OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Fasc. 2/2016
20 giugno 2016
Audizione del 9 giugno 2016 alla Commissione parlamentare per le questioni
regionali nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo
Stato e le autonomie territoriali, con particolare riguardo al “sistema delle
conferenze”
di Anna Mastromarino - Professore associato di Diritto pubblico comparato, Università di
Torino
Quesiti dell’indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali,
con particolare riguardo al ‘sistema delle conferenze’
1. La riforma costituzionale all’esame delle Camere supera l’attuale sistema di bicameralismo
perfetto, configurando il Senato quale Camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali. In che
termini si ritiene che debba essere riordinato l’attuale sistema delle conferenze tenuto conto del
futuro assetto costituzionale? Quale incidenza potrà avere, da questo punto di vista, la nuova legge
elettorale del Senato e, in particolare, l’eventuale presenza nel Senato dei Presidenti delle Regioni?
2. Il nuovo articolo 55, quinto comma, primo periodo, della Costituzione, come modificato dal
progetto di riforma costituzionale, attribuisce al Senato l’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo
Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Il secondo periodo prevede peraltro il concorso
del Senato all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della
Repubblica e l’Unione europea. Come potranno atteggiarsi i rapporti tra le due Camere con
riferimento alle funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali? Quale potrà essere il ruolo
del ‘sistema delle Conferenze’?
3. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, il ‘sistema delle Conferenze’
costituisce «una delle sedi più qualificate per l’elaborazione di regole destinate ad integrare il
parametro della leale collaborazione» (sentenza n. 31/2006) e ha finora svolto un ruolo
significativo, sulla base dei criteri di riparto della legislazione del vigente titolo V, ai fini
dell’attuazione delle leggi, sia sul piano regolamentare che su quello amministrativo. Nel nuovo
titolo V previsto dal progetto di riforma costituzionale, come potrà dispiegarsi il principio di leale
collaborazione? Come potranno riflettersi i nuovi criteri di riparto della potestà legislativa e
regolamentare e la c.d. “clausola di supremazia” sul ruolo delle Conferenze
4. Il futuro assetto costituzionale e la ridefinizione delle funzioni del ‘sistema delle conferenze’
richiederanno la revisione delle procedure di negoziazione tra Stato ed enti territoriali. Come
potranno configurarsi queste procedure nel nuovo sistema?
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5. Quali sono le criticità nel funzionamento attuale del ‘sistema delle Conferenze’? Quali
misure occorre adottare per rendere più efficaci i processi decisionali ed assicurare la
trasparenza? Quali strumenti potrebbero consentire una valorizzazione del sistema delle
Conferenze come sede di raccordo amministrativo?
6. Negli ultimi anni è notevolmente cresciuto il contributo della Conferenza delle assemblee
legislative delle Regioni, in particolare con riferimento alla partecipazione dell’Italia alla
formazione delle politiche europee. Quale contributo ulteriore potrà apportare il coordinamento
delle Assemblee legislative al nuovo circuito di coordinamento tra Stato e autonomie delineato
dalla riforma costituzionale in corso di discussione? Si reputa inoltre opportuno assicurare un
coinvolgimento delle Assemblee elettive nell’ambito delle Conferenze? Se sì, in quali forme?
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Per rispondere ai quesiti che codesta Commissione ha voluto sottoporre alla mia attenzione ho
preferito svolgere un discorso unitario, pur ripercorrendo lo schema argomentativo che le questioni
sollevate propongono.
Visto il tenore delle domande bisognerà cominciare con il dire che se svolgere una valutazione
complessiva circa il ruolo sinora svolto dal circuito intergovernativo in Italia, anche in relazione al
Legislativo, appare assai agevole – potendo contare su anni di attività e di consolidamento
giurisprudenziale e dottrinale –, decisamente più difficile appare formulare previsioni per il futuro.
Ciò, innanzitutto, perché l’evoluzione del sistema intergovernativo è legata a doppio nodo alle
sorti del testo di riforma costituzionale approvato dalle Camere ed in attesa di essere sottoposto al
giudizio del corpo elettorale nel prossimo ottobre. In secondo luogo, perché, anche quando la
revisione della Costituzione entrasse in vigore, sarebbero molti gli aspetti che, restando indefiniti
(dal momento che, per andare a regime, necessitano di una successiva attività di attuazione
legislativa e regolamentazione parlamentare), potrebbero condizionare profondamente un eventuale
ripensamento del ruolo, della composizione e del funzionamento del sistema delle Conferenze.
Nel caso in cui l’attuale formula di bicameralismo paritaria fosse superata, ritengo, pertanto, che
l’assetto del sistema delle Conferenze risulterebbe vincolato, in prima battuta, rispetto alle scelte
compiute dal legislatore per quel che concerne la selezione dei senatori. Rectius: dai legislatori, dal
momento che in virtù del modello proposto nel testo riformato, la legge per l’elezione dei senatori
dovrebbe prevedere l’intervento congiunto delle regioni e dello Stato, ex art. 122 Cost.
In questo senso, mi pare che le differenze più rilevanti saranno determinate: 1) dal grado di
partecipazione degli elettori alla selezione dei senatori; 2) dalla partecipazione o meno dei
presidenti regionali al Senato.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ho sostenuto altrove (Alcune prime (sparse e brevi)
riflessioni in merito al progetto di superamento del bicameralismo paritario in approvazione alle
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Camere, in federalismi.it, n.5, 2016) la necessità di contaminare l’opzione della elezione indiretta
dei senatori attraverso il ricorso ad un listino che, pur ancorando formalmente la scelta al Consiglio
regionale, permetta agli elettori di contribuire alla selezione dei senatori, così come del resto
indicato dal testo di riforma.
I senatori potrebbero così essere scelti sulla base di un elenco depositato da ogni singola forza
politica al momento della presentazione delle liste provinciali in occasione delle elezioni regionali.
La lista dei senatori, il cui numero non potrebbe essere superiore al numero dei membri che la
regione stessa è chiamata ad esprimere in seno al Senato, dovrebbe essere necessariamente
identica per tutte le liste provinciali di un medesimo partito, ferma l’ipotesi di prevedere o meno
l’indicazione di una preferenza da parte dell’elettore.
Il numero degli eletti in Senato per ciascuna lista sarebbe proporzionale al numero di voti
conseguito a livello regionale, nella consapevolezza dell’inevitabile effetto distorsivo sui risultati
che deriva dal diverso numero di seggi che ciascuna regione è chiamata ad esprimere in Senato.
Effetto distorsivo che per quel che riguarda le regioni rappresentate da due soli senatori sarebbe
particolarmente pesante, pur senza tradire la lettera della Costituzione eventualmente riformata che
prescrive il ricorso ad un metodo proporzionale nella selezione dei senatori, ma nulla dice circa gli
effetti da conseguire.
A partire dai risultati ottenuti in sede elettorale e sulla base delle liste a latere, il Consiglio neoinsediato potrebbe così procedere alla selezione dei consiglieri da designare in Senato.
Facilmente assimilabile dal contesto politico attuale, si possono, immediatamente e senza
sforzo, intuire i punti di forza e le potenzialità in termini di cambiamento di un sistema che non
esclude l’elettore dalla scelta dei membri del Senato, pur assicurando una continuità di questi
ultimi con le istituzioni regionali; di un sistema che non appare del tutto sradicato dalle dinamiche
della rappresentanza politica, pur possedendo i caratteri strutturali per la proiezione degli interessi
territoriali al centro.
Esso permetterebbe di prendere realisticamente le mosse dal contesto di fatto (la centralità del
sistema politico), pur tentando, al contempo, di introdurre un elemento di continuità territoriale fra
lista, elettori e senatori, dal momento che la scelta dei candidati ai seggi della seconda Camera,
costituendo, in un certo senso, una parte integrante del progetto politico con cui la lista si presenta
all'elettore, potrebbe influire positivamente o negativamente sull'adesione a quel programma nel
momento del voto. Ne consegue che non può essere escluso a priori, potendo invece essere
considerato altamente probabile, che la scelta dei candidati al Senato sia influenzata più da
valutazioni per così dire “territoriali” che “politiche”. Più da valutazioni che concernono il
radicamento e l’empatia del candidato rispetto alla regione che nei confronti del partito stesso.
Se davvero è intenzione del legislatore costituzionale fare del Senato una camera di
rappresentanza territoriale è necessario tenere conto del sistema politico e dei partiti da cui
muoviamo in ambito regionale. Il sistema illustrato sembra partire da alcune premesse di fatto per
muovere verso prospettive di rinnovamento della rappresentanza regionale.
È innegabile che la realizzazione di un simile obiettivo necessiterà del tempo, utile a permettere
ai soggetti politici, alle istituzioni ed agli elettori di introiettare quelle dinamiche e quella cultura del
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decentramento che a tutt’oggi non sembrano essere state genuinamente metabolizzate dal nostro
ordinamento. Non di meno ritengo che i tempi possano essere maturi per un cambiamento.
Per quel che concerne il secondo punto, parto da una convinzione: quella che mi induce a
considerare opportuno che i presidenti regionali non entrino a far parte del futuro Senato, lasciando
ai consiglieri i seggi della Camera alta.
Per chiarire il fondamento di una simile affermazione, però, è necessario allargare il focus del
mio ragionamento sino a toccare uno dei punti che considero fondamentali nella costruzione del
nuovo circuito di rappresentanza territoriale, all’indomani dell’eventuale entrata in vigore della
riforma: la definizione dei rapporti fra Senato e sistema delle Conferenze, con particolare riguardo
alla loro coesistenza funzionale.
La trasformazione della seconda Camera in organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali
non smentisce, anzi rafforza la necessità che l’ordinamento possa contare su un efficacie circuito
intergovernativo a latere.
A maggior ragione in corrispondenza di un sistema di Conferenze che, anche nei momenti di
maggiore difficoltà del regionalismo italiano, ha dato prova di efficienza, consolidando ed
incrementando nel tempo il suo ruolo in termini qualitativi e quantitativi. In assenza di un organo
deputato ad hoc, la partecipazione delle entità territoriali nei procedimenti di decisione, infatti, è
stata garantita dalle Conferenze, la cui funzione, ab origine meramente consultiva si è trasformata,
per volere del legislatore stesso e per consolidamento della giurisprudenza costituzionale, sino a
sfociare in previsioni di intervento obbligatorio, che hanno di fatto dato vita a procedimenti
legislativi aggravati, a Costituzione invariata. Basti pensare, ad esempio, al necessario
coinvolgimento della Conferenza Stato-regioni nella definizione degli schemi della legge
comunitaria da parte delle Camere o dei disegni di legge, dei decreti legislativi delegati e dei
regolamenti del Governo in materie di competenza regionale.
La metamorfosi del Senato in organo a vocazione territoriale non si pone, pertanto, in termini di
sostituzione, quanto piuttosto di integrazione rispetto al sistema delle Conferenze. Ciò in linea con
quel che avviene anche nel panorama del diritto comparato.
A prescindere dalla natura regionale o federale dello Stato, infatti, si evidenzia in
corrispondenza di ordinamenti decentrati, la necessità da una parte di consentire alle entità
substatali la partecipazione alle decisioni dello Stato centrale al fine di sussumere gli interessi
situati territorialmente nell’interesse generale nazionale, nonché di salvaguardare le prerogative
autonomiche da eventuali eccessi dello Stato centrale; dall’altra di favorire procedure di mediazione
e negoziazione sia in senso orizzontale che verticale.
Il profilo dei diversi circuiti intergovernativi risulta, pertanto, fortemente influenzato dalla forma
di governo e dal tipo di Stato di ciascun ordinamento. Non di meno, è possibile individuare alcuni
tratti che permettono una prima classificazione tesa a distinguere da una parte l’esperienza di quei
sistemi che sono il risultato di un atto di aggregazione progressiva di più Stati; dall’altra quella dei
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paesi in cui è in corso o si è concluso un processo di disaggregazione territoriale del potere in senso
regionale o federale.
E sia: mentre nel primo caso la creazione di una camera federale, rappresentativa delle entità
federate e capace di garantire loro la partecipazione al progetto politico della federazione, è
avvertita come istanza primaria, nel secondo la necessità di coordinare gli enti territoriali all’interno
di un sistema che senza soluzione di continuità evolve dalla forma accentrata a quella decentrata
impone innanzitutto la creazione di strutture di concertazione.
Quello che interessa qui rilevare, ai fini delle nostre riflessioni, è l’evoluzione successiva che
denota una evidente convergenza fra le due categorie, confermando l’ipotesi della necessaria
coesistenza, per quel che concerne la partecipazione delle entità territoriali a livello centrale, tanto
di un organo di rappresentanza parlamentare quanto di una sede di concertazione intergovernativa.
Infatti, mentre negli Stati federali di origine aggregativa (penso all’esperienza degli Stati Uniti,
del Canada, dell’Australia, fra gli altri) si assiste progressivamente allo sviluppo di un circuito di
conferenze che vanno ad affiancare l’attività della seconda Camera, sino ad affievolirne, in alcuni
casi, il ruolo istituzionale, per quel che concerne gli Stati in cui sono in atto processi di
decentramento (Belgio, Spagna, la stessa Italia), al consolidarsi delle prerogative di autonomia
territoriale corrisponde l’intensificarsi delle rivendicazioni delle entità substatali in merito alla
rappresentanza politica a livello centrale, sino alla trasformazione in senso territoriale della Camera
alta.
Pur non potendo formulare alcuna regola di inesorabile consequenzialità fra decentramento,
Senato e circuito intergovernativo, è legittimo, dunque, trarre alcune considerazioni circa la
compresenza di Camere territoriali e sistemi di conferenze, più o meno articolati, in corrispondenza
di sistemi decentrati: compresenza che pare essere finalizzata alla ricerca di un equilibrio fra l’unità
e la diversità, fra istanze di autonomia ed esigenze di centralizzazione, fra rappresentazione delle
differenze e integrazione politica.
Per quanto riguarda l’Italia, immaginare un panorama istituzionale in cui la coesistenza fra
nuovo Senato territoriale e sistema delle Conferenze sia non solo possibile ma anche virtuosa
significa prima di tutto: 1) adoperarsi per operare un’azione di differenziazione per quel che
concerne la vocazione funzionale dell’uno e dell’altra; 2) compiere una opportuna razionalizzazione
nei criteri di assegnazione delle competenze; 3) provvedere al riordino delle strutture del sistema
delle Conferenze.
Non vi è dubbio alcuno in merito al fatto che dalle decisioni che verranno prese circa una
possibile differenziazione ontologica e funzionale della Camera alta rispetto al sistema delle
conferenze discenderanno tutta una serie di conseguenze che riguardano, da una parte, aspetti
prettamente pratici, quali l’assegnazione di competenze e la revisione dell’organizzazione interna
del circuito intergovernativo; dall’altra profili di rilevanza politica che incidono per l’appunto, tra le
altre cose, sull’opportuna partecipazione o meno dei presidenti regionali al Senato.
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Decidere quale vocazione funzionale devono perseguire la Camera territoriale e il sistema delle
Conferenze significa, infatti, assumere una posizione preventiva fra le tante possibili opzioni che la
teoria del decentramento offre. È necessario conoscere la meta verso cui ci dirigiamo al fine di
definire la rotta di viaggio e l’equipaggiamento necessario. È necessario decidere verso quale tipo di
decentramento desideriamo si orienti il nostro ordinamento per approntare soluzioni istituzionali
adatte allo scopo.
Se, dunque, la riforma è occasione per rivitalizzare il regionalismo italiano, superando
l’anomalia di un bicameralismo paritario e affidando alle entità territoriali uno spazio di
rappresentanza parlamentare al fine di integrare la dimensione nazionale della sovranità con quella
territoriale, allora proprio nell’ottica di un rafforzamento del decentramento bisognerà differenziare
la posizione del Senato e del sistema delle Conferenze riconoscendo a ciascuno una funzione e, di
conseguenza, un ruolo e delle competenze diverse.
Ed è in quest’ottica che ritengo che, al fine di dare nuova linfa al decentramento italiano, sia
essenziale riconoscere nel Senato l’organo garante dell’autonomia territoriale, nella prospettiva, se
vogliamo, di quanto previsto all’art. 114. Ed è in questa prospettiva che una disposizione tanto
controversa e da molti considerata abnorme rispetto all’organizzazione del tipo di Stato italiano
potrebbe trovare una propria collocazione sistemica: la presenza dei sindaci all’interno del Senato
potrebbe, così, essere giustificata, quand’anche non condivisa (se solo si pensa alle esperienze del
diritto comparato che più di altre hanno valorizzato il ruolo degli enti locali quale livello di governo
autonomo – Brasile, India, Sudafrica – pur non prevedendo alcuna loro partecipazione in sede
parlamentare).
Andando oltre le polemiche che stanno accompagnando la riflessione attorno al testo di riforma
costituzionale, circa lo svuotamento funzionale cui sarebbe sottoposto il Senato e la conseguente
privazione di un suo possibile ruolo di controllo, si tratterebbe di riconoscere alla Camera alta il
compito di salvaguardare il decentramento come principio generale del nostro ordinamento, di
promuovere l’autonomia e il suo esercizio, di valorizzare le istanze territoriali in seno ai processi di
decisione a livello centrale. Ciò, naturalmente, attraverso l’intervento nei processi legislativi
necessariamente bicamerali; ma anche e soprattutto attraverso la partecipazione al procedimento
legislativo a prevalenza della Camera bassa. È in questo secondo caso, infatti, che lo spirito garante
del Senato potrebbe meglio esprimersi sondando a priori le possibili ricadute in termini di lesione,
restrizione, prevaricazione delle prerogative autonomiche di un testo legislativo che pure sulla carta
parrebbe non riguardare l’ambito regionale. Non mancano gli esempi: dai più evidenti in materia
finanziaria, ai più opachi, come nel caso della legislazione sul potere estero che indirettamente
potrebbe interferire sull’autonomia di cooperazione transfrontaliera delle regioni.
D’altra parte, sia detto per inciso, e il tema meriterebbe un approfondimento che in questa sede
non è possibile, è chiaro che l’idea che il Senato rappresenti la roccaforte dell’autonomia e del
decentramento quali elementi costitutivi del nostro ordinamento implica che i senatori prendano
assai seriamente in considerazione il loro legame con il territorio in senso lato; riconoscano che il
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loro mandato si fonda su presupposti di rappresentanza diversi da quelli che caratterizzano il
mandato dei deputati; plasmino la loro azione politica sulla base di questi peculiari presupposti.
Implica altresì che i lavori del Senato siano organizzati al fine di svolgere al meglio questa
funzione di garanzia a partire dalla fase di monitoraggio, valutazione e selezione delle leggi rispetto
alle quali la Camera alta ritiene utile far sentire la propria opinione formulando emendamenti al
testo approvato dalla Camera bassa, avendo ravvisato un pericolo per il sistema regionale. Ancora
una volta il diritto comparato può aiutare ad individuare soluzioni efficienti: la costituzione, ad
esempio, in sede di regolamento, di un comité o di una mesa permanente presso il Senato con il fine
di assicurare una valutazione costante dell’attività legislativa della Camera bassa.
Per quanto riguarda il sistema delle Conferenze, va da sé che l’eventuale entrata in scena di un
nuovo organo a vocazione territoriale comporterà l’inevitabile ridimensionamento del suo ruolo:
definirne la funzione significa, innanzitutto, definire un criterio efficiente per operare questo
ridimensionamento.
Chiarito il posto che il Senato dovrà occupare nel rinnovato contesto costituzionale, gli spazi
assegnati al sistema delle Conferenze si leggono in controluce. Sono quelli che il circuito
intergovernativo, negli anni, ha saputo conquistare e l’ordinamento gli ha riconosciuto e che
residuano dal riconoscimento di una funzione di integrazione e garanzia al Senato. Non è possibile,
infatti, per il sistema regionale italiano privarsi di una sede di confronto e concertazione che con il
tempo si è rivelata un laboratorio in cui si vagliano soluzioni politiche, le più accessibili fra le tante
possibili, tenuto conto di contingenze politico-economiche che diversamente non potrebbero essere
prese in considerazione, nonostante la loro centralità nell’attuazione dell’indirizzo politico. Il
sistema delle Conferenze, pertanto, dovrà essere riconfermato quale luogo di elaborazione di
politiche concertate fra centro e periferia, adatte a dare attuazione ad una legislazione che, nel
rispetto dei principi di autonomia e decentramento, sono state definite in sede parlamentare.
La differenziazione funzionale fra Senato e sistema delle Conferenze dovrebbe coincidere
dunque con la differenza che corre fra atto legislativo e scelte politiche e di governo. Se pure il
progressivo affermarsi del ruolo degli esecutivi e il peso sempre più marcato che i loro presidenti
esercitano a discapito della collegialità dell’organo ha contribuito a rendere sempre più opaco e
labile il confine fra l’uno e le altre, non di meno esso esiste e, pur accettando possibili zone
d’ombra, deve essere ricalcato.
Ed è lungo questo confine che corrono le ragioni della mia preferenza rispetto ad un Senato che
fra i suoi membri non accolga i Presidenti. Essi devono continuare a sedere in Conferenza Statoregioni dove ben sono in grado di rappresentare quelle contingenti istanze politico-economiche la
cui comprensione permette un’efficiente progettazione e attuazione delle delibere legislative; dove
la contrattazione è a livello governativo; dove ogni regione può contare su una rappresentanza
paritaria; dove l’unanimità nella definizione di un accordo non è solo potenzialmente possibile, ma
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anche auspicabile; dove l’interesse di ciascun territorio prevale sulle logiche politiche (e di ciò i
presidenti hanno dato tante volte prova in Conferenza).
In Senato, diversamente, si dovrà lasciare spazio alla componente legislativa delle regioni. Qui,
infatti, non dovrà essere l’interesse della regione in cui si è stati eletti a prevalere, bensì l’interesse
del sistema regionale rispetto all’interesse nazionale.
Pare in tal senso significativo che il dettato del testo costituzionale riformato assegni al Senato
nel suo complesso la funzione di rappresentanza delle istituzioni regionali, con ciò segnando una
distanza rispetto alla tradizionale affermazione per cui ogni singolo parlamentare rappresenta la
Nazione, che resterebbe valida per i soli deputati.
È alla integrazione che si mira e non alla rappresentazione dei particolarismi. Ecco perché è
stato confermato per i consiglieri il divieto mandato imperativo: e come potrebbe, dunque, un
presidente regionale sedere in Parlamento spogliandosi del suo ruolo istituzionale di rappresentante
della regione che, con investitura diretta e popolare, è stato chiamato a ricoprire? L’art. 67 Cost., a
parere di chi scrive resta un argomento capace di generare più di una perplessità rispetto alla
partecipazione dei presidenti regionali al Senato in qualità di membri.
Né vale richiamare in questa sede, come in altre si è fatto tante volte, l’esempio del Bundesrat
tedesco: esso costituisce in effetti un unicum (al punto che la dottrina dubita della sua
classificazione quale Camera parlamentare), difficilmente esportabile, dal momento che il suo
successo è strettamente legato ad alcune peculiari caratteristiche del sistema federale tedesco, fra
cui la sua natura “esecutiva” e il forte radicamento di una cultura federale che informa di sé
l’operato delle istituzioni e degli elettori. Due caratteri completamente estranei al nostro sistema, la
cui assenza minerebbe a priori la riuscita di qualsivoglia trapianto istituzionale “alla tedesca”.
È stato detto che l’assenza del Presidente regionale in Senato romperebbe quel continuum
istituzionale fra livello regionale e livello centrale che proprio il Senato riformato dovrebbe
garantire: non ritengo sia così. Quel continuum sarebbe comunque assicurato, in termini di sistema,
dalla presenza dei consiglieri che in virtù del sistema elettorale regionale finirebbero comunque con
l’essere espressione della maggioranza di governo regionale, a maggior ragione nel caso in cui la
soluzione proposta ancora in questa sede, con la selezione dei consiglieri/senatori tramite listino,
fosse adottata.
È stato detto ancora che l’assenza dei presidenti in Senato determinerebbe un inevitabile
abbassamento qualitativo dei lavori in seno alla Camera alta. È innegabile che la classe ed il sistema
politico regionale nel suo complesso negli ultimi anni non sembrano aver dato grande prova di sé, al
punto da scoraggiare soluzioni costituzionali che puntano sulla capacità e l’attività dei senatori
selezionati in/dal Consiglio regionale. D’altra parte, nel momento in cui ci si trova a ragionare di
riforma costituzionale, e dunque di riforma delle regole di funzionamento di un ordinamento nel suo
complesso, ritengo che il senso pratico che pure andrà tenuto presente sul piano politico, non debba
soffocare del tutto la riflessione giuridica. Essa, se è vero che non può trascurare la realtà, neppure
può rinunciare a disegnare un futuro a prescindere dai limiti strutturali del presente. Un’opera di
(visionaria, diranno alcuni) architettura costituzionale che non esclude successivi possibili interventi
di ingegneria.
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Tralascerò, infine, in questa sede di soffermarmi sugli evidenti vantaggi che in termini di
autonomia politica e di impegno politico deriverebbero dall’opzione di non includere fra i senatori i
presidenti regionali, i quali sarebbero liberi di riversare le loro energie e risorse politiche al
perseguimento del solo interesse della regione nella quale sono stati eletti, senza dover cedere alle
logiche della dimensione nazionale estranee al mandato che sono stati chiamati a svolgere
direttamente dagli elettori.
È chiaro che ci si confronta qui con un cambio di prospettiva a 360° rispetto al concetto di
sovranità che sinora ha trovato cittadinanza nel nostro ordinamento. In particolare l’idea che la
rappresentanza per essere piena debba essere rappresentazione dell’unità nazionale politica,
espressione diretta di tutto il corpo elettorale, proiezione di un voto eguale, dovrà essere rivista alla
luce dell’introduzione della rappresentanza politica territoriale che per il solo fatto di essere
geograficamente parziale non è necessariamente riproduzione di interessi faziosi, quanto piuttosto
manifestazione di istanze “situate”, partecipazione del popolo alla politica nazionale attraverso le
autonomie.
Quanto sinora sostenuto sul piano delle funzioni comporta altresì evidenti ricadute anche sul
piano del riparto di competenze fra il Senato ed il sistema delle Conferenze.
In particolare, tutto ciò premesso, la divisione, pure da più parti proposta, secondo cui al Senato
riformato dovrebbero essere assegnate competenze di tipo legislativo, mentre alle Conferenze
quelle in ambito amministrativo introduce una semplificazione eccessiva. Anche a voler prescindere
da quei casi di specie che sono inevitabilmente a cavallo fra i due ambiti, è evidente, alla luce di
quanto detto, la difficoltà ad operare una netta distinzione fra legislazione e amministrazione in
talune materie.
Meglio dunque, ancora una volta, prediligere un approccio funzionale, assegnando all’uno o alle
altre competenza non in base ad un criterio nominale ma teleologico, tenuto conto dell’obiettivo da
perseguire. Potrebbe darsi, dunque, che su una stessa questione si trovino a dover intervenire, ad
esempio, tanto la Conferenza Stato-regioni, quanto il Senato: quasi inevitabilmente ciò accadrà in
corrispondenza di quelle fattispecie che oggi comportano l’assunzione di un parere obbligatorio
della Conferenza. Come immaginare, infatti, la sua esclusione nell’iter di approvazione della legge
comunitaria e come non riconoscere parimenti uno spazio al Senato che per dettato costituzionale è
chiamato a svolgere un’azione di raccordo fra gli enti territoriali, l’Unione europea e lo Stato?
Come prescindere dal coinvolgimento della Conferenza sugli schemi dei disegni di legge
finanziaria o dei documenti di programmazione economica e finanziaria, tenuto altresì conto del
ruolo che il nuovo art. 70 riconosce al Senato in sede di bilancio e rendiconto consuntivo dello
Stato?
Eventuali sovrapposizioni rispetto alle materie saranno inevitabili; una netta separazione
funzionale è invece auspicabile al fine di limitare casi di contrapposizione.
Non si ravvisano, dunque, ragioni plausibili per legittimare un intervento che a priori sottragga
alla Conferenza Stato-regioni, in particolare, competenze di natura deliberativa, consultiva, di
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raccordo e coordinamento o monitoraggio e verifica di cui oggi gode e di cui dovrebbe continuare a
godere nella misura in cui esse non siano esercitate con la volontà di sostituire o superare l’azione
del Senato. In tal caso la tutela costituzionale garantita alla funzione del Senato, e non a quella della
Conferenza, garantirebbe comunque la prevalenza del primo sulla seconda.
L’ipotesi di una differenziazione funzionale piuttosto che materiale fra i due organi sembrerebbe
trovare conferma, in particolare, con riferimento all’attività di raccordo. Essa è stata
tradizionalmente assegnata, dalla stessa Corte Costituzionale, al sistema delle Conferenze e sarà
riconosciuta, qualora il testo di riforma costituzionale entrasse in vigore, anche al Senato. E dunque:
come negare la necessità di un “raccordo nel raccordo”? Come escludere a priori che il riferimento
al raccordo possa rimandare innanzitutto all’assunzione di un metodo operativo in grado di
condizionare tanto i lavori del Senato quanto quelli della Conferenza, presupponendo, altresì, un
dovere interorganico di collaborazione, a prescindere da una rigida ripartizione delle competenze in
senso materiale?
È in quest’ottica, mi pare, che l’eventuale partecipazione dei rappresentanti della Conferenza
Stato-regioni alle sedute del Senato non deve essere esclusa. Si tratta, anzi, di un’opzione che deve
essere valutata proprio al fine di valorizzare gli obiettivi di raccordo, attraverso la previsione, nel
regolamento del Senato riformato, di sedute di audizione o del diritto di parola. È evidente, infatti,
che individuare spazi e modi di confronto fra Conferenza Stato-regioni e Senato risulta prioritario,
dal momento che, al fine di dare vita ad un genuino sistema decentrato integrato non potrà restare
inascoltato il parere dei presidenti rispetto ad un progetto di legge su cui hanno voluto esprimere un
giudizio di merito; né le loro perplessità potranno cadere nell’indifferenza. Diversamente le
conseguenze in termini di aumento del contenzioso giurisdizionale e dell’inattuazione legislativa
risulterebbero nel tempo insostenibili per il sistema.
D’altra parte, andrà sottolineato come la valorizzazione della funzione di raccordo
accompagnata da un serio tentativo di diffusione di una cultura politica del decentramento, capace
di trasformare il DNA del sistema politico italiano, implichi necessariamente il ricorso ad alcuni
principi generali. Quegli stessi che avendo dato buona prova di sé nell’esperienza del diritto
comparato sono già penetrati nel nostro ordinamento
Si pensi, ad esempio, alle implicazioni pratiche cui potrà condurre il richiamo e l’applicazione
capillare del principio della leale collaborazione come fondamento delle relazioni fra entità
territoriali e Stato, ma anche fra i diversi organi deputati al raccordo multilivello.
Radicato nel diritto positivo (il riferimento è al concetto di “buona fede contrattuale”),
consolidato dalla Corte costituzionale tedesca in via giurisprudenziale (:Bundestreue), accolto nel
diritto comunitario, il principio di leale collaborazione non mira alla mera risoluzione di conflitti di
competenza. Risponde, piuttosto, a esigenze di etica costituzionale, favorendo l’insorgere di
reciproca fiducia fra gli enti territoriali, richiamandoli ad una cooperazione in grado di garantire il
mantenimento dell’equilibrio fra i diversi livelli di governo e, dunque, della struttura nel suo
complesso.
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La giurisprudenza costituzionale del Belgio, che della leale collaborazione ha fatto uno dei
pilastri del proprio sistema federale, ricorda come la lealtà istituzionale, nelle dinamiche dello Stato
decentrato, imponga assai più che doveri di astensione nel rispetto delle competenze altrui. Impone,
altresì, doveri di concertazione, coordinamento, consultazione, che presuppongono la volontà di
andare oltre i singoli interessi, assumendo una visione d’insieme nell’ottica del compimento di un
progetto comune.
È questa essenza politica, che richiede valutazioni di opportunità, piuttosto che il ricorso a rigidi
schemi di ripartizione, a rappresentare al contempo il suo limite ed il suo punto di forza: in
corrispondenza del principio di leale collaborazione, infatti, risulta assai poco utile cercare conforto
tra i criteri di assegnazione delle competenze. Si tratta di uno strumento duttile, che ben si presta a
gettare luce nelle zone d’ombra, a patto che lo si sia assunto come principio ispiratore delle
relazioni centro-periferia, in grado di permeare di sé la cultura politica del sistema, privilegiando la
prospettiva decentrata e multilivello rispetto a quella dello Stato centralizzato.
D’altra parte, è ancora una volta l’esperienza comparata a dimostrare che questa natura
prevalentemente politica non esclude la sua “giustiziabilità” dinnanzi alla giustizia costituzionale.
L’atteggiamento della Corte italiana, sempre più attenta a stigmatizzare quelle situazioni in cui la
marginalizzazione della Conferenza è stata percepita come un atto di slealtà del Governo nei
confronti del sistema regionale, trova riscontro nel quadro della Sesta riforma dello Stato belga, con
l’inclusione del principio di loyauté fèdèrale nel blocco di costituzionalità, nonché nell’evoluzione
della giurisprudenza svizzera avvezza a concetti quali quello di fidelité o amitié (con)fédérale.
Potremmo, dunque, essere alle soglie di una impegnativa trasformazione per quel che concerne
l’organizzazione politica e territoriale del nostro Paese. A patto di voler rinunciare a dinamiche
istituzionali conosciute e solo per questo rassicuranti, nonostante la loro evidente inadeguatezza a
governare un ordinamento che stenta a dare attuazione all’art. 5 della sua Costituzione.
Da più parti, fra le ragioni che dovrebbero far propendere per l’inclusione dei presidenti
regionali tra i senatori è annoverata la potenziale riduzione del contenzioso costituzionale per quel
che concerne il diritto regionale, presupponendo che l’intervento del capo dell’esecutivo della
regione in sede di deliberazione parlamentare renda più improbabile il ricorso alla Consulta. Al di là
della natura del tutto ipotetica di una simile illazione, bisognerà concludere piuttosto che è
nell’attenzione che verrà prestata alla selezione dei consiglieri/senatori, alla definizione dei loro
legami con la regione di provenienza, alla definizione di un ruolo di garanzia dell’autonomia
costituzionale ad essi assegnato e, appunto, alla diffusione di un clima di cooperazione legato al
consolidamento di pratiche di leale collaborazione che si gioca la possibile deflazione
dell’intervento della giustizia costituzionale nei rapporti centro-periferia, il cui grado di tensione
risulta essere inversamente proporzionale allo sviluppo di relazioni di cooperazione piuttosto che a
logiche di personalizzazione del potere, rischiose nel caso della proliferazioni di incarichi in capo al
presidente regionale.
Infine, alcune considerazioni circa la necessità di provvedere ad un riordino delle strutture del
sistema delle Conferenze.
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OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Di fronte ad un Senato rispetto al quale molto resta da dire sul piano della composizione, per
quel che concerne l’organizzazione del sistema delle conferenze, infine, è auspicabile immaginare
un ripensamento per razionalizzare le strutture attualmente attive e permettere una emersione
dell’attività dei circuiti intergovernativi il cui limite è forse non tanto un difetto di trasparenza
quanto piuttosto di visibilità per quel che concerne il suo operato.
In particolare, pur conservando quel carattere informale che caratterizza un po’ tutte le
esperienze intergovernative nel panorama del diritto comparato, dovrebbe essere ripresa in
considerazione l’idea, più volte avanzata negli ultimi anni, di provvedere ad una fusione della
Conferenza Stato-Città-enti locali con la Conferenza Stato-regioni. Più che di una soppressione si
tratterebbe di una integrazione della Conferenza Stato-regioni, immaginando riunioni in seduta
integrata con i rappresentanti degli enti locali o una sua articolazione interna in sezioni che possa
tenere conto, per l’appunto, delle istanze delle istituzioni locali nel quadro dell’attuazione delle
politiche regionali, facilitando una logica di sussunzione dal basso verso l’alto degli interessi
territoriali che stenta a prendere piede in Italia pur rappresentando una dinamica assodata
nell’esperienza comparata.
Qualche riserva deve essere espressa, invece, circa la previsione di stabili procedure in grado di
assicurare la partecipazione del Coordinamento delle assemblee legislative, tanto alle sedute del
Senato, quanto ai lavori della Conferenza. Nel primo caso l’apporto delle assemblee dovrebbe
essere assorbito, nello schema qui proposto, dall’attività dei consiglieri/senatori, rappresentanti
dell’istanza regionale in senso lato e delle prerogative autonomiche del sistema decentrato. Nel
secondo la presenza dei rappresentanti delle assemblee legislative potrebbe risultare inopportuna
qualora non adeguatamente contingentata rispetto ai temi da trattare determinando una indebita
interferenza nelle fasi di definizione delle politiche regionali di attuazione dell’indirizzo politico. La
Conferenza potrebbe, dunque, continuare ad avvalersi di questo organo, in grado di fornire
informazioni e valutazioni d’insieme difficilmente reperibili altrimenti, ma senza confondere la
propria struttura con l’altra.
Diverso il discorso circa l’opportunità che, proprio in virtù del principio di leale
collaborazione, il sistema parlamentare possa continuare ad avvalersi di sedi di concertazione
bicamerale, permanenti o meno.
Non pare soddisfare fino in fondo, infatti, l’idea di una mediazione condotta dai soli presidenti
delle Camere, a meno che ad essi non siano riconosciute prerogative nell’avvio di attività
bicamerali.
Per esempio, in assenza di aggravi posti in capo alla Camera dei deputati per il superamento di
emendamenti proposti dal Senato e tenuto conto dei tempi strettissimi assegnati al Senato per
emendare un testo già approvato dalla Camera bassa, si potrebbe immaginare di aprire uno spazio
per la previsione di commissioni bicamerali di concertazione, in grado di superare, al verificarsi di
condizioni predefinite, un disaccordo legislativo, che sarebbe bene non venisse bypassato solo
puntando sulla forza dei numeri o sulla mera primazia di una Camera sull’altra. Il diritto
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OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
comparato offre una variegata scelta di modelli (solo per restare in ambito europeo: la Germania, il
Belgio, la Spagna, la Russia, la Bosnia-Erzegovina) ai quali il legislatore potrebbe prestare
maggiore attenzione.
Il solo fatto che la Costituzione una volta riformata non preveda espressamente l’eventuale
intervento delle commissioni di concertazione nell’iter legislativo non significa affatto che queste
non possano trovare un loro spazio. Laddove sia il regolamento della Camera dei deputati, ad
esempio, a prevederne la costituzione, esse non concreterebbero affatto una lesione del
procedimento legislativo costituzionalmente definito. Piuttosto, la loro previsione regolamentare
rappresenterebbe un atto di autolimitazione della Camera bassa che in corrispondenza di
particolari circostanze potrebbe ritenere essenziale dare maggior rilievo all’intervento del Senato
nell’iter di approvazione della legge.
Evidentemente la prevalenza della Camera bassa nel procedimento legislativo non può essere
revocata in dubbio, neppure per espressa volontà della Camera stessa, dal momento che una
eventuale parificazione delle due camere al di là dei casi stabiliti finirebbe con il presentare profili
di dubbia costituzionalità. Non di meno, una riflessione può comunque essere aperta in merito agli
effetti delle decisioni della commissione, nonché per quel che concerne i soggetti legittimati a
convocarla. Ne consegue che, assicurata in linea di principio la subalternità della seconda Camera
rispetto alla Camera dei deputati, d’altra parte residua uno spazio per ipotizzare un effetto
vincolante delle decisioni cui perviene la commissione di conciliazione.
Chiuderò questo mio intervento con una riflessione in merito alle possibili evoluzioni del
sistema Conferenza Stato-regioni e delle sue relazioni con il Senato nel caso in cui il testo di
riforma non trovi la conferma dell’elettorato.
Al di là della più volte richiamata tradizione municipalista italiana, pare dover essere ribadita in
questa sede l'idea per cui se pure è vero che il corretto funzionamento di un sistema composto
presuppone la partecipazione di tutti i livelli di governo all'atto decisionale, ciò non giustifica
affatto la presunzione per cui questa partecipazione debba concretarsi nella inclusione in tutte le
sedi della decisione.
Meglio sarebbe, piuttosto, ipotizzare la definizione di un sistema concentrico, in grado di
assicurare la sussunzione del piano inferiore in quello immediatamente successivo. Né vale
l'obiezione, in talune occasioni sollevata, volta ad enfatizzare il ruolo dei sistema degli enti locali
nell'ordinamento italiano e la loro stretta dipendenza dal governo centrale che inibisce ogni
tentativo istituzionale di mettere in stretta relazione gli enti locali con il piano regionale, piuttosto
che con quello nazionale.
La continuità Stato-enti territoriali non è una peculiarità solo italiana. Il legame delle
municipalità con lo Stato, infatti, deriva dalla tradizione centralista, comune a molti sistemi. Ma
essa può, anzi deve essere superata a favore di una prospettiva regionale nel momento in cui lo
Stato centrale avvia un deciso processo di disarticolazione territoriale del potere.
Così è avvenuto in Belgio e così anche in Spagna, dove, parallelamente all’incisivo processo di
decentramento disaggregativo che ha interessato l’ordinamento accentrato, in favore di tipi di Stato
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OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
quali quello federale e quello “autoctono” rappresentato dal modello autonomico, si è assistito, ed il
processo appare tutt’altro che concluso, alla progressiva attrazione del sistema locale entro il campo
gravitazionale degli enti substatali con una progressiva abdicazione in materia del livello centrale.
La mancata definizione di una visione integrata delle diverse componenti territoriali del nostro
ordinamento è chiaramente da annoverarsi fra le cause che più di altre hanno ingessato lo sviluppo
armonico dello Stato composto in Italia. In assenza di un’esplicita norma costituzionale che
attribuisce allo Stato una competenza legislativa generale in materia di enti locali, il consolidarsi di
un sistema volto a inibire un ruolo di coordinamento in capo alle regioni rispetto agli enti locali è
chiaramente da riconnettersi alla giurisprudenza della Corte costituzionale (Cfr. sentenze nn.
48/2003, 377/2003, 159/2008) ed alla sua lettura estensiva dell’art. 117, II comma, lettera p), che
riconosce allo Stato competenza esclusiva in tema di «legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di comuni, Provincie e Città metropolitane».
A Costituzione invariata bisognerà operare al fine di garantire lo sviluppo di un organico
“sistema-regione”, di un sistema, cioè, in grado di favorire il consolidamento di una rete a livello
territoriale che garantisce una efficace gestione del decentramento territoriale che tenga conto della
differenza sostanziale fra enti a competenza legislativa ed enti a vocazione meramente politcoammnistrativa.
Anche laddove il testo di revisione costituzionale non dovesse entrare in vigore, dunque,
resterebbe valida la prospettiva di un ripensamento della struttura del sistema delle Conferenze nel
senso di una definitiva attrazione della Conferenza enti locali all’interno della organizzazione della
Conferenza Stato-regioni nei termini prima richiamati.
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