le specificità della sua personalità, per quanto manifeste, rimangono secondarie e prendono corpo soltanto tramite l’immedesimazione del lettore. Apparentemente, il Corrispondente di Kaputt funziona in maniera opposta. Sin dall’inizio, questi afferma l’originalità della propria personalità; scopriamo « Proust et Gide : Le « je » narrateur et ses effets perlocutoires », Bulletin des amis d’André Gide, XXXIV, 151, juillet 2006, p.430-431. 41 A la recherche du temps perdu VII, p. 217-218. 40 19 prima di tutto la sua franchezza che emerge dalla maniera in cui « quasi per modo inconscio » racconta al Principe Eugenio di Svezia l’aneddoto dei « prigionieri russi che, accecati e abbrutiti dalla fame, mangiavano i cadaveri dei loro compagni […] sotto gli occhi impassibili degli ufficiali e dei soldati tedeschi », e, in seguito, egli rivendica il modo insistente la propria sensibilità: « Sentivo che se egli [il Principe] avesse parlato, se mi avesse rivolto una sola parola, se mi avesse toccato la mano, forse mi sarei messo a piangere 42 ». Scopriamo poi la sua capacità di fare apertamente dell’ironia sulle atrocità naziste, non solo durante le cene mondane ma anche al fronte, come in Ucraina quando dichiara a un caporale che prevede di portare un prigioniero russo fino a Balta senza nutrirlo né restituirgli gli stivali : « Fareste più presto ad ammazzarlo, non ti pare ? » ; la maniera poi in cui restituisce, nei minimi dettagli, la discussione durante la quale convince il caporale a cedergli l’onere di condurre il prigioniero, ci fa capire che in quel momento non è più un corrispondente di guerra che racconta: è un eroe. Il narratore di Kaputt non s’incarna nell’esplorazione interrogativa di un « io » vertiginoso, ma in un’esposizione « dall’esterno », nella fiera rappresentazione di un « io » che potremmo definire privo di interiorità, tanto essa sembra inaccessibile al dubbio, allo scrupolo e all’approssimazione. Se poi aggiungiamo a tale interiorità labile l’assenza di legami affettivi nel corso del racconto, l’assenza cioè di vita amorosa e famigliare tanto nel presente quanto nella memoria del Corrispondente, si giunge un livello di impersonalità tale che i tratti di carattere citati sopra, in quanto incidono a malapena sullo svolgimento dei fatti e non costituiscono mai materiale di analisi o di simbolizzazione estetica, fungono da attribuiti artificiali, persino arbitrari, e soprattutto irrilevanti in mezzo al disastro della guerra. L’incarnazione relativa del Corrispondente è assimilabile alla trasparenza del Narrateur per la maniera di scomparire di fronte alla potenza della realtà circostante; essa trasforma il protagonista in figura interscambiabile. 42 Kaputt., p.446-447. 20 e. La funzione infra-narrativa Nella Recherche, ci sono presenti numerosi « racconti nel racconto » che interrompono il flusso narrativo, alla stessa stregua di altre varianti formali come le scene dialogate, i « pastiche » letterari e gli estratti di corrispondenza, e permettono di « recevoir des nouvelles de personnages qu’on ne voit pas, d’événements auxquels on n’a pas assisté43 ». Sono integrati al racconto generale per mezzo della parentesi che è per Proust, secondo André Ferré, « un symbole du mouvement de pensée et de composition qui lui est propre 44 ». Il più importante di tali excursus è indubbiamente « Un amour de Swann », la cui durata si avvicina a quella di un romanzo completo, e che beneficia di un’autonomia strutturale tale da essere oggetto di un’edizione separata, sebbene l’episodio sia perfettamente integrato nell’insieme del romanzo. « Un amour de Swann » si distingue per lo sdoppiamento della figura del Narrateur, il cui tipo di sensibilità si ritrova nella figura di Swann, una specie di avatar la cui situazione prefigura le ossessioni sentimentali del Narrateur divenuto adulto e la sua posizione ambigua nel milieu mondano; Odette de Crécy e la Verdurin vi sembrano annunciare, in sedicesimo e in modo quasi caricaturale, Albertine e la duchessa di Guermantes. Ma si trovano molti altri racconti nel racconto, che spesso si distingono per la loro violenza e la loro funzione emblematica. Tra di essi, ricordiamo quello dello sputo della signorina di Vinteuil, che viene introdotto da una forma molto proustiana, cioè molto prolissa, del tradizionale « c’era una volta » : « C'est peut-être d'une impression ressentie aussi auprès de Montjouvain, quelques années plus tard, impression restée obscure alors, qu'est sortie, bien après, l'idée que je me suis faite du sadisme. On verra plus tard que, pour de tout autres raisons, le souvenir de cette impression devait jouer un rôle important dans ma vie. C'était par un temps très chaud45… » Segue la storia della figlia del compositore Vinteuil che, ancora in lutto per il padre e prossima ad avere rapporti sessuali con un’amica, accetta la sfida perversa di sputare sul ritratto del defunto. La conclusione concede un’autonomia all’infra-racconto pur 43 Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.373. André Ferré, « La ponctuation de Marcel Proust », Bulletin Marcel Proust n°7, 1957, p.324. 45 A la recherche du temps perdu I, p. 157. 44 21 conferendogli una portata morale: « Je n'en entendis pas davantage […] mais je savais maintenant, pour toutes les souffrances que pendant sa vie M. Vinteuil avait supportées à cause de sa fille, ce qu'après la mort il avait reçu d'elle en salaire.46 » Il Narrateur sviluppa poi un’analisi del comportamento della ragazza che, sfumando il giudizio sul suo gesto, vi attribuisce una possibile forma di pietà filiale. Un altro racconto, più breve, fatto al Narrateur da Saint-Loup, mette in scena un uomo che Charlus avrebbe una volta fatto picchiare perché costui gli aveva fatto delle avance. L’episodio comincia con « Un jour un des hommes qui est aujourd’hui des plus en vue dans le faubourg Saint-Germain47 » e si conclude con una considerazione di Saint-Loup sulla gentilezza attuale dello zio, al cui proposito nessuno immagginerebbe « le nombre d’hommes du peuple, lui si hautain avec les gens du monde, qu’il prend en affection, qu’il protège, quitte à être payé d’ingratitude. Ce sera un domestique qui l’aura servi dans un hôtel et qu’il placera à Paris, ou un paysan à qui il fera apprendre un métier. C’est même le côté assez gentil qu’il y a chez lui, par contraste avec le côté mondain ». Questa volta, non è il Narrateur a raccontare una storia per sostenere lo sviluppo del proprio pensiero, ma un altro personaggio, e l’aneddoto non viene direttamente sfruttato, poiché sul momento ne viene a galla soltanto la maniera di esprimersi di Saint-Loup; ma esso nutre in profondità, e in modo indiretto, una problematica secondaria dell’opera, vale a dire l’allusione all’omosessualità; per mezzo di perifrasi, l’aneddoto permette a questo tema di immettersi nel racconto generale ben prima di venire esplicitamente affrontato. L’infra-narrazione svolge quindi nella Ricerca due ruoli distinti : quello di parabola, e quello di cristalizzazione. In Kaputt, essa assolve essenzialmente a una funzione di rafforzamento del discorso dell’autore, o della sua situazione, fornendo esempi di ciò che denuncia e sottolineando con aneddoti la maniera in cui la guerra associa costantemente orrore e bellezza, terrore e disinvoltura. Durante una cena da Frank, il Corrispondente, alla vista di un’oca arrosto che per lui simboleggia il popolo polacco martoriato, viene preso da un senso di compassione che lo sprofonda nel ricordo della vecchia Principessa Radziwill « in piedi sotto la 46 47 Ibid., p. 161. A la recherche du temps perdu II, p. 317. 22 pioggia fra le rovine della Stazione di Varsavia », la quale, dopo che un ufficiale tedesco le ha portato una sedia, dice a proposito degli occupanti: « C’est incroyable comme ils se sentent chez eux, ces pauvres gens48 »; poi, dopo averci raccontato che ha gridato ironicamente « Feuer ! » all’arrivo dell’oca arrosto, prosegue con la storia della Principessa Radziwill, per tornare infine al presente della cena, in cui i commensali ridono di gusto dello scherzo. Il lettore, assunto a confidente dei tragici pensieri reconditi del Corrispondente, viene poi colpito dall’allegrezza volgare che regna intorno al tavolo dei nazisti. L’excursus assume una funzione ancor più interessante qualche pagina più avanti, quando il Corrispondente, durante un’altra cena mondana a Varsavia, risponde con un aneddoto a Frank, secondo il quale i pogrom « sono una leggenda ». Dopo aver fatto un brindisi con lui, si mette a « narrare la cronaca dei fatti avvenuti nella nobile città di Jassy ». Il capitolo termina con questo annuncio fatto al lettore, che troverà seguito nell’intero capitolo seguente, dedicato al racconto del massacro. Orbene, emerge rapidamente che questo « racconto nel racconto » non è, non può essere, quello ascoltato dal governatore Frank con cui cena il Corrispondente. Il capitolo inizia come un giallo, in medias res, senza nessuna presentazione del momento, del luogo o della situazione: « Spinsi la porta, ed entrai. La casa era vuota, si vedeva che era stata abbandonata all’improvviso. Le tende delle finestre erano state strappate… » La forma è chiaramente quella del racconto letterario e non orale, con descrizioni visuali, con dettagli secondari estremamente numerosi e con una focalizzazione sull soggettività dell’ « io » narrante, esattamente all’opposto di una semplice restituzione fattuale. Soprattutto, si insiste sulla sensibilità all’atmosfera di terrore che regna nella città, un orrore per la violenza e un’esaltazione onirica del popolo ebreo martoriato che non potrebbero essere espresse così dettagliatamente né così apertamente dal Corrispondente di fonte al governatore senza smascherarlo. Siamo dunque davanti a un « doppio racconto nel racconto », uno dei quali ci è esclusivamente destinato, mentre l’altro, assente dal testo ma narrativamente attivo, si limita probabilmente a riferire i metodi di arresto e di assassinio degli 48 Kaputt, p. 517-519. 23 ebrei di Jassy, poiché all’inizio del capitolo seguente il governatore Frank risponde chiedendo tranquillamente al Corrispondente: « Quanti ebrei sono morti a Jassy, quella notte ? » dichiarando poi: « È una cifra rispettabile […] ma il modo non è onesto. Non si fa così.49 » Altri passaggi infra-narrativi occupano un posto più aneddotico nel discorso generale, come la storia dello spettro di via Kàlevala à Helsinki, la prima di una serie di tre « storie » consecutive che alimentano il tema malapartiano della supremazia della Natura, sottolineando l’atmosfera irreale dell’estate subartica. Questo passaggio è nettamente circoscritto dal suo annuncio da parte del diplomatico Agustín de Foxá : « Hai sentito parlare dello spettro di via Kàlevala ? » e la sua conclusione al presente sulla « strana inquietudine », la « specie di febbre fredda » che « s’impadronisce dei popoli del Nord nelle “notti bianche” d’estate ». Il seguente, quello del prigioniero sovietico che pugnala un prete nella sua cella perché vuole « uccidere Dio », viene annunciato come una parabola vera e propria, per illustrare l’affermazione del Corrispondente « Il maggior problema moderno è pur sempre il problema religioso50 ». E come le parabole del Vangelo, il racconto infranarrativo scandalizza una parte dell’uditorio, nella fattispecie la Contessa Mannerheim che esclama: « Ma è orribile ! […] Come si può concepire l’idea di uccidere Dio ? » Il lettore osserverà, ovviamente, che non è la morte del prete a sconvolgere la Contessa ma proprio « l’idea di uccidere Dio », così come non era il massacro degli ebrei du Jassy a disturbare Frank, quanto il modus operandi. Il Corrispondente prosegue quasi immediatamente con un terzio racconto, quello di Spin, il cane del ministro Mameli a Belgrado, che costituisce a sua volta un capitolo intero. Annunciato come una storia che « [si mise] a narrare » agli stessi commensali, l’infra-racconto assume, così come l’episodio del pogrom di Jassy, una forma letteraria destinata soltanto al lettore, anche se tale « traduzione » non è stavolta giustificata da un pericolo, e non ha poi un seguito nella fictio narrativa: non è seguita da alcuna reazione da parte dell’uditorio, né da una « chiusura di virgolette », cosicché il capitolo seguente presenta una continuità di narrazione poco coerente: dal punto di vista strettamento logico, potremmo 49 50 Ibid., p. 604. Ibid., p. 721. 24 dedurne che tutto il resto di Kaputt sia raccontato dal Corrispondente nel corso della stessa cena alla Legazione di Spagna di Helsinki. Tale confusione fra i campi narrativi non nuoce tuttavia né alla potenza dell’argomento né alla dinamica del racconto; potremmo dire, al massimo, che non porta a propendere per la verosomiglianza – e ancora meno per l’esattezza – autobiografico-storica di Kaputt; oppure, in una prospettiva più positiva, che contribuisce a collocare il testo in una frontiera interessante tra realismo e simbolismo tragico. Ma l’uso dell’infra-narrazione trova il suo apice nella serie di storie che racconta il Corrispondente alle sue amiche Louise ed Ilse in un bar di Potsdam. Qui il dispositivo viene portato all’estremo, il che rende il capitolo intero una vera e propria raccolta di racconti, legati tra loro dall’ostinazione con cui il Corrispondente intende appassionare le sue interlocutrici con storie alternativamente atroci e amene: prima quella dei soldati tedeschi nel bar Europeiski che « non avevano palpebre » con la loro « pupilla che si dilatava e si restringeva in mezzo all’occhio sbarrato e fisso, nel vano sforzo di evitare la luce51 » ; segue la storia dei genitori napoletani che, per rassicurare i loro figli, fanno credere loro che gli aerei inglesi non sganciano bombe ma i giocattoli che loro stessi hanno preventivamente nascosto nel giardino; poi la storia di Huxley, che si vede rimproverare dal re Georgio V e da sua moglie di aver fatto morire un bambino alla fine del suo romanzo Point counterpoint ; poi la storia, già evocata, dell’occhio di vetro dell’ufficiale tedesco, identificato da un ragazzino partigiano ucraino e che si conclude, in risposta alla domanda di Louise a proposito della sorte riservata al bambino, con un finale degno di una favola: « L’ufficiale lo baciò sulle due guance, lo vestì d’oro e d’argento ; e fatta venire una berlina reale tirata da otto cavalli bianchi e scortata da cento corazzieri dalle corazze splendenti inviò il ragazzo a Berlino: dove Hitler lo accolse come il figlio di un re, fra le acclamazioni della folla, e gli diede sua figlia in isposa 52 » ; c’è un’ironia evidente, e quando l’interlocutrice risponde « non poteva finir che così », non dobbiamo considerarla ingenua, quanto piuttosto grata del pudore con cui il Corrispondente passa sotto silenzio l’esito reale della storia, se non 51 52 Ibid., p. 756. Ibid., p. 769. 25 addirittura complice di un effetto d’ironia tragica destinato al lettore. Ma a quel lieto fine che non inganna nessuno fa seguito l’abominevole storia del recipiente pieno di occhi umani offerto al Poglawnik di Croazia Ante Pavelic, a sua volta seguita da quella, amena, dei figli di Tatiana Colonna, che pensavano che i passeri fossero bombardieri, poi quella della cena mondana sulla riva del Wannsee, cui segue quella del suicidio di Giuseppina von Stum, e, infine, la storia particolarmente sconvolgente delle studentesse ebree del bordello di Soroca che si sapevano condannate alla fucilazione al termine delle loro tre settimane di schiavitù sessuale. In tutto, si tratta di nove « racconti nel racconto » che si succedono senza sosta e vengono imposti dal Corrispondente alle sue amiche; nove storie sulla guerra che, con la loro potenza emblematica, prendono posto in ciò che Grana definisce la « memoria lirica » del narratore che « si realizza attraverso le emozioni di una realtà eccezionale, trasferite in immagini violente dove gli episodi della cronaca tendono ad assumere un valore assoluto, di “epica contemporanea”53 ». f. La funzione visuale Il Narrateur proustiano non è un pittore naturalista. Nella maggior parte dei casi, ci mostra gli avvenimenti soltanto attraverso le considerazioni che ne trae; l’aspetto strettamente visivo della restituzione non è però assente della Recherche, sebbene sia in generale limitato all’essenziale e intrecciato con la difficoltà di vedere, come leggiamo all’apparire del personaggio di Swann: « On ne le reconnaissait en effet qu'à la voix, on distinguait mal son visage au nez busqué, aux yeux verts, sous un haut front entouré de cheveux blonds presque roux, coiffés à la Bressant54 ». In generale, per quanto riguarda le descrizioni dei personaggi, il Narrateur trascura la dimensione strettamente visiva a favore di quella intellettuale; così la « dame en rose » che incontra da suo zio, e che non è altro che Odette de Crécy, personaggio centrale che ritroveremo in « Un amour de Swann », cviene dipinta « en robe de soie rose avec un grand collier de perles au cou », mentre finisce di « manger une mandarine », con la precisazione che 53 54 Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66. A la recherche du temps perdu I, p. 14. 26 « ne différait pas des autres jolies femmes [qu’il avait] vues quelquefois dans [sa] famille. » ; segue una valutazione che ci precisa qualcosa sul Narrateur e sulla maniera in cui costruisce il proprio giudizio sulla personalità della signora suddetta, attraverso la descrizione di alcuni tratti del suo aspetto fisico: « [Elle] avait le même regard vif et bon, elle avait l’air aussi franc et aimant. Je ne lui trouvais rien de l’aspect théâtral que j’admirais dans les photographies d’actrices, ni de l’expression diabolique qui eût été en rapport avec la vie qu’elle devait mener ». Tale maniera di non limitarsi a descrivere il visibile ma di utilizzarlo per accedere all’interiorità, che prosegue per tutto il romanzo, dimostra quanto il visibile sia piegato alla riflessione, quando non è addirittura il prodotto di una riflessione. Così, quando il Narrateur ritrova Odette a dista nza di una decina di anni: « Elle semblait avoir tant d’années de moins qu’autrefois. Sans doute, cela tenait en partie à ce qu’elle avait engraissé, et, devenue mieux portante, avait l’air plus calme, frais, reposé, et d’autre part à ce que les coiffures nouvelles, aux cheveux lissés, donnaient plus d’extension à son visage […]. Mais une autre raison de ce changement consistait en ceci que, arrivée au milieu de la vie, Odette s’était enfin découvert, ou inventé, une physionomie personnelle, un « caractère » immuable, un « genre de beauté », et sur ses traits décousus […] avait appliqué ce type fixe, comme une jeunesse immortelle.55 » Nell’insieme, i ritratti proposti dal Narrateur rientrano più nella stilizzazione e nell’evocazione che nella restituzione, e spesso le indicazioni esteriori sembrano fornite solo in quanto nutrono la soggettività dello sguardo, oppure alimentano un tema portante del romanzo, come questo ritratto di Robert de Saint-Loup, che suggerisce un’omosessualità ancora ignorata non soltanto dal Narrateur, ma forse anche dal personaggio stesso : « je vis, grand, mince, le cou dégagé, la tête haute et fièrement portée, passer un jeune homme aux yeux pénétrants et dont la peau était aussi blonde et les cheveux aussi dorés que s'ils avaient absorbé tous les rayons du soleil. Vêtu d'une étoffe souple et blanchâtre comme je n'aurais jamais cru qu'un homme eût osé en porter, et dont la minceur n'évoquait pas moins que le frais de la salle à manger la chaleur et le beau temps du dehors, il marchait 55 A la recherche du temps perdu II, p. 186. 27 vite.56 » Anche il paesaggio è, per il Narrateur, un materiale di esplorazione analitica, o ancora uno specchio che riflette la sua immagine, come a Balbec, quando paragona il volo degli uccelli a « un jet d’eau, comme un feu d’artifice de vie […] qui rattachait à la réalité les paysages [qu’il avait] devant les yeux », senza i quali avrebbe pututo credere « qu’ils n’étaient qu’un choix, chaque jour renouvelé, de peintures qu’on montrait arbitrairement dans l’endroit où [il se trouvait] et sans qu’elles eussent de rapport nécessaire avec lui. Une fois c’était une exposition d’estampes japonaises : à côté de la mince découpure de soleil rouge et rond comme la lune, un nuage jaune paraissait un lac contre lequel des glaives noirs se profilaient ainsi que les arbres de sa rive […]. Un autre jour la mer n’était peinte que dans la partie basse de la fenêtre dont tout le reste était rempli de tant de nuages poussés les uns contre les autres par bandes horizontales, que les carreaux avaient l’air, par une préméditation ou une spécialité de l’artiste, de présenter une « étude de nuages.57 » Ma che si tratti di dettagli materiali, di traduzioni del visibile nell’immaginario o dell’immaginario nel visibile, l’insieme degli elementi visivi invocati dal Narrateur persegue lo stesso obiettivo d’identificazione e di comprensione delle realtà interiori. La restituzione proustiana della visione è per natura analitica. In Malaparte, essa è soprattutto uno strumento di visualizzazione ad uso del lettore. Quando il Corrispondente ci mostra la moglie del governatore Frank, lo fa parlando di una « maschera di sensualità » e di « qualcosa di puro, di malinconico, di astratto [che] splendeva tuttavia nel suo sguardo », mentre il governatore di Cracovia appare « magro, elegante, dalla fronte innocente, dalle mani bianche, che neppure il sangue di Dolfuss era riuscito a macchiare58 ». Anche il paesaggio di Varsavia viene descritto in maniera precisa e realistica, con l’aggiunta di un procedimento di antropomorfismo che, sebbene classico sul piano formale, rafforza efficacemente l’immagine tragica di una città sconfitta dall’occupante: « La città giaceva supina, avvolta nel suo sudario di neve, sotto un cielo chiaro che la falce 56 Ibid., p. 296. Ibid., p. 370. 58 Kaputt, p. 520-521. 57 28 sottile della luna illuminava con timido raggio.59 » Man mano che procede il racconto, il Corrispondente fa uso di metafore più singolari per mostrare non la realtà materiale ma il modo in cui la tragedia della guerra modifica la maniera di vedere le cose. Prendiamo l’esempio della sua descrizione del cielo di Ucraina dove « il temporale si avvicinava occupando a poco a poco tutto il cielo, come un’immensa rana » di cui si vedeva il ventre « palpitare nel respiro affannoso60 »; e soprattutto la visione straordinaria, durante il pogrom di Jassy, nella quale ebrei « piccoli, goffi, panciuti, camminavano lungo la grondaia delle nuvole reggendo con una mano un immenso ombrello bianco », formando nel cielo « un paesaggio dipinto da Chagall » popolato di « angeli ebrei, di nuvole ebree, di cani e di cavalli ebrei, dondolantisi a volo sulla città61 ». Qui, la sublimazione estetica sostituisce il resoconto del massacro e, nell’eufemizzare l’orrore, nel simboleggiarlo, conferisce anticipatamente alla Shoah una monumentalità storica. Questo passaggio può sembrare sfasato rispetto al registro del racconto ma costituisce un punto culminante della soggettività febbrile del Corrispondente che, in maniera generale, come sottolinea Grana, « non si sovrappone alle cose […] ma anzi, nel riverbero acceso dei propri stati d’animo, delle proprie emozioni e reazioni, ne esaspera il rilievo illusoriamente “obbiettivo” di smisurata e tragica crudeltà62 ». Un altro passaggio rappresentativo di questa dinamica è quello che mostra le ragazze ebree di Socora nascoste nei campi prima di essere catturate e costrette alla prostituzione dai tedeschi : « Vivevano da giorni e giorni nascoste nei campi, dentro il grano, distese nei solchi fra le alte spighe dorate come dentro una calda foresta d’alberi d’oro, si muovevano adagio adagio, per non far oscillare le spighe63. » In queso caso, l’estetizzazione dell’orrore può a prima vista sembrare gratuita tanto la scrittura è fluida; ma essa costituisce la struttura che conferisce alle vittime un’esistenza reale, in quanto inserita in una Natura che ignora la loro sorte e si occupa soltanto di essere di per sé. Questo procedimento permette alla situazione di oltrepassare l’aneddoto pur 59 Kaputt, p. 526. Ibid., p. 480. 61 Ibid., p. 594. 62 Curzio Malaparte, p. 66. 63 Kaputt, p. 811. 60 29 suscitando l’immedesimazione del lettore, e di farlo senza esplicitarlo, semplicemente attraverso l’evocazione, tramite la precisione visiva dello scenario, del reale vissuto dalle ragazze, accostabile a un reale riconoscibile da tutti. Inoltre, il Corrispondente, sebbene non condivida la passione del Narrateur per l’arte, a volte vi fa riferimento : « Forse perché sua madre era inglese, io pensavo che Ilse era il ritratto dell’Innocenza, quale lo avrebbe dipinto Gainsborough. No, sbagliavo [...] V’era qualcosa, in Ilse che manca al paesaggio inglese e alla pittura di Gainsborough: alcunché di estroso, una capricciosa pazzia. Ilse era piuttosto il ritratto dell’Innocenza quale lo avrebbe dipinto Goya64. » Tale uso un po’ aneddotico dell’arte può risultare dalla posizione mondana del Corrispondente che, pur discostandosi dal Narrateur per l’uso che ne fa, è ad esso assimilabile per il fatto di descrivere se stesso attraverso le descrizioni che fa dei suoi personaggi. E quando il professore Michihiko definisce il Narrateur un « io » che « méconnaît les autres, qui ne peut regarder les objets extérieurs qu'à travers sa propre vision65 », pensiamo immediatamente al Corrispondente malapartiano – ad eccezione del fatto che la visione del Narrateur si pensa essa stessa, mentre quella del Corrispondente sembra parlare di lui a sua insaputa. IV. Funzioni specifiche del narratore in Malaparte a. La funzione documentaria/giornalistica Il Corrispondente malapartiano non fa una semplice comparsa nel mondo che descrive; non è neanche un attore dei drammi che racconta: ciò che succede in Kaputt non succede a lui. Vede il mondo e i suoi drammi, ne è il testimone. Il suo statuto di corrispondente di guerra non è un elemento del patto narrativo; si tratta semplicemente del suo mestiere, dello statuto che gli permette di viaggiare da uno spazio all’altro e di entrare nei palazzi requisiti dai nazisti. Nella realtà, 64 Kaputt, p. 770. Michihiko Suzuki, Le « je proustien ». in Bulletin de la société des amis de Marcel Proust et des amis de Combray, n°9, 1959, p.80. 65 30 Malaparte faceva regolarmente pervenire articoli al “Corriere della Sera”, alcuni dei quali gli valsero gli arresti domiciliari per contenuto polemico. Non si parla mai di articoli in Kaputt, neanche delle aspettative individuali e politiche legate alla loro pubblicazione; tutto avviene come se il Corrispondente beneficiasse di uno statuto puramente ad honorem, ossia di un salvacondotto che gli desse tutti i vantaggi del mestiere – in primo luogo la libertà di circolazione – senza mai imporgli i vincoli afferenti. Tuttavia, la matrice del testo di Kaputt non può essere altro che questa missione compiuta da Malaparte, e la funzione documentaria e giornalistica del Corrispondente, sebbene non vi appaia mai direttamente, vi traspare spesso. Fin dall’inizio del testo, lo sguardo del Principe Eugenio che vede passare dei cavalli viene descritto in modo molto diretto : « Visto così, di profilo, contro la luce stanca del tramonto66 ». Nella maniera in cui mescola giudizio personale e aneddoto quando evoca dettagliatamente il personaggio di Svartström, con l’osservazione « Io gli volevo bene, avevo cominciato a voler bene a Svartströmil giorno in cui l’avevo visto impallidire […] per quel pezzo di carne umana che i sissit avevano trovato nel tascapane di un paracadutista russo67 », l’efficacia della cronaca giornalistica prevale sull’intento letterario in quanto risparmia al lettore ogni sforzo di comprensione o di identificazione, poiché dà per scontata la sua adesione faccendo direttamente ed esclusivamente appello all’empatia e al « buon senso ». Ci si può interrogare sulla natura dell’ « io » che adotta tali procedimenti: dobbiamo forse considerare questa vena giornalistica un elemento costitutivo della voce narratrice di Malaparte stesso, oppure un elemento romanzesco del racconto? Mentre l’ « io » proustiano, nella maniera in cui « rompt avec le moi pour devenir personnage68 », è il risultato di un’elaborazione cosciente e commentata dell’autore 69 che permette di certificarne l’origine, si può affrontare il processo di construzione dell’ « io » malapartiano soltanto dal punto di vista critico, a partire dall’opera compiuta ; la virtuosità letteraria di Malaparte impedisce di supporre che egli 66 Kaputt, p. 436. Ibid., p. 495. 68 Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, p.21 69 Lettera di Proust a René Blum del 23 febbraio 1913 : « Je ne sais pas si je vous ai dit que ce livre était un roman. Du moins, c’est encore du roman que cela s’écarte le moins. Il y a un monsieur qui raconte et qui dit : “Je”. » 67 31 abbia semplicemente ignorato queste concessioni allo stile giornalistico, ma che dire della loro intenzionalità e della loro funzione precisa? Troviamo una possibile risposta quando il Corrispondente osserva, nel corso di un pranzo dal governatore Fischer a Varsavia : « In nessuna parte d’Europa il tedesco m’era mai apparso così nudo, così scoperto, come in Polonia. Nel corso della mia lunga esperienza di guerra, m’ero venuto persuadendo che il tedesco non ha alcuna paura dell’uomo forte, dell’uomo armato che lo affronta con coraggio, e gli tien testa. Il tedesco ha paura degli inermi, dei deboli, dei malati.70 » Vi appare chiaramente che la dimensione giornalistica affonda le sue radici e trova la sua legittimità in una dinamica d’indagine, come se l’unico ruolo del Corrispondente fosse di introdursi il più vicino possibile ai tedeschi per svelare – e permettere al lettore di svelare – il mistero della loro crudeltà; il che sembra confermato dal seguito del paragrafo: « Il tema della “paura”, della crudeltà tedesca come effetto della paura, era divenuto il tema fondamentale di tutta la mia esperienza71. » Tale stile può essere una maniera di rivendicare, ad intervalli regolari, questa funzione giornalistica del narratore, omettendo di truccarla con l’estetizzazione, o meglio, dimostrandola attraverso una forma estetica che opta per l’impatto immediato a dispetto dell’ampiezza e delle complessità letterarie. Peraltro, questo stile non è mai mantenuto per più di qualche paragrafo: rafforza l’effetto di irruzione del reale durante l’evocazione di eventi precisi, ma fa posto alla scrittura letteraria ricca di metafore e di paragoni non appena si tratta di far emergere il senso profondo dei suddetti eventi. Di fatto, durante lo stesso pranzo a Varsavia, lo stile ritrova una dimensione pienamente romanzesca, cioè contemporaneamente lirica ed analitica, per sviluppare il tema della paura consustanziale all’identità tedesca, salvo poi prendere un’altra direzione e ritrovare il tono aneddotico del reportage: « Io ascoltavo le parole dei commensali con una pietà e un orrore, che invano mi sforzavo di nascondere : quando Frank […] si volse a me con un sorriso ironico e mi domandò : “Siete stato a vedere il ghetto, mein lieber Malaparte ?”.72 » Segue, per più di due pagine, una restituzione estremamente fattuale e concreta della 70 Kaputt, p. 537. Ibid. 72 Ibid., p. 538. 71 32 visita del Corrispondente al ghetto di Varsavia, così come l’avremmo potuto leggere nel “Corriere della sera” se non fosse stato controllato dai censori, prima che, di nuovo, la sensibilità letteraria dell’autore non s’impadronisca delle immagini evocate per rielaborarle a partire dalle proprie ossessioni, nella fattispecie quella degli occhi; il resto del racconto di quella visita oscilla tra restituzione giornalistica ed evocazione estetica, l’una sostenuta dall’altra e traendone un supplemento di potenza di evocazione,. Questa doppia retorica, che permette non soltanto di informare ma di convincere, si alterna con la connivenza pura, che riappare molto spesso nel testo e in cui l’adesione etica del lettore viene data per scontata. Malaparte la rafforza in qualche caso stabilendo una familiarità col lettore, anch’essa frequente nella forma del reportage, così come avviene nel passaggio di Jassy, quando il Corrispondente passa al presente per descrivere l’atmosfera che regna in città qualche ora prima del massacro degli ebrei: « C’è proprio qualcosa nell’aria. Ha ragione il mio amico Kane. Deve accadere qualcosa. Si sente che deve accadere qualche disgrazia. Si sente nell’aria, nella pelle, nelle punte delle dita.73 » In questo passaggio, la scrittura aderisce interamente al ritmo del commento parlato, sembra che il assuma la postura di un compagno che cammina al fianco del narratore attraverso la città anormalmente calma. Tale maniera d’imporre il reale nella sua immediatezza non riguarda soltanto il registro di linguaggio adoperato, ma anche la produzione di immagini e di sensazioni: « Ed è ancora giorno, non è ancora suonato il coprifuoco. Il vento gonfia le chiome degli alberi, il sole manda un odore di miele.74 » Quando l’elemento visivo non è soltanto centrale nel testo, ma appare così nella sua durata, potremmo quasi parlare di « penna-cinepresa » usando – invertendolo – un concetto del regista francese Alexandre Astruc. Ce n’è un esempio lampante durante il viaggio del Corrispondente nei pressi di Leningrado: « Laggiù, a circa cinquanta metri da noi, dietro le siepi di fil di ferro, dietro la doppia linea delle trincee e delle casematte sovietiche, si vedevano due soldati russi camminare nella neve allo scoperto, lungo il ciglio di un bosco, portando in spalla un tronco di abete. Camminavano in cadenza, dondolando le braccia, con una cert’aria di 73 74 Ibid., p. 573. Ibid. 33 spavalderia. » Contrariamente al flusso di coscienza proustiano che mostra gli eventi soltanto tramite l’analisi del Narrateur, questa « penna-cinepresa » malapartiana, sebbene usata in modo occasionale, opera un contrappeso potente al racconto generale, dominato dall’espressione della sensibilità del Corrispondente e del suo punto di vista sulla guerra; costituisce, dando l’impressione di condividere delle fonti, un punto d'appoggio forte per l’interpretazione proposta in merito agli eventi, e permette forse, per effetto di contrappeso, di impedire ai passaggi più lirici o più fantasiosi di ostacolare la credibilità generale del testo. La voce del Corrispondente si fa ancora giornalistica con la presa di distanza dalla propria soggettività, ossia con una forma di oggettivazione del soggettivo accostabile alle voci fuori campo di film documentari e che possiamo trovare, per esempio, in modo evidente all’inizio del capitolo « Sigfrido e il salmone », nella descrizione elencativa della natura lappone: « Da più di un mese percorrevo le forestie della Lapponia, la tundra lungo la Liza, le deserte, algide, nude pietraie del fiordo di Petsamo, sull’Oceano glaciale, le foreste di pini e i bianchi boschi di betulle sulle rive del lago di Inari (…)75 » ; da queste immagini che si succedono emergono poi le figure di soldati tedeschi « sdentati, calvi, dal viso giallo e rugoso, dagli occhi umili e disperati di bestia selvatica76 » che ispirano al Corrispondente un’analisi metaforica della decadenza della Wehrmacht, il cui lirismo appare imbrigliato, incastonato nelle immagini di paesaggi come la formattazione di un articolo è costretta dal numero di caratteri limitato. b. La funzione rivelatrice Grazie alla sua penetrazione degli ambienti più esclusivi, il Corrispondente è in grado di condividere col lettore la sua osservazione dell’élite nazista e le riflessioni che ne ricava. Questo processo di infiltrazione lo avvicina al Narrateur proustiano; eppure mentre Proust limita l’azione del Narrateur nel Faubourg Saint-Germain a quella di un osservatore-passamuri che viene accolto ovunque allo stesso modo, Malaparte mette in scena un Corrispondente che non 75 76 Ibid., p. 862. Ibid. 34 si accontenta di guardare, di ascoltare e di elaborare ciò che percepisce: vi svolge un ruolo attivo. Prende parte alle conversazioni dei dirigenti nazisti in uno spirito estremamente amichevole, usando il suo buon umore ed il suo umorismo che suscitano molta simpatia nei suoi confronti. Durante il primo pranzo in compagnia di Hans Frank, si lancia in una specie di comico virtuosismo verbale col governatore sul tema dell’identità polacca e della governabilità dei popoli cattolici in generale, finisce per suscitare una grande curiosità da parte di Frank sul tema della governabilità degli italiani e gli risponde con un compiacimento che, nella fattispecie, permette al lettore di conoscere il punto di vista di Malaparte sui rapporti tra Mussolini e la Chiesa cattolica. In maniera generale, questa conversazione tra il Corrispondente e il covernatore generale è ricca di insegnamenti sulla funzione del narratore in Kaputt, torneremo più avanti su alcuni dei suoi aspetti; ciò che qui ci interessa è la maniera in cui essa permette di rivelare il nazismo di Frank. Passando per snodi grazie ai quali il Corrispondente, tramite idee provocatorie e lusinghe quali « Hitler è la madre di questo nuovo popolo tedesco77 » o « Debbo riconoscer che stasera, entrando nel Wavel, mi parevea di entrare in una Corte italiana del Rinascimento78 », suscita di volta in volta l’ammirazione e l’esasperazione del suo interlocutore, stimola la sua voglia di discutere, in modo che dopo il racconto atroce dell’ebreo russo fucilato perché si è rifiutato di rispondere a una domanda fatta in tedesco, Frank reagisce con una risata e un giudizio divertito sull’atteggiamento dell’ufficiale (che ha ordinato di fucilare l’ebreo mentre, se fosse stato un uomo di spirito, avrebbe riso dell’audacia), e prosegue parlando della sua ambizione di elevare il territorio di Cracovia al rango di « isola di civiltà e di cortesia nel cuore della barbaria slava79 ». Così, Frank rivela – dopo aver affermato che i tedeschi non sono barbari ma « signori » – il livello della propria barbarie nei confronti degli ebrei, di cui considera l’esecuzione arbitraria – al massimo – una semplice mancanza di gusto. Più avanti, il Corrispondente si spinge ancora più in là, facendosi addirittura l'avvocato del diavolo; pur discutendo del tasso di mortalità nei ghetti 77 Ibid., p.507. Ibid., p. 508. 79 Ibid., p. 511. 78 35 ebrei, scherza con tutti sulle misure prese per diminuirlo, per poi dichiarare tranquillamente: « Bisognerebbe trattarli come topi, dar loro il veleno come ai topi. Sarebbe più spiccio.80 ». Il governatore di Varsavia Fischer gli risponde che è inutile, che gli ebrei muoiono da soli a migliaia; il Corrispondente giudica la percentuale importante e predice che il ghetto sarà presto vuoto se gli ebrei « continuano così81 », lasciando intendere che questi muoiano di propria iniziativa. Frank osserva allora: « Non si possono far calcoli, in materia di ebrei […]. Più ne muoiono, e più crescono di numero ». Ma la spirale di provocazioni continua da parte del Corrispondente. La sua dichiarazione « Gli ebrei si ostinano a aver bambini […] è tutta colpa dei bambini » fa scattare una diatriba del governatore generale a proposito della sporcizia dei bambini ebrei e l’incapacità della « razza ebrea » a prendersi cura dei propri figli. Man mano che si succedono le professioni di fede antisemite edulcorate dal « ben parlare » mondano, gli ospiti reagiscono con risate incantate, mentre il Corrispondente descrive ad uso del solo lettore, in una sconvolgente parentesi, l’ampiezza della miseria e della sofferenza dei bambini dei ghetti ebrei di Polonia. Ma non abbandonna per questo il suo atteggiamento conviviale e divertente, anzi alla fine fa un brindisi a « la libera Repubblica dei ghetti di Polonia82 », il che suscita nuove risate; quest’allegria intenerisce Frank e lo spinge a farsi l’avvocato della Germania « vittima di abominevoli calunnie », affermando « noi non siamo un popolo di assassini ». In questo capitolo, la violenza nasce appunto dal contrasto totale, potremmo dire assoluto, tra il tono amichevole e sensibile della conversazione e la violenza estrema dell’ideologia da essa rivelata; la duplicità del Corrispondente permette questa messa in rilievo in due modi: a livello formale, attraverso l’opposizione tra la simpatia dei personaggi e il loro livello di crudeltà, e a livello strutturale, attraverso la maniera in cui il Corrispondente induce gli interlocutori a manifestare il loro nazismo fingendo di condividerlo, il che provoca discorsi terribili, dai quali poi egli trae conclusioni parziali, focalizzate sull’individuo, definendo ad esempio Hans Frank un « singolare 80 Ibid., p. 548. Ibid. 82 Ibid., p. 606. 81 36 miscuglio d’intelligenza crudele, di finezza e di volgarità, di brutale cinismo e di raffinata sensibilità83 », senza mai esprimersi precisamente sul nazismo in quanto tale. Troviamo un altro esempio d’intervento rivelatore nell’episodio situato in Ucraina, durante l’autunno del 1941, nel corso della cosidetta « caccia ai cani » che mira ad evitare gli attentati con cane-bomba sotto i carri armati. Il Corrispondente dichiara al Sonderführer di Melitopol : « Quando li avrete ammazzati tutti, quando in Russia non ci saranno più cani, andranno i ragazzi russi a ficcarsi sotto il ventre dei vostri carri »; e l’altro risponde: « Ach, sono tutti della stessa razza, tutti figli di cani84 » mentre il Sonderführer si allontana « sputando per terra con profondo disprezzo ». L’incitazione ad esprimere ciò che il nazismo comporta di più spregevole, vale a dire la riduzione delle vittime allo stato di materiale, trova il suo culmine all’inizio del capitolo « Sigfrido e il salmone », a proposito della pelle umana trasformata in cuoio: il Corrispondente stesso affronta il tema prenendo a pretesto un episodio che risale al Settecento italiano, nel castello dei Conti di Conversano, e domandando a bruciapelo al governatore generale Frank: « Con la pelle di tutti gli ebrei che avete massacrati durante questa guerra, quante centinaia di migliaia di poltrone si potrebbero ricoprire di pelle umana ? », e questo risponde: « La pelle di ebreo non è buona a nulla. » Niente viene aggiunto nel seguito del capitolo a proposito dello sfruttamento dei corpi degli ebrei dai nazisti; sembra che sia data per scontata, per Malaparte, la conoscenza del fatto da parte del lettore, e che bastino alcune perifrasi per integrarlo nel testo. c. La funzione eroica In Kaputt il Corrispondente non sembra perseguire direttamente un obiettivo di messa in evidenza della natura profonda del nazismo, ma piuttosto lascia libero corso al suo gusto per la conversazione mondana e per la propria valorizzazione in quanto uomo di spirito amante dell’ironia e della provocazione, il quale non si stanca di catturare l’attenzione di una tavola intera attorno ai soggetti più controversi. Si comporta quasi da burattinaio della cena mondana 83 84 Ibid., p. 607. Ibid., p. 708. 37 che, per la sua intelligenza e il suo tempismo, domina senza nessuna difficoltà gli uomini più terribili e più temuti dell’epoca, e lo fa senza che questi si sentano umiliati, senza mai intaccare la simpatia che ispira loro. A prima vista, questa maniera virtuosa di regnare sull’entourage, questa forma di potere sociale contemporaneamente non riventicato e incontestato, questa presenza che spicca e di cui nessun intervento passa mai inosservato, richiama fortemente il posto d’onore occupato dalla duchessa di Guermantes nelle cene mondane della Recherche. Eppure la duchessa non è mai voce narrante, è un personaggio trattato dall’esterno dal Narrateur che ne è dapprima affascinato, poi l’esamina da cima a fondo in ogni occasione e, infine, la giudica con severità estrema. Nel corso del romanzo, Oriane de Guermantes non perde mai il suo potere di fascinazione sul mondo, ma lo perde sul Narrateur, il che porta il lettore a distaccarsi a sua volta dall’ammirazione generale per considerare la duchessa con distanza critica, e a condividere nei suoi confronti il sentimento estremamente ambivalente del Narrateur tra ammirazione, amicizia, perplessità, divertimento e disprezzo. In Kaputt, nessuno orienta lo sguardo del lettore sul Corrispondente se non il Corrispondente stesso, che regna in modo assoluto sugli altri personaggi e sulla materia testuale insieme. Non si impone soltanto come brillante ospite e fine retorico, si impone come eroe. Evidentemente, si tratta di un eroismo di natura soprattutto letteraria, se non simbolica, poiché non si attribuisce nessun gesto di grande coraggio; tuttavia, l’audacia che dimostra nelle sue conversazioni con Hans Frank è tale da conferirgli lo statuto di una specie di formidabile Arlecchino nel paese dei criminali di Stato, sprezzante o ignaro del pericolo che incorre nel rinviare costantemente all’interlocutore l’immagine della sua barbarie. Quest’ironia coraggiosa si manifesta dapprima fuori dai ranghi del potere, quando il Corrispondente si trova in Ucraina, di fronte ai soldati rumeni che maltrattano il prigioniero russo. Dopo averli rimproverati di non nutrirlo, ordina al caporale di dare un cucchiaio all’uomo, poi, sentendo che intendono portarlo a piedi fino a Balta senza gli stivali, dice: « Fareste più presto ad ammazzarlo, non ti pare85 ? », e propone dunque di portarlo personalmente con la 85 Ibid., p. 479. 38 propria macchina. Quest’episodio si caratterizza per la sua durata e il suo svolgimento in tempo reale, nonché per la precisione di dettaglio nella discussione, e per l’economia di linguaggio, che spinge verso l’intento documentario analizzato sopra. Tale episodio, soprattutto, presenta il Corrispondente in veste di salvatore, per un duplice motivo: in primo luogo direttamente, perché mette fine ad una situazione di violenza che potrebbe costare la vita ad un uomo, in secondo luogo indirettamente, perché adottando questa posizione in modo autoritario, riafferma il primato della civiltà sulla barbarie, non soltanto agli occhi dei soldati che lo circondano ma anche a quelli del lettore. Quando Frank gli chiede, più avanti, durante una conversazione sulle condizioni di vita nel ghetto di Varsavia, se ha notato « l’enorme differenza che c’è tra i bambini tedeschi e quelli ebrei », il Corrispondente risponde a tono: « I bambini dei ghetti non sono bambini86 ». Anche qui, l’eroismo presenta due aspetti: prima quello della riprovazione aperta, dovendo l’affermazione essere compresa dal lettore come l’inizio di una frase la cui fine non può essere che « perché avete distrutto la loro infanzia », poi quello dell’elogio del popolo ebreo i cui bambini « hanno le ali » come affermerà poco dopo, scatenando le risate dell’assemblea, incapace di cogliere il riferimento agli angeli. Quest’eroismo del Corrispondente che afferma contemporaneamente lo statuto di martire e la grandezza intrinseca delle vittime del nazismo, è strettamente letterario: sembra inscenare il Corrispondente in quanto unico personaggio nauseato dalla sorte riservata agli ebrei e che lo esprima apertamente, mentre questa posizione può essere realmente colta solo dal lettore. Per Frank e i suoi amici, la ragione sottintesa per cui i bambini del ghetto non sono bambini è semplicemente che gli ebrei sono topi. La dimensione eroica si fa ancora più evidente, se non altrettanto determinante, quando il Corrispondente chiede in seguito allo stesso Frank « Perché non vi dedicate voi pure a qualche lavoro femminile ?87 », adottando la condotta di una specie di buffone del re le cui familiarità e prese in giro vengono accettate grazie a una specie si eccezione statutaria; tale posizione, benché poco rischiosa, risulta eroica in quanto rappresenta una maniera di rivolgersi senza 86 87 Ibid., p. 549. Ibid., p. 608. 39 paura a un grande criminale nazista, il che, secondo la teoria generale di Kaputt, che riconduce alla paura la crudeltà dei tedeschi, non lo pone su un piano di parità con Frank ma largamente al di sopra di lui; e questa dominazione simbolica viene rafforzata dalla tranquillità che l’accompagna, dalla maniera cioè estremamente rilassata con cui il Corrispondente trasforma la conversazione nella parodia di una riflessione politica nella quale la funzione di Frank è completamente ridicolizzata. Quando afferma « Il popolo polacco sarebbe senza dubbio assai più felice se avesse un Generalgouverneur che ricama88 », si può prevedere che il suddetto Generalgouverneur si mostri doppiamente infastidito dall’evocazione del suo modo di governare e dalla problematica della felicità dei polacchi, invece non sembra del tutto sentirsi attaccato, anzi: scoppia a ridere e si vanta orgogliosamente di ricamare « sulla tela della nuova Europa », poi esce dalla stanza « con passo reale ». In questa lunga scena, la dimensione eroica del Corrispondente viene evidenziata dall’audacia delle sue parole, dalla tranquillità assoluta del suo atteggiamento, e dalla maniera in cui si lancia, subito dopo la partenza di Frank, in una fantasticheria estetica ispirata dal paesaggio che vede dalla finestra, senza manifestare alcun disagio, quasi avesse già dimenticato una conversazione il cui significato ha turbato emotivamente il lettore. Tale maniera di confondersi con la « banalità del male », per riprendere l’espressione di Hannah Arendt, e di farlo oltrepassando di molto il livello di dissimulazione strettamente necessario alla propria sicurezza, arrivando fino a condividere l’assenza di emozione dei criminali dinanzi al crimine e dando prova di noncuranza nei contesti più tragici, ci interroga sul livello di compromissione del Corrispondente col nazismo e avvolge il suo eroismo in un velo di ambiguità; poi, qualche pagina più avanti, l’intrattenitore-cortigiano ci rivela che rischia la vita per far passare a famiglie polacche lettere, pacchi di viveri e denaro da parte di parenti rifugiati in Italia, non senza precisare che « la consegna di corrispondenza clandestina, anche di una sola lettera, proveniente dall’estero, a cittadini polacchi, era punita con la morte89 ». Qui l’eroismo del Corrispondente sembra non privo di vanteria, e di compiacimento per quella vanteria, se 88 89 Ibid., p. 609. Ibid., p. 615. 40 prendiamo in considerazione il modo vanaglorioso con cui riferisce, con divizia di dettagli, la maniera brillante con cui assolve questo compito; tuttavia, dopo essersi vantato di farlo in parte come se fosse un gioco, « spinto dalla coscienza di compiere un’opera di umana solidarietà e di pietà cristiana, e insieme al desiderio di beffar[si] di Himmler, di Frank, e di tutta la loro macchina poliziesca90 », giunge al punto di concludere che se ha vinto è perché i tedeschi disprezzano l’avversario al punto da non immaginare che egli possa controllare le regole del cricket. Questa lunga autocelebrazione non sarà dunque servita a valorizzare il narratore quanto a dimostrare la debolezza dei tedeschi. L’eroismo raggiunge qui il suo apice, poiché si spinge fino al punto di prendersi gioco di se stesso, di ridicolizzarsi a favore di una proposta politica. Si impone poi senza ambiguità, senza contrappunto né maschera, e senza traccia di vanità, nel racconto del giorno afoso in cui un treno di deportati appare fermo sulla strada di Podul Iloaiei in pieno sole, mentre il macchinista e le guardie stanno riposando all’ombra. Appena arrivato sul posto, il Corrispondente ordina ai soldati: « Aprite subito i carri91 » e non demorde dalla richiesta finché il capostazione non lo soddisfa – troppo tardi poiché, appena aperte le porte, centinaia di cadaveri si riversano sul binario. E lo ritroviamo subito dopo, al termine dell’ellisse, molto a suo agio con Hans Frank con cui si vanta baldanzosamente di aver fatto affari nel mercato nero proprio sotto il naso di Himmler. Da quel tipo di alternanze emerge la strana sensazione di una messinscena di se stesso a tratti nobilmente pudica e a tratti infantilmente vanitosa, quindi profondamente instabile, che giunge a squalificare se stessa in quanto messinscena di se stesso fino ad una forma di disincarnazione della figura del narratore, a vantaggio di semplici dispositivi narrativi, di elementi retorici privi di implicazione morale in sé, i quali hanno come finalità la sola produzione di un discorso sul mondo esterno. L’ipotesi di un’irrealtà estetica del narratore è rilevante in quanto permette di riflettere, alla luce di una nuova prospettiva, sulle questioni relative alla dimensione autobiografica del testo e alla posizione ideologica dell’autore; essa è compatibile anche con la riflessione di Adorno sulla dimensione metafisica del romanzo 90 91 Ibid. Ibid., p. 638. 41 moderno che sarebbe prodotta « par son objet concret : une société dans laquelle les hommes sont arrachés les uns aux autres et à eux-mêmes.92 » e conforta l’identificazione di Kaputt come opera sulla guerra, non soltanto sul piano del contenuto ma anche dal punto di vista strutturale: in quell’Europa in piena decadenza, l’individuo stesso viene distrutto, la sua continuità spazzata via dall’istinto di sopravvivenza che spinge a una crescente adattabilità e induce al cameleontismo. In tal senso, l’eroismo del Corrispondente si deve intendere in chiave simbolica: Malaparte assegna al narratore le caratteristiche dell’europeo contemporaneo, del quale il suo libro è anche il ritratto avvincente; Gianni Grana conferma il ruolo emblematico di un narratore che « pone innanzi, almeno in astratto, più che l’individualità privata e mondana dell’autore, una identità esemplare e quasi simbolica: quella dell’uomo europeo, di un testimone che tende a proporsi come la coscienza dell’Europa tradita e oppressa, dell’Europa caduta dove muore ciò che vi “ha di nobile, di gentile, di puro” »93 . d. La funzione profetica Spesso associata alla dimensione eroica del Corrispondente nel corso del racconto, la sua funzione profetica sembra però dapprima isolata, attraverso un’affermazione breve e netta che sembra rientrare nella parabola: al Principe Eugenio che ammette di invidiare la vita di Axel Munthe a Capri e si domanda se a quest’ultimo piacciano veramente i fiori e gli uccelli, il narratore risponde semplicemente: « Les fleurs l’aiment beaucoup », poi, a proposito degli uccelli: « lo prendono per un vecchio albero, per un albero secco94 ». Siamo ancora all’inizio di Kaputt, e queste sono le prime parole pronunciate dal Corrispondente; parole poetiche, simboliche, che gli attribuiscono come prima qualità la facoltà di affrancarsi dalla razionalità pura per aprire agli altri le porte di un mondo più vasto di quello materiale, e aprire loro gli occhi sul senso nascosto delle cose. Alla fine del suo lungo discorso al Principe, descrive la delicatezza delle mani del prigioniero russo che ha salvato in Ucraina e, vedendo 92 Theodor Adorno, Notes sur la littérature, p. 39. Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66. 94 Kaputt, p. 438. 93 42 il Principe guardarsi le mani, gli dichiara, dopo un solenne « Ed io gli dissi » che richiama l’evangelico « In verità vi dico » : « Le mani di un meccanico, di un pilota di carro armato, di un udarnik del terzo Piatelika, non sono meno belle delle vostre. Son le stesse mani di Mozart, di Stradivarius, di Picasso, di Sauerbruch95 ». « Amen », potrebbe rispondere il Principe Eugenio che trova poi la propria maniera di inginocchiarsi nel sorridere e nel dire « arrossendo leggeramente » che si sente ancora più fiero delle proprie mani. Ma la dimensione profetica del Corrispondente appare in modo più esplicito durante la sua prima discussione con Hans Frank, nelle prime pagine del capitolo « I Topi », quando il governatore si vanta di essere « il Re tedesco di Polonia96 ». La retorica usata, fatta di asserzioni quali « Ho parlato con molti Re, ho pranzato con molti Re, nei loro palazzi e nei loro castelli, ma nessuno di loro mi ha mai detto: Io sono il Re », o di false conferme come « Infatti, non lo meritano » (riferendosi all’onore di avere « un padrone tedesco ») seguite da affermazioni falsamente divertite quali « Peccato che non siate un polacco » e da domande sibilline come « Voi siete cattolico, non è vero? » rivelano una retorica prossima a quella di Cristo quando si rivolge ai discepoli, ad esempio sulle rive del lago di Tiberiade: « Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. » (Gv 6, 5-6). Qui si confonde il Corrispondente-profeta col Corrispondente-eroe per la maniera in cui ha la meglio sull’interlocutore grazie alla sua superiorità; in questa scena precisa, si tratta di umiliare Frank senza che questi se ne acorga, a vantaggio quindi del solo lettore, smascherandolo in quanto uomo di potere grezzo, privo di perspicacia, e tanto pieno di sé da non poter distinguere il sarcasmo dalla lusinga sincera; contemporaneamente, si tratta di presentare il Corrispondente come colui che diffonde il Verbo, che difende la dignità delle vittime. Non ci stupiremo del suo schieramento, alcune pagine più avanti, « dalla parte dell’oca, dalla parte di Bichette e della sedia solitaria sotta la 95 96 Ibid., p. 485. Ibid., p. 503. 43 pioggia, sul marciapiede fangoso, tra le rovine della Stazione di Varsavia 97 ». A volte, i doni profetici del Corrispondente si riassumono in brevi intuizioni, come quel pensiero, in reazione all’affermazione di Frank che dice di meditare « sull’avvenire della Polonia » nel suo studio : « e io sorrisi, pensando all’avvenire della Germania98 ». Altrove, egli si immerge in vere e proprie visioni allegoriche, come quella del cielo di Jassy durante il massacro degli ebrei, trasfigurato in un « cielo ebreo di Chagall, popolato di angeli ebrei, di nuvole ebree, di cani e di cavalli ebrei, dondolantisi a volo sulla città » con dei « suonatori ebrei di violino seduti sui tetti delle case » e delle « coppie di amanti ebrei distesi a mezz’aria sull’orlo di una nuvola verde come un prato99 » che contrasta con il rumore atroce delle mitragliatrici e delle bombe a mano. Questa maniera di rappresentare il popolo ebreo sotto forma di allegoria celeste assomiglia ad un elogio funebre, quasi un’allegoria escatologica in cui, come è detto nel Vangelo, « gli ultimi saranno i primi ». Visionario e predicatore, il Corrispondente-profeta è anche un sensitivo: mediante il verbo, rivela ciò che il visibile dissimula, strappa il velo delle apparenze in un intento di edificazione e di sensibilizzazione; possiamo osservare questo atteggiamento durante il suo incontro con le amiche Ilse e la principessa Louise von Preussen, quando Louise si stupisce dell’estrema giovinezza di due soldati tedeschi ciechi e lui risponde che sono fortunati perché la guerra « non li ha mangiati. La guerra non mangia i cadaveri, divora soltanto i soldati vivi »; segue una diatriba amara sulla barbaria, l’antropofagia e il livello di civiltà dei tedeschi che finisce con questa insistente constatazione: « Il popolo tedesco non mangia i cadaveri. Un popolo civile non mangia i cadaveri. Mangia gli uomini vivi.100 » Si può anche considerare in ciave profetica la maniera in cui il Corrispondente si mette poi a raccontare a Louise e Ilse una serie di storie più o meno lunghe, alternativamente commoventi ed atroci, ciascuna delle quali sviluppa una sua simbologia sulla guerra e, come le parabole di Gesù, produce sull’assistenza un effetto di fascino e di destabilizzazione. Sembra che la funzione profetica del narratore si esaurisca in 97 Kaputt, p. 519. Ibid., p. 526. 99 Ibid., p. 594. 100 Ibid., p. 754. 98 44 questa profusione di racconti edificanti, visto che nel seguito di Kaputt il Corrispondente è solo un testimone attento, modestamente occupato ad attraversare gli eventi pur cercando di non perdervi troppo della sua distanza e lucidità. e. La funzione defensiva La simpatia di Malaparte nei confronti del regime fascista, se si è conclusa con una rottura violenta e definitiva, non è stata per questo meno profonda, forte, oggetto di un impegno entusiasta fino alla fine degli anni 20 che ha lasciato profonde tracce nelle memorie e macchiato la reputazione dello scrittore, soprattutto durante l’immediato dopoguerra. Per il lettore di Kaputt che conosce minimamente l’itinerario politico dell’autore, la maniera in cui il Corrispondente si pone come eroe prende talvolta la dimensione di un argomento a discolpa, se non di un appello vero e proprio a favore di Malaparte. Se alcuni elementi, come vedremo più avanti, sembrano quasi esser stati inseriti nella narrazione con l’unico intento di « fare luce sulla personalità dell’imputato » davanti al tribunale della storia, altri danno l’impressione di esser stati concepiti per agire in modo indiretto sull’opinione che il Corrispondente ispira. Così sin dal primo capitolo, al termine del brillante monologo nel quale difende l’idea del carattere equestre dell’essenza svedese, il Principe Eugenio gli pone una mano sul braccio e, commosso, gli dice affettuosamente: « Ne partez pas pour l’Italie, restez encore quelque temps en Suède : vous guérirez de tout ce que vous avez souffert.101 » Capiamo allora che il Principe analizza l’eloquenza febbrile del Corrispondente come l’espressione di uno sconvolgimento della sensibilità dovuto alla guerra, e che percepisce la sua sofferenza. Il Principe, la cui alta statura morale e la cui grande dignità sono quasi stabilite preliminarmente al racconto, sembra rappresentare qui il giudice esemplare, quello che considera l’anima prima dell’individuo, quello la cui sollecitudine permette al Corrispondente di prendere coscienza di ciò che sente, e di spiegarlo al lettore, ossia il « disgusto » e l’ « umiliazione » all’idea di dover « attraversar la Germania, ritrovar quei visi 101 Ibid., p. 452. 45 tedeschi disfatti dall’odio e dalla paura102 » prima di ritrovare i suoi visi italiani, « avviliti, pallidi di fame » sotto il giogo di Mussolini, il che gli ispira « un senso di pietà e di rivolta103 ». Il Principe capisce quello che succede nell’animo del suo amico, sebbene reso esplicito solo per il lettore; ed ecco come viene formulata la sua reazione: « Il Principe Eugenio mi fissava in silenzio ; capiva quel che avveniva dentro di me, quale angoscia mi opprimeva[...] »; qual’è la necessità di precisare al lettore che il Corrispondente viene compreso al di là delle sue parole e identificato il maniera intuitiva in quanto antifascista ed antinazista, se non per tentare di dissipare un dubbio preliminare – siamo proprio all’inizio di Kaputt – al racconto, cioè un pregiudizio del lettore? Tramite questo passaggio, Malaparte sembra affermare: « Sono un uomo distrutto dalla guerra, inorridito dalla Germania di Hitler e dall’Italia di Mussolini, forse non mi credete voi ma non si è sbagliato il Principe Eugenio, lui ha capito tutto questo senza che io debba dirlo ». Generalmente giudicato, come riassume Grana, « insincero, artefatto e calcolato104 », accusato anche da Moravia di « s'être servi de la littérature comme d'un piédestal pour élever la statue de son propre ego105 », è facile supporre che l’autore senta la necessità di difendersi. In un certo senso, tutti gli elementi che contribuiscono a dare del Corrispondente un’immagine incompatibile col fascismo in generale, o con le condanne morali pronunciate contro Malaparte, possono essere collegati a questa dinamica di difesa. Rientrano in questa strategia anche la funzione parresiastica, che controbilancia la dimensione mondana del Corrispondente, la funzione documentaria/giornalistica, che induce lo scrupolo di veridicità al posto delle dinamiche di seduzione, di ideologia e di propaganda, la funzione rivelatrice, che porta il nazismo a svelarsi in tutto il suo orrore, e infine l’eroismo, in quanto viene interamente messo al servizio di una critica del nazismo, se non di una vera e propria resistenza sul campo. Alcuni passaggi sembrano mostrare in modo più esplicito un narratore che prende le difese dell’autore, comunque desideroso di stabilire – se non riabilitare – la sua 102 Ibid., p. 453. Ibid. 104 Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 7. 105 René de Ceccatty, « "Malaparte, vies et légendes", de Maurizio Serra : Malaparte, "génial et dégueulasse" », Le Monde des Livres, 23 juin 2011. 103 46 immagine morale: ancora in compagnia del Principe Eugenio, al termine del suo lungo racconto sui cavalli ghiacciati del lago Làdoga, quando il Principe gli dice « vous êtes cruel, j’ai pitié de vous », il Corrispondente risponde « Je vous en suis reconnaissant » poi « J’ai moi-même pitié de moi. J’ai honte d’avoir pitié de moi106 » ; una confessione in forma di mise en abyme di fronte alla quale il lettore più prevenuto contro l’autore-narratore-fascista-narcisista-mondano può soltanto constatare la sua assoluta buona fede e osservare in lui la facoltà di riconoscersi fragile – una qualità profondamente incompatibile con l’essere-fascista. Qualche pagina più avanti, durante una cena con Hans Frank, dopo aver descritto con forza l’arrivo dell’oca arrosto sulla tavola identificandola con un partigiano polacco giustiziato dai nazisti, grida « Feuer! » suscitando le risa di tutti e conclude interiormente « Oh sì, mi sentivo dalla parte dell’oca, non dalla parte di coloro che puntavano il fucile, né di coloro che gridavano “Feuer !” né di tutti coloro che dicevano: “Ganz Kaputt! L’oca è morta” »; la maniera in cui ripete più volte « Mi sentivo dalla parte dell’oca » crea un effetto incantatorio che si può spiegare soltanto con la necessità di scongiurare il sospetto inverso; se fosse stata sola, tale insistenza potrebbe esser controproducente, in quanto potrebbe esser identificata ad una forma molto poco convincente di compiacimento e di autocommiserazione; ma essa si pone in contrasto con la terrificante allegria degli altri ospiti e fa piuttosto l’effetto di una specie di mantra, di antidotto all’indifferenza generale. Questa emozione da dissimulare gli fa tornare in mente il ricordo di Bichette, la Principessa Radziwill « in piedi sotto la pioggia fra le rovine della stazione di Varsavia107 », della quale dipinge un ritratto dagli echi proustiani, che richiama per la sua dignità e tenerezza la maniera in cui il Narrateur evoca la propria nonna, e che si conclude con la professione di fede già citata sopra: « Io mi sentivo dalla parte dell’oca, dalla parte di Bichette e della sedia solitaria sotto la pioggia, sul marciapiede fangoso, tra le rovine della Stazione di Varsavia108 ». Sembrerebbe quasi di ascoltare un avvocato che conclude la sua arringa finale prima di ritornare a sedersi in attesa del verdetto. 106 Kaputt, p. 498. Ibid., p. 517. 108 Ibid., p. 519. 107 47 L’insistenza con cui viene espressa la compassione nei confronti delle vittime della guerra è una costante che rientra nella funzione defensiva del Corrispondente. Ne troviamo un esempio chiaro e lampante nella descrizione della voce del dottor Alesi, il direttore ebreo delle carceri di Regina Coeli riapparso a Jassy, che viene paragonato a un paesaggio dall’orrizonte « immenso e libero, illuminato a picco da una luce serena ed uguale, soavissima, che macchiava di penombre trasparenti le valli, penetrava il segreto dei boschi, rivelava il mistero dello splendore argenteo dei fiumi e dei laghi in fondo alla pianura, e il tremolar delicato della marina109 ». In questo passaggio, Malaparte non si accontenta di restituire a una vittima ebrea del nazismo la sua umanità, ma ne esalta la personalità fino al punto di farne una figura sovrumana, con la potenza di evocazione e gli strumenti metaforici abitualmente usati nella retorica amorosa. Usa questa stessa energia per raccontare il martirio delle ragazze ebree di Soroca catturate dai tedeschi, poi costrette a prostituirsi e, infine, assassinate: si tratta per il Corrispondente di condividere col lettore il suo incontro reale, lungo, con quelle ragazze, ossia di fargliele incontrare personalmente. Gli preme di non limitarsi a commuovere tratteggiando la loro sofferenza, ma di mostrare la complessità delle loro personalità, la loro intelligenza e la loro dignità, come nel caso di Lisa, che dice con ironia: « Sì, diventerò certamente una grande artista », o di Susanna, che dichiara : « Sapete chi vincerà la guerra ? Credete forse che la vinceranno i tedeschi, gli inglesi, i russi ? La guerra la vinceremo noi. Lublia, Zoe, Marica, io, e tutte quelle come noi. La vinceranno le puttane.110 » Questo brano prende tutta la sua dimensione di arringa difensiva in favore di Malaparte quando Louise, alla quale il Corrispondente ha raccontato quel ricordo, gli domanda se le ragazze « savaient qu’on allait les fusiller » e lui risponde : « Elles le savaient. Elles tremblaient de peur d’être fusillées. Oh ! Elles le savaient. Tout le monde le savait, à Soroca.111 » Con tale risposta, come potrebbe il lettore del dopoguerra, ancora sotto shock per la scoperta dell’ampiezza dei crimini commessi dai regimi hitleriani e mussoliniani, non sentirsi in empatia col 109 Ibid., p. 580. Ibid., p. 822. 111 Ibid., p. 824. 110 48 Corrispondente? Come potrebbe ancora associare al fascismo un uomo così intento a testimoniare della guerra dal punto di vista dei martiri? f. La funzione centrifuga Nella Recherche i personaggi si distingono dal Narrateur non soltanto per le loro azioni, ma anche per i loro discorsi e le loro opinioni. Proust stesso rivendica questa dicotomia assoluta, giungendo a scrivere « Tandis que j’écrivais mon livre, je sentais que si Swann m’avait connu et avait pu user de moi, j’aurais su rendre Odette amoureuse de lui112 » o, ancora, anticipando in una lettera il seguito di La parte di Guermantes : « Cela va se gâter sans qu’il y ait de ma faute. Mes personnages ne tournent pas bien ; je suis obligé de les suivre là où me mène leur défaut ou leur vice aggravé113 ». La maggior parte dei personaggi delle Recherche viene definita in opposizione al Narrateur, in quanto pensano e agiscono in modo molto diverso da lui; che sia nel male, come la duchessa di Guermantes che brilla per la sua cattiveria contrariamente al Narrateur che – nonostante la severità dei suoi giudizi – non perde mai la sua benevolenza, o nel bene, come la nonna che dissimula la propria malattia sotto un’attitudine leggera per non dare fastidio a nessuno, mentre lui si adopera per suscitare preoccupazione nei suoi cari; oppure insieme nel male e nel bene, come Charlus, la cui agressività dissimula una generosità profonda, mentre la gentilezza del Narrateur è pari solo al suo egoismo. Non è che Proust consideri il suo Narrateur completamente singolare; è che quello che lo interessa, quello su cui lavora, è proprio l’impressione di divario tra l’individuo e il mondo estreno, un mondo del quale i suoi congeneri costituiscono la parte più misteriosa, comunque quella il cui mistero gli pone i maggiori problemi. Di conseguenza, le similitudini non sono per forza inesistenti: semplicemente, non sono ritenute interessanti dal Narrateur. In Kaputt, la frontiera è meno impermeabile. In primo luogo, essa è meno spessa, nella misura in cui il Corrispondente non sembra provare nessuna difficoltà a comprendere il mondo che lo circonda e non sviluppa nessuna analisi di se stesso che lo spinga a interrogare la maniera in cui gli appaiono gli altri; le 112 113 Marcel Proust, Correspondance, XIII, a cura di Philippe Kolb, Paris, Plon, 1970-1993, p. 119. Ibid., XIX, p. 514. 49 modalità della sua percezione non sono mai un soggetto, il suo giudizio non sembra subire nessuna fluttuazione: sappiamo sin dalla settima pagina del racconto, durante la sua conversazione con il Principe Eugenio di Svevia, che per lui la crudeltà dei tedeschi è « fatta di paura », che sono « malati di paura114 », e questa teoria non cessa mai di essere sopportata e suffragata fino alla fine del penultimo capitolo, nel passaggio in cui il Generale von Heunert, alle prese con un salmone che rifiuta di lasciarsi catturare, esprime la sua furia con un accento di « sottile inquieta paura115 », e poi ordina di fucilare il pesce a bruciapelo. A questa coerenza del punto di vista si aggiunge una tendenza del Corrispondente ad attribuire a certi personaggi reazioni, battute, idee che sembrano uguali alle sue, quasi si trattasse di presentare al lettore una garanzia dell’esattezza della sua percezione e della sua analisi degli eventi. Il primo personaggio a funzionare come un riflesso del Corrispondente è il Principe Eugenio che, dal punto di vista psicologico, ne differisce solo per una specie di candore, o piuttosto d'ignoranza; spesso la loro conversazione assomiglia meno a un dialogo tra due individui distinti che a un dispositivo letterario destinato a dare rilievo al pensiero del narratore per mezzo di un gioco di domande e risposte, ossia a un dialogo interiore tra se stessi e una versione anteriore di se stessi. Il Principe potrebbe essere un Corrispondente così com’era prima che la guerra scoppiasse e gli mostrasse la realtà del mondo; un alter ego inchiodato al mondo dell'anteguerra, anzi dell'ante-Prima guerra, perfettamente definito dalle reminiscenze di una Parigi della Belle-Epoque di cui non sappiamo davvero chi dei due non si ricordi; le domande fatte dal Principe non sono mai sorprendenti né destabilizzanti, ma corrispondono, invece, esattamente a ciò di cui al Corrispondente piace parlare, e lo mettono in valore con la loro ingenuità: contrariamente al Principe, questi ha avuto un contatto diretto con la guerra, da cui torna schiacciato; ma nasconde virilmente al Principe il suo sfinimento e la sua emotività, mentre il Principe lo smaschera, come abbiamo visto sopra, e alla fine del capitolo versa una lacrima al cui proposito ci possiamo chiedere a chi appartenga veramente, prima di concludere sorridendo, come per scusare l'emotività dell'amico piuttosto che la 114 115 Kaputt, p. 441. Ibid., p. 882. 50 propria: « N'en dites rien à Axel Munthe, je vous prie. C'est un vieux malin. Il raconterait à tout le monde qu'il m'a vu pleurer.116 » La funzione centrifuga consiste proprio in questa maniera in cui la personalità del Corrispondente oltrepassa i limiti della propria individualità per incarnarsi in altri personaggi, per prolungarvisi. Più che di funzione, dovremmo forse parlare di attributo, essendo il Corrispondente molto più oggetto che soggetto di tale fenomeno; sono alcuni dei personaggi che sembrano aver come funzione quella di dare il cambio alla sua presenza singolare, di condividere il suo stato d'animo ; così de Foxà, durante una cena a Helsinki, esprime il suo punto di vista di spagnolo sulla Spagna servendosi esattamente della stessa retorica che verrebbe usata dal Corrispondente, della stessa tendenza cioè a pronunciare delle sentenze generali come « L'Espagne est pleine de couvents et de pets de nonne », « Les peuples latins sont pourris », o « Bisogna essere cattolici per capire e amare la Spagna, la vera Spagna, quella di Dio. Poiché Dio è cattolico e spagnolo117 ». Questa disseminazione di alcuni tratti della personalità del Corrispondente conduce ad un effetto di armonizzazione strutturale del racconto che oppone al potere nazista collettivo una specie di « disperazione antinazista » incarnata da diversi personaggi nei quali coesistono ironia, osservazione della decadenza dell'Europa e nostalgia per un'età dell'oro aristocratica. Ma il fenomeno di straripamento della personalità del Corrispondente può varcare i confini ideologici, particolarmente per quanto riguarda il suo acume ironico, che ritroviamo ad esempio nei Panzerschützen quando egli domanda a loro perché si ostinino tanto a cacciare i cani, in Ucraina, e che gli rispondono « Domandatelo ai cani118 ». Esso può anche mantenere il Corrispondente in una posizione di distanza enigmatica, incaricandosi al suo posto di trarre delle conclusioni, come fa Louise poco dopo aver ascoltato la serie delle sue storie : « Ciò che la guerra ha di più orrendo è proprio quel che ha di gentile. Je n’aime pas voir sourire les monstres119 ». Nel pronunciare tali parole, Louise permette al Corrispondente di non recitare tutte le parti ; non solo questa ridistribuzione del suo pensiero conferisce a quest'ultimo 116 Ibid., p. 464. Ibid., p. 674-675. 118 Ibid., p. 703. 119 Ibid., p. 757. 117 51 fondamenta e sostegni, ma permette anche alla figura del Corrispondente di mantenersi in una posizione di attore, delegando, se non relegando l'intento moralista all'esterno. Ma il movimento centrifugo della sensibilità narratrice agisce anche in maniera puramente plastica sulla materia testuale, come all'inizio del capitolo « Of their sweet deaths » in cui Louise e Ilse dialogano fra loro di fronte al Corrispondente, molteplicando le affermazioni sentenziose, ironiche e simboliche come « La guerra non mi tocca, non può nulla contro di me », « Non abbiamo bisogno di un altro piccolo Gesù », « Ognuno di noi può salvare il mondo », « La guerra non mi può sporcare », « c’est nous-mêmes qui souillons nos enfants dans notre ventre » oppure « Je m’en fous de la guerre120 » in una retorica dell'enfasi profetica abbondantemente praticata dal Corrispondente sin dall'inizio del racconto, quindi immediatamente identificabile in quanto sua caratteristica. Qui, l'effetto ottenuto è quello di una moltiplicazione quasi visuale dell'istanza narratrice, di una frammentazione della sua percezione che viene proiettata attorno al lettore, come se ogni frase fosse come una specie di proiettile. La forza centrifuga trova qui la sua espressione massima, quella dell'esplosione, il che costituisce una strategia per mostrare che nella guerra tutto è guerrra, anche la coscienza della guerra, e che in tale contesto niente sfugge alla logica della collisione. Sarà poi ancora Louise a dire al posto del Corrispondente, qualche istante più tardi : « Il n’y a plus de ciel en Europe121 ». g. La funzione allegorica Tutti gli aspetti della funzione centrifuga sembrano concorrere a un rafforzamento e a un’estensione della presenza del narratore da cui può derivare, se vi aggiungiamo alcune proprietà delle sue funzioni eroica e profetica, una sensazione di onnipotenza vera e propria. Tuttavia, a forza di esser dilatata e amplificata a dismisura, la soggettività del Corrispondente perde la sua dimensione individuale; la sua voce, seguendo l’esempio di quella del direttore delle carceri di Regina Coeli, assume le caratteristiche di un paesaggio, o perlomeno di un materiale plastico e visuale usato dall’autore così come i colori e 120 121 Ibid., p. 785. Ibid., p. 786. 52 le immagini che invadono il suo racconto; parecchi elementi relativi al giudizio individuale, quali il crollo dell’Europa e la paura connaturata ai tedeschi, si ritrovano così trattati dall’autore come motivi decorativi che sono oggetto di variazioni stilistiche secondo i supporti sui quali vengono applicati, e diventano così elementi estetici, allo stesso titolo della neve di Finlandia e dei girasoli di ucraini. In questo contesto, che cosa diventa la loro matrice, ossia la persona del Corrispondente? Gianni Grana afferma che questa, essendo confrontata a una realtà eccezionale le cui immagini costituiscono una forma di epopea contemporanea, « non si sovrappone alle cose fino a diminuirle e oscurarle, ma anzi, nel riverbero acceso dei propri stati d’animo, delle proprie emozioni e reazioni, ne esaspera il rilievo illusoriamente “obiettivo” di smisurata e tragica crudeltà » e che si fa cioè identità « esemplare e quasi simbolica122 ». La funzione allegorica del narratore di Kaputt deriva contemporaneamente da questa disseminazione della sua soggettività, dall’assenza di posta in gioco personale nel racconto, e dal mondo esterno che gli detta la propria conflittualità incessante e la propria assenza di speranza. Il Corrispondente è come l’Europa in guerra: invaso (dalla misera e dalla violenza che lo circondano e danno luogo a storie terribili ch’egli non può fare a meno poi di raccontare), esaurito (lo è sin dall’inizio del racconto, come fa notare il Principe Eugenio, e fino alla fine, quando si ritrova in vista di Napoli « stanco, deluso, avvilito123 » a tal punto che la mera visione del mare basta a procurargli le lacrime), e corrotto (dall’onnipresenza del male che lo affascina, che gli dà ossessioni, lo insensibilizza, lo rende cinico ed impotente). È anche un narratore che, in un certo modo, muore durante tutto il libro: ognuno dei suoi incontri con gli amici sembra una cerimonia di addio nella quale s’intenerisce come se sapesse di non rivedere mai più il suo interlocutore; un interlocutore di cui riassume spesso la personalità attraverso formule solenni come « Ah ! si je pouvais souffrir comme vous !124 » (per il Principe Eugenio), « Merci, je n’accepte de politesses que de mes amis125 » (per la Principessa 122 Gianni Grana, Curzio Malaparte, p. 66. Kaputt, p. 938. 124 Ibid., p. 499. 125 Ibid., p. 519. 123 53 Radziwill), o « J’ai pitié d’être femme126 » (per Louise). Osserviamo anche che ogni reminiscenza del passato affiora nella sua mente con grande potenza emozionale, quasi si trattasse della sua vita intera che gli passa davanti agli occhi nell’ora dell’ultimo respiro, così come ogni paesaggio è caricato di malinconia quasi si trattasse dell’ultima immagine del mondo che gli è dato di vedere. L’identificazione si precisa quando il Corrispondente dichiara, alla fine della prima parte, che l’Europa sta morendo con tutto quello che vi è « di nobile, di gentile, di puro127 », mentre lui stesso non cessa e non cesserà d’incarnare appunto ciò che viene ordinariamente considerato « nobile » (frequenta soltanto l’élite e l’aristocrazia), « gentile » (sta « dalla parte dell’oca ») e « puro » (non lascia mai che la mostruosità circostante gli macchi l’anima o influenzi il suo giudizio). Possiamo anche trovare un’allegoria dell’Europa in guerra nella diluzione generale della sua identità, nel suo errare, nella sua tristezza, nella sua assenza di scopo preciso, e soprattutto nella sua passività: spesso direttamente confrontato all’esercizio della violenza nazista spinta al suo parossismo, il Corrispondente reagisce in modo limitato, non soltanto nei suoi atti – il che è comprensibilie, considerando il pericolo – ma anche nei suoi pensieri che, sebbene denotino una grande sensibilità nei confronti della sofferenza incontrata, si traducono raramente in indignazione vera e propria. Più spesso, il Corrispondente sembra provare nei confronti di Hans Frank, ad esempio, un’attrazione fatta di timore, di ammirazione, di orrore e di disprezzo, vale a dire un insieme di sentimenti e di domande che sembrano rientrare in una specie di studio neutrale del Male, quasi la prossimità con il potere nazista incidesse su di lui come un anestetico parziale che annienta in lui ogni possibilità di reazione vera e propria, trasformando l’attore chiamato in causa in spettatore semplicemente interessato a livello intellettuale. Questa maniera di assistere alla distruzione di quanto c’è « di nobile, di gentile, di puro », ossia alla propria distruzione, quasi senza opporre alcuna resistenza, questa tendenza alla passività, sono analoghe a quelle che i regimi totalitari dell’epoca rimproverano alle democrazie parlementari che li hanno preceduti, e che la storia a sua volta 126 127 Ibid., p. 825. Ibid., p. 499. 54 rimprovererà all’Europa di fronte a quei regimi totalitari. Il compiacimento mostrato dal Corrispondente nello stringere amicizia con i carnefici, non soltanto con ironia quando propone un brindisi alla « libera Repubblica dei ghetti di Polonia » ma dando loro addirittura consigli, come quando dichiara: « Se volete vincere la guerra, voi non potete distruggere la patria dell’operaio. Non potete distruggere le macchine, le officine, le industrie. […] Mi pare che il senso di questa guerra sia tutto qui, o in gran parte.128 », quel compiacimento assomiglia molto alla maniera in cui l’Europa, la stessa che il Corrispondente stesso rimpiange tanto, quest’Europa aristocratica, delicata e pura, si è traviata assecondando l’ascesa dei regimi totalitari. C’è anche una vera e propria corruzione intellettuale del Corrispondente che, a più riprese, condivide col lettore il suo turbamento dinanzi al processo di reificazione degli ebrei, mentre lui stesso si dedica ad un’essenzializzazione permanente non soltanto dell'essere tedeschi ma anche dell'essere polacchi, francesi, spagnoli e italiani; così rivela quanto la sua mente sia impregnata degli strumenti di analisi propri al nazismo. Dal punto di vista biografico, possiamo sicuramente leggere questa contaminazione come un portato dell’antica simpatia fascista dell’autore, e trarne poi alcune considerazioni interrogative sulla realtà e sulla profondità della sua evoluzione politica ulteriore; dal punto di vista dell’opera, questo tipo di elementi contribuisce a fare del Corrispondente una figura emblematica di ciò di cui soffre l’Europa intera. La sua impotenza, in particolare, ad agire contro la violenza fascista e nazista – ad eccezione di qualche trasporto clandestino di pacchi e di qualche azione puntuale, casuale, come il fatto di portare con sé il prigioniero russo condannato a camminare senza stivali fino a Balta o di far aprire i vagoni del treno di deportati fermato in pieno sole – rappresenta l’impotenza dell’Europa ad impedire le atrocità e i massacri sul proprio territorio. Il Corrispondente è, il più delle volte, atterrito di fronte a quanto può vedere e sentire; uno stato che non va sottovalutato, che non è compensato dalla sua abitudine di raccontare degli aneddoti, di fare indovinelli o di fare l’avvocato del diavolo durante le interminabili conversazioni che ha con i suoi contatti politici e mondani: il 128 Ibid., p. 528-529. 55 carattere ricorrente, quasi automatico di tali interventi, conferisce loro una sfumatura di vanità, gratuità e inefficacia; del resto, possiamo osservare che le dichiarazioni che dovrebbero provocare più apertamente l’interlocutore mettendolo di fronte alla propria ignominia provocano soltanto reazioni divertite, al massimo sconcertate, comunque falliscono – ammesso che tale sia il loro obiettivo – nel destabilizzare e, tanto meno, nel mettere in discussione. Quando prende in giro Frank autoproclamato Re tedesco di Polonia, dicendogli « Ho parlato con molti Re [...] nessuno di loro mi ha mai detto: io sono il Re129 », il governatore non mostra di essere offeso, ma riconosce subito: « Io non sono un vero Re ». E quando il Corrispondente continua nella stessa direzione, dicendogli che come cattolico Frank dovrebbe ritenersi « eguale ai polacchi », il Governatore generale sembra ignorare l’accusa malcelata di comportarsi da dittatore e, lungi dal mostrarsi offeso, si lamenta di « quanto sia difficile governare un popolo cattolico130 ». Quando poi, la stessa sera, dice alla moglie di Frank, che plaude al talento di pianista del marito: « Sì, un grande artista […] ed è con questo pianoforte che egli governa il popolo polacco 131 », quest’ultima si intenerisce e dice: « Oh ! Vous comprenez si bien les choses ! », rivelando con questa frase di non aver colto l’ironia dell’interlocutore, così come il marito quando il Corrispondente gli dice in seguito che « I bambini ebrei hanno le ali132 ». In tal senso, dal punto di vista pratico, possiamo affermare che per il narratore, dire equivale spesso a non dire, e che la sua maniera di opporsi è spesso sinonimo di consenso. Questo paradosso della forza impotente – forza dell’indignazione, dell’esame critico della violenza all’opera intorno a lui, e impotenza a tradurre questa coscienza in atti – coincide anche con l’idea di paralisi patologica che caratterizza l’Europa dell’epoca. La funzione allegorica appare infine attraverso l’onnipresenza plastica del narratore, la sua maniera di viaggiare incessantemente tra i ricordi splendidi dell’anteguerra e il presente terribile, tra Stoccolma e Helsinki, tra Jassy e Napoli, tra la tavola di Hans Frank ed i campi di girasoli dell’Ucraina, e soprattutto tra la disinvoltura mondana, 129 Ibid., p. 503. Ibid., p. 504. 131 Ibid., p. 527. 132 Ibid., p. 552. 130 56 l’empatia tragica e la disperazione esistenziale: anche l’Europa in guerra occupa tutti quei territori contemporaneamente, incarnando cioè un’analoga molteplicità di constesti e di situazioni, un’analoga ampiezza geografica, sociale, politica, e un’analoga memoria straziante dei tempi felici della pace. Conclusione : virtù e limiti letterari del narratore in Kaputt Durante tutto il racconto, il Corrispondente funge contemporaneamente per il lettore da figura di identificazione e da guida attraverso l’Europa in guerra. A tale titolo, forti dell’esame dettagliato al quale ci siamo dedicati, possiamo adesso attribuire al narratore di Kaputt un certo numero di virtù letterarie, cioè di caratteristiche suscettibili di sostenere la narrazione, di rafforzare o di arricchire il discorso che la sottointende, e di suscitare la partecipazione intellettuale del lettore. Il Corrispondente dice la verità. La verità che dice non è quella del Narrateur proustiano, il quale condivide con il lettore una dinamica interiore che consiste nel tendere verso la verità mediante l’individuazione, la comprensione e la dissipazione dei diversi elementi estetici che la dissimulano o che la falsificano; la verità espressa dal Corrispondente è insieme più semplice e più accessibile: risiede interamente nella buona fede con cui questi condivide la precisione e la soggettività della sua percezione. La questione degli strumenti estetici di questa percezione, tanto cara a Proust, non è da risolvere – oppure è già risolta – per Malaparte, e comunque non si pone. Eppure, la soggettività del Corrispondente non si nasconde. Il suo racconto non finge di essere altro che una testimonianza estremamente personale. La verità che comunica è prima di tutto ed esclusivamente la sua verità. Sin dalle prime pagine, lo rivendica situandosi col lettore sul piano della confidenza: « Dopo tanti mesi di selvaggina solitudine nell’estremo nord, fra i làpponi, cacciatori d’orsi, pastori di renne, pescatori di salmone, le scene, ormai dimenticate, di una vita pacifica e laboriosa che io contemplavo con meraviglia nelle vie di Stoccolma, mi davano una specie di ebbrezza, quasi di smarrimento. [...] L’ombra dei primi tramonti dava alla 57 gentilezza femminile un che di segreto, di misterioso133. » Tale maniera di attribuire al lettore il ruolo di destinatario prediletto, di prescelto al quale rivolge la restituzione intima del suo vissuto e delle sue osservazioni, costituisce un patto di antenticità che crea le condizioni di accettazione del racconto. Il lettore viene messo nella posizione in cui si troveranno Louise ed Ilse prese in ostaggio non dalla valanga dei racconti del Corrispondente in sé, ma dall’amicizia forte che vi preesiste e ne garantisce l’onestà. Tuttavia, questa fiducia suscitata non acorrisponde a una delega senza riserve in favore del Corrispondente, non annienta ogni senso critico nei suoi confronti: essa è compensata dall’ambiguità della sua posizione, e dall’ingenuità – involontaria? controllata? – con cui quest’ultimo lascia trasparire i suoi difetti: snobismo, compiacimento narcisisto, tendenza all’autocommiserazione; il lettore si trova nella contraddizione di provare contemporaneamente verso il Corrispondente irritazione ed empatia profonda, se non una disapprovazione altrettanto intensa, il che gli permette di essere al tempo stesso affascinato dal racconto e in grado d’interrogarsi sull’antropologia della guerra che gli viene proposta, nonché sulle idee nazionali del Corrispondente e sulla pertinenza della sua analisi delle radici della violenza nazista. Eppure si può ritenere che quei tratti del carattere del Corrispondente rivestono una forma di astrazione, in quanto non vengono associati a nessun obiettivo personale; al massimo appaiono come un corollario della sua appartenenza a un ceto sociale in cui regnano tradizionalmente snobismo ed autocompiacimento; difetti stereotipati, quindi, i quali, se consideriamo la loro assenza totale d’impatto sullo svolgimento dei fatti, conferiscono paradossalmente al Corrispondente una specie d’impersonalità, comunque una personalità che non viene mai pienamente incarnata; in tal senso, sono uno strumento d’identificazione « puro » per il lettore, funzionano come un travestimento sotto il quale possiamo circolare pur rimanendo invisibili, irriconoscibili nell’abito puramente convenzionale del mondano. Potremmo contraporre a quest’idea di « a-personalità » del Corrispondente la sua sensibilità estrema, la precisione della sua percezione, e soprattutto 133 Ibid., p. 443-444. 58 l’originalità del suo immaginario: vedere in una città innevata un cadavere avvolto nel proprio sudario, o in un cielo in tempesta una rana dal ventre pulsante, soffermarsi sui minimi dettagli della storia di un cagnolino che preferisce il rumore di un fucile da caccia a quello dei cannoni, denota un’interiorità originale e ben identificata, spesso in grado di stupire il lettore, se non di limitare la sua immedesimazione. Ma tali peculiarità non riguardano nessun profilo sociale, rientrano nella libertà con cui ogni coscienza può capire e interpretare in profondità quello che percepisce; soprattutto, esse rimandano all’infanzia e alla sua assenza di una scala di valori diversa da quella soggettiva, quell’età in cui ciò che succede a un cagnolino può meritare un esame più attento del destino di una nazione intera, non perché le cose non vi abbiano la loro importanza reale, ma perché l’importanza reale non gerarchizza ancora tra le cose; nella fattispecie, la storia del cane Spin, nell’eufemizzare l’aberrazione pura della guerra, contribuisce all’edificazione di un’immagine di questa guerra dal punto di vista degli innocenti e delle vittime. Proprio grazie a questa sensibilità infantile che ha saputo mantenere, il Corrispondente apre gli occhi del lettore, lo libera dalla chiusura mentale di un giudizio strettamente razionale, gli dà accesso a una comprensione più completa del reale. Quest’anima infantile contribuisce anche a spiegare la facilità con cui il Corrispondente circola al centro del potere nazista e la disinvoltura con cui partecipa alle conversazioni più spaventose: gioca. Gioca a lasciar credere ai suoi nemici che è uno di loro, per dimostrare al lettore chi sono. Nel contesto del patto narrativo proposto all’inizio del libro, che elegge il lettore a confidente, quest’idea del gioco permette di accettare la connivenza del narratore col potere nazista, conferendogli lo stesso statuto eccezionale che Hanz Frank gli accorda: quello di buffone, di quella stessa categoria di cui Erasmo diceva: « Les plus grands rois les goûtent si fort que plus d'un, sans eux, ne saurait se mettre à table ou faire un pas, ni se passer d'eux pendant une heure134 », e che svolgono anche presso di loro il ruolo di rivelatori, di specchio grottesco. Essendo il Corrispondente insieme bambino e buffone, la sua compromissione coi nazisti risulta una compromissione « per finta », e una 134 Erasme, Éloge de la folie, XXXVI. 59 compromissione per una buona causa, poiché permette l’informazione e l’edificazione del lettore. Infine, nonostante la quasi assenza di atti di resistenza concreta da parte sua, l’anima infantile associata alla posizione di buffone appare nell’opera come l’espressione di un’innocenza e di una libertà interiore che si oppongono fortemente al nazismo e alle sue dinamiche di distruzione e di oppressione. Possiamo dunque dire che nel Corrispondente, il bambino e il buffone vincano in generale sull’amico dei carnefici, e che lo utilizzino per mostrare il Male e sconfiggerlo. E sebbene la voce narrante non sia di buon auspicio per il futuro dell’Europa, sebbene si compiaccia nella descrizione di una civiltà che crolla e di una barbarie che vince, la sua natura stessa testimonia l’impossibile vittoria dei totalitarismi, la loro impotenza ultima ad asservire l’anima umana e a regnare sulle coscienze. In maniera generale, l’ambiguità di posizione della voce narrante è interessante perché rende piu complesso il modo di affrontare il tema della guerra, e fornisce al lettore l’esempio di una sensibilità e di un insieme di posizioni che non sia tale da avvincerlo con un eroismo idealizzato e manicheo né da confortare un’idea positiva di se stesso col controesempio di una personalità vile o complice della violenza totalitaria. Le diverse posizioni del Corrispondente lo mostrano alternativamente, o simultaneamente, coraggioso e vigliacco, interessato e indifferente, partigiano e collaborazionista. Quest’ambiguità produce anch’essa un effetto fortissimo di verosomiglianza, in quanto si costituisce in figura narratrice, quindi in premessa e in regola generale del racconto in cui domina l’aspetto caotico del presente: per tutta la durata del testo, il funzionamento del Corrispondente rispecchia il mondo esterno in cui si susseguono e si intrecciano senza sosta l’atroce e il bello, il grave e l’irrisorio, il comico e il tragico. Lontano dai racconti agiografici sulla Resistenza, lontano dalle testimonianze sulla Shoah, Kaputt non è un testo edificante. È questa la sua singolarità e una parte importante della sua forza letteraria. Ma tale forza non riesce ad annientare le debolezze prodotte da quelle stesse caratteristiche, a cominciare da una tendenza ad attenersi alla superficie del reale; il Corrispondente è restio all’analisi di se stesso, ma la maniera in cui 60 guarda il mondo esterno non è neppure analitica. La funzione documentariagiornalistica è al riguardo emblematica della sua tendenza ad accontentarsi, per dipingere le situazioni che incontra, di descriverle in modo visuale, fattuale, e di riferire sull’effetto immediato che producono sulla sua sensibilità. Il campo dell’analisi vera e propria che implica dinamiche razionali di esame, di confronto, di deduzione, di elaborazione e di giudizio, è assente della proposta generale di Kaputt. Lo possiamo considerare compensato da o sostituito col campo interpretativo, in particolare mediante la funzione che abbiamo chiamato « profetica » : le proposte di analogie abbondano in tutto il racconto, che si tratti di equiparare l’umano all’animale, la disperazione alla morte o il fiore all’esilio, e rendono il contesto generale dell’occupazione nazista un’immensa parata simbolica in cui la Natura sembra intenzionalmente sembra mettere in scena la tragedia sino alla scelta dei suoi cieli, in cui i soldati della Wehrmacht avanzano senza palpebbre come morti viventi nelle foreste di Finlandia, in cui i bambini del ghetto di Varsavia appena ammazzati prendono il volo come uccelli. Possiamo deplorare una certa facilità di questa scelta dell’impressionismo, o perlomeno deplorarne il sistematismo, nella misura in cui la potenza inesauribile di tali immagini ostacola il distanziamento e scoraggia i tentativi di approccio e di comprensione razionale o politica del reale. E possiamo capire questo partito preso, dal punto di vista del patto narrativo, considerando il profilo sociale del Corrispondente, quella postura mondana in cui il senso delle cose, la loro spiegazione, i loro ingranaggi non sono inesistenti ma sono dati per scontati, e quindi, dal momento che ognuno sa da tempo a cosa attenersi sul significato del reale, non resta altro che trarne divertimento, creare a partire da esso, produrre immagini, raccontare storie; tuttavia, un’assenza di pensiero riflessivo così costante consituisce indubbiamente, a considerare l’ambizione esaustiva di un testo che cerca vistosamente l’esaurimento dei significati della crudeltà nazista, un limite letterario di Kaputt. Il secondo punto debole prodotto dal funzionamento del Corrispondente deriva da quella mancanza di sguardo analitico, ossia un certo esaurimento del materiale letterario che, essendo ridotto a un numero limitato di immagini e di 61 simboli, viene sovrasfruttato, da cui un’impressione di ridondanza, se non di ruminazione patologica man mano che prosegue il racconto; non si tratta soltanto della ricorrenza di elementi puntuali, quali i girasoli paragonati ad occhi o i tedeschi dipinti come animali tristi; si tratta anche di modalità analoghe di apparizione di elementi simbolici come l’ironia leggiadra dei carnefici, instancabilmente illustrata dalle conversazioni con Hans Frank, o la splendida dignità delle vittime, la quale si manifesta in modo simile a proposito della Principessa Radziwill, delle ebree prostitute di Soroca, di Louise Von Hohenzollern o di Giuseppina von Stum prima del suicidio. Declinate come variazioni sul tema, queste immagini possono finire per dare l’impressione di una mancanza d’ispirazione, o di una tendenza dell’autore a produrre stereotipi invece di dedicarsi alla specificità di ogni situazione o personaggio. Impressione di ridondanza spesso, e talvolta di prolissità, soprattutto quando il Corrispondente dipinge le scene mondane nei minimi dettagli e in tempo reale, come a Roma nelle alte sfere del potere mussoliniano135, in cui si succedono interminabilmente le battute spacciate per spiritose e gli scherzi amari di un’oligarchia in piena decadenza, senza che nessun contrappunto estetico né intellettuale venga arricchire la piatta ricostituzione di dialoghi anch’essi piatti. Infine, la funzione defensiva del Corrispondente, questa tendenza cioè ad indossare senza dirlo la toga dell’avvocato per perorare la causa dell’autore insistendo talvolta piuttosto pesantemente sui minimi elementi atti a suscitare l’ammirazione o l’empatia, e soprattutto a dissipare ogni idea di connivenza col fascismo al suo riguardo, può apparire una violazione del patto narrativo fondato sull’elezione del lettore al grado di confidente, e non di giudice. Soprattutto, possiamo ritenere che questa funzione attira sull’insieme dell’opera un sospetto di insincerità, di compiacimento e di calcolo nell’espressione dell’indignazione e dell’emotività, e poi trarne un giudizio globale di inautenticità della proposta; l’interesse e gli interrogativi suscitati dal testo possono risultarne considerevolmente indeboliti. 135 Kaputt., p. 885-937. 62 In maniera generale, sembra impossibile scegliere irrevocabilmente tra i differenti aspetti del narratore di Kaputt, tanto questo è all’immagine dell’autore: a seconda del punto di vista a partire dal quale lo consideriamo, il Corrispondente apparirà come una cinepresa da documentarista, come un Virgilio che guida il lettore attraverso i gironi successivi dell’inferno nazista, o come un fattore di smarrimento, a seconda delle sue visioni allucinate e degli sviluppi caotici della sua estetica della disperazione; ma anche contemporaneamente come un modello e un contro-modello. L’approccio che abbiamo tentato per classificare e descrivere le sue funzioni principali, paragonandole cioè a quelle del Narrateur proustiano, ci ha consentito di distinguerne più facilmente le specificità pur affrontandole dal punto di vista strettamente letterario, e soprattutto di compensare la volatilità intrinseca dell’oggetto di studio con il rigore degli strumenti estrinseci usati per esaminarlo. Ne risulta un’immagine di narratore schiacciante, frammentaria, spesso conflittuale, che possiamo facilmente ricondurre alla dimensione del personaggio, così come possiamo facilmente ricondurre il personaggio alla dimensione di rappresentazione dell’autore stesso; eppure, ci sembra che quest’esame abbia permesso di evidenziare le dinamiche letterarie prodotte dal Corrispondente, e soprattutto di isolare una sua funzione decisiva, in quanto ne stabilisce la peculiarità vera e propria, pur conferendogli una legittimità: la funzione allegorica, per cui il narratore di Kaputt si costituisce in riflesso antropomorfico dell’Europa occupata, sconvolta, avvelenata, quell’Europa di cui condivide lo sgomento e le contraddizioni, di cui non cessa di costruire e di costituire un ritratto avvincente. Parigi, 2017. 63 Bibliografia (Per ordine di citazione) - Sylvie Patron, Le Narrateur : introduction à la théorie narrative, Paris, Armand Colin, 2009. - Jean-Yves Tadié, Proust et le roman, « Tel » - Paris, Gallimard, 1971. - Marcel Proust « Un amour de Swann », in A la recherche du temps perdu I., Paris, Editions Folio-Gallimard, 1990. - Marcel Proust, A la Recherche du temps perdu V, Paris, Folio-Gallimard, 1988. - Martine Gantrel, Proust et Gide : le « je » narrateur et ses effets perlocutoires, Bulletin des Amis d’André Gide – XXXIV, 151 – juillet 2006. - Léo Bersani, « Déguisements du moi et art fragmentaire », in Recherche de Proust (coll.), Paris, Points-Littérature, 1980 - Theodor Adorno, Notes sur la littérature, 1958, 1961, 1965, 1974, trad. 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