Storia
medievale
eo
Lezioni di
Enrico Artifoni, Anna Benvenuti, Corrado Bologna, Paolo Canettieri,
Glauco M. Cantarella, Sandro Carocci, Guido Castelnuovo,
Pietro Corrao, Mario Gallina, Paola Guglielmotti, John F. Haldon,
Cristina La Rocca, Federico Marazzi, Massimo Miglio, E. Igor Mineo,
Reinhold C. Mueller, Massimo Oldoni, Giuseppe Petralia, Walter Pohl,
Serena Romano, Aldo Schiavone, Giuseppe Sergi, Marco Tangheroni,
Gian Maria Varanini, Chris Wickham
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DONZELLI EDITORE
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STORIA MEDIEVALE
Russia 980-1584,
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the Roman-German En;ddle Ages, in Cities
xxI. Alle origini dell'Italia di antico regime
di E. Igor Mineo
in Europe,
Tilly e W Blockmarrs,
;co-Oxford, pp. 700-27.
Probleme der sozial- uJ
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( 1 3. - 1 8. J ahrhundert),
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Le Italie tardomedievali - Crisi comunali e decadenza italiana - La lotta politica tra ma- Nascita della signoria come <<espediente provvisorio» - Realtà signorili in Veneto, [-om.
Emilia-GliestensiaFerraraeidellaScalaaVernna-UascesadeiViscontiaMilano-Espansio-
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- L:Italia centrale: dinamiche signorili di coÉo respiro - Lfawento del rtgno angioino di
Vespri siciliani e Ia costituzione di un secondo <<regno»» - Il conflitto angioino-aragonese - Cr'fra
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Gli sviluppi del regno angioino
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La debolezza della comna in Sicilia
- Il modello
e la Sicilia del «pattismo»
-Aristocrazia e corona nella Napoli angioina - La potenza dei baroni Ma.imento del ruolo delle città - Tendenze oligarchiche - La Serrata del gran Consiglio a Yenezia - Il
.Srggimento» fiorentino - La creazione degli stati territoriali di Venezia e Firenze - L,a minaccia viscon=r - Territori già disciplinati dalle città - Sopravvivenza e integrazione della civittà comunale - La lunga
roilDanza da Roma: i papi ad Avignone - Rientro a Roma, scisma, ricomposizione - Fine del progetto
Èr.:retico: dalla rivendicazione universalistica alla dimensione regionale - I fondamenti del poter€ ponti«popolare»» di Cola di Rienzo - I domini papali: corcaita mediate e immediate subiectae - Le innovazioni istituzionali nei regni meridionali - La Sicilia nel'lrbita catalano-aragonese -Alfonso d'Aragona e la riunificazione dei regni -A Napoli - La nuova mapn dei poteri italiani - Il gioco della nuova competizione politico-militare - La caduta di Costantinopoli e
e grct di Lodi - Clientelismo istituzionale -Ascesa dei «condottieri» - Un primato politico, non una totair.t di poteri - Complessità di rapporti: le politiche fiscali e finanziarie - Il debito pubblico a Venezia, Ge»:' a. Firenze - Burocrazie centrali - Centralità delle corti - Declino? - Uideologia della «perdita delle li.
xnà comunali» - Dualismo - L'ideologia dello <<stato moderno in crisi,> - Una ricca gamma di esperienze
.suzionali - Italia e Europa,
i=:,: famiglie signorili e curia romana - Il tentativo
nda. Capitale guena e
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A. Gouroo
{ontpellier 1988, pp.
rr, a cura di
lo Castelnuovo ha steso
1..
Il problema.
[-a storia italiana medievale e moderna è stata costruita a lungo attorno al
pro-
:-:ma fondamentale dell'unità politica della penisola (per constatame l'assenza,
::l confronto con altre esperienze europee, e per lamentare i ritardi e le contraddidel processo nazionale). E assai significativo, a questo proposito, che per
=.rni
-i.:lro
tempo la storiografia abbia fatto ricorso alla nozione di particolarismo, proper
esaltare la tendenza negativa alla frammentazione di uno spazio a voca:::o
---ìne unitaria.
Ma è questa una chiave adatta alla comprensione del passato italiano, e di
:-rello tardomedievale in particolare?
In realtà i secoli che vanno dalla metà del Duecento alla fine del Quattrocento
:ettono in evidenza fenomeni di tutt'altra natura: la crisi della rete delle autono-
61.7
r.e rtarie
tardomedievali
Storia medievale
mie politiche comunali al centro-nord, e la prosecuzione, in forme parzialmente
nuove, della tradizione monarchica nel Mezzogiorno introducono infatti vicende
e processi istituzionali che conducono a una complessiva semplificazione della
geografia politica. Al termine di questi processi, più o meno alla metà del XV secolo, la parte centro-settentrionale della penisola, che nella piena età comunale
(poniamo, nel 1200) è un universo multipolare segnato da una ricchissima arti
colazione di poteri e di autonomie (città-stato, comunità rurali, dominazioni signorili ecc.), si è trasformata in uno spazio politico occupato, insieme con alcune
formazioni minori, da alcuni stati regionali di ragguardevoli dimensioni territoriali, protagonisti nello scacchiere europeo: la repubblica fiorentina, la repubblica di Venezia, il ducato di Milano, lo stato pontificio; tutte formazioni che con i
regni meridionali di Napoli e di Sicilia presentano adesso diversi, e inediti, punti
di contatto.
Quanto e come muta l'ltalia comunale nella transizione alla fase delle signorie
cittadine e poi a quella degli stati regionali? Che significati ha la divisione del regno norrnanno-svevo? Cosa rimane della sua tradizione istituzionale nei nuovi regni «angioino» e <<aragoneSe»? Sono dawero due Italie - due spazi omogenei e
divergenti - quelle che il modello comunale e il modello monarchico hanno consegnato ai tempi del tardo medioevo (e poi dell'età modema)?
2.
Crisi comunale
e decadenza
italiana
La lotta politica
tra magnati
e popolani
Le tappe della crisi comunale.
L idea fondamentale attorno a cui è cresciuta la storiografia sull'Italia tardomedievale è stata quella della crisi: crisi, in particolare, della città-stato comunale,
ovvero del modo di organizzazione della società e di inquadramento dei poteri
che aveva segnato in profondità il pieno medioevo italiano. Come vedremo più
avanti l'idea della crisi è stata per molto tempo amplificata in una visione più generale che fa coincidere con il declino delle istituzioni comunali I'avvio della decadenza stessa dell'Italia modcrna. Ma mentre la crisi delle «libertà comunali, è,
a partire da metà Duecento, un dato empirico indubbio, la «decadenza» italiana è
un oggetto assai meno determinato, sfuggente proprio perché inafferrabile è la dimensione che vi è sottesa, ossia l'Italia tutta, dalle Alpi alla Sicilia, come spazio
storico dotato alla fine del medioevo di una qualche coerenza.
Le ragioni e, soprattutto, i percorsi e gli sbocchi di quella crisi non furono infatti gli stessi dappertutto. Sicché è proprio dal momento in cui gli ordinamenti
comunali cominciano a conoscere serie difficoltà di tenuta che la carta dell'Italia
comunale più chiaramente si scompone e si differenzia, smentendo l'idea che l'area centro-settentrionale della penisola possa rappresentare, a questa altezza cronologica, un blocco unitario.
Vediamo, separatamente, i fattori (comuni) di crisi e i suoi diversi esiti.
La crisi comunale consiste quasi sempre in una crescente inadeguatezza delle
istituzioni cittadine a tenere sotto controllo e a disciplinare il confronto politico
tra ceti dirigenti assai eterogenei quanto a identità e a interessi: un'eterogeneità
618
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Alle origini dell'Italia di antico regime
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che aveva caratterizzato le società politiche comunali fin dall'origine, ma che si
complicò ulteriormente quando con la formazione del comune di «popolo» nuovi
soggetti sociali - diretta espressione dell'espansione delle società urbane a partire
dall'XI secolo - riuscirono ad affermare una presenza diretta nell'arena politicoistituzionale. Llemergere dal punto di vista istituzionale del «popolo>> non fu un
processo indolore: fenomeno di autodisciplina politica di una parte della società
urbana, esso si affiancò per qualche tempo al comune podestarile entrando in pericolosa competizione con quest'ultimo. La generale affermazione del comune di
«popolo» e la graduale marginalizzazione delle istituzioni podestarili non generarono però né duratura pacificazione né semplificazione del gioco politico. La fase
estrema della vicenda del «popolo» è segnata anzi in molti comuni dal ricorso allo strumento radicale della legislazione antimagnatizia, che dà la misura di quanto
esasperata fosse la tensione dello scontro politico e quanto poco la nuova organizzazione istituzionale riuscisse a contenere la complessa articolazione delle fazioni (cfr. la lezione xv).
Fu in questo contesto, segnato dalla violenza endemica e dall'instabilità del
gioco politico, che poté risultare naturale ricorrere alla sospensione delle garanzie
costituzionali e alla creazione di magistrature straordinarie monocratiche: in genere gli stessi organi di governo comunale (innanzitutto «podestà» e «capitano
del popolo») affidati per un lungo periodo o in perpetuo a un personaggio ritenuto
capace di sedare i contrasti e di ripristinare una continuità nell'azione di govemo.
La signoria, che poteva nascere come «espediente provvisorio, introduce un fattore di novità dirompente quando «cominciò a rompersi la prassi di conferire gli
alti uffici politici a durata assai breve, e si diede modo al magistrato o signore di
consolidare il suo potere personale e di prepararne la trasmissione ad altri membri
della sua famiglia" (Tabacco). Esemplare l'elezione a Mantova di Guido Bonacolsi, ratificata dagli organi del comune nel1,299 (vent'anni dopo la prima affermazione del nonno, nel1276): «Stabiliamo e confermiamo che l'egregio signore
Guido Bonacolsi sia fatto in perpetuo capitano generale della città e del distretto
di Mantova, e del comune di Mantova [...] e che possa reggere e govemare città,
distretto e comune di Mantova a suo libero, puro e generale arbitrio, decidendo di
propria iniziativa cum consilio et sine consilior,.
Laddove si manifesta la tendenza alla costituzione di poteri straordinari, al
conferimento di un'autorità monocratica e poi alla sua formalizzazione non si assiste dunque alla traumatica abrogazione delle istituzioni comunali. I processi in
questione sono di sospensione, a tempo più o meno determinato, di sovranità*
che all'inizio rimangono formalmente indiscusse (esemplare il caso veronese), e
poi di svuotamento graduale di ambiti di potere la cui configurazione istituzionale
si pretendeva non venisse intaccata.
Con tali caratteristiche, le <.signorie» cominciarono ad apparire in area padana:
in Romagna, in Veneto, in Lombardia. Benché limitate nel tempo, Ie dominazioni
sorte tra Veneto e Lombardia nella prima metà del Duecento nel quadro della tradizionale polarizzazione della politica italiana (fra un fronte guelfo e uno ghibellino, entrambi mobili e compositi sotto il richiamo nominale alla fedeltà al papato e
619
Nascita della
signoria come
<<espediente
provvisorio>>
Realtà signorili
in Veneto,
Lornbardia,
Emilia
Storia medievale
GIi estensi
a
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e i della Scala
a Verona
L'ascesa dei
Visconti
a
Milano
all'impero; cfr. la lezione xvr) sono state giudicate dalla storiografia anticipazioni
significative di tendenze destinate a divenire prevalenti pochi anni più tardi e proprio nelle realtà urbane che avrebbero conosciuto i più robusti sviluppi signorili:
così soprattutto quella di Ezzelino III da Romano su Verona, Vtcenza e Padova fra
i|1226 eil1259, e quella di Oberto Pelavicino su alcune città della Lombardia
occidentale negli anni sessanta. In entrambi i casi si tratta di grandi signori feudali
e capi militari privi di relazioni significative con le città che assoggettano (non
appartenenti cioè al novero dei loro ceti dirigenti), anche se, come sostiene Emesto Sestan, non è possibile immaginare una permanenza pluridecennale al potere
senza la costruzione di una robusta rete di collegamenti clientelari.
Al di là di vicende comunque legate alla parabola politica degli svevi (quella
di Oberto Pelavicino si chiuderà al momento della sconfitta di Manfredi; cfr. la
lezione xvr), le prime durature esperienze di govemo monocratico dei comuni vedono sia 1'affermazione di famiglie di origine aristocratica* (la cui forzaè in buona parte di tipo «feudale», fondata cioè su signorie rurali e fortificazioni, e aggregata dunque fuori della città), come gli Este a Ferrara o i Visconti a Milano; sia
l'emergere di personaggi provenienti dall'élite comunale, senza trascorsi «militari», come i della Scala a Verona e i da Carrara a Padova.
Quello ferrarese è il caso limite di un comune che non conobbe I'evoluzione
verso le istituzioni di «popolo" e nel quale la dialettica politica fu precocemente
ordinata attorno al confronto fra alcuni gruppi aristocratici, gli Adelardi, i Torelli,
gli Este. Questi ultimi, discendenti da una delle maggiori dinastie aristocratiche
italiche dei secoli X-XII, gli Obertenghi, risultavano prevalenti già negli anni
venti per affermarsi definitivamente, con Azzo vtt intorno al 1240. Allorché, nel
1264, ad Azzo succede il nipote Obizzo II, viene proclamato «governatore, rettore, generale e perpetuo signore della città di Ferrara e del suo distretto>>, formalizzaldo in tal modo il potere signorile di fatto esercitato fino a quel momento. A
Verona il percorso fu del tutto diverso: la famiglia che affermò la propria egemonia subito dopo la fine di Ezzelino era infatti quella preminente nell'ambito popoIare della città, mediante il controllo della domus mercatorum, la principale istituzione corporativa* della città. La domus e il partito popolare a essa collegato favorirono, in chiave antimagnatizia, l'affermazione di un capo, Mastino della Scala, che tra il 1259 e il 1262 sarebbe stato nominato prima podestà e poi capitano
del popolo. È interessante notare che questo tipo di definizione istituzionale del
potere del signore, desunta dalla sfera comunale, si mantenne per tutti i della Scala che si avvicendarono al vertice della città dopo la morte di Mastino t. Solo nel
1311 Cangrande, il massimo esponente della dinastia, ottenne da Enrico vn di
Lussemburgo il titolo di vicario imperiale, e con esso una forma di legittimazione
che rompeva con la tradizione politica comunale.
Meno precoce dell'esperienza scaligera, quella dei Carraresi a Padova maturò
nel primo ventennio del Trecento proprio nel vivo della pressione sviluppata da
Cangrande, che puntava a estendere su Padova la propria egemonia. Anche qui è
un acuto conflitto intestino a precedere la nomina di Giacomo da Carrara a capitano generale a vita e signore di Padova.
620
.-' : \.
Alle origini dell'Italia di antico regime
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:,::r'olgimento negli organismi di «popolo» e nel conflitto antimagaatizio. [-a pre-*:-.nz.a di Martino della Torre, dal 1259, era legata alla momentanea prevalenza
torze popolari e alla parziale emarginazione della componente aristocratica, più
=-:
di radicamenti signorili e più vicina all'autorità episcopale. Fu proprio da que:=:a
;: spazio sociale aristocratico che emerse la famiglia destinata a diventare il vero
:-::o
di equilibrio nel contrasto politico, ossia i Msconti, affermatisi già alla fine deMa anche i Msconti monopolizzano cariche di
(quelle di
"popolo»
..:ziano» e di «capitano"), fondando la propria superiorità sull'acquisizione di quelpatrimonio politico dinastico. Con essi la storia comunale ha formal= --ariche al
quando alla titolarità di diverse cariche comunali, Matteo Vifine
ne|1294,
--=:te
quella di vicario imperiale, già estesa a tutta l'area lombarda.
riesce
a
sostituire
-,--:rti
\lsconti e Scaligeri soprattutto, i Carraresi con assai minore incisività, sviluptr.rro ambiziose politiche di espansione territoriale. Dal punto di vista dell'evo-:one politica comunale esse introducono una variante che apparirà di grande
=-_=ificato: la fine dell'autogoverno non per processo endogeno ma per assogget:::1ento. Nascono così, per la prima volta, formazioni politiche pluricittadine,
:=-,e quali al governo dei vari comuni assoggettati sono associati i rappresentanti
:=-ìa città cosiddetta dominante.
l: traiettoria di allargamento del potere signorile, con l'acquisizione di ampi Espansionismo
-=itori, di signorie rurali, di comunità e anche di città, non si manifesta subito. GIi territoriale
S:aligeri, nell'età aurea di Cangrande (1291-1329), cominceranno con il sottomet:::e Mcenza, per poi estendersi verso Treviso, Feltre e Belluno, occupando infìne
?=Jova. Un ambizioso disegno espansivo che la morte di Cangrande troncherà
t-:rramente. Anche l'affermazione viscontea decolla nei primi decenni del Trecento
-:r'estendo, I partire da centri come Lodi, Pavia, Piacenza, quasi tutta l'odierna
.rmbardia. E la premessa da cui muoverà il forte dinamismo militare di Gian Ga..1770, unico signore dal 1385: un'iniziativa che diventerà il fattore propulsivo
:;i1e vicende politico-militari nell'Italia padana a cavallo fra Tre e Quattrocento.
Come nel caso delle maggiori signorie padane, anche altrove un fulcro di po::re a base cittadina può allargarsi e produrre l'assoggettamento di altre città: ac-:dde ad esempio agli Este ferraresi che già alla fine del Duecento controllavano
\fodena e Reggio.
E bene distinguere dunque, come processi qualitativamente diversi, i'afferma.:one ..interna» di una presenza forte, capace di condizionare il confronto politico
:= le fazioni e di esercitare un saldo controllo di fatto degli uffici comunali, fino
.ll'assunzione esplicita di un ruolo di preminenza; e la soggezione a un'autorità
nei casi fin qui esaminati una signoria cittadina o un intraprendente capo
=stema:
:ilitare, un libero comune o un'autorità di superiore peso intemazionale (come il
:apa, l'imperatore - fino a Ludovico il Bavaro -, o il re napoletano). Occorre dislinguere in altre parole fra quelle «signorie>> che furono espressione piena dei pro
--essi politici interni alle città e quelle in qualche modo sovrapposte a questi ultimi,
ieterminate, più casualmente, da emergenze di carattere militare; contingenze
:- =nni settanta.
621
Storia medievale
I-fltalia centrale:
dinamiche
signorili
di corto
respiro
esteme che potevano rivelarsi transitorie, consentendo il rapido ripristino dell':-tonomia, o invece coincidere con l'affermaziorre di un nuovo, forte polo egemo:co in un distretto, in una regione. Fu così che, come abbiamo visto, si formaro-.:
precocemente le prime strutture di potere pluricittadino, nel corso dell'afferma-z:ne degli Scaligeri e dei Carraresi in Veneto, dei Visconti in lombardia.
Ma l'Italia comunale non può essere collocata per intero, nel secolo compres:
frail1250 e il 1350, sotto il segno della «signoria>> (mentre quella dell'età prec.dente poteva, bene o male, essere tutta collocata sotto il segno del <(comune»): ::molte realtà, alcune di primissimo rilievo, come, Firenze, Siena o Perugia, furo::
invece questi i decenni di affermazione prima dei regimi di «popolo», e poi di irziali tentativi di restringimento in senso oligarchico dello spazio politico.
In quest'area la signoria si manifestò piuttosto come forma transitoria e traum]
tica dello scontro politico, e la spinta alla sperimentazione del governo signon.;
provenne da condizionamenti esterni, più che da processi interni alle istituzioni c.munali, dall'evoluzione dello scacchiere politico-militare regionale, più che da ro:ture dell'equilibrio interno. E questo appunto il caso della Toscana del primo Trecento ancora attraversata dalle lotte tra le fazioni, cioè tra guelfi e ghibellini. Fu iquesto contesto che si svilupparono le prime esperienze di tipo signorile: come
quelle dei condottieri di parte imperiale Uguccione della Faggiola, che nel 131i
venne nominato capitano di guerra, podestà e capitano del popolo a Pisa, occupando l'anno successivo anche Lucca; e Castruccio Castracani, nel 1316 signore oLucca e di Pistoia nel7325, anno in cui Castruccio ottenne una significativa vitto
ria militare contro la guelfa Firenze ad Altopascio. Furono appunto esigenze di difesa a spingere i fiorentini a invocare la signoria di Carlo d'Angiò duca di Calabria. Ma quando nel 1328 Castruccio morì, la sua dominazione si dissolse. Altrettanto effimero fu l'esperimcnto signorilc di Gualtieri di Brienne a Firenze fra 13.i1
e1343. Parzialmente diverso è il caso pisano, dove l'egemonia di alcune famiglie
(i Donoratico tra il 1317 e il 1347; gliAppiani alla fine del secolo) si intrecciava
alla persistente vitalità della politica comunale. Infine agli inizi del Quattrocento i.
predominio su Lucca di Paolo Guinigi durerà solo un ventennio.
Si trattava insomma di dinamiche di corto respiro, ben diverse da quelle che si
svilupparono in area padana, che non misero in discussione gli assetti istituzionali
dei comuni: in esse il conferimcnto di un potere straordinario a un'unica figura rimaneva strumento, non privo di rischi ovviamente, del gioco politico fazionario
interno. Al contrario, gli sviluppi più duraturi furono ispirati da una logica dettata
fondamentalmente dalla competizione fra le città maggiori, Firenze, Pisa e Siena:
grandi città comunali che, ncl corso del Trecento, entrarono in competizione per
l'egemonia regionale.
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3. Due regni al Sud.
Mentre nel cuore dell'Italia comunale il radicamento di vere e proprie dinastie
signorili cominciava a trasformare la geografia politica della regione padana, nel
ì_,.
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Alle origini dell'Italia di antico regime
pido ripristino dell,au
,o, forte polo
egemoni-
no visto, si formarono
corso dell'affermazio.
,ombardia.
l, nel secolo compreso
rno maturava, dopo la conquista del regno da parte degli angioini (nel
), il trauma della separazione della Sicilia.
Per molte ragioni, relative in gran parte al respiro intemazionale
dell'iniziativa
aggiola, che nel 1313
suoi maggiori esponenti (cfr. la lezione xvr), la fine della dinastia sveva rapta una delle discontinuità più significative nella politica italiana fra XII e
secolo. Al mutamento dinastico non corrispose invece una svolta altrettanto
sul piano sociale e istituzionale. Certo, con l'affermazione di Carlo d'Angiò
1266 mutò di segno la collocazione del regno sullo scacchiere europeo: spezl'asse con l'impero, esso si trovò saldamente integrato in un fronte egemodal papato, uscito vincitore dall'incerto confronto con Manfredi, e dalla
ia, che attraverso gli Angiò poteva allargare al Mediterraneo la sua sfera di
nza. Non solo; mutò in profondità la composizione dei gruppi dirigenti, atla massiccia immissione di personale di provenienza angioina-provenzanei quadri feudali e negli uffici, mentre la stessa matrice ideologica della modovette in parte essere riconfigurata per marcare Ia distanza fra la nuova
ità e l'identità ghibellina dei regnanti svevi.
Eppure, l'eredità del regno norrnanno-svevo si mantenne, nelle grandi linee,
:-stanzialmente inalterata: la funzione del sovrano all'interno del regno, l'artico.zione dell'apparato amministrativo, l'assetto normativo, il ruolo delle comunità
lpolo a Pisa, occupan-
:,::adine non subirono stravolgimenti. Avvenne anzi che per taluni aspetti, ad
. nei 1316 signore di
rna significativa vitto)punto esigenze di di'Angiò duca di Calarne si dissolse. Altretne a Firenze fra 1342
ria di alcune famiglie
secolo) si intrecciava
zi del Quattrocento il
-:mpio la precisazione dei carattcri giuridici della superiorità della corona - del: sua «sovranità, -, la prima età angioina sviluppasse principi e premesse già de-
: quella dell'età precemo del «comune»): in
iena o Perugia, furono
«popolo», e poi di iniazio politico.
ra transitoria e trauma-
del govemo signorile
emi alle istituzioni co
Iionale, più che da rotbscana del primo TreLelfi e ghibellini. Fu in
i tipo signorile:
come
io.
,'erse da quelle che si
lì assetti istituzionali
a un'unica figura rio politico fazionario
Ca una logica dettata
'irenze,
Pisa e Siena:
in competizione per
re e proprie dinastie
regione padana, nel
[.lawento
del regno
angioino
di Sicilia
-:eati nell'età precedente, e da Federico II in particolare.
I Vespri siciliani
Questa sostanziale continuità istituzionale ebbe fine, con la rivoltax popolare
:.: Vespri del1282, detta così perché scoppiata a Palermo la sera del 31 marzoi e la costituzione
'-nità del regno fondato da Ruggero It risultò allora spezzata, e nell'isola si costi- di un secondo
<<fegnO»»
-- un regno autonomo, impegnato in un lungo conflitto con quello che avrebbe
: - rrinuato a chiamarsi «regno di Sicilia» per gran parte del XIV secolo (ma che
.--l'isola non avrebbe più esercitato nessuna forma di governo). La svolta del Ve:::u-r. benché accesa da un tipico sollevamento urbano, fu determinata da ragioni
: - rplesse legate sia alla resistenza dell'identità «ghibellina» (filosveva, in questo
-".o) di una parte del gruppo dirigente siciliano, sia al risentimento nei confronti
:=-:a decisione di spostare definitivamente sul continente, a Napoli, il centro del
:--\erno regio; sia ancora ai progetti del re d'Aragona, Pietro III, che fu subito
:---tr-olto nelle vicende siciliane dalla componcnte fiolosveva dell'aristocrazia.
\=-i'assunzione della corona siciliana il re vidc infatti l'opportunità di un forte al--slmento della sfera di influenza catalano-aragonese (cfr. la lezione xvll).
L'intervento di Pietro proiettò il Vespro in una dimensione intemazionale, ali- It conflitto
:-=-io-ghibellina, una situazione d'incertezza circa gli sbocchi della crisi che si
---t:eme per circa un ventennio. Già la scomparsa insieme del re d'Aragona e di
*-; c d'Angiò, nel 1285, produsse una sostanziale alterazione del quadro inaugura: ::: anni prima: alle difficoltà del regno angioino (fino al 12BB senza re, giacché
--;-.-r rr era prigioniero dei catalani a Barcellona) i successori di Pietro, Alfonso ul e
623
aragonese
Storia medievale
Cilra pharum
e ultra pharum
Gli sviluppi
del regno
angioino
poi, dal 1291, Giacomo II, non contrapposero la prosecuzione pura e semplice della
linea del padre, ma un indirizzo che mirava all'accordo con il papato e con Napoli.
Fu così che si giunse nel 1295 a un trattato, siglato ad Anagni, con cui Giacomo rr
rinunciava alla Sicilia per ottenere l'investitura papale di Sardegna e Corsica. L'accordo fu annullato però dall'indisponibilità della Sicilia (le città in primo luogo): il
fratello di Giacomo, Federico, fu persuaso dalle forze eminenti dell'isola -l'entourage di corte, i massimi capi militari, i rappresentanti delle maggiori città - ad accettare la corona siciliana e venne proclamato re nel 1296 a Catania, in eloquente
continuità con la tradizione dinastica sveva, come Federico ru. In tal modo la corona
siciliana si distarcava anche da quella barcellonese: un esito imprevisto che avrebbe
alimentato nuovi conflitti, ma che più tardi, nel 1302, sarebbe stato accettato tanto
dal re d'Aragona quanto da quello napoletano e dal papa.
La data del1296, forse ancora meglio che non quella del 7282, segna la nascita di un regno destinato a occupare una posizione di rilievo, prima in condizione
di piena autonomia, fino al 1412, poi all'intemo degli «imperi» iberici dell'ultimo
medioevo e della prima età moderna. Si consolidava allora nel Mezzogiorno, a
pochi anni dal Vespro, un equilibrio affatto nuovo: diventava irreversibile la divaricazione fra i due regni di Sicilia, la Sicilia citra pharum («al di qua del faro>,,
cioè dello stretto: il regno continentale) e la Sicilia ultra pharum («al di là del faro>>: il regno insulare), come più frequentemente vennero definiti (la denominazione di regno di Napoli avrebbe cominciato a circolare alla metà del Trecento).
Si trattava di una divaricazione che rifletteva la collocazione internazionale
delle due monarchie: la più fragile corona siciliana risucchiata al centro delle relazioni del fronte ghibellino e imperiale, quella angioina che rappresentava il cuore
stesso del guelfismo. Furono soprattutto Federico nt in Sicilia (1296-1337) e Roberto t a Napoli (1309-43) a incarnare, anche nelle rappresentazioni letterarie, le
tradizioni ideologiche che in qualche modo continuavano a dare forma ai conflitti
politici di respiro sovraregionale. Non solo: furono ancora Federico e Roberto i
sovrani che seppero meglio esprimere all'intemo dei rispettivi regni, nel corso del
XIV secolo, programmi di governo volti a consolidare le due diverse realtà nate
dalla dolorosa frattura de\1282.
Alla loro morte, per ragioni del tutto diverse, i regni meridionali conobbero
una lunga fase di difficoltà coincidente con il graduale indebolimento politico
delle corone e della loro capacità di tenere sotto controllo la competizione politica, soprattutto quella che si sviluppava, fra le fazioni aristocratiche, dentro e fuori
lo spazio della corte e delle più alte cariche regie. A Napoli la crisi di autorevolezza della corona fu complicata da difficili passaggi dinastici e dalla stessa dimensione internazionale degliAngiò, da quella trama di rapporti cioè, anche di tipo
matrimoniale, che legavano gli Angiò napoletani a quelli ungheresi e a quelli del
ramo principale provenzale, e che autorizzavano il coinvolgimento di questi ultimi negli affari intemi del regno italiano. l,a stagione convulsa di Giovanna r, deposta nel 1381, fu segnata esemplarmente tanto dalla pressione di Luigi re d'Ungheria quanto dai persistenti legami della regina con gli Angiò francesi; legami
che ispirarono, nel clima del Grande scisma (sul quale torneremo), la decisione di
624
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Giovanna di nominare suo successore, nel 1380, il conte di Provenza Luigi d'Angiò (fedele a Clemente vtù. Il papa romano Urbano vr gli oppose allora Carlo di
Durazzo, esponente di un ramo cadetto degli Angiò napoletani ma che per breve
tempo fu anche re d'Ungheria: da qui ebbe origine un lungo conflitto armato fra
angioini e durazzeschi che si sarebbe concluso solo alla fine del 1399, con l'affermazione di Ladislao, figlio di Carlo tu. Un'affermazione non duratura perché la
successione di sua sorella Giovanna al trono nel 7474 risollevava, data l'assenza
di eredi diretti, l'annosa questione dinastica: Giovanna infatti designò prima
Alfonso v d'Aragona e poi Luigi m d'Angiò. Si apriva così la strada, come vedremo meglio oltre, all'affermazione aragonese in Italia meridionale.
In Sicilia Ia debolezza della corona fu il riflesso invece, tra gli anni quaranta e
gli anni ottanta del XIV secolo, di un lungo conflitto fra fazioni aristocratiche che
puntavano, per prevalere, sull'occupazione dei maggiori uffici dello stato, alcuni
dei quali conservati per via ereditaria alla stessa famiglia per due o tre generazioni, sul controllo delle maggiori città demaniali* e sulla protezione della persona
del re, unica vera fonte di legittimazione. L'azione della maggiore aristocrazia
condusse anche, alla morte di Federico w nel1377, a una temporanea condizione
di vacanza del trono, durante la quale il regno venne governato, ciascuno all'interno della propria area di influenza, da quattro vicari, cioè i capi delle famiglie
eminenti: uno squilibrio intollerabile anche per coloro che lo avevano favorito, e
che suscitò pertanto la ricerca di una possibile via d'uscita, ossia di un nuovo re
per la corona vacante. Come vedremo la soluzione, non indolore, emerse ancora
una volta, nel1392, nell'ambito della dinastia regia barcellonese.
La separazione fra un regno continentale e uno insulare non si consumò, fra
Due e Trecento, solo sul piano del ruolo e della diversa dislocazione nella mappa
politica mediterranea: gli assetti sociali interni subirono trasformazioni piofonde
e la comune tradizione normanno-sveva continuò in direzioni divergenti. Vediamo in che modo a cominciare dalla Sicilia.
Nel 1282 si costituì un regno autonomo. Ma le intense relazioni che la Sicilia
allacciò con la corona aragonese consentirono la circolazione di nuovi modelli
politico-istituzionali di matrice iberica. In particolare venne importato di un modello di rapporti fra corona e soggetti politici (tra cui i titolari di giurisdizioni signorili e le comunità cittadine) diverso da quello, marcatamente verticistico e autoritario, che era stato sperimentato in età sveva. Questo piano di relazioni istituzionali, definito già da alcuni autori del tempo sotto la sigla del patllsrzo, consentì
da un lato il rafforzamento della nuova dinastia, dall'altro una serie di mutamenti
che avrebbero inciso in profondità nel tessuto politico dell'isola, con effetti di
Iunga durata che avrebbero superato le fasi tormentate della seconda metà del
Trecento. L-introduzione di assemblee rappresentative (parlamenti*) che, sul modello delle cortes iberiche, coadiuvassero il re nell'azione legislativa rappresenta
naturalmente un primo significativo segnale della tendenza au;n prudente allargamento dello spazio decisionale (tendenza condivise dalla corona angioina che cominciò anche a Napoli a convocare assemblee parlamentari). Soprattutto negli anni di Federico ltt la corona guidò poi una graduale quanto profonda trasformazio625
La debolezza
della corona
in Sicilia
Il
modello
iberico
e la Sicilia
del «pattismo>>
Storia medievale
Aristocrazia
e corona
nella Napoli
angioina
La potenza
dei baroni
ne della geografia amministrativa: l'obiettivo era quello di decentrare una serie di
funzioni e di rafforzare nel contempo la rete delle città demaniali, vero punto di
forza finanziario e politico della corona. E a partire da Federico che le città siciliane, realtà tradizionalmente molto dinamiche sotto il profilo demografico e sociale, assumono un grado significativo di autogoverno, diventando, per la prima
volta, veri corpi politici.
Se volgiamo l'attenzione al regno napoletano percepiamo uno scenario significativamente diverso. Dal punto di vista di Napoli, il Vespro aveva non solo
comportato l'amputazione di un'area decisiva come la Sicilia, ma aveva pure costretto i successori di Carlo d'Angiò a un estenuante impegno militare che alla
lunga avrebbe condizionato gli orizzonti della monarchia meridionale. Anche a
causa di questo impegno, che si sarebbe protratto, con lunghe pause, per buona
parte del Trecento, emerse ben presto l'esigenza di un significativo cambiamento
nel modello di monarchia, un'esigenza dettata dalla necessità di consolidare il
consenso attorno alla corona. Sia l'aristocrazia signorile che il mondo delle città.
e in particolare i ceti urbani agiati e proiettati verso la condizione nobiliare, chiesero tempestivamente un riequilibrio nella distribuzione dei poteri, al fine di aprire spazi di promozione e di privilegio ben più larghi di quelli definiti dalla monar-
chia normanno-sveva.
Espressione precoce di questo orientamento furono, nel 1283 (in una fase di
difficoltà per la corona, assente re Carlo dal regno), i capitoli di San Martino, norme regie che disegnavano un contesto istituzionale in cui più forti apparivano le
limitazioni all'autorità della corona e più ampio lo spazio occupato delle forze
aristocratiche. A San Martino i grandi signori laici ottennero dunque vari privilegi
fra cui l'immunità dal dazio dovuto alla corona per I'esportazione dei cereali, l'istituzione di un foro privilegiato per le controversie fra feudatari, una significativa riduzione del servizio militare obbligatorio, la giurisdizione penale all'interno
dei propri feudi (con la conseguente limitazione della competenza della giustizia
regia ai soli reati di sangue). Era una linea che sarebbe stata confermata poco
tempo dopo da papa Onorio rrr - reggente durante la prigionia di Carlo u - che nel
1285 emanò una Constitutio super ordinatione regni Siciliae in cui, fra l'altro,
svaniva del tutto lalicenza regia per i matrimoni dei membri delle famiglie baronali e risultava ulteriormente ristretto I'ambito d'intervento dei giustizieri regi alf interno dei domini signorili.
Ir ragioni di questa politica, che non sarà contraddetta da Roberto, sono complesse e non del tutto chiare. Certamente pesò la preesistente robustezza della rete
signorile, molto più estesa e ramificata che in Sicilia, che Federico II aveva provato a comprimere ma che al tempo di Manfredi aveva trovato nuove occasioni di
sviluppo. Era una rete che comprendeva anche grandi «stati» feudali, dotati di
ampia autonomia giurisdizionale e di proprie strutture burocratiche: si pensi solo
al potente principato di Taranto, che era stato creato proprio nel 1240 per Manfredi o al ducato di Calabria. È certo tuttavia che decisive furono, nell'orientare la
politica feudale dei re angioini, specie al tempo di Roberto, la richiesta di consenso e le esigenze pressanti di copertura finanziaria alimentate da un'ambiziosa, e
626
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a corte dei grandi banchieri fiorentini e che spiegano, tra l'altro, la permeabilità
dello spazio napoletano all'insediamento di nobiltà esterne come quella romana
(Orsini e Colonna soprattutto). Il rafforzamento del giado di autonomia delle città
demaniali, fenomeno che caratterizza anch'esso il Trecento angioino, non sembra
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sia stato tale da bilanciare la crescita della presenza baronale, se non altro perché,
con l'eccezione di Napoli, la consistenza della rete delle città si mostrava, iq larghe parti del territorio del regno, debole e discontinua.
4. Città dominanti e cittò dominate.
Quello cittadino è già emerso come il tema attorno a cui ruotano gran parte
delle analisi sulla formazione degli spazi poiitici tardomedievali, in una qualche
misura anche nel Mezzogiomo monarchico (specie quello insulare). La ragione è
Mutamento
del ruolo
delle città
assai semplice: contrariamente a quanto si riteneva fino a pochi decenni fa, quando nella formazione dei governi signorili e poi dei più maturi stati regionali si leg-
il deperimento della vitalità politica delle città, oggi gli storici tendono a
scorgere (anche nelle fasi signorili della storia dei centri comunali, ad esempio
nella Verona scaligera o nella Padova carrarese) momenti di crescita economica e
istituzionale e, in generale, un migliore funzionamento delle strutture amministrative e una più coerente organizzazione di governo del territorio cittadino. k città
non declinano dunque, ci dicono gli storici, al tramonto della stagione comunale
strettamente intesa: mutano collocazione e, in parte, funzione, mantenendo tuttavia forza economica e centralità istituzionale.
Su questo tomeremo. Adesso occorre ampliare e complicare il quadro delineato nel paragrafo 2. Riprendiamo per un momento il punto di partenza, le fibrillazioni del sistema politico comunale nel momento in cui si aggravarono le lacerazioni del conflitto di fazione, in genere durante l'affermazione delle istituzioni di
«popolo». In questi frangenti, quando l'evoluzione istituzionale non venne frenata o guidata dall'imposizione di un'autorità superiore, è possibile assistere al manifestarsi di altri modi di raffreddamento della temperatura politica. Semplificando, nel corso del Trecento queste modalità coincidono con tendenze al restringimento in senso oligarchico degli spazi di partecipazione politica; tendenze che
manifestano esigenze affini a quelle che altrove consentivano la formazione di
governi monocratici: esigenze, a loro volta, innanzitutto, di pacificazione intema
e di controllo dell'ordine pubblico e poi anche di razionalizzazione amministrativa e di maggiore efficienza dei processi decisionali.
La competizione militare, sia quella che si svolge a livello locale e regionale,
sia quella che oppone le forze maggiori su un superiore scacchiere interregionale,
accelera ovviamente queste dinamiche, manifestando spesso l'urgenza di una
maggiore compattezza politica delle città: un pericolo o una qualunque pressione
esterna di carattere militare (una situazione endemica nell'Italia del Trecento e
della prima metà del Quattrocento) giustifica meglio, alleviandone i costi politici,
geva
627
Tendenze
oligarchiche
Storia medievale
La Serrata
del gran
Consiglio
a Venezia
Il
<<Reggimento»
fiorrntino
la rinuncia, da parte dei ceti dirigenti, alle forme tradizionali di partecipazione p.-litica, alla <<democrazia» comunale.
Il paradigma della formazione di un'oligarchia di govemo è fornito, con noi.vole precocità, da un comune dalle caratteristiche del tutto peculiari come Ven;zia, dove a partire dalla fine del XIII secolo l'appartenenza alla classe di goven:
diviene gradualmente una condizione privilegiata, cioè limitata a una piccola pa:te del corpo sociale e protetta da norme via via più restrittive. Vediamo brer -mente le tappe di questo processo. Nel 1297 uno statuto fissa le regole per appa:tenere, da quella data, alla categoria degli eleggibili al Maggior Consiglio, il m-simo organo comunale (Serrata del gran Consiglio). Da allora ne possono far p":te due categorie di cittadini: innanzitutto coloro che avessero fatto parte dell'org.no dal 1294 al 1297, e poi altri cittadini che potevano accedere per scelta c.,
Consiglio medesimo. Nel corso del Trecento tali regole si precisarono ulterit-:mente, mirando a connotare direttamente la condizione aristocratica delle far:.-glie. La transizione ha il suo momento cruciale nel 7323, quando viene sanc-::
che il candidato all'elezione nel Maggior Consiglio avrebbe dovuto dimostra:.
che il padre o il nonno ne avevano fatto parte. Nel 1376 arriva l'esclusione dei -gli illegittimi e nel 1381 un dccreto che promuove al rango patrizio trenta ligna:gi nuovi: dove appunto, in quest'ultimo caso, i destinatari del privilegio appaiL-r:-già i gruppi parentali, non più gli individui. Successivamente il criterio non su'r.sce più alterazioni, diventando fattore costitutivo dello stile politico veneziai:
solo nel 1422viene fissata una norma che colpisce quanti, benché legittimi, sia---:
nati da madre non nobile. Nasce così un nucleo di aristocrazia urbana, rn poir.ziato, padrone dell'arena politica, e capace, nei secoli successivi, di assicurare
"-le istituzioni veneziane una condizione di formidabile stabilità.
In molte altre realtà si respira, negli stessi decenni a cavallo fra Tre e Quatt::cento, 1o stesso clima politico, segnato, in generale, dalla tendenza a delimit.:.
più chiaramente, e in senso oligarchico, l'accesso alla sfera politica, anche se m:,
prima della fine del medioevo con esiti così precisi e formalizzati come a Ver=zia.Ma va osservato che, a prescindere dal grado di definizione giuridica del p--vilegio, l'appartenenza alla classe politica diventava un fattore ereditario, e cr:
ciò un segno di distinzione aristocratica, sia, ad esempio, nelle città venete sc'-gette a regimi signorili, sia nei grandi comuni toscani come Firenze e Siena. A F-renze, in particolare, il processo si accelerò dopo la rivolta dei Ciompi dei 13-:
(cfr. la lezione xx): nel giro di pochi anni venne fissato nella continuità di parte; pazione ai massimi organi del comune un filtro di selezione, consentendo, ai p:,missimi del XV secolo, la delimitazione di un insieme di famiglie costituent- ,
cosiddetto Reggimento.
Ora, fra le città che in tempi e modi diversi conobbero fenomeni di transizio:,.
a regimi oligarchici, alcune seppero anche costruire, a partire dalla seconda m.-:
del Trecento, e poi soprattutto nel Quattrocento, grandi dominazioni territori"-assoggettando signorie, borghi, comunità contadine e soprattutto città, altri corr-ni. Mentre alcuni stati signorili perdevano via via slancio fino a implodere (co:-.
le signorie venete scaligera e carrarese agli inizi del XV secolo), nuovi stati n'628
i
--.--:
Alle origini dell'Italia di antico regime
i partecipazione Poè fornito, con noteeculiari come Vene.la classe di governo
ta a una piccola Par-
ve. Vediamo brevele regole Per apparor Consiglio, il masì ne possono far Parfatto parte dell'orga:edere per scelta del
precisarono ulterior;tocratica delle familuando viene sancito
re dovuto dimostrare
ra l'esclusione dei firatrizio trenta lignag:l privilegio aPPaiono
e il criterio non subie politico veneziano:
enché legittimi, siano
zia urbana, un Patrissivi, di assicurare altà.
rllo fra Tre e Quattrotendenza a delimitare
politica, anche se mai,
alizzati come a Veneione giuridica del Prittore ereditario, e con
nelle città venete sogFirenze e Siena.AFir dei CiomPi del 1378
a continuità di Parteci-
e, consentendo, ai Pri-
famiglie costituenti il
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ino a implodere (come
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scevano su impulso di grandi città comunali che provavano ad allargare significativamente il proprio spazio di egemonia. Le esperienze più importanti di formazione di vere «repubbliche» territoriali furono quelle che ebbero protagoniste Venezia e Firenze (possono essere accostati a tali esperienze, ma su una scala nettamente inferiore, anche il caso di Siena e, con caratteristiche del tutto peculiari,
quello di Genova).
I processi di costruzione degli stati territoriali fiorentino e veneziano mutano
repentinamente, nel giro di pochi anni, la mappa politica della Toscana settentrionale e del Veneto, e contribuiscono a cambiare anche la stessa natura istituzionale
del soggetto che ne è protagonista, la città dominante, che da città-stato si trasforma in centro di una repubblica oligarchica. Yenezia che per secoli aveva concentrato tutti i suoi sforzi nella costruzione, nei porti dell'Adriatico e del Mediterraneo orientale, di un variegato dominio da mar interamente funzionale ai suoi traffici commerciali, alla fine del Trecento occupava sulla terraferma solo il Trevigiano. La scelta di formazione di un dominio di terraferrna - forse maturata negli
ambienti di governo della Serenissima all'indomani della disastrosa guerra di
Chioggia del 1381 (cfr. la lezione xvu) - conteneva una profonda svolta strategica e una potenziale cesura nella storia della città. Tra il 1404 e il 7428 (l'anno della pace di Ferrara su cui si veda il paragrafo 7) il dominio di Venezia assorbì Viceiza, Feltre, Belluno, Verona, Padova, fino a raggiungere il Friuli da un lato,
Brescia e Bergamo dall'altro.
Per Firenze l'orientamento verso lo stato territoriale fu meno traumatico e più
diluito nel tempo: il comune disponeva già di un ampio e variegato contado, e nel
corso del Trecento aveva acquisito, in forme diverse, il controllo di alcuni centri
importanti come Pistoia, Prato, San Gimignano, Colle Val d'Elsa, Poggibonsi. Intorno al 1385 ebbe luogo tuttavia :un'eccezionale accelerazione del ritmo di
espansione del dominio insieme al riordino degli strumenti di governo del nuovo
spazio che si andava componendo: anche qui una svolta dunque. Nel 1385 venne
occupata Arezzo, tra il 1399 e il 1401 Pistoia perse definitivamente la propria autonomia e nel 1406, dopo un lungo assedio, venne conquistata Pisa, cioè l'unica
vera rivale di Firenze nella Toscana centro-settentrionale; successivamente, nel
1414, venne acquistata anche Livorno.
La sorprendente simultaneità dell'azione di Firenze e di Venezia, che nel giro
di pochi anni - gli stessi all'incirca - costruirono domini di ampie dimensioni
(estesi, quello fiorentino per circa 12000 kmq, e quello veneziano per circa
30000 kmq), ha una ragione comune: la necessità di arginare l'espansione viscontea, che negli anni di Gian Galeazzo aveva raggiunto da un lato Padova, Verona e Yicenza (nel 1387), dall'altro Pisa (ceduta nel 1399 al duca da Gherardo
d'Appiano), Siena e Perugia (che nello stesso anno gli si erano sottomesse) e infine Bologna (acquistata nel 1400).
La contingenza, cioè la minaccia viscontea, attivò un processo che aveva evidentemente ragioni molto profonde, se condusse alla nascita di formazioni politiche fra le più stabili fra quelle di antico regime. Soffermiamoci brevemente su tale processo. Si tratta di mettere in luce in che modo poté avvenire l'aggregazione
629
La creazione
degli stati
territoriali
di Venezia
e Firenze
La minaccia
viscontea
Storia medievale
di rn nuovo territorio politico. Nella formazione tanto dello spazio fiorentino come di quello veneziano emergono le risposte, non del tutto convergenti, offerte a
un problema comune, che ricorre in altre vicende di costruzione dello stato regionale (quello lombardo o quello pontificio, ad esempio): quale collocazione offrire
alle città assoggettate.
Occorre considerare che il processo di espansione tenitoriale aweniva, in Togià disciplinati scana o in Veneto, a spese di comuni cittadini, alcuni di grande peso politico e
dalle città
economico (basti pensàre a Pisa, a Verona a Padova), assai più che a danno di signorie rurali o di ambiti di giurisdizioni feudali: nel senso che era l'assoggettamento della città, elemento centrale del paesaggio politico, il fattore che determinava il successo o l'insuccesso di una strategia espansiva. Altri tipi di autonomie
(quelle di tipo signorile essenzialmente) erano diventate presenze assai sporadiche in quello stesso paesaggio. Con ciò il nascente stato regionale acquisiva - ovviamente beneficiandone - i risultati dell'opera di profondo rimodellamento politico dei tenitori - i contadi - sui quali nel corso dei secoli precedenti i comuni
avevano costruito il proprio dominio (cfr. la lezione xv), ridimensionando o
emarginando appunto i poteri signorili. Naturalmente non era così dappertutto: in
Piemonte, in Romagna, in vaste zone dell'Appennino tosco-emiliano i processi di
formazione di più larghe dominazioni territoriali (si pensi al principato estense, a
quello sabaudo, ad alcune direttrici della stessa espansione florentina) incontravano più spesso, sul proprio cammino, articolate strutture signorili; ma in generale
Venezia e Firenze si confrontarono con territori già disciplinati dall'azione delle
città, già configurati dal predominio di queste ultime, e dunque ad esse vincolati
da profondi legami economici e istituzionali.
I,e risposte offerte dalle due dominanti dovevano tenere in conto questa condizione di strutturale simbiosi fra città e contadi, e furono risposte parzialmente diverse. Venezia mirò sempre a rispettare l'equilibrio politico e istituzionale preesistente nei territori che passavano sotto la sua sovranità; tendeva cioè a lasciare
un'ampia autonomia ai ceti dirigenti dei comuni assoggettati e, di conseguenza, a
mantenere la distrettuazione tradizionale (rafforzata nel corso delle dominazioni
signorili trecentesche). Dato che i contadi restavano, in linea di massima, soggetti
alle proprie città e non passavano al govemo diretto della dominante, la geografia
territoriale che si era costruita in età comunale (che conseryava a sua volta più antichi modelli di inquadramento dello spazio) poté conservarsi sostanzialmente
inalterata in larghe zone dell'ltalia padana, per tutta l'età moderna.
In Toscana gli orientamenti della dominante furono parzialmente diversi: spesso fu scelta la via dello scorporo di parti del contado delle città soggette con l'imposizione di forme immediate di amministrazione, fiscale e giurisdizionale. La
politica fiorentina, producendo fenomeni di frazionamento degli antichi contadi, e
talora il totale annullamento (come nel caso pisano, per annichilire la forza dell'antico nemico) conservò meno gli assetti preesistenti e tese piuttosto a costruire
periferie, a governare cioè direttamente, con propri rappresentanti, città ed ex
contadi. Insomma, un caso di incisiva centralizzazione, assai significativo anche
se peculiare.
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630
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vicende dello stato visconteo-sforzesco assomigliano più a quelle veneziane che non a quelle fiorentine, e nella zona padana, o in quella umbra, dello stato
pontificio, dove più solida era stata la presenza di comuni, vedremo che il rapporto città-contado rimanà, nel corso del XV secolo, sostanzialmente rispettato.
ln ogni caso, l'immagine di una civiltà comunale sconfitta dall'affermazione
di poteri extracittadini, di origine signorile o feudale, appare del tutto incongrua.
Negli stati repubblicani siamo di fronte a iniziative di coordinazione territoriale
intraprese non da un principe ma da una città dominante, da un comune che riesce
a trasformarsi in centro di uno stato articolato e complesso. Per quanto riguarda le
città soggette gli orientamenti invece divergono. In Toscana, si manifestarono, ad
esempio, tendenze a imporre il forte controllo della dominante, tanto sul versante
dell'amministrazione della giustizia quanto su quello della gestione della fiscalità;
tenden":Ze cioè a governare direttamente i contadi delle città conquistate (e sono
tendenze che generano sofferenze e, più avanti, anche rivolte). Altrove è diverso,
e la costruzione di durature relazioni fra vertice dello stato e qomunità soggette
segue altre via. la repubblica di Venezia, ad esempio, dove era prassi consueta <<il
pragmatico rispetto da parte della dominante per le prerogative locali>> (Varanini),
appare come un mosaico istituzionale sul quale l'opera di direzione esercitata dalla dominante, pur capillare, non punta al livellamento del pluralismo di forze ereditato dall'età comunale e da quella signorile: rimangono in vita le istituzioni comunali e il sistema corporativo delle ceti mercantili (Brescia e Verona); il quadro
normativo statutario viene modificato ma non cassato; il carico fiscale delle comunità viene regolarmente negoziato e il sistema daziario non viene sconvolto. E
naturalmente i corpi aristocratici locali, i patriziati (che nascono su imitazione di
Sopravvivenza
e integrazione
della civiltà
comunale
quello veneziano), continuano a occupare lo spazio istituzionale loro riservato,
condividendo, sia pure in posizione subordinata, la gestione del potere locale con
i rappresentanti di Venezia.
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rdi massima, soggetti
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nichilire la forza dele piuttosto a costruire
esentanti, città ed ex
ai significativo anche
5. Uno stato per il papa.
Ia
costruzione dello stato pontificio segue in parte percorsi analoghi a quelli
delle altre formazioni monarchiche europee; in parte introduce nuovi elementi di
riflessione. Il papato manteneva infatti, sul piano istituzionale, caratteristiche del
tutto peculiari che lo differenziavano da altri poteri monarchici, e inoltre, nei due
ultimi secoli del medioevo, la sua storia subì profondi rivolgimenti, generati dapprima dal trasferimento delle sede pontificia ad Avignone, poi dalle lacerazioni
del cosiddetto «grande scismo>.
I-iallontanamento del papa da Roma non fu l'esito di una nitida strategia maturata a seguito dello scontro fra Bonifacio vlr e Filippo v (cfr. la lezione xu): fu il
pragmatico orientamento di Clemente v, un cardinale francese fatto papa nel
L303 due anni dopo la morte di Bonifacio vtII, e che nel 1309 fissò la sua residenza inAvignone. Clemente intendeva rinviare il problematico impatto con il turbolento mondo politico dell'urbe e ribadire, attraverso il rapporto privilegiato con Ia
631
La lunga
lontananza
da Roma:
i papi
adAvignone
Storia medievale
corona francese,
i
contenuti tradizionali della politica pontificia, quelli elaborati
XIII secolo e sperimentati da ultimo nel corso del lungo conflit-
durante il XII e il
to con gli svevi.
Non è corretto considerare Avignone una sorta di oscura parentesi (di «cattiragioni della lunga
vità», come a lungo è stata definita) nella storia del papato.
lontananza da Roma sono ispirate da alcune tendenze di fondo della politica della
Sede pontificia, almeno dalla seconda metà del Duecento, quando maturò un nuo-
[r
Rientro
a Roma,
scisma,
ricomposizione
vo equilibrio fra le maggiori entità politiche dell'Occidente cattolico. Tale equilibrio era fondato sull'alleanza antisveva fra la corona francese e il papato, che non
si era sciolta dopo la sconfitta del nemico comune. Questo fronte comprendeva,
oltre al regno francese e al papato, anche il regno meridionale italiano e grandi
città comunali come Firenze, e poté allargarsi, proprio nel periodo avignonese,
anche all'Europa centrale (la corona d'Ungheria fu angioina tra il 1308 e il 1382).
Se un programma il papato liberamente elaborò, fu quello dunque di rafforzare il
sistema politico guelfo, imperniato su Parigi, Avignone, Firenze e Napoli, e di rilanciare su questa base il suo ruolo politico sovranazionale.
Il legame con la corona francese precedeva dunque di molto il trasferimento
della Sede pontificia in Francia, e si rafforzò fino a sostituire quello tradizionale
con l'imperatore germanico. Il rientro a Roma voluto da Gregorio x nel 1377 non
chiuse pertanto un periodo di declino per aprire una stagione di rinnovata centralità
della monarchia papale in Europa. Al contrario, la fine della fase francese del papato significo la rottura di un equilibrio precario alf interno della chiesa occidentale, e alla riconquistata autonomia del papato dalla pesante tutela del re di Francia
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Era difficile infatti che una curia e un collegio cardinalizio composti in gran
parte da personale francese avallassero in silenzio la decisione di Gregorio x. Così nel L378, subito dopo l'elezione a Roma di Urbano vI, un gruppo di cardinali
francesi nominò un altro papa, Clemente vII, che scomunicando il primo ripristinò la sede avignonese. L'Europa si divise nella fedeltà ai due pontefici e per più
di trent'anni due chi.ese e due obbedienze si contesero lo spazio cattolico: in particolare la Francia, i regni iberici, e la Scozia si schierarono per Clemente vtI. Nel
1409 un primo tentativo di superare la crisi portò alla convocazione di un apposito concilio* a Pisa: venne allora eletto un nuovo papa, Alessandro v, ma la debole
rappresentatività dell'assemblea fece sì che i suoi deliberati non venissero riconosciuti, con l'effetto paradossale che un altro pontefice si aggiungesse ai due già
operanti. Una lacerazione di questa profondità richiedeva un'azione altrettanto radicale di rilegittimazione dell'intero sistema delle autorità ecclesiastiche. Maturò
dunque all'interno della Chiesa un vasto movimento conciliarista che opponeva
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vo incremento de
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Per capire me1
alla centralità istituzionale e carismatica* del papa romano quella della grande assemblea ecumenica di tutti i vescovi (una grande istanza autenticamente universa-
listica, che sarà ripresa solo nel XX secolo dal movimento che ha generato il
Concilio vaticano n).
Un grande concilio convocato nel141,4 a Basilea riuscì infine a comporre il
dissidio e a impone nel14t7 un nuovo, unico papa, nella persona di Martino v. I
632
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concili furono convocati numerosi durante e dopo lo scisma e per qualche tempo
sembrò che potessero in effetti agire come forti soggetti di governo accanto al papa; ma entro la metà del XV secolo la tradizionale concezione monarchica prevalse, spegnendo le aspirazioni alla rifondazione in senso diarchico dell'organizzazione ecclesiastica.
Se facciamo bene a sospettare di una troppo facile immagine di decadenza attribuita al papato avignonese, non abbiamo motivo di dubitare invece che questa
monarchia avesse pochi elementi in comune con quella dei papi del XII e XIII secolo (cfr. la lezione xvt). Alla luce degli sviluppi successivi, l'avvio della fase
francese (1309) segnò dawero il tramonto del grandc progetto teocratico di cui
pontefici come Gregorio vl, Urbano rr, Innocenzo Itt e Innocenzo Iv erano stati
interpreti prestigiosi, e che nella sconfitta degli svevi era parso raggiungere un
momento effimero di piena realizzazione. La chiesa che uscì dalla stagione avignonese e poi da quella dello scisma occidentale (nello scorcio degli anni dieci
del Quattrocento) era totalmente diversa da quella di cui Bonifacio vru aveva ribadito l'indiscusso primato, valido nei confronti di ogni potere temporale.
Il papato dovette infatti deporre, sul piano politico, quasi ogni ambizione di
universalità e di primato europeo per diventare, gradualmente,forza regionale, legata ai domini territoriali dell'Italia centrale. L età dello scisma, proprio perché di
grandissima debolezza per il papato, era anche stata quella in cui si erano intensificate le rivendicazioni di una parziale autonomia delle chiese nazionali, vale a dire di una minore centralizzazione della gestione dei benefici* disseminati in tutto
il mondo cattolico: da qui appunto la necessità di un governo più accorto delle risorse disponibili nell'ambito dei diretti domini del papa. A partire da Martino v la
gestione delle terre pontificie cambiò significativamente indirizzo, con un effettivo incremento della capacità di controllo di uno spazio sottoposto, fino ad allora,
a una sovranità quasi dappertutto meramente nominale.
Per capire meglio le ragioni della debolezza dell'autorità pontificia sulle terre
dell'Italia centrale formalmente sottoposte alla sua autorità occorre fare un passo
indietro.
Lo abbiamo accennato: il papato è una monarchia anomala, rispetto ai modelli
che si affermano in Europa occidentale. Il carattere elettivo determina infatti non
solo che, come è ovvio, non possa fissarsi una continuità dinastica, ma anche che
non possa consolidarsi, come avviene altrove, uno spazio di domini signorili governato direttamente dal monarca (cfr. la lezione xttt). I veri radicamenti territoriali sono quelli sviluppati dalle grandi famiglie aristocratiche (dalle cui file molti
papi provennero), non quelli del pontefice in quanto tale; per cui era normale assistere, alla morte del papa, a una complessiva redistribuzione di poteri e di ricchezze a favore dei familiari del neoeletto. In assenza di un vero spazio demaniale la possibilità di controllare efficacemente altre porzioni di territorio non andava
al di là, nel Duecento, dell'amministrazione di un certi numero di censi e di proventi, dovuti in ragione della superiore autorità del pontefice su quelle tere. Questa debolezza e questa discontinuità della capacità di governo delle terre che da
Innocenzo rrr in poi vengono riconosciute al dominio del papato è testimoniata dal
633
Fine
del progetto
teocratico:
dalla
rivendicazione
universalistica
alla dimensione
regionale
I fondamenti
del potere
pontificio:
famiglie
signorili
e curia romana
Storia medievale
fatto che nell'ambito di questi territori poterono svilupparsi, insieme a grandi
strutture di dominio signorile, anche autonomie comunali - nelle città dell'Umbria, della Tuscia, della Romagna e dell'Emilia - in forme del tutto simili a quelle
nel governo dei t
definito si sarebbt
Insomma, i dc
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stanzialmente libe
che conosciamo per l'area tosco-padana.
Ma alla fragilità dell'autorità temporale sulle terre rivendicate al proprio dominio in ltalia centrale si contrappone un grande sviluppo degli apparati di curia: il
processo di gerarchizzazione della struttura ecclesiastica, awiato a partire dalla
riforma gregoriana, sottopone la rete episcopale al controllo romano: un controllo
non solo spirituale e dottrinale, ma anche politico e economico. È qùesta la vera
centralizzazione che si realizza lungo il
l,a conclusionr
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che i pontefici fu:
XII e il XIII
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non avrebbe avuto riscontri in altre realtà politiche), bensì quella relativa al con-
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Già nel Duece
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governate da un s
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l'Occidente. La piena subordinazione al papato delle cariche episcopali e di quelle relative ai maggiori enti monastici si tradusse anche, se non nell'acquisizione
diretta, certo nella gestione di una parte cospicua dell'immenso patrimonio detenuto dalle chiese locali, fatto di diritti signorili, di censi, di decime*, di donazioni
pie: in una parola di tutte quei proventi che, intrinsecamente uniti a una carica ecclesiastica, costituivano il suo «beneficior, *.
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ze, come in Venel
Era soprattutto l'attività di attribuzione e di distribuzione di cariche e benefici
a fare del papato, specie a partire da lnnocenzo m, una grande potenza temporale.
Una potenza che aveva bisogno di una forte struttura burocratica: non a caso la
macchina che presso la Santa Sede produceva documentazione (la Cancelleria
pontificia) era di gran lunga la più sviluppata in Occidente e la burocrazia aveva
dimensioni paragonabili con nessuna delle monarchie tenitoriali.
Il tentativo Queste tendenze vennero confermate e accentuate ad Avignone. I.a struttura
«popolare» di curiale si sviluppò ulteriormente mentre la corte papale assunse anche la funziocoladiRienzo ne di grande Crocevia culturale (cfr. per gli
aspetti storico-artistici la lezione
xx); ma la presa del governo pontificio sui teritori dell'Italia centrale si indebolì ulteriormente lasciando campo sostanzialmente libero soprattutto all'iniziativa signorile (e anche agli esperimenti di governo monocratico all'interno dei
comuni). È in questo contesto che Roma, che si era sviluppata anch'essa a comune, vive l'esperietaa di Cola di Rienzo, una singolare figura di popolano colto e visionario che nel1,347, con il consenso della curia avignonese, s'impadronì
del Campidoglio proclamandosi «tribuno della pace, della libertà e della giustizia>>. Uideologia di restaurazione della romanità repubblicana lo spinse in breve
ad allargare le proprie ambizioni e a tentare il dialogo con altre città e con I'imperatore Ludovico il Bavaro. Giunse allora la tempestiva condanna di papa Clemente vl, preceduta però da una congiura aristocratica che interruppe nel 1450 il
progetto di Cola.
D'altra parte, proprio l'allarme che una situazione di questo tipo suscitò negli
ambienti della curia avignonese poté consentire un intervento per molti versi incisivo come quello del legato, cardinale Albornoz (tra il 1353 e il L367). Quello
dell'Albornoz fu soprattutto un riordino giuridico, non rappresentò alcuna svolta
1
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634
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nel governo dei territori pontifici, anche se l'inquadramento istituzionale allora
definito si sarebbe in gran parte mantenuto nei secoli successivi.
Insomma, i domini italiani del papa costituivano nel XIII e XIV secolo uno
spazio in cui reperire signorie e giurisdizioni per le clientele e i familiari del pontefice, nonché svariati tipi di redditi per le casse della curia, ma che rimaneva so-
ronese, s'impadronì
stanzialmente libero da condizionamenti.
La conclusione del grande scisma, segna in qualche modo, come abbiamo accennato, una cesura. Non che da allora si assista a una crescita lineare e omogenea delle strutture di govemo e del controllo territoriale; tuttavia non c'è dubbio
che i pontefici furono costretti ad affrontare più regolarmente il problema di una
efficace amministrazione dei loro domini.
Già nel Duecento le comunità che componevano tali domini si distinguevano
fra quelle mediate subiectae e quelle immediate subiectae. Mentre le prime erano
governate da un signore senza interferenza da parte del papa e dei suoi funzionari,
le altre prevedevano, in generale, una forma di governo mista: in parte esse erano
amministrate dagli organi della comunità, in parte da un rappresentante del papa
(un rettore o un legato). Ora, fra le terre immediate subiectae rientravano anche i
maggiori comuni cittadini (Bologna, Perugia, Ascoli, Macerata, Ancona), con i
quali, nel corso del Quattrocento, il governo pontificio stabilì rapporti formalmente nuovi: siamo così di fronte allo stesso problema affrontato, proprio nei medesimi anni, da Firenze e da Venezia. La soluzione, anche qui, non era sempre la
stessa e fu, volta per volta, contrattata con i ceti dirigenti locali. M furono casi nei
quali l'affermazione dell'autorità centrale fu forte, con l'incameramento, in particolare, di parti significative delle risorse fiscali; altri nei quali emergono tendenze, corne in Veneto, a rispettare la tradizionale integrazione fra città e contado e a
garantire la continuità delle forme di autonomia giurisdizionale e fiscale. La limilazione della piena autonomia delle città si manifestò, come in alcune realtà monarchiche d'oltralpe, con la sovrapposizione a questo complesso mosaico di potestà autonome (che per semplicità abbiamo ridotto alle sole città) da una parte di
una rete di uffici provinciali (in parte già esistente), come i tesorieri, incaricati di
raccogliere quanto dovuto alla Camera apostolica; dall'altra dei rappresentanti del
governo centrale, che in forme diverse da realtà a realtà, cogestivano con gli organi comunali il govemo locale. Una pragmatica dimensione diarchica che limitava
le occasioni di tensione ma rafforzava nel contempo la presenza pontificia nei ter-
bertà e della giusti-
ritori dell'Italia centrale.
lo spinse in breve
tre città e con l'imdanna di papa Cle:erruppe nel 1450 il
Leggendo, ad esempio, i capitoli che nel 1443 disciplinarono i rapporti fra la
Santa Sede e il grande comune di Bologna, è possibile toccare con mano questa
dimensione pattizia (o contrattuale) dei rapporti fra una comunità e un potere superiore, seppure nella versione più favorevole alla città soggetta: iurisdictio e dominium fino ad allora rivendicati alla sfera della libertà comunale vengono ceduti
al papa Nicolò v, al quale viene giurata fedeltà; ma la città ottiene che l'amministrazione rimanga principalmente autogestita, che le antiche magistrature proseguano nelle loro funzioni; che il legato pontificio deliberi sempre insieme ai massimi organi comunali.
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Storia medievale
6. L'egemonia
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Nei paragrafi precedenti abbiamo parlando di stati <<nuovi»: di casi cioè di costruzione ex novo di ambiti territoriali inediti, oppure di vicende, come quelle relative allo stato pontificio, proprie di una formazione politica non nuova, ma che
solo nel Quattrocento sembra assumere una fisionomia sufficientemente precisa.
È interessante tornare allora a considerare i regni meridionali per constatare
che anche queste realtà, pur dotate di un'identità territoriale indiscussa e, almeno
in apparenza, di strutture istituzionali più consolidate, tra la fine del Trecento e la
prima metà del Quattrocento sono teatro di importanti innovazioni politiche e istituzionali. I processi che mutano il volto del Mezzogiomo e della Sicilia vanno ordinati, per semplicità, all'interno di una precisa traiettoria che in parte conosciamo già: l'allargamento verso il Meditenaneo centrale e l'Italia della sfera di influenza dei regni iberici, e in particolare di quello catalano-aragonese che proprio
sul controllo di una gran parte del Mediterraneo aveva costruito la sua potenza.
L'espansione catalano-aragonese è stata già evocata in un'altra parte di questo
manuale (cfr. la lezione xvu): qui il processo di graduale assorbimento dei regni
meridionali nell'area di influenza catalana prima e castigliana poi va osservato da
un punto di vista interno ai regni medesimi, ricondotto cioè alle dinamiche endogene che lo resero possibile.
Per quanto riguarda il regno di Sicilia, sappiamo che per tutto il Trecento i rapporti con la Catalogna non cessarono mai di condizionare il sistema politico.
Quando scoppiò, nel 1377 ,la grave crisi dinastica che avrebbe lasciato per quindici anni la Sicilia senza re fu possibile dunque che fra le varie soluzioni prevalesse
quella ispirata da ambienti vicini alla casa regnante barcellonese. IJincapacità della società politica siciliana di formulare una propria ipotesi di sblocco della grave
situazione di stallo si incrociò con le ambizioni del fratello di Giovanni r d'Aragona, Martino duca di Montblanch, che nella crisi siciliana intravide una preziosa op
portunità politica. Il duca, disponendo il matrimonio fra suo figlio Martino e Maria, figlia del defunto re Federico rv, favorì la legittimazione del primo come pretendente al trono: era il primo passo di un complessivo progetto diplomatico-mili
tare finalizzato all'acquisizione della corona siciliana. L'intervento vero e proprio
ebbe luogo nel7392, un anno dopo il matrimonio: il duca e il figlio si trasferirono
in Sicilia a capo di una composita armata, fatta per lo più di piccola e media aristocrazia, che poté garantire l'incoronazione del giovane Martino (r) ma non la completa pacificazione: l'autorità effettiva, quella del duca, trovò resistenze diffuse in
vasti settori dell'aristocrazia che furono piegate nel giro di alcuni anni.
Benché il regno conservasse la propria autonomia è indubbio che la sua gravitazione nell'orbita catalano-aragonese si accentuasse notevolmente. Ancor più
questa tendenza si aggravò allorché il duca Martino successe al fratello sul trono
barcellonese nel 1395: i legami fra le due corone divennero allora strettissimi. E
quando poi Martino I di Sicilia morì senza eredi nel 1409 fu il padre a succedergli, riunendo nella sua persona le due corone. Da allora la Sicilia non ebbe più un
proprio re: era la premessa alla transizione che nel giro di pochi anni avrebbe de-
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finitivamente mutato la collocazione della Sicilia, attraendola nell'alveo del sistema istituzionale aragonese. Nel 1410 morì anche Martino il vecchio e si aprì a
Barcellona la difficile stagione dell'interregno, chiusa nel1412 con l'elezione di
Ferdinando di Trastamara, al quale venne anche attribuita la titolarità della corona
siciliana. È in quell'anno che ii inaugura formalmente la storia del viceregno siciliano, parte integrante della cosiddetta corona d'Aragona.
Questa vicenda, come pure quella più tarda relativa al regno di Napoli, giunge
proposito
a
nei discorsi fin qui fatti sui fenomeni di integrazione (non di scioglimento) di interi ambiti istituzionali in aggregazioni più vaste e composite. I.a Si-
cilia perse l'individualità dinastica, non perse il regno: secondo la dottrina
dell'«unione personale>» un re poteva essere titolare di più corone e farsi garante
della (relativa) autonomia di ciascun regno. Di fatto il regno mantenne, almeno in
parte, la propria individualità istituzionale e il proprio diritto, e anche il viceré, il
nuovo cardine istituzionale, poteva essere tanto iberico quanto siciliano: ciò non
toglie che il vero centro della legittimazione politica, la fonte del privilegio si fosse spostata lontano, a Barcellona.
L'ingresso di una realtà di per sé complessa come un regno di antica tradizione, all'interno di una dimensione geografica e istituzionale più vasta e differenziata culturalmente non è fenomeno riducibile a poche varianti. Ad esempio se è
vero che il regno mantenne la sua identità istituzionale (e non solo formalmente),
senza mai diventare provincia di un dominio accentrato, è anche vero che la circolazione di personale politico iberico favorì fenomeni di innovazione amministrativa al suo interno, specie nell'ambito dell'amministrazione finanziaria. Insomma come periferia di una complessa configurazione politica sovranazionale,
la Sicilia beneficiò della circolazione di uomini, di culture, di stili burocratici, rimanendo largamente «stato» e non perdendo neppure, in stretti termini giuridici,
la propria «sovranità».
La vicenda napoletana ha chiari punti di contatto con quella siciliana, anche se
i suoi esiti rimarranno largamente peculiari. Riassumiamo brevemente gli eventi.
La rinnovata crisi della corona angioina sotto Giovanna [ (salita al trono nel
7414), una crisi dettata dall'inasprirsi delle lotte di fazione, assunse caratteri di
spettacolare gravità quando la fragilità dell'equilibrio interno divenne occasione
per nuovi interventi estemi: del papa, della corona francese e degli Angiò d'oltralpe, del re aragonese Alfonso v, che nel 1416 era succeduto al padre Ferdinando.
Giovanna, impegnandosi, in tempi diversi, ad adottare Alfonso e Luigi Iu d'Angiò, prospettò a entrambi la possibilità di legare Napoli all'una o all'altra dinastia.
Alfonso v, che progettava l'espansione dell'area di influenza catalana verso il
centro del Mediterraneo, decise di investire cospicue energie militari e finanziarie
nell'impresa napoletana: costituendo la Sicilia come piattaforma logistica e prezioso serbatoio di risorse, condusse una logorante guerra di conquista che in più
di un'occasione sembrò a un passo dal fallimento. Dopo la morte di Giovanna nel
1435 (che seguiva di un anno quella di Luigi ur), mentre a Napoli il trono rimaneva di fatto vacante, era necessario che trascorressero altri sette anni prima che
Alfonso riuscisse nel1442 a fare il suo ingresso trionfale nella capitale.
637
Alfonso
d'Aragona
ela
riunificazione
dei regni
Storia medievale
ANapori
Alfonso operò a quel punto una scelta dalle profonde implicazioni: volle cioè
fissare a Napoli la propria residenza, facendone il centro di un sistema politico (la
corona d'Aragona) che era anche un impero commerciale: un impero che, sotto la
sua spinta si era allargato verso Cipro, la penisola balcanica, l'impero orientale.
I-a coordinazione e il governo di questo impero erano al centro delle preoccupazioni di Alfonso, assai più che il controllo delle singole componenti, cioè dei diversi regni. Coordinazione, non unificazione: secondo uno stile politico di cui abbiamo colto già altre manifestazioni nell'area di influenza catalana, ciascun regno
manteneva la sua indiscussa identità. Ma il re progettava una comunità economicamente integrata dall'iniziativa dei mercanti catalani, una comunità mediterranea di cui la corona intendeva aiutare la crescita mediante una serie di misure
protezionistiche e di incentivazione alle produzioni locali: ecco perché, Alfonso
immaginò, per la prima volta, la costruzione di una serie di uffici con competenze
su tutto lo spazio della corona d'Aragona, così da superare la mera unione personale dei vari regni e sperimentare il governo di uno spazio istituzionale parzialmente federato o multiplo. Una novità assoluta appunto, che va valutata per la carica progettuale che racchiude più che per i suoi effetti pratici. Il punto di equilibrio dell'"impero» catalano rimase la persona del re e nessun processo istituzionale valse a corroborare davvero le prove di governo unitario messe in atto dal
sovrano.
Del resto, subito dopo la conquista di Napoli, Alfonso aveva contraddittoriamente deliberato che alla sua morte il regno di Napoli fosse separato dagli altri
domini aragonesi e fosse destinato al figlio naturale Ferrante; le volontà del re furono rispettate e nel 1458 la sua fragile costruzione ebbe fine. Il governo dei regni
iberici, e della Sicilia, passò al fratello Giovanni, che fece rientro a Barcellona e
la cui prospettiva tornò, quasi per reazione, decisamente orientata nel senso del
rafforzamento della piattaforma iberica della monarchia. Ferrante, che regnò fino
aL1494, fu uomo napoletano fino in fondo, ma decisamente partecipe dell'eredità
culturale e politica del padre, tanto è vero che la presenza dei mercanti e degli intellettuali catalani alla corte napoletana poté mantenersi suggerendo l'idea che
qualcosa del progetto alfonsino fosse sopravvissuto.
7.
L'Italia degli stati: regni, repubbliche e principati.
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dai confini meno effimeri. E possibile però osservare una certa simultaneità di
sviluppi e di passaggi significativi che consentono di cogliere, a cavallo fra Tre e
Quattrocento, i segni di una qualche stabilizzazione della complessiva geografia
politica.
Proviamo a comporre una mappa ordinata delle presenze e dei principali snodi
cronologici, riassumendo anche i dati emersi nei precedenti paragrafi.
638
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Nel 1402 la morte di Gian Galeazzo segna l'arresto repentino della politica
espansionistica dei Msconti, protagonisti indiscussi nella scena politico-militare
padana dagli anni trenta del Trecento. Dal 1385, in particolare, dopo l'assassinio
dello zio Bernabò, Gian Galeazzo aveva spinto al massimo l'ambizione egemonica in Italia settentrionale, minacciando anche direttamente Firenze. Subito dopo
l'assunzione della signoria Gian Galeazzo era riuscito dapprima a sottomettere
Verona, mettendo fine all'esperienza scaligera; poi alleandosi con Venezia aveva
proceduto nello stesso modo nei confronti dei Carraresi: nel 1389 Ie aree corrispondenti alle due grandi signorie venete (con Verona, Padova, Vicenza, Feltre e
Belluno) erano finite dunque sotto controllo visconteo. Tra il 1399 e il 1402, Gian
Galeazzo aveva proseguito l'intensissima iniziativa militare spostando verso l'Italia centrale le sue mire: vennero così acquisite Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e, infine, Bologna. l,a morte improwisa del duca, in assenza oltre tutto di una successione sicura, determinò iI collasso di una strategia tutt'altro che definita, la perdita
delle conquiste recenti e, in prospettiva, il consolidamento definitivo del carattere
«lombardo» dello <<stato>> visconteo.
Come abbiamo già visto, alla morte di Gian Galeazzo fece immediatamente
seguito l'espansione veneziana in Terraferma: tra il 1404 e il 1428 vennero raggiunti i confini che la Repubblica avrebbe conservato per tutta l'età moderna.
Fra gli ultimi anni del Trecento e i primi due decenni del Quattrocento si costruì lo stato territoriale fiorentino, grazie alla crisi viscontea e la sottomissione,
nel 1406, di Pisa.
Nell'area subalpina occidentale emergono, sotto Amedeo vnr (1391-1,440), i
caratteri unitari dello spazio sabaudo, tradizionalmente articolato in due aree:
quella dei domini situati insieme con la contea di Savoia in piena regione alpina
(valli d'Aosta e di Susa, il Vaud) e sottoposti al dominio del ramo principale della
dinastia; e quella che, sotto il ramo secondario dei Savoia-Acaia, si estendeva in
ambito propriamente piemontese.
La conclusione del grande scisma nel 1418 apre una nuova stagione di rafforzamento del potere papale in ltalia centrale. Primo protagonista è il papa affermatosi al concilio di Costanza, Martino v (1417-1.431).
Tra il1.392 e il1412 cambia Ia collocazione del regno di Sicilia: mantenendo
la sua formale autonomia entra a far parte del sistema della corona d'Aragona che
verrà negli anni quaranta allargato anche al regno di Napoli.
Infine riflettiamo sulla tendenza dei principi a rafforzare il proprio potere anche attarverso I'ottenimento di diplomi, per lo più imperiali, di legittimazioni. Nel
1395 Gian Galeazzo viene creato duca di Milano enel1416 Amedeo vtu di Savoia; nel 1432 i Gonzaga vengono fatti marchesi. Più tarde le legittimazioni
estensi: nel1452 Borso d'Este viene elevato a duca di Modena e Reggio (e solo
nel 1.471duca di Ferrara).
Agli inizi del Quattrocento la storia dell'Italia comunale è dunque del tutto
conclusa: al suo posto c'è uno spazio occupato da stati territoriali, di dimensioni
variabili, nei quali le città mantengono una funzione del tutto cruciale. Questi stati, tanto i maggiori (repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, ducato di Mila639
Storia medievale
no) quanto i minori hanno dunque acquisito una compiuta dimensione territoriale
li pone accanto ad altre formazioni, collocate a nord come a sud della penisola, nelle quali tale dimensione durava da più tempo, connaturata in alcuni casi (le
monarchie meridionali) all'esistenza stessa dello stato. Nonostante la tendenza alla semplificazione la geografia politica italiana rimane molto varia perché vario è
l'assetto di tali formazioni: regni; repubbliche oligarchiche (Venezia e Firenze);
stati signorili con forti presenze cittadine (ducato di Milano; signoria estense);
stati monocittadini, tanto repubblicani quanto signorili (Mantova e Lucca); stati
signorili con deboli presenze cittadine (marchesati piemontesi, ducato sabaudo,
signorie romagnole).
Questo scenario era indubbiamente meno fluido di quello di mezzo secolo prima, e la presenza degli attori principali, per tutto il Quattrocento non fu più messa
in discussione. Ciò non toglie che il sistema dei rapporti fra gli stati non assunse
affatto una fisionomia rigida. Almeno fino alla metà del secolo, infatti, il gioco
della competizione politico-militare non si attenuò mai e gli equilibri fra le maggiori entità mutarono più volte. Gran parte della penisola, da Napoli in su, si mantenne teatro di guerre ripetute e di fittissime relazioni diplomatiche: la ricerca, insieme, di sicurezza e di più ampi spazi di influenza politica, spingeva a mantenere
aperta ogni possibilità di mutamento del sistema dei rapporti.
La labilità degli equilibri maturati agli inizi del Quattrocento, in rapporto alla
crisi viscontea, emerge chiaramente allorché, dopo il 1412, l'assunzione della corona ducale da parte di Eilippo Maria Visconti consentì la ripresa in grande stile
dell'azione milanese. Nel 1421 venne occupato un nodo strategico come Genova
e nel7423 parte della Romagna. Da qui la decisione di Venezia e Firenze di costituire nel 1426 una lega antiviscontea alla quale aderirono gli Este, i Gonzaga e,
successivamente anche Amedeo vul di Savoia. Dopo la sconfitta dell'esercito milanese a Maclodio nel 1427 e la successiva pace di Ferrara il sistema degli stati
parve stabilizzarsi: certamente fu allora, ad esempio, che il confine occidentale
della repubblica veneziana venne definitivamente precisato (mediante l'acquisizione di Brescia, Bergamo e di parte del cremonese)
Il ftl rouge della politica estera fiorentina e veneziana, e cioè il contenimento
delle tendenze espansive viscontee, si aggrovigliò quando, pochi anni dopo, la
presenza in Italia di Alfonso v d'Aragona, chiamato già nel I32l da Giovanna ll
di Napoli, introdusse una nuova variabile, quella del possibile insediamento a Napoli di una delle maggiori fra le dinastie regnanti del Mediterraneo. Tale prospettiva fu alf inizio contrastata vivacemente da Filippo Maria Visconti, che ottenne
che la flotta genovese combattesse sotto le sue bandiere, sconfiggendo gli aragonesi a Ponza nel 1435. La prigionia dello stesso Alfonso a Milano favorì tuttavia
un'intesa con il duca che sarebbe durata fino alla morte di quest'ultimo, nel L447.
Il rovesciamento del quadro delle alleanze aiutò naturalmente Alfonso nelle fasi
successive della conquista di Napoli, conclusa nel1442; ma soprattutto scompaginò per qualche anno la logica che muoveva il confronto fra le potenze. Il disegno che parve profilarsi fu allora quello di un'egemonia visconteo-napoletana al
centro del Mediterraneo, tanto più temibile in quanto, dopo decenni di grande deche
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La prospettiva coalizzò un fronte contrario che riuniva, attorno a Venezia, in
pratica tutte le potenze italiane. Ma la morte nel 1447 di Filippo Maria Visconti interruppe definitivamente ogni ipotesi egemonica dei milanesi, aggiornando ancora
una volta l'equilibrio generale. Cambiarono nuovamente le alleanze e il problema
della successione al ducato di Milano - alla quale ambiva Francesco Sforza (145066), grande condottiero e genero di Filippo Maria, protagonista assoluto di questi
anni di guerre italiane - si intrecciò intimamente con gli ulteriori sviluppi della
competizione, che videro da ultimo Venezia contrapposta a Firenze e a Milano
Dopo che lo Sforza nel 1450 raggiunse la corona ducale uno degli elementi di
instabilità si dissolse. Ma fu necessario un forte input esterno, la caduta di Costantinopoli nel 1453, perché gli stati, e Venezia innanzitutto, la più toccata dal
trauma della fine della presenzabizantina, arrivassero a una pace vera, fissassero
cioè i termini di un equilibrio duraturo. Fu questa la pace di Lodi del 1454, sottoscritta da Milano e Venezia e poi accettata anche dalle altre forze. Ad essa fece seguito, l'anno successivo, la piÌr impegnativa costituzione di una Lega italica che
garantisse la pace e I'intesa faticosamente raggiunta e che vincolasse all'autocontrollo i cinque stati definitivamente affermatisi come protagonisti dello scacchiere
italiano: il regno di Napoli, lo stato pontitìcio, la repubblica di Venezia, quella di
Firenze, il ducato di Milano.
Tra le forze che aderirono alla Lega, alcunc, e in particolare la repubblica di
Firenze e il ducato di Milano, avevano subito negli anni precedenti significativi
rivolgimenti intemi che hanno assoluto rilievo generale e su cui è necessario fermarsi brevemente. Si tratta di vicende che confermarono alcune delle tendenze di
fondo dei processi istituzionali descritti in precedenza (paragrafo 4), e innanzitutto quella alla concentrazione del potere politico nelle mani di nuclei oligarchici ristretti. Ma con alcune significative novità. Una è quella relativa allo sviluppo del
clientelismo, delle relazioni fiduciarie, fra uomini politici, famiglie, membri della
burocrazia, come parte integrante del sistcma istituzionale.Ualtra è rappresentata
dal ruolo di condizionamento essrcitato dalla guerra, e in modo particolare dal
professionismo militare, sulla configurazione degli equilibri politici.
Cominciamo dalla prima novità. Non che prima di allora le pratiche di potere
extraistituzionali o "private», della clientela, della relazione personale non avessero un grande peso nei sistemi politici. Ciò che colpisce in alcune realtà di fine
del medioevo è però la convivenza esplicita, non mascherata, fra ufficialità istituzionale e assetti di potere non formali.
In modi diversi la crescente diffusione di pratiche clientelari si osserva sia nel
ristretto mondo del patriziato veneziano, il cui potere fu appunto cementato nel
Quattrocento dallo sviluppo di una complessa rete di scambi matrimoniali e di
rapporti di patronato fra i membri della classe dirigente; sia alf interno della società fiorentina, dove invece dai primi due decenni del secolo si assiste a un fenomeno diverso: la preminenza politica dell'oligarchia si struttura sulla base del riconoscimento del primato di un solo gruppo familiare. A Firenze il processo oli-
641,
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Storia medievale
garchico (a differenza che a Venezia, Siena e Genova) aveva bisogno di un cardine, di un punto di equilibrio interno: di una famiglia attomo alla quale tutta la società politica potesse ordinarsi, attraverso appunto un complessa rete di relazioni
e di clientele. Questo gruppo familiare eminente sembrò essere quello degli Albizzitra gli anni venti e gli anni trenta; ma nel 1433 si affermò, senza nessun mutamento istituzionale, Cosimo de'Medici, capo di una famiglia che possedeva
una delle maggiori banche d'Europa. Cosimo governò appunto per trent'anni senza alcrn titolo formale, garantendo l'equilibrio intemo, e rafforzando l'influenza
della propria famiglia. Spia delf interesse preminente di Cosimo a strutturare un
forte sistema di relazioni interne, tale da rafforzare un regime privo di alcuna legittimazione, è una politica matrimoniale che escluse i contatti con rampolli di case regnanti italiane e europee e che volle invece legare i figli di Cosimo alle mag-
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Naturalmente Cosimo impose piccoli aggiustamenti istituzionali, e in particolare nei sistemi elettorali, che favorissero il controllo degli organi dello stato; ma
la sua superiorità provenne essenzialmente dalla capacità di legare a sé amici e
clienti, di estendere una base di consenso e di emarginare gli awersari. Alla morte di Cosimo, nel 7464, i Medici riuscirono a conservare il potere, a dimostrazio-
zio Attendolo, prest,
Eugenio
e Filipp
v
ne del successo della sua opera. Si aprì per la verità, sotto il figlio Piero, una difficile parentesi durante la quale l'egemonia medicea fu messa in discussione. Il che
indusse il successore di Piero, L.orenzo (che sarà detto il Magnifico, 1.469-92) a
slia Bianca Maria.
:tel napoletano, add
_ino
intervenire finalmente sui meccanismi istituzionali, abolendo gli antichi consigli
comunali e sostituendoli con organismi decisionali apertamente oligarchici (un
Consiglio dei cento nel1471e un Consiglio dei settanta nel 1480).
La seconda novità nei sistemi politici quattrocenteschi che occolre mettere a
Ascesa dei
<<condottieri>> fuoco è costituita dal peso crescente esercitato dai professionisti della guerra, i
condottieri, sugli equilibri di potere interni agli stati e sulle relazioni fra questi ultimi. Owiamente la capacità d'influenza di queste figure era basata innanzitutto
sull'assoluta centralità della guerra: in quanto condizione semipermanente di questa stagione convulsa era attorno ad essa che gli stati regolavano gli assetti istituzionali interni, destinando allo spazio militare la gran parte delle risorse di cui disponevano. Ora, gli eserciti numerosi che si affrontavano in Italia erano in larga
parte composti da mercenari di varia provenienza, organizzati in compagnie comandate da energici personaggi che si mettevano al servizio dei diversi govemi
(mediante il contratto di condotta). Una fondamentale esigenza di efficienza aveva indotto già i govemi comunali e signorili del Trecento a superare gradualmente
un'organizzazione fondata su milizie popolari di cives e di acquistare i servizi dei
primi condottieri, stranieri per lo più; ma dalla fine di quel secolo il peso delle
compagnie di ventura aumentò, la loro circolazione divenne un elemento costitutivo delle relazioni politico-diplomatiche fra gli stati e soprattutto fra i condottieri
divennero decisamente prevalenti gli italiani.
La graduale monopolizzazione delle condotte da parte dei capi militari italiani
ebbe implicazioni molto profonde. Quella principale consiste nella formazione di
una piccola élite di condottieri, un'élite mobile e spregiudicata che, con 1'aiuto di
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circostanze molto favorevoli, seppe entrare nel circuito della grande competizione
politico-militare. La compagine dei condottieri era composta da uomini di estrazione eterogenea: c'erano coloro che provenivano da grandi famiglie aristocratiche e signorili (Gonzaga, Malatesta, Este), ma c'erano anche soggetti di origini
recenti, soldati che conobbero straordinarie ascese sociali attraverso la guerra:
Braccio da Montone, Francesco Bussone da Carmagnola, Muzio Attendolo Sforza, il figlio di quest'ultimo Francesco Sforza, Iacopo dal Verme solo per citare i
più celebri. Molti di costoro, contesi dai governi, beneficiarono non solo di ricche
remunerazioni, ma anche della la possibilità di radicarsi localmente: ottennero così feudi, signorie cittadine, e anche uffici, legazioni, vicariati e rettorati (nell'ambito dello stato pontificio): Braccio di Montone fu fatto ad esempio signore di Perugia, Alessandro Sforza di Pesaro.
All'ombra delle maggiori entità statali poterono così crescere forti e radicati
poteri, capaci di inserirsi efficacemente nella dinamica politica locale e regionale.
La più emblematica fra queste parabole fu quella che condusse Francesco Sforza
alla corona ducale milanese. Francesco, figlio di un altro grande condottiero, Muzio Attendolo, prestò servizio presso diversi principi, fra i quali soprattutto il papa
Eugenio v e Filippo Maria Visconti che gli aveva promesso in matrimonio la figlia Bianca Maria. Francesco, ereditando anche i domini già acquisiti dal padre
nel napoletano, addensò negli anni quaranta una cospicua base signorile (fra regno di Napoli, Marche e Lombardia), che gli consentì la progettazione dell'impresa milanese, conclusa felicemente come sappiamo, nel 1450 (dopo tre anni nei
quali Milano era stata retta da una repubblica ambrosiana che non aveva potuto
frenare la rinnovata spinta espansionistica di Venezia e per questo aveva dovuto
accettare la sottomissione allo Sforza).
Il caso di Francesco Sforza è esemplare della centralità della guerra e delle sue
istituzioni nella costruzione dell'Italia quattrocentesca; ma anche della complessità delle relazioni personali, della varietà di intrecci di clientele e servizi che contribuivano a definire la fisionomia della politica.
8.
Equilibri istituzionali
e
rapporti di potere.
Abbiamo descritto fin qui circostanze e processi di aggregazione degli stati
territoriali bassomedievali, individuando nel contempo le ragioni che spinsero
quelli che già esistevano a rinnovamenti profondi. Visti più da vicino, questi stati
cosa sono esattamente? Quanto assomigliano alle realtà monarchiche d'oltralpe
(cfr. la lezione xxl)? Come si configura 1'esercizio del potere al loro intemo, dove
e come si esercita l'autorità pubblica? Quest'ultima è la domanda cruciale: avendo parlato di affermazione di poteri superiori, dobbiamo chiederci infine: quanto
pesavano concretamente? In che cosa si esplica cioè la superiorità di un re, di una
dominante, di un duca?
Può subito essere offerta, in via preliminare, una risposta che suggerisca un
orientamento. È certo che mai queste autorità superiori detengono il monopolio
643
Un primato
politico,
non una
totalità
di poteri
Storia medievale
del potere politico in un dato territorio, mai racchiudono la totalità della forza legittima, né di fatto, né giuridicamente; in altre parole non incarnano mai il modello di «stato modemo>> descritto da Max Weber all'inizio del nostro secolo. Sono
autorità che condividono l'esercizio del potere con altri soggetti, esattamente con
quelli che hanno accettato, spesso contrattandone le forme e l'articolazione, una
geometria istituzionale che li vede subordinati ma che consente loro di conservare
quote, che possono essere anche molto significative, di identità e di autonomia.
I.a,pienezza di dominio su un territorio istituzionalmente unificato non esiste,
I poteri che in taluni casi affermano, in altri ribadiscono o precisano, la loro superiorità esprimono certamente un primato ma sopra una costellazione di forze e di
autonomie che rimane parte costitutiva del paesaggio politico. Ciò significa che i
poteri politici e le prerogative «pubbliche» (che in questo periodo si riducono essenzialmente all'amministrazione della giustizia, alla potestà normativa, all'azione di reperimento di risorse economiche - non sempre di tipo fiscale -, alla mobi
litazione militare) sono distribuiti fra chi detiene il primato e gli altri soggetti
conosciuti.
La logica di tale distribuzione, come è facile immaginare, è estremamente mutevole perché diversa è ogni volta la configurazione delle forze in campo e la
mappa dei rapporti di forza. Varia dunque molto il grado di concentrazione del
potere, di assorbimento cioè da parte del centro di funzioni di governo e di compiti amministrativi: è generalmente basso se lo valutiamo alla luce dei modelli ottocenteschi di stato modemo; ragguardevole, almeno in alcuni casi, se misuriamo
la complessità dei processi di coordinazione e di aggregazione a cui ci siamo più
volte riferiti. I-lautorità che fosse riuscita a promuoverli si confrontava infatti con
una complessa pluralità di poteri e di ordinamenti: eterogenei e conflittuali, ma
anche, spesso, radicati ed efficaci.
Della complessità dei rapporti fra autorità superiore e realtà politiche soggette,
le politiche finanziarie e fiscali, momento fondamentale dell'azione di govemo,
rappresentano un ottimo strumento di verifica; come pure del grado di sviluppo di
apparati di govemo e di strutture burocratiche centrali. I-a continua domanda di
denaro da parte dei governi centrali, generata in larga misura dalla guerra, endemica come sappiamo fino alla metà del Quattrocento, era infatti certo non I'unico
ma di sicuro il principale propellente delle dinamiche politico-istituzionali. Quell'esigenza di risorse spingeva essenzialmente in due direzioni: l'individuazione
dei soggetti potenziali erogatori (compresi i destinatari della pressione fiscale) e
la sperimentazione di uffici specializzati capaci di rendere rapidamente fruibile la
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sulla struttura del prelievo, a mantenere cioè attive le forme comunali di tassazione, che erano soprattutto di tipo indiretto (daziario) e colpivano molto più gli abitanti del contado che non i cittadini. Si trattava di un orientamento conservatore
coerente con una politica generale attenta a rispettare le pattuizioni che avevano
siglato l'incorporazione di una città nello stato, e con essi, spesso, l'autonomia
644
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continui incrementi e benché crescesse anche il ricorso a quelle dirette, attraverso
un più regolare uso dello strumento degli estimi*, questo ambito della fiscalità,
ereditato dal sistema politico comunale, non poteva sostenere le pressanti richieste che venivano dai governi, i quali, in linea di massima, preferivano mantenere
buoni rapporti con le élites locali piuttosto che forzare la mano.
Ecco perché la seconda metà del Trecento e poi soprattutto il Quattrocento vedono sì tentativi anche molto significativi di razionalizzazione tributaria, nella direzione dell'imposizione diretta (i catasti rimangono la testimonianza più forte di
questo sforzo, e quello fiorentino del1427 la più significativa di tutte); ma anche
lo sviluppo di altri canali di finanziamento. Due soprattutto assumono massimo
rilievo: da una parte il debito pubblico, dall'altra il prestito privato vero e proprio.
Il debito pubblico (cioè la raccolta di risparmio privato a favore dello stato)
era un'istituzione già d'età comunale; esso conobbe però una straordinaria evoluzione in alcuni stati, e in particolare proprio in quelli che mantennero una costituzione repubblicana, e cioè Yenezia, Firenze e Genova. In queste realtà l'entità
delle risorse finanziarie così convogliate divennero ingenti, fino all'istituzionalizzazione dei debiti, e allacostituzione di veri uffici bancari pubblici (come il banco di San Giorgio a Genova), capaci di attirare investimenti pure da molto lontano. Anche se non sempre le operazioni di consolidamento del debito davano gli
effetti sperati e talora avevano controindicazioni (potevano richiedere, ad esempio, inasprimenti del regime fiscale ordinario, per rispettare, con regolarità, il pagamento degli interessi agli investitori), siamo di fronte a strumenti che consentirono un salto in avanti della forzafinanziaria degli stati. Inoltre la crescita del debito pubblico aveva anche risvolti politici significativi: serviva cioè a legare i
grandi investitori, e quindi innanzitutto 1'oligarchia dominante, allo stato e alle
sue istituzioni.
Il debito pubblico, come accennavamo, non si affermò dappertutto; salvo spo- It debito
radiche manifestazioni rimase assente tanto nei regni meridionali quanto nelle pubblico
nuove strutture monarchiche come la signoria visconteo-sfo rr"r"u.ln queste àI§::'
realtà le esigenze (e soprattutto le emergenze) finanziarie potevano essere in parte ri."nr"'
soddisfatte ricorrendo a uno strumento molto meno sofisticato ma le cui implicazioni politiche non erano meno forti. Entra in gioco in questo caso il rapporto personale tra il re, o il duca, e soggetti diversi, tanto corpi istituzionali come città e
comunità, quanto personaggi in came e ossa appartenenti ai gruppi dirigenti. Uindebitamento personale del monarca, che presuppone un rapporto di fedeltà impensabile negli ordinamenti repubblicani, ha un'implicazione rilevante su cui occorre fermare l'attenzione: agaranzia del prestito o come forma di restituzione il
re o il duca poteva concedere infatti, per un certo periodo, redditi della corona e
cespiti fiscali, spingendosi sovente verso la cessione di beni demaniali, di poteri
pubblici (come la giurisdizione di una comunità), di uffici. Siamo come si vede su
un piano che lambisce la dimensione della venalità delle cariche e sul quale non
si sviluppano dinamiche unicamente finanziarie: come quello del debito pubblico
nelle repubbliche era anche uno spazio di coinvolgimento dell'oligarchia, così la
645
Storia medievale
cessione di quote di redditi pubblici e di beni demaniali nei regni e in alcuni principati produceva il rafforzamento di un'area di soggetti vicini alla corona e disposti a rischiare in suo favore.
Burocrazie Questa dimensione appare allora più complicata di quanto non risalti a prima
centrali vista: essa non si distingue del tutto dal piano della remunerazione non solo dell'occasionale manifestazione di fedeltà ma anche del vero e proprio servizio prestato al sovrano: il servizio specializzato del burocrate e quello tradizionale del
condottiero, come vero cardine dell'equilibrio istituzionale delle monarchie, e
fondamento dell'autorità non solo teorica della corona.
Ultimo aspetto, questa volta generale, della sfera della fiscalità e della finanza
è quello rappresentato dalla crescita di una burocrazia centrale e della professionalizzazione degli operatori in esso coinvolti. Anche dietro la necessità di coordinare l'estrema molteplicità delle entrate e dei canali di finanziamento nascevano
strutture centrali tecnicamente piìt attrezzate, che non prendevano il posto degli
uffici finanziari tradizionali, ma si sovrapponevano ad essi: si pensi ai <<Maestri
delle entrate>, creati alla fine del Trecento in ambito visconteo; al <<Conservatore
del real patrimonio», introdotto da Ferdinando t in Sicilia negli anni dieci del
Quattrocento; o ancora, più tardi, alla napoletana..Corte della Sommariarr, le cui
competenze vennero precisate da Alfonso nei successivi anni quaranta.
Per quanto luogo nevralgico della configurazione istituzionale, la finanza non
è certo l'unico specchio delle complesse reti di relazione fra centro e periferie da
una parte, fra élites e governo dall'altra. Anche se l'articolazione dei canali che
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Laddove la tradizione istituzionale lo consentiva potevano funzionare ad
esempio assemblee di tipo parlamentare*, che consentivano forme di rappresentanza politica. La composizione di tali assemblee variava da realtà a realtà, comprendendo corpi di varia natura: comunità urbane; comunità baronali o infeudate;
nobiltà; enti ecclesiastici. Le ritroviamo nel principato di Savoia-Acaia, fin dal
primo Trecento, come pure nel marchesato monferrino; in Friuli, nell'ambito di
un principato ecclesiastico, quello del patriarca di Aquileia; in Sicilia (ma regolarmente solo dalla fine del Trecento) e a Napoli (dove, per quel che si sa, le assemblee di età angioina, fino a Giovanna rt, e quelle dell'età aragonese, dal7443 presentavano fisionomie sensibilmente diverse).
Lamancanza di luoghi analoghi negli stati dell'Italia del Centro-nord è segno
rivelatore, per Chittolini, della permanenza della centralità delle città inglobate
nel più largo tessuto delle repubbliche e dei principati, della persistente «volontà
della città di porsi, dinanzi al principe o alla dominante come rappresentante
esclusiva del territorio intero, e come loro interlocutrice privilegiata». Un composito sistema di autonomie, di spazi istituzionali diversi, ma il cui equilibrio risiede, per quanto concerne gli stati signorili, nella figura del principe, e nella sua capacità sia di garantire il tradizionale sistema di inquadramento dei territori (assoggettati per lo più alle città di tradizione comunale incorporate nello stato), sia di
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nella rete degli uffici.
Da qui la centralità delle corti e di tutti gli spazi (ad esempio gli uffici centrali
di govemo) che agevolano le mediazioni e le relazioni clientelari: vale a dire tutti
quegli interventi di carattere extraistituzionale che consentivano al principe (al re
di Sicilia come al duca di Milano, ma anche ai membri dell'aristocrazia repubblicana, come abbiamo visto) di esercitare il propriopatronato, di consolidare autorità e prestigio attraverso la manifestazione del proprio favore. In questo senso i
modelli possono essere dawero simili nelle diverse formazioni: si pensi ad esempio a un tipico strumento di remunerazione delle fedeltà quale l'assegnazione della potestà giudiziaria in ambito locale, e la concessione in feudo di terre, villaggi,
e anche piccole città. La politica di Alfonso il Magnanimo in Sicilia, terra nella
quale la rete «feudale» era tradizionalmente poco fitta, ha molti punti di vicinanza, in questo senso, con quella degli ultimi Visconti e dei primi Sforza, attenti ad
adoperare il contratto feudale come strumento di rafforzamento della propria superiorità e di assestamento delle relazioni di potere all'intemo del ducato.
Le analogie e le differenze fra i diversi sistemi istituzionali non possono dunque essere dettate a priori: esse non consentono di contrapporre con nettezzaun'ltalia monarchica a un'Italia di tradizione comunale; attraversano invece e scompongono non due sole grandi aree politico-istituzionali ma un mosaico assai più
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9.
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tessuto politico-istituzionale, sommariamente riprodotte fin qui, appartengono a un
repertorio storiografico relativamente recente. Per comprendeme meglio il senso,
occorre adesso mettere rapidamente a fuoco le rappresentazioni dello scenario italiano (solo quelle principali), da cui esse hanno cominciato a differenziarsi.
Come abbiamo accennato all'inizio, alla storia italiana, anche a quella delle
società tardomedievali, sono state attribuite immagini di lenta decadenza riferite
innanzitutto agli antichi stati italianipreunitari (tra Cinque e Settecento): immagini di dorato declino di una realtà politica ed economica dapprima centrale nel
contesto mediterraneo e in quello dell'Occidente cattolico e poi gradualmente trascinata alla periferia del sistema delle monarchie europee nonché di un'economia-mondo il cui asse già alla fine del Quattrocento si stava spostando verso l'Atlantico e l'Europa centro-settentrionale. I temi storiografici del declino politico
ed economico dell'Italia si sono affermati in tempi diversi, ma si sono alla fine
saldati in un paradigma inteqpretativo assai tenace che ha condizionato tutti i discorsi che avessero ad oggetto la penisola e le sue regioni. Ora, il declino politico
- insieme, graduale perdita di peso e di influenza nello scacchiere internazionale
e mancato sviluppo di un'esperienza di stato nazionale cronologicamente paralle647
Declino?
Storia medievale
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riguardano essenzialmente la storia d'Italia in età modema: perché questo paradigma ha segnato invece anche la rappresentazione del tardo medioevo?
Per rispondere occorre innanzitutto guardare indietro nel tempo e osservare in
quale direzione la cultura risorgimentale e quella dei primi decenni dello stato
unitario mossero la ricerca delle radici storiche della nazione. Il capitolo comunale, già al centro dell'attenzione dei cultori di storia ben prima dell'Ottocento (si
pensi all'opera di Ludovico Antonio Muratori), si propose (più di altre esperienze,
come quella longobarda o quella del papato romano in lotta con l'imperatore, solo per citare due fra gli agganci più frequenti al medioevo «italiano») come cardine del programma di definizione di un fondamento medievale, laico e libertario,
dell'identità nazionale. Le città vennero riconosciute il «viscere della storia d'Italio>, come scrisse un grande intellettuale lombardo, Carlo Cattaneo. Questa soluzione consentiva di enfatizzare l'idea del primato italiano tra XII e XIV secolo:
un primato tutto cittadino e comunale, e non solo artistico-letterario, ma anche
economico e persino socio-politico, allorché si sottolineava, assieme alla crescita
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Era difficile negare allora che il collasso del sistema delle città-stato, il soffocamento delle libertà comunali e I'affermazione di regimi signorili coincidessero
con l'inizio di una fase tormentata e lacerata, contrassegnata dal blocco della democrazia politica (la vera originalità italiana) e dallo stallo delle magnifiche potenzialità economiche; una fase di deperimento della forza vitale del pieno medioevo che avrebbe condotto, attraverso l'affermazione del predominio straniero,
alla subalternità politica come alla perifericità economica della penisola. Identificando storia comunale e storia d'Italia, e constatando il precoce esaurimento (nella stagione aurea del Rinascimento) dello slancio vitale di entrambe, queste letture operavano una semplificazione radicale: da un lato unificavano tema cittadino
e tema comunale all'interno di una visione unitaria e coerente dei secoli X-XIV
(con la rinuncia a osservare i mondi wbanizzati, ma non comunali, che la realtà
storica proponeva); dall'altro riducevano le variabili di sviluppo della stessa storia
comunale, di cui pure tradizioni municipali e ricerca erudita esaltavano la molteplicità, a un modello schematico e monocorde che invariabilmente portava dal comune consolare alla signoria cittadina.
Non solo. Questa visione, al più tosco-padana, del passato medievale italiano,
della sua grandezza e del suo declino non si limitava a cancellare le differenze inteme al mosaico dell'Italia di tradizione comunale; rimuoveva pure il problema
storiografico del Mezzogiorno monarchico, ereditando in pieno una prospettiva di
tipo «dualistico», come si sarebbe detto successivamente. Tale prospettiva, maturata anch'essa nel corso del Risorgimento, guardava alMezzog;orno (peninsulare
e insulare) prima come soggetto passivo del processo di uniflcazione e poi come
immenso spazio di arretratezza da recuperare, nello stato nazionale, a decenti pa-
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tradizioni comunitarie paragonabili a quelle delle città centro-settentrionali, veniva sottratta così ogni possibilità di giocare un ruolo significativo nella determinazione dei lineamenti di un'identità nazionale.
Quella che si andava elaborando nella cultura storiografica alf inizio del secolo era dunque una prospettiva che conteneva un doppio ritardo: quello italiano rispetto all'Europa e quello, più specifico, delMezzogiorno italiano rispetto a un
Centro-nord essenzialmente urbano e comunale; all'Italia comunale come contesto più favorevole a uno sviluppo economico intenso, che racchiudeva embrioni
di capitalismo commerciale e manifatturiero, veniva contrapposta infatti l'immagine agraria, <.feudale», sottosviluppata del Mczzogiorno monarchico.
Questo quadro, evidentemente molto schematico, serve a comprendere sotto
quali pressioni civili e ideologiche gli storici abbiano affrontato il tema dell'evoluzione politica nell'Italia tardomedievale fino a tempi non lontani dai nostri. In
breve, hanno mantenuto forza e influenza sia la valutazione fortemente positiva
del momento comunale, sia, per converso, le ipotesi condotte alla luce di tale
,<mitizzazione>>, «di un successivo lungo declino politico italiano», per adoperare
le parole di Elena Fasano Guarini. La tendenza - secondo la stessa studiosa - è rimasta a lungo quella ,<a considerare la storia d'Italia come storia divergente da
quella degli altri paesi occidentali, e somma di ritardi rispetto ai modelli di sviluppo economico-sociale ed ai processi politici propri di questi paesi». Questa rappresentazione ha trovato in una grande opera collettiva, Ia Storia d'Italia promossa dall'editore Einaudi (a partire dal1972), insieme il suo coronamento e una forma di riscrittura. Benché molti dei numerosi contributi mostrassero ispirazioni
non immediatamente conciliabili, un preciso filo connettivo legava il programma
di quella Storia, e cioè il ribaltamento dello schema tradizionale fondato sul dinamismo comunale a favore di un'interpretazione che enfatizzava la continuità del
carattere feudale della storia italiana («un blocco di quindici secoli,, nelle parole
di uno dei curatori, Ruggiero Romano): una continuità che costringeva la fase comunale entro una dimensione parentetica per esaltare l'affermazione dei govemi
signorili e poi degli stati territoriali come espressione compiuta dell'egemonia di
forze «feudali» ed extracittadine.
Il raffreddamento del pathos dei discorsi sulla decadenza italiana è stato possibile dal momento in cui una certa prospettiva teleologica (che guarda cioè ai processi storici come finalizzati a tn punto d'arrivo assiomatico, e che può essere
collocato tanto nel presente quanto nel passato) ha cominciato a vacillare. Non è
possibile neppure accennare qui in che modo il paradigrna dello stato moderno (e
nazionale) sia entrato recentemente in crisi innanzitutto nelle ricerche sulle maggiori formazioni politiche europee; sta di fatto che è venuta gradualmente impallidendo negli ultimi vent'anni la prospettiva che ha visto l'età modema come graduale dispiegamento dell'autorità dello «stato moderno», cioè di uno stato sovrano e accentrato, detentore del monopolio della forza politica e costruttore potenziale di un tessuto istituzionale omogeneo e disciplinato. All'interno della storiografia italiana, e della medievistica in particolare, questo mutamento di rotta ha
649
L'ideologia
dello «stato
moderno>>
in crisi
Storia medievale
consentito di rompere vecchie incrostazioni. Vediamo rapidamente solo le implicazioni principali di questo profondo mutamento di prospettiva.
La storia dei comuni è stata sganciata dagli sviluppi successivi per essere reinterpretata come momento fondamentale della sperimentazione politica dei secoli
centrali del medioevo (cfr. la lezione xlv).
Lo scarto fra esperienza italiana ed esperienza europea nella storia degli stati
del tardo medioevo e della prima età moderna si è andata notevolmente riducendo. Nell'una e nell'altra infatti la vicenda politico-istituzionale non si restringe al
tema dell'emergenza di forti stati accentrati: si allarga invece alla considerazione
di tutti i poteri «non statali>> che nascono e continuano ad agire pur dopo l'affermazione e il consolidamento di monarchie e principati, nonché dell'estrema articolazione di soggetti politici, di corpi, di uffici e di altre autorità istituzionali racchiuse nella dimensione più propriamente statale.
All'interno di una nuova attitudine a comparare esperienze italiane e esperienze europee la parabola delle monarchie meridionali diventa molto più nitida perché letta alla luce delle vicende di altre monarchie d'oltralpe a cui risulta immediatamente affine; e perché sottratta, anche grazie ai suggerimenti che provengono da alcune recenti ricerche di storia economica, alla dimensione uniformante di
anetratezza generata dalla proiezione sul lontano passato di cui ci occupiamo delle immagini del Mezzogiorno otto-novecentesco.
10. Conclusioni.
Una ricca gamma
di esperienze
istituzionali
Per provare a concludere i discorsi di questa lezione, dando una risposta ai
quesiti formulati nel Problema, dobbiamo riprendere brevemente i tratti salienti
del panorama che si è andato delineando. Quello che risulta più immediatamente
percepibile allude - ci torneremo fra poco - alla varietà della geografia politicoistituzionale: è indubbio che gli stati regionali italiani siano formazioni geneticamente diverse e dotate di marcate peculiarità. È chiaro poi - vera novità maturata
nella storiografia degli ultimi venticinque anni- che la crisi comunale non significò né crisi delle città, che rimasero i fulcri dell'organizzazione territoriale dei
nuovi stati, né tanto meno un generalizzato decremento del tasso di statualità: «il
costituirsi degli stati regionali non ha significato il "tramonto della città" di fronte
al "sorgere dello stato", né, in particolare, lo sgretolarsi di quella solida base della
fioritura urbana in Italia che era stata rappresentata dal dominio sul contado>>
(Chittolini). Come è pure assodato, per converso, che dinamiche di aggregazione
tenitoriale e di costruzione di più complesse, e più stabili, realtà politiche ebbero
luogo anche laddove la tradizione comunale era meno forte o assente del tutto.
Nell'Italia del Quattrocento la gamma istituzionale e costituzionale rimane, insomma, ricca e lascia scorgere i fili di cui è composto (nonché le tradizioni politiche di cui si nutre) ciascun processo di costruzione territoriale, mostrando, al limite, la specifica identità di ogni «stato regionale>>.
Eppure, nonostante tali differenze, esiste la possibilità di cogliere significativi
650
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infatti l'affermazione, più o meno incisiva a seconda delle circostanze e dei contesti, di poteri centrali di cui si comincia a precisare, e anche a rappresentare,la
<<sovranità>>, rischia di essere radicalmente equivocata se posta fuori da un quadro
di compatibilità e di interazione con altre sfere di potere. Alcuni di questi poteri e
di questi luoghi istituzionali non sono nuovi, sono noti e riconoscibili, anche se
all'intemo del nuovo tessuto istituzionale hanno cambiato funzione (per tutti valga ancora una volta l'esempio delle città comunali incorporate negli stati centrosettentrionali). Altri invece nascono all'interno dei nuovi spazi politico-istituzionali: così i ceti che acquistano fisionomia nell'ambito di consessi parlamentari (in
Sicilia, a Napoli, in Piemonte ecc.); o le comunità che nella Lombardia sforzesca
chiedono e ottengono, con la separazione da un distretto cittadino, il riconosci-
mento della propria autonomia; o le élites burocratiche che, soprattutto nelle
realtà monarchiche, al nord come al sud, assumono identità sociale e culturale nel
servizio prestato a un sovrano.
In una tale prospettiva le differenze ffa le diverse Italie si attenuano. La qualità
dei processi di concentrazione della sovranità, di territorializzazione di grandi po- ItatiaeEuropa
teri regi e principeschi, di aggregazione di strutture amministrative (per dire di ciò
di cui gli storici si sono prevalentemente occupati fino a poco tempo fa) sembra
possedere delle costanti comuni nelle regioni a tradizione comunale e in quelle a
tradizione monarchica (queste ultime in precedenza più in sintonia con le dinamiche europee). E si attenua anche lo scarto fra la penisola nel suo complesso e
l'Europa, che appariva così marcato fino a non molti anni fa. Ma ciò accade perché questa inquadratura, suggerita dalla collocazione dei processi politici tardomedievali all'intemo delle visioni sulla genesi dello stato moderno, non è più autosufficiente. Soprattutto è infatti la natura composita degli stati europei (la dimensione messa in luce più recentemente dalla ricerca), tanto degli stati regionali
italiani quanto delle grandi monarchie, a colpire come forte tratto comune. La costruzione della dimensione della sovranità territoriale awiene in Italia, non diversamente che in Europa, non già nel solco di un lineare processo di concentrazione
dei poteri ma attraverso una graduale e faticosa integrazione di ceti e di comunità,
di signorie e di giurisdizioni, ciascuna con la propria matrice giuridica e con un
variabile grado di autonomia, all'intemo di un tessuto plurale e discontinuo. Se
poi la natura plurale e discontinua di tale tessuto abbia dawero mai cessato di esistere fra tarda modernità e età contemporanea non potrà essere accertato qui.
lltà politiche ebbero
assente del tutto.
uzionale rimane, in-
i le tradizioni politiie, mostrando, al li:ogliere significativi
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Storia medievale
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