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Il sito fortificato di Monte S. Margherita di Monte Marenzo (Lecco)

2001

IL SITO FORTIFICATO DI MONTE S. MARGHERITA DI MONTE MARENZO (LECCO) * di FABIO BONAITI, MASSIMILIANO NUCCIO, MARINA UBOLDI Nel cuore dell’alta Valle San Martino, con i suoi 629 metri di altitudine sul livello del mare e collocato al culmine della dorsale che dal torrente Carpine si distende per quasi tre chilometri sino a San Gregorio di Cisano Bergamasco, il Monte Santa Margherita si erge isolato sopra l’abitato di Monte Marenzo, risultando l’unico significativo rilievo in un contesto in prevalenza collinare. Grazie alla posizione dominante ed alla particolare conformazione morfologica che lo vede caratterizzato, nei suoi versanti orientale e occidentale, da ripidi fianchi ricoperti di folti boschi cedui e solo alle falde coltivati a vigneto, il Monte Santa Margherita ha costituito, in epoche lontane, un luogo privilegiato e particolarmente adatto all’insediamento stabile. Ancora oggi, benché disabitato e non più legato all’economia di sussistenza contadina, esso continua a rappresentare, quale linea di confine fra gli estremi lembi comunali di Torre de’ Busi e Monte Marenzo, un punto di riferimento per il territorio e per la popolazione circostante da sempre legata al piccolo oratorio di Santa Margherita, sopravvissuta testimonianza di una vicenda umana più complessa, e ormai scomparsa, il cui ricordo ancestrale rimane però vivo nella memoria collettiva degli abitanti di Monte Marenzo. Ai piedi del monte si sviluppano gli antichi nuclei di Portola, già attestato dal sec. XIII, e Piudizzo, attraverso i quali corrono le principali direttrici che conducono alla cima. La solitaria presenza, sulla sommità del colle, dell’omonimo edificio dalle evidenti fattezze romaniche ed il pregevole ciclo di affreschi inquadrabile tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo in esso contenuto, costituiscono un enigma di non facile interpretazione: genesi e sviluppo di questo insediamento religioso e militare ci sfuggono e aspettano di essere ricostruiti attraverso lo studio delle fonti artistiche, architettoniche e documentarie. Alle quali va aggiunta un’ulteriore chiave di lettura: quella recentemente fornita dalla ricerca archeologica, i cui risultati vengono esposti qui di seguito. L’ORATORIO DI SANTA MARGHERITA Benché la posizione isolata e relativamente lontana dall’abitato possa costituire un interessante spunto di ricerca, allo stato attuale degli studi, pochissimo si conosce riguardo alla storia di questa piccola chiesa la cui intitolazione a Santa Margherita ed il relativo impianto architettonico suggeriscono una datazione con ogni probabilità precedente alla fine del secolo XIII. Ipotesi non confermata, tuttavia, dal coevo elenco delle chiese e oratori pertinenti alle Pievi della Diocesi ambrosiana, il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (MAGISTRETTI 1917 et alii) compilato da Goffredo da Bussero e inspiegabilmente avaro di citazioni per il territorio di Monte Marenzo, comunque afferente alla plebe * Lo scavo, in concessione al Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Padova, è stato condotto in collaborazione con l’Associazione Ricerche Fortificazioni Altomedievali e con il finanziamento della Comunità Montana dell’Alta Valle S. Martino e del Comune di Monte Marenzo. La direzione scientifica è stata del prof. Gian Pietro Brogiolo, responsabile di scavo il dr. Agostino Favero. Nel 1998-1999 è stata condotta una valutazione del sito. Per il biennio 2000-2001 si prevedono lo scavo di tutta l’area occidentale del pianoro (almeno 300 metri quadrati), in grado di riportare in luce gli edifici interni al castello, e la musealizzazione del sito. de Brivio trans Abduam. La giurisdizione relativa alla Parrocchia di Monte Marenzo appare delineata, nel secolo XV, da due bolle papali di Eugenio IV (1435) e Nicolò V (1454) ma in esse non vi è alcuna menzione dell’oratorio di Santa Margherita che deve perciò intendersi edificato prima come edificio di culto privato forse a cura di una locale famiglia capitaneale, i Capitaneis de Marencio Vallis Sancti Martini, e solo dopo la metà del Quattrocento donato alla Parrocchia medesima (TAGLIABUE 1938). Nonostante le diverse fasi edilizie subite nel corso dei secoli ed il recente (1984) rifacimento del tetto originariamente in piode, la struttura dell’oratorio, interamente in pietra a vista, è facilmente riconducibile ai canoni del romanico lombardo. L’edificio ad aula unica presenta una facciata a capanna di forma tozza, dominata da un portale in pietra ad arco a tutto sesto affiancato da due aperture operate nel corso del XVIII secolo; i prospetti laterali appaiono deformati obliquamente dalla presenza di due barbacani per ciascuno (aggiunti nell’immediato dopoguerra per fronteggiare alcuni cedimenti della struttura muraria presso il catino absidale) e solo quello settentrionale mostra un’apertura di ingresso laterale; l’abside semicircolare, rivolta ad oriente, è infine caratterizzata da tre tipiche aperture a feritoia strombata (MAURI 1995). I dipinti ancora conservati all’interno dell’oratorio sono databili tra la fine del Trecento e il primo ventennio del secolo successivo e dovevano, in origine, ricoprire integralmente i lati della navata, la controfacciata e l’abside attraverso tre specifiche unità tematiche: la Majestas Domini, le storie di Santa Margherita e gli affreschi votivi della parete settentrionale. I più antichi, risalenti alla fine del Trecento, sono quelli visibili sulla parete meridionale: essi seguono una rappresentazione unitaria ed un unico progetto decorativo e sono attribuiti ad un solo anonimo artista – convenzionalmente denominato “Maestro delle storie di santa Margherita” – che, in modo più semplificato, mostra una tecnica pittorica non molto lontana da quella dei cicli lombardi in generale e bergamaschi in particolare a cavallo tra XIV e XV secolo. La narrazione decorativa è divisa in tredici scomparti quadrangolari disposti su due registri paralleli e contornati da nastri, rappresentanti altrettanti momenti della vita e del martirio di Santa Margherita conosciuta anche con il nome di Marina di Antiochia e considerata protettrice delle gestanti. Un quattordicesimo riquadro, posto in controfacciata e pressoché scomparso, raffigurava probabilmente l’ascensione della Santa. Oltre a questo ciclo, il piccolo tempio è interamente decorato con affreschi di ottima fattura anche nell’area absidale: nel catino, all’interno di una mandorla policroma, campeggia infatti il Cristo benedicente circondato dai quattro evangelisti; nella zona sottostante, presso sei riquadri scanditi dalle finestrelle, sono quindi rappresentati, da sinistra a destra, un Dottore della Chiesa seduto ad uno scrittoio, la Trinità costituita da tre identiche figure di Gesù, un Santo monaco o frate, la salita di Cristo al Calvario ed il martirio di Santa Caterina d’Alessandria. Sulla parete nord, da sinistra a destra, si scorgono invece un Santo, una Madonna del Latte, San Cristoforo, Sant’Antonio Abate, San Giovanni Battista e un altro Santo anonimo (POLO D’AMBROSIO 1996). Da segnalare, infine, (oggi conservata presso la canonica della Parrocchiale di San Paolo, ma con ogni probabilità proveniente dall’oratorio stesso) una preziosa lastra in pietra calcarea di forma rettangolare (cm 35×64×6) terminante con un’archeggiatura ogivale e recante la raffigurazione del martirio di Santa Margherita. Per le caratteristiche stilistiche ed iconografiche, questa scultura si colloca in piena epoca gotica e si segnala quale una delle rare raffigurazioni tardo medievali della Santa. Ella è rappresentata crocifissa, il suo capo è cinto dal nimbo crociato ed il suo ventre presenta un clipeo circolare. Ai lati della croce stanno di profilo i due carnefici con spada e lancia scolpiti in dimensioni minori (ZASTROW 1990). ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 1 Fig. 1 – Monte S. Margherita. Planimetria generale. IL TERRITORIO DI MONTE MARENZO NEL SECOLO XII Il territorio Monte Marenzo è situato all’estremo limite meridionale dell’alta Valle San Martino, disteso, in posizione panoramica a 440 m di altitudine sul livello del mare, su di un ampio terrazzo morenico confinante con la riva orientale dell’Adda. L’estremità occidentale, delimitata da alcune alture isolate, con pareti a strapiombo sull’Adda, e quella orientale, culminante con la cima del Monte Santa Margherita, ultime a conservare estesi lotti di vegetazione boschiva e prativa, racchiudono un pianoro coltivato a campi, attraversato dalla strada proveniente dalla frazione collinare cisanese di San Gregorio e diretta a Calolziocorte: al centro sorge l’abitato. Le pergamene di Marenzo – appartenenti al fondo del monastero cluniacense di San Giacomo di Pontida – non molto numerose (cinque), ben si distribuiscono però lungo tutto il corso del XII secolo e mostrano, per quest’arco cronologico, oltre ad una discreta diffusione di selve e boschi presumibilmente già in parte sacrificati alle colture, una significativa presenza di campi. Essi risultano infatti la tipologia prevalente nelle diverse petie della curtis de Marentio (1137 apr. Brivio Breve refutazionis, ASM, F.do Rel. Perg., c. 36 n. 25), delineando un ambiente strutturato all’interno del quale si scorge un’opera di valorizzazione delle risorse volta alla cura degli alberi, per lo più castagni, ma forse anche da frutta. Il confronto dei diciassette toponimi riscontrati nella documentazione del secolo XII con quelli sopravvissuti e ancora attestati nel secolo scorso, desunti dal catasto ottocentesco di epoca napoleonica (ASM, F.do Catasto n. 9496), ha reso possibile l’identificazione e la localizzazione di dodici toponimi prediali. A partire dalla località a la Silva (“Selva”), posta effettivamente ad ovest della locale chiesa di Sant’Alessandro (1135 giu. Pontida Carta commutationis, ASM, F.do Rel. Perg., c. 36 n. 22), presso la quale, per altro, doveva essere ubicato anche il successivo toponimo ad Sanctum Alexandrum (accanto al quale scorrevano un rivulus cum arboribus e una via). Ancora oggi, proprio come nella pergamena, la chiesa è sita in prossimità di un piccolo torrente il quale, scendendo da Monte Santa Margherita e lambisce l’abitato e piega poi parallelo alla strada verso il fondovalle. “Campo Grande” ricorda a sua volta la località in Summo Campo Grande, poco distante dalla chiesa parrocchiale, ove erano posti tre alberi di castagno con una tavola di terra ciascuno. Un campo cum arboribus è riscontrabile presso il toponimo in Criminasca, oggi scomparso (1135 giu. Marenzo Carta vendicionis, ASM, F.do Rel. Perg., c. 36 n. 23) e un castagno ad Runcos. La pergamena del marzo 1187 (1187 Marenzo, Pontida Carta commutationis, ASM, F.do Rel. Perg., c. 36 n. 56), alla quale deve essere riferito anche quest’ultimo sito, indica inoltre un Clausum de Foppa, caratterizzato dalla presenza di vigneti: nel secolo scorso, proprio presso la località “Foppa”, poste all’ingresso dell’abitato e ben esposte al sole, erano collocate altre due località dette “La Vite” e “Bosco della Vite”. Colonolia (confinante ad est con un terreno di proprietà della chiesa di San Paolo) e in Privata, possono forse essere, infine, identificate con le attuali “Corniola” e “Provada”, site presso la frazione Butto, mentre precisa è la corrispondenza tra il toponimo medievale ad Vallem Marcidam e quello giunto sino a noi di “Valle Marzia”, situato proprio presso il torrente omonimo. Il territorio di Marenzo contava inoltre una sors lavorata da Albertus de Runcus mulinarius, mugnaio (1160 gen. Pontida Carta donationis et iudicati, ASM, F.do Rel. Perg., c. 36 n. 46), e quindi presumibilmente un mulino, collocabile forse nei pressi della frazione Piudizzo, ove ancora oggi resiste il toponimo “Prato della Sorte”, mentre un discorso a parte merita il Castellacium dell’atto del 1187, opera fortificata localizzabile presso l’attuale colle dello “Scarlaccio”: «…quarta vero petia iacet ubi dicitur in Castellacium et est buskiva et prativa, coheret ei a mane sepedicti Oberti, a meridie similiter et Cornu, a monte ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 2 Fig. 2 – Monte S. Margherita. illius Petri, a sera Cornu…». In quel castello in rovina già sul finire del XII secolo è facile riconoscere l’odierno toponimo Scarlaccio (ovvero Castellaccio) (cfr. SETTIA 1984), dove sono stati individuati i resti di possenti murature sia sul pianoro sommitale, sia lungo il suo perimetro; l’identificazione viene ulteriormente avvalorata dalla presenza, nelle coerenze, del riferimento a Cornu, l’altura e i dirupi immediatamente vicini al colle dello “Scarlaccio” e definiti, nel catasto ottocentesco come dagli attuali abitanti, “Corno”. L’appezzamento di terra è descritto boschivo e prativo; senza alcuna traccia ormai di costruzione; e lo “Scarlaccio” si presenta tuttora in parte terrazzato e tenuto a prato e in parte coperto dal bosco. Infine, la data topica apud ecclesiam Sancti Pauli de Marentio, permette (unitamente alla già citata coerenza) di retrodatare di molto l’esistenza a Monte Marenzo di una chiesa così intitolata, la cui dedica si riscontra nell’odierna parrocchiale e che costituisce, tra l’altro, la dizione dialettale con cui viene comunemente denominato questo centro. F.B. LA SEQUENZA DI ETÀ MEDIOEVALE L’intervento di scavo, condotto tra 1998 e 1999, ha interessato tre distinti settori: 1) un’ampia area di circa 80 mq (Saggio 9) nel settore sudovest dell’altura che non presentava emergenze di carattere ambientale; 2) un saggio di circa mq 5 nell’area sommitale posta al centro del pianoro (Saggio 1), per verificare la consistenza del deposito archeologico nel punto ipotizzato di maggiore spessore stratigrafico; 3) 7 sondaggi di limitata estensione finalizzati ad individuare limiti, orientamento e stato di conservazione della cortina muraria che cinge il pianoro. Lo scavo ha contribuito alla comprensione delle fasi di occupazione antropica del sito a partire dalle tracce di una non ben definita frequentazione di età preistorica, a cui risalgono pochi frammenti di ceramica ritrovati in alcune sacche di roccia vergine. Lo strato sterile, infatti, è composto da una roccia marnosa molto friabile che, nei livelli superiori, subisce un processo di degrado e si trasforma in un terriccio limoso di colore giallo. Il sito viene in seguito occupato solo in età medievale con la costruzione di un castello che si compone di una cinta muraria di forma irregolarmente ellittica che racchiude il pianoro sommitale, da una torre di cortina posta sul limite occidentale del pianoro stesso e di un edificio addossato a sud della torre. L’indagine archeologica ha sinora interessato una superficie di circa 146 metri quadrati, corrispondenti al 16,8% dell’area interna alla cinta muraria, che si può ragionevolmente immaginare intorno a mq 870-875. Lo stato preliminare delle ricerche lascia ancora insoluti i problemi pertinenti l’ubicazione degli ingressi, la disposizione e il numero delle strutture interne, i materiali e le tecniche costruttive ad esse pertinenti. CINTA MURARIA Le indagini in questo settore erano finalizzate alla comprensione dell’andamento e delle caratteristiche del perimetro murario e alla valutazione dello stato di conservazione non solo delle strutture ma anche degli strati che hanno contatto con esse. La lunghezza complessiva della cinta è stata stimata intorno ai 120 metri, mentre lo spessore è irregolare, compreso tra 100 e 110 cm. Il muro è costruito con una tecnica a sacco: nei paramenti esterni sono per lo più utilizzati conci sbozzati di medie dimensioni, quelli ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 3 interni sono formati da pietre più piccole arrotondate e talvolta disposte di taglio. Si consideri però che in alzato si conservano uno o due filari per un massimo di 30 cm. In particolare nel settore Est, dove il pianoro degrada verso l’ingresso della chiesa, della cortina è rimasta solo la traccia nella roccia tagliata e qualche pietra impostata sul terreno vergine. I saggi condotti nell’area Nord dell’altura hanno confermato il cattivo stato di conservazione delle stratigrafie e, in alcuni parti, la loro asportazione in tempi recenti. Infatti, sotto uno strato superficiale di una decina di centimetri compare lo sterile. Da ciò si deduce che l’attuale piano di calpestio è il risultato del ripianamento del terreno attuato per compensare il declivio naturale della collina. In tale strato superficiale sono stati rinvenuti diversi reperti, ma vista l’attuale utilizzazione del sito è ipotizzabile che il riporto di terra risalente ad un epoca moderna abbia sconvolto la stratigrafia. Tra il materiale raccolto si segnalano alcuni frammenti di vetro, una punta di freccia e una lama di coltello a sezione triangolare con codolo di innesto. Lo strato di riporto è più sottile verso il centro del sito, mentre si ispessisce a ridosso del perimetro difensivo, coprendo appena la rasatura del muro di cinta, che nel tratto messo in luce è in parte scivolato a valle sul lato N e presenta scarsa quantità di legante tra le pietre. Sul limite W dell’altura è stata individuata una struttura muraria ortogonale a quella perimetrale, in parte crollata lungo il profilo E, e tagliata dalla trincea di fondazione della cinta. SAGGIO 9 Fase I Lo scavo ha permesso di individuare l’angolo sud-occidentale di una struttura muraria le cui fondamenta poggiano direttamente sul terreno naturale. Il manufatto si compone di due muri non perfettamente ortogonali messi in luce per una lunghezza di circa due metri e conservati in alzato per quattro corsi regolari di pietre a 80 cm dalla risega. Le poderose murature, dello spessore compreso tra 115 e 117 cm, costruite con paramento di pietre sbozzate, riempimento a sacco e grossi massi angolari sono pertinenti alla cinta o ad un edificio di cortina che si addossava ad essa. Il materiale lapideo della costruzione, principalmente marne e calcari, è stato ricavato sfaldando la roccia in posto; la malta è friabile, con inclusi di diametro variabile tra 0,2 e 0,7 cm, di colore biancastro. Nell’angolo interno, a una distanza di circa 30 cm, si incastrano alcuni blocchi di pietra di grosse dimensioni sovrapposti e incrociati a formare un basamento, elevato per 60 cm dallo sterile. Le pietre sono legate da una malta scura, poco resistente e mista a terreno argilloso. I limiti di scavo non consentono per il momento di comprenderne tipologia e funzioni. Al perimetrale sud della cortina si addossa una muratura (US 2014) dello spessore di circa 95 cm, scavata per una lunghezza di circa 5 metri, di cui si riconosce solo il primo corso di pietre poggiate sullo strato sterile. Tale muro, pur in assenza di rapporti stratigrafici diretti, appartiene plausibilmente ad una torre di cui si conserva in alzato per circa 1 metro l’angolo sud-est. La tecnica costruttiva è assimilabile a quella impiegata nella cinta, sennonché si rileva l’utilizzo di un legante tenace, ricco di calce. Inoltre, questo secondo paramento è realizzato con conci di dimensioni più omogenee, non solo sbozzate ma anche squadrate, una cura che riflette la possibile funzione residenziale e non strettamente militare del manufatto. I livelli d’uso pertinenti a questa prima fase costruttiva, individuati solo all’interno della torre, si presentano molto deteriorati e poveri di materiali, in parte per l’azio- ne delle radici delle piante, in parte per la vicinanza alle quote attuali di calpestio: gli strati di frequentazione moderni e contemporanei sono a stretto contatto con quelli medioevali. Lo strato che si appoggia ad US 2014 è molto compatto, ha una matrice limosa di colore giallo con frammenti di laterizi sbriciolati, grumi di calce e carboncini, e uno scheletro di piccole pietre e ciottoli. Verso il limite meridionale di scavo lo sterile è coperto da una lente limosa di colore scuro in cui sono immerse pietre di medie dimensioni e che presenta tracce rossastre di combustione. Nelle tasche rocciose sono stati rinvenuti frammenti di pietra ollare, una lama di coltello in ferro, alcuni chiodi a testa rettangolare e una moneta argentea della seconda metà del XII secolo a nome Enrico Imperatore della Zecca di Milano. Si tratta di un denaro terzolo scodellato del Sacro Romano Impero, di mm 16 di diametro, ascrivibile agli imperatori Federico I o Enrico VI (1152-1198), che per il momento rimane l’unico e il più sicuro elemento archeologico datante. Fase II Si assiste ad una riorganizzazione dell’apparato difensivo del castello: viene demolita la torre, viene ampliata la cortina verso ovest, si realizzano un nuovo muro divisorio interno di scarsa fattura e un gradino di collegamento tra i livelli più bassi della area occidentale e quelli con la roccia affiorante verso E. Viene distrutta la torre ad eccezione del perimetrale sud che viene utilizzato per la nuova cinta fortificata. Il perimetrale ovest è rasato a livello dello sterile e, parallelo ad esso, circa 20 cm più a W, si costruisce la nuova cortina muraria orientata N-S che si congiunge alla cortina più antica, ma non in perfetto allineamento con il suo perimetrale esterno. La nuova cinta è edificata con una tecnica a sacco; i paramenti tuttavia alternano corsi regolari di pietre sbozzate (dimensioni medie: cm 40×30×25) a filari di pietre piatte e larghe dello spessore massimo di 10 cm legate da malta. Il muro è visibile in elevato per 5-6 corsi, ha uno spessore massimo di 1 metro e misura circa 6,40 metri fino all’angolo che forma a S con un’altra muratura in allineamento con il perimetro sud della fortificazione: della prosecuzione verso E non si possono tuttavia osservare i rapporti fisici con la torre poiché rimane un’area non scavata di salvaguardia intorno ad una pianta. Dell’angolo resta lo spigolo interno, mentre sono franati a valle 2/3 del corpo murario con lo spigolo esterno. L’evoluzione delle tecniche murarie rappresenta un segno netto di cambiamento di maestranze, anche se i livelli di vita non presentano differenze significative rispetto ai precedenti, eccezion fatta per un attività da fuoco nell’angolo S-W della cinta. La superficie di combustione copre circa un metro quadrato ed è composta da terreno limoso di colore rosso intenso, nel quale sono immersi grumi di malta e calce e frammenti di cocciopesto. Sono stati ritrovati pochi carboni e qualche scoria di vetro fuso. Un’altra trasformazione è rappresentata dalla distruzione del tratto sud della prima cinta e di un muro E-W poggiante direttamente sul perimetrale est della torre. Di questo paramento si è scoperto un tratto lungo circa 2,40 metri e dello spessore di 55 cm: la struttura è stata rasata a 35-40 cm dallo sterile, presenta corsi irregolari di pietre di varie pezzature legate da malta biancastra ricca di calce. Alla fase di ristrutturazione sono pertinenti due livelli d’uso, rispettivamente a N e a S del nuovo muro divisorio che si diparte dalla cinta. A nord si distende uno strato di calpestio che si appoggia al perimetrale est della cinta e ne copre la rasatura di quello sud. La matrice limosa grigiogialla con incluse piccole pietre, grumi di calce e carboncini ha riportato numerosi materiali in vetro (frammenti di orli, pareti decorate, cordoni a sezione circolare), 2 scorie ferrose e ossa animali. ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 4 A sud, nell’area che precedentemente era occupata dalla torre, si riconoscono dei piani irregolari ottenuti dalla riduzione del materiale desunto dall’abbattimento della stessa. I riempimenti a ridosso della nuova cinta, costituiti da grossi blocchi di malta biancastra e pietre di varie dimensioni incastrati contro le fondamenta dei muri hanno restituito un numero considerevole di reperti, a conferma che il periodo di più intensa frequentazione del castello corrisponde alla prima fase di vita. Pianeggiando con materiale di cantiere il dislivello formatosi tra il naturale declivio della roccia e muro si allargava la superficie calpestabile all’interno della fortificazione. Il riempimento delle trincee di fondazione interne alla prima cortina ha restituito parecchi reperti vitrei, tra cui il frammento di stelo con base a tre piedi appartenente ad un calice, materiali ferrosi (chiodi, una grappa, una lama di coltello) e due fusarole rispettivamente in ceramica e in pietra. L’assenza pressoché totale di ceramica riconduce ad una cultura materiale povera basata su strumenti di legno. Le uniche eccezioni sono rappresentate da alcuni recipienti da fuoco in pietra ollare e da calici per la tavola in vetro decorato. La presenza di scorie di vetro fuso potrebbe riferirsi ad un attività produttiva in situ, oppure essere il risultato della distruzione del castello, o di una parte di esso, ma non sono state riscontrate diffuse tracce di incendio. Fig. 3 – Monte S. Margherita. Calice in vetro. Fase III In un momento ancora più recente la fortificazione viene abbandonata o distrutta, ma gli strati di demolizione, livellati con pietre disposte di piatto a formare un piano di cantiere, sono ancora interessati da attività antropiche. La cinta, tuttavia, doveva essere ancora parzialmente integra. Le strutture più recenti, il muro divisorio interno (US 2003) e il gradino sulla roccia (US 2004) ripartiscono l’area indagata in tre settori, a cui corrispondono tre differenti situazioni stratigrafiche. 1) Area a nord di 2003. Alle murature si appoggia uno strato con pietre di piatto in testa, che nella sezione artificiale creata sul limite di scavo misura cm 50-60: presenta matrice limosa gialla, tendente al grigio a causa dello sbriciolamento della malta, è scarsamente compatta e formata da uno scheletro di pietre sbozzate di medie e grandi dimensioni. È ricca di reperti ossei, di scorie vitree fuse e di qualche elemento di ferro. 2) Settore compreso tra 2003 e 2004. Pietre di medie e piccole dimensioni sono mischiate a blocchi di malta e cocciopesto in una matrice di terriccio marrone. Come nella situazione precedente, si riscontra un piano di pietre disposte di piatto, ma sopra un accumulo di spessore minore (cm 3040). Si sono trovati un vetrino, un frammento di macina in pietra e un ferro di cavallo. Su un asse immaginario E-W parallelo al muro divisorio e distante da esso circa 3 metri, sono state scavate due buche di palo quadrangolari riempite con zeppe di pietre allungate infilate di taglio. La prima misura 60×90 cm e in profondità arriva a scassare parte del muro 2014. La seconda si trova, invece, nell’angolo formato dal limite di scavo e dal gradino sulla roccia. 3) Settore ad E di US 2004. La roccia affiorante è parificata da uno strato di terriccio granuloso di colore marrone scuro, nel quale sono immerse pietre sbozzate di piccole e medie dimensioni e scaglie. M.N. REPERTI VITREI I frammenti di vetro, poco più di una ventina, sono per lo più di colore verde molto chiaro, sottili, con spirali di soffiatura e bolle, discretamente conservati, nonostante le ridotte dimensioni. Tra essi si hanno elementi poco caratteristici come gli orlini ingrossati o ripiegati a formare un sottile cordoncino, che possono essere attribuiti a bicchieri, di forme diverse, probabilmente a calice o su piede. Ad un calice appartiene anche un pezzo particolare, costituito dal gambo in vetro pieno, applicato ad una coppa di forma almeno inizialmente globulare; inferiormente il gambo presenta una specie di bottone che reca la traccia al centro dell’attacco del pontello e presenta un bordo più spesso. Al gambo erano attaccate tre protuberanze che dovevano costituire il piede vero e proprio: ne resta una sola, lunga ca 2 cm, leggermente ritorta e schiacciata all’estremità. Il vetro di questo oggetto è di colore verde chiaro, coperto internamente da uno strato biancastro, forse di deposito calcareo. Si tratta di un pezzo unico finora nel panorama dei bicchieri a calice: il gambo pieno applicato alla coppa, pur essendo meno diffuso rispetto al tipo cavo che implica la realizzazione del bicchiere e del piede in un unico tempo, è presente in età altomedievale (trova confronti in esemplari frammentari da Brescia, S. Giulia, UBOLDI 1999, tav. CXXV, 9; da Monte Barro in contesto di inizi VI sec., (UBOLDI studio in corso) e da S. Antonino di Perti, FALCETTI 1992, tav. V, 9-10, in fasi di fine VI-VII sec.). Gli elementi a goccia che costituiscono il piede, pur non trovando confronti precisi, richiamano i grossi filamenti applicati, ad onda o festone, terminanti con gocce pinzate, che decorano alcuni oggetti di Brescia S. Giulia (in particolare un calice su alto gambo, con festoni applicati attorno al corpo, di seconda età longobarda o più tardo, UBOLDI 1999, tav. CXXVIII, 8) e di S. Tomè a Carvico (un fondo convesso di coppa o lampada con festoni, UBOLDI studio in corso). Dallo stesso strato US 2010 proviene un frammento di fondo su basso piede costituito da un anello verticale in vetro pieno decorato con una serie di tacche oblique impresse. Il diametro del piede, di cm 5,8, induce a riferire questo fondo a una bottiglia o a una coppetta. Di particolare interesse sono alcuni frammenti di pareti con decorazione applicata, in vetro verde chiaro dello stesso colore della parete: il pezzo di dimensioni minori (da US 1202) sembra conservare parte di una decorazione a reticolo, l’altro (US 2006) presenta una decorazione più complessa, nella quale i due filamenti hanno un andamento molto più irregolare con parziali sovrapposizioni, l’andamento della pa- ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 5 rete cambia curvatura all’altezza delle linee applicate, aprendosi maggiormente, forse perché in prossimità dell’orlo. I sottili filamenti applicati a formare zig zag e motivi intrecciati caratterizzano la produzione vitrea del XIII-XIV sec., e sono particolarmente documentati su bicchieri e coppette nel Sud della Francia (FOY-SENNEQUIER 1989, pp. 232237), ma con numerose attestazioni anche in Italia (cfr. una coppa da FARFA-NEWBY 1991, fig. 9; ANDREWS 1977, tav. XXXVI, pp. 129-132), nella quale però predomina la ricerca del contrasto cromatico, tra i fondi quasi incolori e le decorazioni azzurre o bluastre. Recentissimi ritrovamenti stanno tuttavia mettendo in evidenza la presenza di tali decorazioni applicate (sia sotto forma di filamenti variamente disposti, sia sotto forma di gocce) in una fase più antica, da collocarsi già nell’XI sec. se non anche precedentemente (frammenti di pareti con filamenti applicati, in contesto di fine X sec. si sono rinvenuti nello scavo di Pellio Intelvi, CO, cfr. UBOLDI 2000; bicchieri con gocce o Nuppenbecher sono segnalati a Poggibonsi, nell’ambito dell’insediamento altomedievale, MENDERA 1996; STIAFFINI 1999). Si segnala a Monte Marenzo anche la presenza di frammenti di parete con traccia di losanghe e costolature ottenute per soffiatura entro stampo (US 1303, US 2005 e 2006). Questo tipo di lavorazione, tipica del periodo bassomedievale, dove si applica a bicchieri apodi e colli di bottiglie, era in uso anche in epoche più antiche. Presentano infatti le pareti decorate con rilievi prodotti a stampo il calice a colonnine di Monte Barro (UBOLDI 1991) e diversi altri frammenti non ricomponibili dallo stesso sito. La scarsità di esemplari integri rende a tutt’oggi praticamente impossibile stabilire una tipologia di questi oggetti, tuttavia il tipo di vetro e il rilievo più netto e con forme meno geometriche e regolari sembra costituire un chiaro elemento di distinzione tra questi oggetti e il cosiddetto “decoro ottico” Il gruppo dei reperti è completato da quattro frammenti difficilmente riconoscibili (tutti da US 2006) di forma circolare a sezione rotonda piena, con diametri tra 9 e 11 cm, probabilmente pertinenti a elementi decorativi applicati sulla parete esterna di recipienti, come sembra indicare un brevissimo tratto di parete che si mantiene aderente ad uno di questi elementi. M.U. IL “CASTRUM DE CANTAGUDO”: UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE Alcuni insediamenti a carattere militare conferiscono al territorio di Monte Marenzo (Marencio nelle pergamene del XII secolo) un importante ruolo strategico in età medievale di controllo delle vie di comunicazione provenienti da Bergamo e dirette a Como attraverso il ponte romano di Olginate (DEGRASSI 1946) oltre che del territorio stesso, oggetto di interesse sia da parte delle famiglie locali sia del monastero cluniacense di San Giacomo di Pontida (BONAITI 1996). Come per lo Scarlaccio, molti elementi hanno contribuito ad individuare, nell’area sommitale compresa tra l’oratorio di Santa Margherita e la cima, la presenza di un apparato difensivo ed indizi di una più antica frequentazione umana dell’altura: innanzitutto le cronache ottocentesche e, in particolare, le annotazioni di Giovanni Maironi da Ponte che nell’opera “Dizionario Odeporico della Provincia Bergamasca”, stesa nel 1819, riferì di avervi notato «…alcune vestigia di piccole fortezze»; quindi, la toponomastica che ha permesso di intravedere nella dedica a Santa Margherita, da equipararsi a quella di San Giorgio, un’intitolazione tipica di luoghi strategici o caratterizzati dalla presenza di fortificazioni. In apparenza, come per l’oratorio di Santa Margherita, poco si evince riguardo a questo sito dalla documentazione d’archivio disponibile (ed edita). Come abbiamo avuto modo di notare, l’oratorio nasce in epoca romanica e, stando alle decorazioni parietali conservate, vive sino al pieno rinascimento. La fortificazione recentemente messa in luce dagli scavi, più antica, può essere invece posta in relazione alle prime fasi dell’incastellamento, fenomeno collegato alla crescente insicurezza (dovuta alle incursioni) dei secoli IX e X ed alla contemporanea disgregazione dell’autorità regia e imperiale, nelle cui lacune si inseriscono progressivamente i signori detentori di castelli e delle prerogative proprie del potere pubblico. Essa può essere a ragione interpretata come la località di Cantagudo presente nella documentazione medievale dalla prima metà del secolo XII sino alla metà del XV e poi scomparsa. La prima attestazione di tale toponimo risale al 1135 e la troviamo nella già citata pergamena redatta a Pontida nel mese di giugno (cfr. nota 8) ove dominus Tedaldus monachus ac prior ecclesie et monasterii Sancti Iacobi constructi in loco qui dicitur Pontida appare impegnato in prima persona in una permuta di terreni siti nel territorio di Monte Marenzo con Lanfrancus filius quondam Unfredi de loco Villa modo autem habitare videtur in loco Cantagudo; si tratta dello stesso Lanfrancus de Cantagudo che interviene come testimone sia nell’atto di vendita rogato a Marenzo nello stesso mese ed anno sempre in favore del monastero pontidese (cfr. nota 9) sia in quello steso a Brivio nell’aprile del 1137 (cfr. nota 6). Stando a quanto emerge dalla prima pergamena Lanfranco, pur lasciando intuire una provenienza della sua famiglia dalla vicina località di Villa d’Adda, abita ormai stabilmente nella località di Cantagudo che, in quanto locus, si segnala quale vero e proprio insediamento costituito. Un particolare curioso, vede la presenza di un locus ubi dicitur in Cantagudo anche nella stessa Villa d’Adda (1432 ASB, Arch. Not. Notai, 248); senza addentrarci in ipotesi troppo azzardate, rimane comunque legittimo il dubbio che la nostra località possa aver ottenuto slancio proprio da alcuni esponenti dei seniores de Villa, ramificatisi nel territorio di Marenzo, detentori anche del castrum de Marenzio (poi, a partire dal 1238, pertinente al Comune di Bergamo) e già vassalli dei conti della medesima città nel secolo XI (LONGONI 1995). Nel 1287 (1287 mar. Marenzo, ASM F.do Rel. Perg., c. 38 n. 172), nel quale il priore maggiore di Pontida Bernardo de Alvernia riceve il giuramento di parecchi coloni di Marenzo con il relativo elenco di più di settanta appezzamenti ad essi affidati, il toponimo Cantagudo viene per la prima volta definito castrum. E come tale lo ritroviamo citato anche circa un secolo dopo, nel 1392 (Biblioteca Apost. Vat., Cod. Patetta, n. 1387 doc. 65), con la precisa ubicazione che ci permette di collocarlo a ragione proprio presso il Monte Santa Margherita: il sette e l’otto ottobre di quell’anno venivano cioè stabiliti i confinia communis de Marentio e i confinia communis de la Breta (l’odierno Comune di Torre de’ Busi). In entrambe le ricognizioni, infatti, si legge: «…Et ab ipso eundo (quello presso la petia terre buschive ubi dicitur ad Ronchum Vegium) recte et oblique per fillum coste de Cantagudo usque ad castrum de Cantagudo (recte) in medio castro. Et ab ipso termino seu castro recte eundo per suprascriptam costam ad unum terminum… (ovvero quello collocato nei pressi di una selva di proprietà di Martinus de Portulla, detta ad Cuminellum» (MARCHETTI 1996). Dal termine posto al “Ronco Vecchio”, dunque, non molto distante dal territorio di Caprino, il confine tra gli antenati territori dei moderni Comuni di Monte Marenzo e Torre de’ Busi correva diritto e poi obliquo lungo la costa (= dorsale) detta di Cantagudo sino a giungere al termine posto presso il centro dell’omonimo castello e poi proseguire lungo la costa in direzione dell’ulteriore termine di confine sito al “Cuminello”. Basta confrontare questa descrizione con una moderna carta topografica della zona ed il riscontro risulta immediato. E corroborato dalle recenti indagini di scavo archeologico effettuate sulla cima del Monte Santa Margherita. ©2001 Edizioni all’Insegna del Giglio - vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale – 6 Ancora nel 1456, ed è questa l’ultima attestazione a noi nota, la precisazione dei confini dei Comuni bergamaschi colloca di nuovo il castello al limite del territorio della Bretta. Ma coincidenza forse non casuale, buona parte del versante orientale del colle appartiene oggi alla famiglia “Agudio”, nel cui cognome non è difficile scorgere una qualche pertinente reminiscenza. F.B. BIBLIOGRAFIA ANDREWS D. 1977, Vetri, metalli e reperti minori dell’area sud del convento di S. Silvestro a Genova, «Archeologia Medievale», IV, pp. 162-189. BONAITI F. 1996, Il priorato cluniacense di San Giacomo di Pontida: fondazione e primo secolo di vita (1076-1203), tesi di laurea inedita, Milano, Università degli Studi, a.a. 1994/95. 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