OSSERVATORIO EUROPEO
LA CORTE DI GIUSTIZIA TRA DIRITTO DI SCIOPERO E
LIBERTÀ ECONOMICHE FONDAMENTALI.
QUALE BILANCIAMENTO?*
IVAN INGRAVALLO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le sentenze Viking, Laval e Rüffert e la “continuità” della giurisprudenza
comunitaria. – 3. Il riconoscimento del carattere fondamentale del diritto di sciopero e di quello
di azione collettiva e le limitazioni al loro esercizio. – 4. La questione dell’effetto diretto
orizzontale degli articoli 43 e 49 del Trattato CE. – 5. La rilevanza della direttiva sul distacco.
Certezza del diritto a discapito dei diritti? – 6. Allargamento dell’Unione Europea e rischi di
dumping sociale. – 7. Alcuni possibili rimedi e correttivi a tutela dei sistemi nazionali di
relazioni industriali. – 8. Prospettive: dal ruolo di “supplenza” della Corte ad un nuovo
protagonismo per gli attori politici e sociali?
1. Le sentenze Viking, Laval e Rüffert, emanate dalla Corte di Giustizia, rispettivamente, l’11 e il 18 dicembre 2007 e il 3 aprile 2008 1, sollevano diverse questioni problematiche e hanno suscitato un enorme interesse da parte della dottrina, in particolare di quella giuslavorista. L’importanza di tali sentenze risulta, tra l’altro, da due circostanze: l’intervento nel procedimento di numerosi Stati, membri e non dell’Unione
Europea2; l’autorevolezza della composizione della Corte, in quanto le
prime due sentenze sono state pronunciate dalla Grande sezione3.
L’opportunità di considerare congiuntamente le tre sentenze nel
presente contesto deriva dai peculiari legami che le uniscono; in
* Il presente scritto trae spunto dalla relazione presentata al Convegno su “The Viking,
Laval and Rüffert Cases: Freedom and Solidarity in a Market Free from Conflict?”
(Università di Bari, Facoltà di Giurisprudenza, 27 giugno 2008).
1
Le pronunce sono state emanate nelle cause C-438/05 (International Transport Workers’
Federation, Finnish Seamen’s Union c. Viking Line ABP, OÜ Viking Line Eesti), C-341/05
(Laval
un
Partneri
Ltd
c.
Svenska
Byggnadsarbetareförbundet,
Svenska
Byggnadsarbetareförbundets avdelning 1, Byggettan, Svenska Elektrikerförbundet) e C346/06 (Dirk Rüffert c. Land Niedersachsen).
2
Quindici (inclusa la Norvegia) nel procedimento Viking, diciassette (incluse l’Islanda e
la Norvegia) in quello Laval e dieci (inclusa la Norvegia) nella causa Rüffert.
3
Ai sensi dell’art. 16 dello Statuto della Corte di Giustizia, essa si riunisce in Grande
sezione quando lo richieda uno Stato membro o un’istituzione della Comunità che sia parte in
causa. La Grande sezione comprende tredici giudici, incluso il Presidente della Corte (le
sezioni sono invece composte da tre o cinque giudici).
642
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
particolare, nei casi Viking e Laval la Corte ha esaminato il rapporto tra i
diritti di sciopero e di azione collettiva dei sindacati e alcune libertà
fondamentali poste dal Trattato CE, il diritto di stabilimento ex art. 43 nel
primo caso 4 e la libera prestazione di servizi ex art. 49 nel secondo5.
Il legame tra i casi Laval e Rüffert6 è invece dato dalla circostanza
che la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su alcuni profili della
direttiva 96/71/CE in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito di una
prestazione di servizi transnazionale7. Lo squilibrio tra i sistemi di
protezione sociale degli Stati coinvolti, quelli di invio dei lavoratori
distaccati8 e quelli di destinazione9, ha portato la Corte a considerare la
questione del possibile dumping sociale in relazione all’esercizio di una
prestazione di servizi transfrontaliera. La Corte ha riconosciuto quanto
già prefigurato da attenta dottrina (VIARENGO I.; POCAR F., VIARENGO I.),
ossia che la possibilità per gli Stati membri di estendere la loro
legislazione ai lavoratori distaccati da un altro Stato membro, al fine di
realizzare la massima tutela possibile del lavoratore, può tradursi di fatto
in una restrizione alla libera prestazione di servizi.
4
In estrema sintesi, il caso è stato originato dal contrasto tra la Viking, società di diritto
finlandese che gestisce, tra l’altro, il collegamento tra Helsinki (Finlandia) e Tallin (Estonia),
e il sindacato finlandese dei marittimi e la federazione internazionale di sindacati del settore
dei trasporti, contrasto dovuto all’intenzione della Viking di stabilirsi in Estonia, registrando
con bandiera estone la propria nave “Rosella” al fine di rendere meno costoso il servizio,
dovendo fronteggiare la concorrenza delle navi estoni. L’obiettivo quindi è restare sul
mercato e non (solo) negoziare con il sindacato estone un contratto collettivo più favorevole
di quello finlandese (in quest’ultimo senso v. CORTI M.).
5
La controversia ha visto contrapposti la società lettone Laval, che ha distaccato presso la
propria controllata svedese L&P Baltic Bygg AB trentacinque lavoratori lettoni impiegati in
un appalto èdile nell’ambito di una prestazione di servizi transfrontaliera, e i sindacati svedesi
dei lavoratori del settore delle costruzioni e dei lavori pubblici e dei lavoratori del settore
elettrico. In seguito agli scioperi e alle azioni collettive conseguenti al rifiuto della Laval di
aderire alle condizioni poste dai sindacati svedesi, l’impresa non ha potuto rispettare i propri
impegni, il contratto di appalto è stato risolto e la L&P Baltic Bygg AB è fallita.
6
La causa ha avuto origine nella controversia sorta in Germania a seguito della
risoluzione di un contratto d’appalto tra il Land Bassa Sassonia e l’impresa Objekt und
Bauregie (di cui il sig. Rüffert era il curatore fallimentare), che subappaltò il lavoro ad
un’impresa polacca, la quale distaccò in Germania alcuni lavoratori polacchi. La legge del
Land impegnava il vincitore dell’appalto ed i suoi subappaltatori a corrispondere ai loro
dipendenti una retribuzione non inferiore al minimo previsto dal contratto collettivo vigente
nel luogo e al tempo di effettuazione delle prestazioni e, in ragione della violazione da parte
dell’impresa subappaltatrice degli obblighi ad essa incombenti in virtù della legislazione del
Land sull’aggiudicazione degli appalti pubblici, è stato risolto il contratto d’appalto ed è stata
applicata la penale contrattuale.
7
Direttiva 96/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 dicembre 1996
relativa al distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi, in GUCE L 18 del
21 gennaio 1997, 1 ss.
8
Rispettivamente la Lettonia e la Polonia.
9
Rispettivamente la Svezia e la Germania.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
643
2. Anche se alcune delle affermazioni contenute nelle tre sentenze in
oggetto non sembrano condivisibili nel merito, il percorso argomentativo
utilizzato dalla Corte di Giustizia non è nuovo né tantomeno rivoluzionario, poiché conferma la prevalenza delle ragioni del mercato nel processo
di integrazione comunitario, a discapito dei diritti sociali fondamentali; la
Corte ha tenuto conto di questi ultimi, ma ha dato prevalenza alle libertà
economiche fondamentali. Non sembrano condivisibili i rilievi di «scarsa
familiarità [...] con gli istituti giuridici del diritto di sciopero e della
libertà sindacale e di contrattazione» mossi nei confronti della Corte
(CARABELLI U., 2008a). Essa si è, invece, pronunciata con piena cognizione di causa e ha reso le proprie sentenze consapevole del rilievo che
avrebbero avuto. La composizione ampia della Corte e l’elevato numero
di Stati intervenuti, nonché l’accuratezza delle dettagliate conclusioni
degli Avvocati generali – non sempre invero valorizzate dalla Corte – e,
più in generale, l’approfondito lavoro di preparazione del caso svolto
dagli uffici giudiziari comunitari sono tutti elementi che mostrano come
essa fosse nelle migliori condizioni per pronunciarsi.
Del resto, la Corte interpreta e applica il diritto comunitario, nel
quale è con il Trattato di Maastricht «che si palesa in termini evidenti
l’idea che i diritti sociali costituiscono un freno allo sviluppo economico
e che il mercato unico per essere pienamente realizzato ha bisogno di
innesti di deregulation nei sistemi nazionali ritenuti, in un contesto
simile, superprotettivi dei diritti del lavoro e della sicurezza sociale»
(GARGIULO P.; VENEZIANI B., 2006). Le affermazioni della Corte
inducono piuttosto a chiedersi se sia l’organo giudiziario quello più
adatto a “bilanciare” nel contesto comunitario gli interessi del mercato
con i diritti sociali fondamentali (GARGIULO P.; BRONZINI G.; SYRPIS P.,
NOVITZ T.).
La lettura delle sentenze conferma l’esistenza di alcuni elementi
caratterizzanti del processo di integrazione comunitaria così come si è
venuto a delineare nei suoi circa sessant’anni di esistenza. Ci sembra in
particolare che venga confermata l’autonomia dell’ordinamento giuridico
comunitario rispetto a quello degli Stati membri. Come ampiamente noto,
si tratta di un ordinamento del tutto peculiare, poiché istituito come
un’organizzazione internazionale, ma, per l’ampiezza delle competenze
progressivamente acquisite, la quantità degli atti normativi prodotti e la
loro forza giuridica, l’impatto diretto sui singoli (persone fisiche e
giuridiche) all’interno degli Stati membri, si è venuto a caratterizzare
come un fenomeno unico, per il quale è utilizzato il termine di
“organizzazione sovranazionale” (CAPOTORTI F.; FERRARI BRAVO L.;
VILLANI U., 2008a).
644
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Nei tre casi considerati siamo in presenza di una (ulteriore)
pronuncia della Corte che “invade” un determinato settore del diritto
interno (ARNULL A.; CARABELLI U., 2008b; INGLESE I.). È anche questo
un elemento alquanto ricorrente e che trova ampia conferma nella prassi
relativa al diritto comunitario, di cui la giurisprudenza della Corte è parte
integrante, che mostra l’irreversibilità dell’“infiltrazione” dello stesso in
gran parte dei settori tradizionalmente oggetto del diritto nazionale. In
passato è già successo con riferimento a pronunce della Corte che hanno
coinvolto il diritto commerciale, il diritto costituzionale, il diritto di
famiglia, ecc., ed è all’ordine del giorno con riferimento ad esempio al
diritto penale, come dimostrano alcune recenti (e ripetute) pronunce in
materia di ne bis in idem. È del resto ben nota l’attitudine della Corte ad
intendere il proprio ruolo non in termini di pura interpretazione delle
norme dei Trattati (e del diritto comunitario derivato) e di loro
applicazione al caso al suo esame, sentendosi piuttosto svincolata da uno
stretto rispetto delle norme e svolgendo una funzione di evoluzione, di
impulso, se non addirittura “creativa” del diritto, con un ruolo
equiparabile a quello del giudice nei sistemi di common law o del praetor
del diritto romano (VILLANI U., 2008a; PALLINI M.).
Non sembra quindi da accogliere l’opinione di chi, fondandosi sul
dettato dell’art. 137, par. 5 del Trattato CE, rimprovera alla Corte di
essersi intromessa in una questione, quella del diritto di sciopero, rispetto
alla quale il Trattato non è applicabile10, surrettiziamente aggirando il
divieto che la Comunità si è imposta e prevaricando la volontà sovrana
degli Stati membri di cui l’art. 137, par. 5 è espressione (CARABELLI U.,
2008a; PALLINI M.; VENEZIANI B., 2008; DE SALVIA A.; in senso
contrario v. la, condivisibile, opinione di ORLANDINI G.). Questa
opinione, infatti, collide con l’orientamento, da tempo consolidato nella
giurisprudenza della Corte e riaffermato nelle sentenze in esame, per cui
gli Stati, anche in quei settori in cui la Comunità non ha competenza,
sono comunque tenuti a rispettare il diritto comunitario; nei casi in esame
ciò consente alla Corte una valutazione delle azioni collettive alla luce di
tale diritto 11. È questa una conseguenza dell’interpretazione estensiva da
tempo affermata con riferimento al principio di leale collaborazione posto
dall’art. 10 del Trattato CE (TEMPLE LANG J.; VILLANI U., 2008a).
Neppure è condivisibile l’opinione di chi afferma che la Corte
avrebbe dovuto sanzionare l’esistenza di un “abuso” del diritto
10
Art. 137, par. 5: «Le disposizioni del presente articolo non si applicano [...] al diritto di
sciopero [...]».
11
Sentenza Viking, paragrafi 40-41; sentenza Laval, paragrafi 87-88 (in cui sono
richiamati i precedenti giurisprudenziali).
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
645
comunitario insito nella scelta delle imprese di realizzare frazionamenti
transnazionali “artificiosi” al fine di sfruttare le possibilità assicurate
dagli articoli 43 e 49 del Trattato CE (PALLINI M.). Potrebbe in
particolare porsi la questione della “elusione della legge”, che si realizza
quando un soggetto, pur incardinandosi in uno Stato, indirizza totalmente
o prevalentemente le proprie attività economiche verso un altro Stato,
avente una legislazione, in tema di stabilimento, meno “conveniente” o
comunque comportante oneri maggiori, con l’intenzione di utilizzare la
normativa comunitaria sulla libera prestazione di servizi al fine di
“aggirare” quella di tale Stato; occorre inoltre constatare che
l’invocazione della norma comunitaria risulti in contrasto con la finalità
della stessa (GESTRI M.)12. Ci sembra però che ciò non sia riscontrabile
nel caso di specie, in quanto le operazioni commerciali in questione
appaiono giustificate da valide ragioni economiche e non presentano
caratteri di anomalia rispetto all’esercizio delle libertà fondamentali poste
dal Trattato CE.
Più problematica è la questione, pure sollevata (PALLINI M.), della
difficoltà di distinguere, in taluni casi-limite, tra libera circolazione di
servizi e diritto di stabilimento con riferimento a prestazioni prolungate
nel tempo. La Corte non ha affrontato tale questione nelle pronunce in
oggetto, in particolare nei casi Laval e Rüffert, anche se sarebbe stato
forse opportuno considerare tali due situazioni alla luce della propria
precedente giurisprudenza, in base alla quale è da considerare come
stabilito il soggetto «che decida fin dall’inizio di esercitare la propria
attività in uno Stato membro diverso per un periodo di tempo
determinato, purché di durata tale da doversi rivolgere regolarmente al
mercato del paese destinatario, ivi insediando un proprio centro di
attività, per trarre profitto dallo svolgimento della sua professione»
(CONDINANZI M.).
Inoltre, queste sentenze confermano come non sia corretto trasporre
a livello sovranazionale i concetti giuridici nazionali, perché l’autonomia
del fenomeno dell’integrazione comunitaria comporta che esso ha propri
concetti e nozioni giuridiche, i quali, anche quando hanno il medesimo
nomen juris dei concetti giuridici nazionali, sono suscettibili di essere
utilizzati in maniera autonoma e peculiare. Ad esempio, concetti come
“merce”, “associazione d’impresa”, “famigliare del lavoratore”, quando
utilizzati nel diritto comunitario, non sono del tutto coincidenti con i
medesimi concetti utilizzati dagli ordinamenti interni. A tal proposito,
come accennato e come ampiamente noto, è fondamentale il ruolo degli
12
Cfr. in particolare la sentenza emanata il 9 marzo 1999 nella causa C-212/97 (Centros
Ltd c. Erhvervs- og Selskabsstyrelsen).
646
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
organi giudiziari comunitari. Infatti, l’art. 220 del Trattato CE dispone
che la Corte di Giustizia e il Tribunale di Primo grado assicurano il
rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato
CE; è il rinvio pregiudiziale ex art. 234 a garantire l’uniformità
nell’interpretazione e nella validità degli atti comunitari per tutti gli Stati
membri, ponendosi quale strumento decisivo per l’affermazione e il
consolidamento del diritto comunitario.
Quella dell’interpretazione autonoma, con il complementare rifiuto
di interpretazioni unilateralistiche, è del resto una regola consolidata del
diritto dei trattati, prevista da una norma consuetudinaria e ricavabile
anche dagli articoli 31, par. 3, e 33 della Convenzione di Vienna del 23
maggio 1969 (CONFORTI B.; TREVES T.). È la stessa Corte di Giustizia ad
aver affermato ripetutamente l’esigenza di una interpretazione autonoma
del diritto comunitario e del diritto dell’Unione Europea13. Lo stesso deve
quindi affermarsi con riferimento a nozioni come “sciopero”,
“contrattazione collettiva”, ecc., quando esse sono utilizzate nel contesto
comunitario. Occorre interpretare questi concetti giuridici in maniera
unitaria, evitando di utilizzare la “lente” dei rispettivi ordinamenti
nazionali (SCIARRA S.). Il processo di integrazione comunitario
coinvolge, attualmente, ventisette Stati, con le loro rispettive tradizioni
giuridiche e i rispettivi ordinamenti nazionali, e il diritto comunitario non
è legato a nessuno di loro in particolare; anche se di volta in volta può
apparire ispirato da uno dei diritti nazionali o comunque ad esso “vicino”,
il diritto comunitario conserva la propria autonomia e come tale
dev’essere interpretato ed applicato.
3. La Corte ha colto l’occasione di queste pronunce per riconoscere
quali diritti fondamentali – anche a livello di Unione Europea – sia il
diritto di azione collettiva sia quello di sciopero. Al contempo, essa ne ha
affermato il carattere relativo, in quanto l’esercizio degli stessi è
sottoposto a talune condizioni (CARABELLI U., 2008a; CARUSO B.;
THOMAS B., 2008a); in particolare, tale esercizio può essere limitato e
deve svolgersi in conformità al principio di proporzionalità14.
13
Cfr., da ultimo, il par. 42 della sentenza della Grande sezione del 17 luglio 2008, causa
C-66/08, Kozlowski, nel quale la Corte afferma: «Infatti, dalla necessità di garantire tanto
l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza discende
che i termini di una disposizione di tale diritto, la quale non contenga alcun espresso richiamo
al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del suo senso e della sua portata,
devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione, di un’interpretazione autonoma e
uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità
perseguita dalla normativa in questione».
14
Sentenza Viking, paragrafi 44-47; sentenza Laval, paragrafi 91-95.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
647
Come subito vedremo, quella della Corte di Giustizia nei casi Viking
e Laval è un’affermazione di principio che, pur importante al fine di
garantire una tendenziale “parità delle armi” tra gli attori della contesa
industriale (CORTI M.; VENEZIANI B., 2008), lascia però insoddisfatti, dal
momento che i diritti di sciopero e di azione collettiva escono
ridimensionati dal confronto con le libertà di stabilimento e di
circolazione di servizi (VENEZIANI B., 2008). Lo stesso è a dirsi per il
riconoscimento, operato in entrambe le pronunce, della rilevanza dei
profili sociali nella Comunità Europea, ai sensi degli articoli 2 e 3 del
Trattato CE, accanto alla costruzione del mercato interno15. Tale
riconoscimento, peraltro, è un passo avanti nel difficile percorso di
affermazione di una politica sociale comunitaria, cui solo in tempi
relativamente recenti si è incominciato a pensare in termini realmente
sovranazionali e quale politica autonoma rispetto alle libertà
fondamentali del mercato comune (POCAR F., VIARENGO I.; CORTESE
PINTO E.; GARGIULO P.)
La Corte, in definitiva, riconosce il diritto di sciopero e quello di
azione collettiva (in senso contrario, con riferimento a quest’ultimo, v.
THOMAS B., 2008b) negli stessi termini in cui essi sono riconosciuti
dall’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
proclamata a Nizza il 7 dicembre 200016. Ciò induce a non condividere
l’opinione di chi ritiene che una maggiore valorizzazione della Carta nei
casi in esame avrebbe condotto la Corte a pronunciarsi in maniera diversa
(CORTI M.; LO FARO A.). La Carta, inoltre, rappresenta a tale proposito
una soluzione di compromesso, in quanto per un verso riconosce quei
diritti in maniera più limitata rispetto a quanto previsto dalle Costituzioni
di taluni Stati membri (ORLANDINI G.; DE SALVIA A.), per altro si pone in
maniera più avanzata rispetto agli ordinamenti giuridici di altri Stati
membri, che li riconoscono quali libertà, non quali diritti (VENEZIANI B.,
2006).
Secondo la Corte, le azioni collettive costituiscono una limitazione
alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi, ma possono
essere “giustificate”. Come è stato rilevato, il punto di partenza non sono
quindi i diritti fondamentali di sciopero e di azione collettiva, ma le
libertà economiche fondamentali, in rapporto alle quali quei diritti sono
valutati come possibili eccezioni: «Les droits fondamentaux sont appelés
15
Sentenza Viking, par. 78; sentenza Laval, paragrafi 104-105.
Art. 28: «I lavoratori [...], o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al
diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto [...] di ricorrere, in caso di
conflitti d’interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero».
16
648
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
à restreindre le droit communautaire et non l’inverse» (RODIÈRE P.;
THOMAS B., 2008b).
La Corte indica quattro requisiti al fine di operare la suddetta
valutazione: la limitazione deve perseguire un obiettivo legittimo
compatibile con il Trattato CE; essa dev’essere giustificata da ragioni
imperative di interesse generale; dev’essere idonea a garantire la
realizzazione dell’obiettivo perseguito; infine, non deve andare oltre ciò
che è necessario per conseguirlo (principio di proporzionalità)17. In
entrambe le pronunce la Corte ritiene esistenti i primi due requisiti, ma
non gli altri due.
Nel caso Viking la Corte lascia al giudice del rinvio il compito di
effettuare la valutazione nel caso concreto, ma non si limita a fare ciò,
come forse sarebbe stato auspicabile, in quanto entra nel merito e gli
fornisce una serie di indicazioni che manifestano nitidamente un
orientamento volto a dichiarare non conformi al diritto comunitario le
azioni collettive intraprese dal sindacato (PALLINI M.; SCIARRA S.; in
senso contrario THOMAS B., 2008b). Nel caso Laval, invece, dopo aver
riconosciuto che «il diritto di intraprendere un’azione collettiva che ha
come scopo la protezione dei lavoratori dello Stato ospitante contro
un’eventuale pratica di dumping sociale può costituire una ragione
imperativa di interesse generale, ai sensi della giurisprudenza della Corte,
tale da giustificare, in linea di principio, una restrizione a una delle libertà
fondamentali garantite dal Trattato» 18, la Corte entra nel merito delle
azioni collettive realizzate (si veda la critica di PALLINI M.) e conclude
nel senso del carattere “ingiustificato” delle azioni collettive poste in
essere dai sindacati19. Forse la Corte avrebbe potuto valorizzare la
previsione posta dall’art. 3, par. 1, 2° comma della direttiva 96/71/CE, in
base al quale la “nozione” di tariffa minima salariale è definita dalla
legislazione “e/o” dalle prassi nazionali dello Stato membro nel cui
territorio il lavoratore è distaccato; avrebbe potuto considerare che in
Svezia la tariffa minima salariale è individuata in base alla prassi della
trattativa decentrata tra azienda e sindacati (RODIÈRE P.).
Nei due casi in questione la Corte, pur senza dare una propria
definizione di sciopero o di azione collettiva, di fatto ne determina i limiti
e le caratteristiche in relazione all’esercizio delle libertà fondamentali
poste dal Trattato CE. In tale contesto, appare particolarmente criticabile
l’applicazione del criterio della proporzionalità (ORLANDINI G.; CORTI
17
Sentenza Viking, par. 75; sentenza Laval, par. 101.
Sentenza Laval, par. 103.
19
Sentenza Laval, par. 110.
18
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
649
M.; PATRUNO L.; in senso contrario COLUCCI M.)20. Occorre, infatti,
considerare che in alcune circostanze l’utilizzazione che i sindacati fanno
del diritto di sciopero è volutamente “sproporzionata” proprio al fine di
raggiungere un determinato obiettivo e che comunque esso rientra nel
potere di autodeterminazione che caratterizza l’autonomia collettiva (LO
FARO A.; CARABELLI U., 2008a; SYRPIS P., NOVITZ T.; SCIARRA S.;
VENEZIANI B., 2008).
4. Un altro aspetto problematico delle sentenze Viking e Laval è dato
dall’affermazione dell’effetto diretto orizzontale delle norme poste dai
citati articoli 43 e 49 del Trattato CE (su cui v. già in precedenza l’ampia
analisi di ORLANDINI G.), ossia dell’invocabilità di tali disposizioni da
parte di un privato nei confronti di un altro privato (nel caso in questione
da parte di un’impresa nei confronti di un sindacato). Tale questione è
stata sollevata ed affrontata espressamente nel caso Viking, ma trova
spazio anche nel caso Laval21. Nelle due sentenze in esame la Corte
estende alle norme sul diritto di stabilimento e sulla libera circolazione di
servizi la propria giurisprudenza sull’effetto diretto orizzontale,
precedentemente applicata in materia di libera circolazione dei lavoratori
e di libera circolazione delle merci (VILLANI U., 2008a). Essa afferma
che le libertà che discendono dagli articoli 43 e 49 del Trattato CE sono
suscettibili di essere invocate anche nei confronti delle organizzazioni
sindacali che indicono scioperi o azioni collettive (COLUCCI M.).
Non del tutto coerente appare invece la posizione della Corte in
merito alla qualificazione di tali organizzazioni, in quanto, se per un
verso essa afferma trattarsi di soggetti che non hanno natura pubblica22,
per altro verso rileva che, «nell’esercitare il potere autonomo di cui
dispongono grazie alla libertà sindacale di trattare con i datori di lavoro o
le organizzazioni professionali le condizioni di lavoro e di retribuzione
dei lavoratori, le organizzazioni sindacali dei lavoratori partecipano alla
formazione degli accordi finalizzati a disciplinare collettivamente il
20
Sentenza Viking, par. 87: «[occorre] valutare [...] se la FSU [sindacato finlandese dei
marittimi] non disponesse di altri mezzi, meno restrittivi della libertà di stabilimento,per
condurre a buon fine il negoziato collettivo avviato con la Viking e [...] se detto sindacato
avesse esperito tutti questi mezzi prima di avviare l’azione in questione». Sentenza Laval, par.
108: «Occorre tuttavia rilevare che, per quanto riguarda gli obblighi specifici connessi alla
sottoscrizione del contratto collettivo dell’edilizia che le organizzazioni sindacali hanno
tentato di imporre alle imprese stabilite in altri Stati membri con un’azione collettiva come
quella in esame nella causa principale, l’ostacolo che quest’ultima comporta non può essere
giustificato alla luce di tale obiettivo».
21
Sentenza Viking, paragrafi 56-66; sentenza Laval, par. 99.
22
Sentenza Viking, paragrafi 35 e 60; sentenza Laval, par. 98.
650
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
lavoro dipendente» 23. Ciò ha indotto taluno a considerare che le
organizzazioni sindacali, nell’esercizio di un’azione collettiva,
manifestano la loro autonomia giuridica con riferimento ad una
prestazione di servizi transnazionale «comme le ferait une autorité
publique en avant recours à la force publique» (THOMAS B., 2008a); esse
quindi, in ragione dei poteri autonomi di cui dispongono e della loro
capacità di regolamentare in maniera collettiva le condizioni di lavoro,
potrebbero essere assimilate agli Stati o, comunque, a enti pubblici e
vedersi applicare la disposizioni del Trattato a titolo di effetto diretto
verticale.
5. Come accennato, i casi Laval e Rüffert hanno portato la Corte ad
occuparsi della direttiva 96/71/CE sul distacco dei lavoratori nell’ambito
di una prestazione di servizi transfrontaliera. Questa non ha l’obiettivo di
armonizzare le condizioni di lavoro nel caso di distacco transfrontaliero
(BALANDI G.G.; CARABELLI U., 2008b), ma unicamente quello di
garantire una tutela minima (un “nocciolo duro di diritti”) ai lavoratori
dello Stato di invio indicando alcuni settori nei quali lo Stato di
destinazione si impegna a garantire loro uno standard di trattamento,
anche al fine di proteggere i mercati del lavoro nazionali da fenomeni di
dumping sociale (CORTI M.). L’art. 3, par. 3 della direttiva si riferisce, tra
l’altro, ai periodi massimi di lavoro e minimi di riposo, alla durata
minima delle ferie annuali retribuite, alla sicurezza e alla salute e igiene
sul lavoro e, ciò che qui più rileva, alle tariffe minime salariali. Questo
trattamento standard può essere fissato da disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative, ma anche da contratti collettivi dichiarati
di applicazione generale, che ai sensi dell’art. 3, par. 8 sono quelli che
devono essere rispettati da tutte le imprese situate nell’ambito di
applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale
interessate24.
Nel caso Laval la Corte afferma che in Svezia il ricordato
trattamento standard è fissato da disposizioni legislative, in conformità
con il ricordato art. 3, par. 3 della direttiva 96/71/CE, e che i contratti
collettivi non sono dichiarati di applicazione generale, né sono stati
comunque richiamati ai sensi dell’art. 3, par. 8 della stessa. L’unico
23
Sentenza Viking, par. 65.
Lo stesso par. 8 dispone, inoltre, che, in mancanza di un sistema di dichiarazione di
applicazione generale di contratti collettivi, gli Stati membri possono avvalersi dei contratti
collettivi in genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione territoriale
e nella categoria professionale o industriale interessata e/o dei contratti collettivi conclusi
dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative, a condizione che ciò garantisca la
parità di trattamento tra imprese nazionali e straniere.
24
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
651
aspetto non disciplinato con legge è relativo ai minimi salariali, ed è ciò
di cui si discute in tale controversia, dal momento che i sindacati svedesi
hanno condotto azioni collettive nei confronti della Laval per indurla ad
un’intesa sulla retribuzione, che in quello Stato è negoziata “caso per
caso”. Ciò è oggetto di critica da parte della Corte, che afferma come tale
prassi sia in contrasto con la direttiva 96/71/CE, che pone a carico dei
prestatori di servizi transnazionali l’obbligo di corrispondere ai lavoratori
distaccati almeno la retribuzione minima determinata ai sensi dell’art. 3
della direttiva, ma non quello di aderire ad una trattativa condotta “caso
per caso”25. Come accennato, l’art. 3, par. 8 della direttiva non contempla
infatti la possibilità che standard di lavoro più elevati siano fissati
liberamente dalla parti sociali, ma occorre l’intervento statale. Questo
potrebbe richiamare i contratti collettivi, valorizzando quindi in tal modo
l’autonomia collettiva e il potere di regolamentazione dei sindacati,
mentre non è possibile lasciare ad una trattativa decentrata condotta “caso
per caso” la fissazione delle condizioni di impiego, in quanto ciò si
tradurrebbe in uno svantaggio per l’impresa straniera che fornisce il
servizio, la quale non sarebbe in grado di valutarne appieno le ricadute in
termini di costi.
È questo un passaggio decisivo nel ragionamento della Corte, la
quale mostra di ritenere che solo una determinazione degli standard
lavorativi fissata per legge (o atto equivalente) è in grado di assicurare la
certezza del quadro giuridico, nel caso di prestazioni di servizi
transnazionali, e una leale concorrenza. Ciò è indubbiamente vero, ma
mette in crisi il “solido” sistema di contrattazione collettiva presente in
Svezia (in senso critico VENEZIANI B., 2008). La scelta svedese di non
dichiarare di applicazione generale i contratti collettivi e di non imporre
alle imprese straniere di applicare gli stessi si è “ritorta” contro il sistema
di relazioni industriali di questo Stato membro, ritenuto dalla Corte non
in linea con la direttiva 96/71/CE (RODIÈRE P.; SCIARRA S.; THOMAS B.,
2008a; DE SALVIA A.).
Nel caso Rüffert, invece, la Corte non ha considerato come una
valida disposizione legislativa ai sensi dell’art. 3, par. 1 della direttiva
96/71/CE la legge del Land Bassa Sassonia, né ha considerato esistente
una dichiarazione di applicazione generale del contratto collettivo
rilevante nel caso in questione, cui anzi la Corte nega in radice il carattere
di contratto collettivo ai sensi della direttiva, poiché si estende solamente
agli appalti pubblici e non è stato dichiarato di applicazione generale (in
senso critico BRINO V.)26. Da ciò la Corte fa derivare la mancanza di una
25
26
Sentenza Laval, paragrafo 70-71.
Sentenza Rüffert, paragrafi 24, 26, 28 e 29.
652
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
tariffa salariale minima fissata conformemente all’art. 3, par. 1 della
direttiva 96/71/CE, qualificando quella fissata in base al contratto
collettivo richiamato dalla legge del Land come onere economico
supplementare, atto ad impedire, ostacolare o rendere meno
concorrenziali le prestazioni offerte dalle imprese straniere in Germania e
concretizzando quindi una restrizione vietata dall’art. 49 del Trattato
CE27.
Se è vero che la lettura formale data dalla Corte di Giustizia alle
previsioni contenute nella direttiva 96/71/CE (RODIÈRE P.) rischia di
mettere in crisi taluni sistemi nazionali di contrattazione collettiva,
occorre però considerare che essa, in quanto atto comunitario vincolante,
è stata adottata dal Consiglio dell’Unione, in cui siedono i rappresentanti
dei governi, inclusi quelli interessati dalle controversie che hanno
originato le pronunce della Corte, con il concorso del Parlamento
europeo, in cui siedono i rappresentanti eletti dai cittadini europei. Non si
tratta quindi di un atto “imposto” agli Stati membri o da essi “non
conosciuto”, ragion per cui la mancata fissazione di uno standard più
elevato di quello minimo posto dalla direttiva 96/71/CE è (anche) il frutto
di una scelta politica degli Stati membri, o di alcuni tra essi, rispetto alla
quale non è forse azzardato sostenere che vi sia stata una coresponsabilità politica delle organizzazioni sindacali, almeno con
riferimento alla sottovalutazione dell’impatto che in questo ambito
avrebbe prodotto l’ingresso di dieci nuovi Stati membri, caratterizzati da
sistemi di protezione sociale meno garantisti per i diritti dei lavoratori
(THOMAS B., 2008a). Ci sembra che sarebbe metodologicamente
improprio subordinare tale direttiva al sistema di relazioni industriali
svedese (o di altri Stati membri), come affermano alcuni autori (CORTI
M.), poiché ne farebbe venir meno il carattere di atto obbligatorio per
tutti gli Stati membri e sovraordinato rispetto ai singoli ordinamenti
giuridici nazionali.
Un elemento di forte perplessità nel ragionamento della Corte nei
casi Laval e Rüffert riguarda la (sotto)valutazione del par. 7 dell’art. 3
della direttiva 96/71/CE, il quale dispone che la disciplina applicabile in
esecuzione della stessa direttiva non osta «all’applicazione di condizioni
di lavoro e di occupazione che siano più favorevoli ai lavoratori». È
questa una disposizione che può essere interpretata quale tutela per i
lavoratori riferita sia a quelli dello Stato che opera il distacco (volta a
garantire loro un trattamento migliore), sia a quelli dello Stato che li
ospita (volta ad evitare una “concorrenza al ribasso”). Invece, la Corte
considera l’art. 3, par. 7 al fine di tutelare i lavoratori distaccati da una
27
Sentenza Rüffert, par. 37.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
653
impresa stabilita in uno Stato membro che offre condizioni di lavoro e
occupazione più favorevoli in uno che ne offre di meno favorevoli
(PALLINI M.)28, senza considerare l’opportunità di un’applicazione più
generale del principio del favor laboris (VILLANI U., 2000).
La Corte afferma inoltre, in maniera invero apodittica, che l’art. 3,
par. 7 «non può essere interpretato nel senso che esso consentirebbe allo
Stato membro ospitante di subordinare la realizzazione di una prestazione
di servizi sul suo territorio al rispetto di condizioni di lavoro e di
occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione
minima. [...] Peraltro, tale interpretazione finirebbe di privare di effetto
utile la direttiva in esame»29. Questo richiamo alla nozione di “effetto
utile”, molto sviluppata nella giurisprudenza comunitaria al fine di
garantire che ogni norma del diritto comunitario sia interpretata in modo
che possa raggiungere nella maniera più efficace il proprio obiettivo
(VILLANI U., 2008a), sembra criticabile nel caso di specie, perché si
traduce nell’accettare la “concorrenza al ribasso” della mano d’opera
distaccata in uno Stato membro in cui i diritti dei lavoratori sono meglio
garantiti da parte di una impresa stabilita in uno Stato membro dove lo
sono di meno (BRINO V.; CORTI M.; SYRPIS P., NOVITZ T.; DE SALVIA A.;
MIGLIORINI S.). Come affermato, in questo modo emergono «forme di
competizione basate sui differenti standard di protezione sociale
piuttosto che sulla qualità delle produzioni» (INGLESE I.).
6. Non è casuale che le sentenze in questione coinvolgano alcuni tra
gli Stati membri entrati a far parte dell’Unione Europea nel 2004, rispetto
ai quali è più frequente che si manifestino fenomeni di dumping sociale.
Anche se la fase di avvicinamento all’Unione Europea è durata più di
dieci anni, durante i quali i sistemi economici dei nuovi Stati membri
sono stati monitorati e sovvenzionati dall’Unione, al fine di rendere meno
netto il ritardo rispetto a quelli degli Stati già membri, all’atto
dell’ingresso nell’Unione si sono manifestati ancora squilibri, talora
molto accentuati (CAROLEO F.E., PASTORE F.). Si tratta di un fenomeno
per sua natura transitorio, nel senso che con ogni probabilità gli accennati
squilibri tenderanno a ridursi sensibilmente nel medio periodo, come
testimonia la prassi dei precedenti allargamenti verso Stati meno avanzati
sotto il profilo economico e sociale, come nel caso della Grecia e di
Portogallo e Spagna nel corso degli anni ’80, ma nondimeno
problematico per il suo impatto di breve periodo, come i casi oggetto
d’indagine stanno a testimoniare.
28
29
Sentenza Laval, par. 81; sentenza Rüffert, par. 34.
Sentenza Laval, par. 80; sentenza Rüffert, par. 33.
654
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
Un rilievo critico è relativo alla scarsa rilevanza che gli aspetti della
politica sociale e dei diritti sociali hanno ricevuto nei c.d. criteri di
Copenhagen, elaborati dal Consiglio europeo del 21 e 22 giugno 1993 in
vista del futuro allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Europa orientale. I
criteri decisi a Copenhagen, infatti, sono di tipo politico, giuridico ed
economico, ma quest’ultimo è incentrato sull’esistenza di «una economia
di mercato funzionante nonché la capacità di rispondere alle pressioni
concorrenziali e alle forze di mercato all’interno dell’Unione», mentre
manca un qualsivoglia riferimento alle politiche sociali; ciò ha
contribuito allo scarso interesse per tali tematiche nella prassi pre- e postallargamento. Occorre peraltro auspicare che le affermazioni della Corte
e il riconoscimento di (alcuni) diritti sociali quali diritti fondamentali
dell’Unione Europea contribuiscano alla loro affermazione anche negli
ordinamenti dei nuovi Stati membri (VENEZIANI B., 2006; VENEZIANI B.,
2008; per un’impostazione differente v. ALES E.).
Una difficoltà in più discende dalla consistenza numerica dei più
recenti allargamenti. Un conto è infatti accogliere due o tre nuovi Stati
membri, un altro è “digerire” il passaggio da quindici a ventisette.
Occorre, infatti, tenere conto della sensibilità giuridica dei dodici nuovi
Stati membri ammessi nel periodo 2004-2007, sia a livello di istituzioni
politiche (le nuove composizioni del Consiglio, della Commissione e del
Parlamento europeo), sia a livello di organi giudiziari, nei quali è in corso
un processo di assimilazione e di sintesi tra tradizioni giuridiche e
sensibilità per i diritti talora assai diverse (THOMAS B., 2008a)30.
Qualcosa di simile era già successo a proposito della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo, quando negli anni ’90 l’ingresso di
numerosi nuovi Stati dell’Europa orientale ha portato una “correzione di
rotta” della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con
una maggiore attenzione riservata a taluni diritti (in particolare a quelli
economici) a discapito di altri.
Verrebbe piuttosto da chiedersi come mai la Corte di Giustizia non
abbia valorizzato un principio sicuramente fondamentale del diritto
comunitario e fondante dell’intero processo di integrazione europea, vale
a dire quello di non discriminazione. Per un verso, infatti, qualora i
lavoratori non si fossero spostati da uno Stato membro all’altro in seguito
ad un distacco nell’ambito di una prestazione di servizi, ma nell’esercizio
del diritto di libera circolazione loro conferito dal Trattato CE, non vi è
30
Non appare del tutto casuale che la sentenza Rüffert, forse la meno condivisibile tra le
tre oggetto di approfondimento e quella in cui maggiormente la Corte ha preso le distanze
dalle conclusioni del suo Avvocato generale fondate sulla giurisprudenza precedente, sia stata
adottata da un collegio composto in maggioranza da giudici provenienti da nuovi Stati
membri.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
655
dubbio che nei loro confronti sarebbero state applicabili le medesime
regole applicate nei confronti dei cittadini dello Stato membro di
destinazione (BERCUSSON B.; CORTI M.); ciò costituisce al contempo una
garanzia per il lavoratore cittadino comunitario, ma anche per quello
dello Stato in cui il primo si trasferisce, che non subirebbe una
“concorrenza al ribasso”. Per altro verso, si pone un problema di
discriminazione a rovescio per l’impresa svedese (o tedesca), che
nell’offrire i propri servizi è consapevole di dover rispettare le
consolidate regole che disciplinano la contrattazione collettiva presenti
nel proprio ordinamento e ne calcola quindi il costo, trovandosi di fatto
penalizzata rispetto ad altra impresa comunitaria stabilita in uno Stato
membro che offre meno garanzie sotto i profili considerati.
7. In assenza di una regolamentazione europea delle questioni
oggetto del presente approfondimento, è possibile individuare dei
meccanismi che, a livello nazionale, consentono agli Stati membri
caratterizzati da un più avanzato sistema di contrattazione collettiva e di
tutela del lavoro di non essere “travolti” dalle conseguenze potenziali
delle ricordate sentenze della Corte di Giustizia. Riteniamo che sia
possibile individuare due “meccanismi di difesa”, tra loro diversi ma
entrambi suscettibili di funzionare.
Il primo è quello dei c.d. controlimiti costituzionali, ossia la difesa
dei principi fondamentali di un ordinamento interno che uno Stato
membro può sollevare dinanzi al rischio di una loro violazione ad opera
del diritto comunitario. Si tratta di un bilanciamento del principio del
primato del diritto comunitario (inclusa la giurisprudenza comunitaria), il
quale opera come “ultima possibilità” a tutela degli ordinamenti giuridici
nazionali (PALLINI M.; CORTI M.; DE SALVIA A.). Non in tutti gli Stati
membri è presente, ma lo è sicuramente nell’ordinamento italiano, come
testimonia una consolidata giurisprudenza della nostra Corte
costituzionale (VILLANI U., 2008b). Questa ha da tempo affermato che un
principio fondamentale e inderogabile posto dalla nostra Costituzione
non può essere violato da una norma comunitaria31.
Anche se all’affermazione del principio la Corte costituzionale non
ha mai, sino a questo momento, fatto seguire la sua concreta
applicazione, riteniamo che, qualora tale Corte ritenesse fondato il
31
Cfr. le ben note sentenze Acciaierie San Michele (n. 98 del 27 dicembre 1965), Frontini
(n. 183 del 27 dicembre 1973), Industrie chimiche (n. 232 del 30 ottobre 1975), Granital (n.
170 dell’8 giugno 1984), Fragd (n. 232 del 21 aprile 1989), Provincia autonoma di Bolzano
(n. 126 del 24 aprile 1996). Il ruolo esclusivo della Corte costituzionale nell’applicare i
controlimiti nell’ambito dell’ordinamento italiano è stato affermato con ampiezza di
argomentazioni in dottrina (VILLANI U., 2008b).
656
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
contrasto tra una norma comunitaria ed una delle numerose disposizioni
che, nella Costituzione italiana, tutelano i lavoratori e i loro diritti, essa
potrebbe pronunciare l’incostituzionalità della legge italiana di
esecuzione del Trattato CE, nella misura in cui consentisse a specifiche
disposizioni o atti comunitari di spiegare i propri effetti nell’ordinamento
italiano (VILLANI U., 2008b).
Il secondo sistema è invece legato alla disciplina dei rapporti di
lavoro transnazionali (FRANZINA P.), laddove vi sono regole di diritto
internazionale privato che indicano quale è la legge ad essi applicabile o
comunque sono suscettibili di limitare l’applicazione della legge scelta
dalle parti qualora ciò sia necessario a tutela del lavoratore (principio del
favor laboris). Rilevano a questo proposito gli articoli 8, 9 e 21 del
recente regolamento (CE) 593/2008 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 17 giugno 2008, che ha sostituito, nei rapporti tra la quasi
totalità degli Stati membri, la precedente Convenzione di Roma del 19
giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali32.
L’art. 8, par. 2 si occupa della legge applicabile ai contratti
individuali di lavoro e, in linea con quanto precedentemente disposto
dall’art. 6 della Convenzione di Roma (VILLANI U., 1983), dispone che,
in mancanza di scelta, la legge applicabile a tali contratti è quella del
Paese nel quale il lavoratore «svolge abitualmente il suo lavoro». Nel
caso di un distacco prolungato nel tempo è questa la regola che ci sembra
corretto applicare, non rilevando la circostanza che, come afferma lo
stesso art. 8, par. 2: «Il paese in cui il lavoro è abitualmente svolto non è
ritenuto cambiato quando il lavoratore svolge il suo lavoro in un altro
paese in modo temporaneo». La legge del Paese di svolgimento del
lavoro rileva anche in caso di scelta di legge ad opera delle parti, in
quanto, ai sensi dell’art. 8, par. 1 del regolamento in esame, tale scelta
non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle
disposizioni inderogabili poste dalla legge applicabile in mancanza di
scelta.
Inoltre, qualora di una data controversia fosse investito il giudice di
uno Stato membro caratterizzato da un solido sistema di tutela del lavoro,
potranno venire in rilievo gli articoli 9 e 21 del regolamento 593/2008,
che, in linea con quanto disposto dagli articoli 7 e 16 della Convenzione
di Roma, si occupano delle norme di applicazione necessaria e dei
principi di ordine pubblico del foro (VIARENGO I.; VILLANI U., 2000;
MIGLIORINI S.). Le norme di applicazione necessaria sono qualificate nel
32
Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno
2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I), in GUUE L 177 del 4
luglio 2008, 6 ss.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
657
par. 1 dell’art. 9 come quelle «il cui rispetto è ritenuto cruciale da un
paese per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua
organizzazione politica, sociale o economica [...]», mentre il successivo
par. 2 impone al giudice di utilizzare le norme di applicazione necessaria
del proprio ordinamento. Ci sembra che, qualora esigenze di tutela
dell’organizzazione economica e sociale di un ordinamento statale siano
alla base della disciplina in esso posta (che potrebbe essere contenuta
anche in contratti collettivi), il giudice di quello Stato sarà tenuto ad
applicare tale disciplina anche con riferimento a situazioni di distacco di
lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi transnazionale.
L’art. 21 dispone invece che l’applicazione di una norma della legge
di un Paese designata dal regolamento 593/2008 «può essere esclusa solo
qualora [...] risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico
del foro», ossia con un principio fondamentale che caratterizza
l’ordinamento del giudice. Riteniamo che, qualora il principio del favor
laboris costituisca uno dei principi fondamentali di un tale ordinamento,
il giudice dovrebbe disapplicare la norma straniera in contrasto con tale
principio, dando eventualmente applicazione alla normativa nazionale più
favorevole al lavoratore.
8. Come accennato, le prese di posizione della Corte di Giustizia
segnalano l’esistenza di alcune questioni problematiche per il futuro
dell’Europa sociale, rispetto alle quali non è la Corte a dover svolgere il
ruolo principale (SYRPIS P., NOVITZ T.). Essa infatti è chiamata ad
applicare il diritto comunitario, nel quale abbiamo delle libertà
economiche (di stabilimento, si prestazione di servizi, ecc.) da tempo
affermate e disciplinate in dettaglio, anche in ragione dell’impegno della
Comunità volto alla loro realizzazione, di fronte alle quali troviamo la
mera affermazione di un principio (la tutela del diritto di sciopero e di
azione collettiva), che però a livello comunitario non è in alcun modo
disciplinato (CARUSO B.), mentre lo è nei diversi sistemi nazionali, tra
loro separati e non uniformi (GARGIULO P.).
Inoltre, a parte l’affermazione della Corte di Giustizia nei casi
Viking e Laval, al momento attuale non è certo che il diritto di sciopero e
quello di azione collettiva rientrino tra i diritti fondamentali che l’Unione
Europea è tenuta a rispettare ai sensi dell’art. 6, par. 2 del Trattato UE. Ai
sensi di tale disposizione, i diritti fondamentali sono quelli che derivano
dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, che come
accennato non sono univoche sul punto, e dalla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo, in cui i diritti di sciopero e di azione collettiva non sono
affermati espressamente (JASPERS A.P.C.M.). La Corte europea dei diritti
658
LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE
dell’uomo li ha ricavati dall’art. 11 di tale Convenzione, che tutela «il
diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per
la difesa dei propri interessi», ma ha riconosciuto al contempo limiti e
condizioni al loro esercizio33. Né un rilievo decisivo può essere
riconosciuto alla Carta sociale europea, adottata nell’ambito del
Consiglio d’Europa il 18 ottobre 1961 e che riconosce i diritti di sciopero
e di azione collettiva nel suo art. 6. Infatti, l’art. 136 del Trattato CE si
limita a disporre che la Comunità e gli Stati membri devono “tener
presente” la Carta sociale europea. Come pretendere che in presenza di
un tale contesto la Corte di Giustizia sia in grado di operare un
bilanciamento effettivo?
Occorre augurarsi che alla mera affermazione del carattere
fondamentale del diritto di sciopero e di quello di azione collettiva
contenuta nelle sentenze Viking e Laval possa seguire, nella futura
giurisprudenza, una loro applicazione più coraggiosa, frutto del
radicamento progressivo di una dimensione europea di tali diritti
(ORLANDINI G.), così come dei diritti sociali in generale (DE SALVIA A.).
Sotto un diverso profilo, in una visione di prospettiva non si può non
auspicare che in questa materia emergano a livello comunitario regole
uniche o almeno armonizzate, non foss’altro che per fronteggiare
efficacemente il fenomeno del dumping sociale (SCIARRA S.). A tal fine è
decisivo il ruolo degli attori politici (Stati membri e istituzioni
comunitarie), ma anche di quelli sociali (sindacati e associazioni
imprenditoriali) (PALLINI M.; SCIARRA S.). È da tempo che si auspica la
realizzazione di un diritto del lavoro europeo (DÄUBLER W.), ma fino ad
ora ci si è limitati all’adozione di pochi e poco rilevanti atti comunitari.
A conferma della circostanza che non si tratti di una strada facile da
percorrere possiamo richiamare le vicende relative alla comunicazione
della Commissione europea del 2006 contenente il libro verde sulla
modernizzazione del diritto del lavoro (GAROFALO M.G.; AA.VV.;
BRONZINI G.; EUZÉBY C.)34. Tale comunicazione ha dato vita ad un
intenso dibattito tra tutti i principali protagonisti, attraverso una
consultazione pubblica i cui risultati sono stati resi noti nell’ottobre 2007
con una nuova comunicazione della Commissione35, nella quale, accanto
ad alcune prese di posizione che sembrano indicare una volontà di
intraprendere la strada di un confronto a livello europeo, si segnalano
33
Cfr., ex multis, le decisioni di irricevibilità del 10 gennaio 2002 nel caso UNISON c.
Regno Unito (appl. n. 53574/99); del 27 giugno 2002 nel caso Federation of Offshore
Workers’ Trade Unions e al. c. Norvegia (appl. 38190/97).
34
Cfr. COM(2006)708 def. del 22 novembre 2006.
35
Cfr. COM(2007)627 def. del 24 ottobre 2007.
CORTE DI GIUSTIZIA, DIRITTO DI SCIOPERO E LIBERTÀ ECONOMICHE
659
numerosi distinguo e resistenze ad affrontare un reale percorso di
riforma.
Una limitata attenzione per tale problematica emerge anche nel
recente Trattato di Lisbona, che è stato approvato il 13 dicembre 2007
dopo la mancata entrata in vigore del Trattato costituzionale firmato a
Roma il 29 ottobre 2004. L’art. 152 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea (così è stato rinominato il Trattato CE) innova
rispetto al passato nel dichiarare formalmente che l’Unione «riconosce e
promuove il ruolo delle parti sociali al suo livello», pur se «tenendo
conto della diversità dei sistemi nazionali»; e che l’Unione «facilita il
dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia». Non si tratta di
un’innovazione rivoluzionaria rispetto al passato, come conferma la
circostanza che il nuovo art. 153, par. 5 ribadisce l’esclusione dell’azione
dell’Unione nelle materie previste dall’attuale art. 137, par. 5. Lo stesso è
a dirsi con riferimento al carattere pienamente vincolante che sarà
attribuito alla Carta di Nizza dei diritti fondamentali, in quanto abbiamo
già rilevato come il suo art. 28 sia sostanzialmente in linea con le
affermazioni della Corte nei casi Viking e Laval (RODIÈRE P.).
L’auspicio è che l’intensificarsi del dialogo tra le parti sociali, una
maggiore valorizzazione del loro ruolo e della loro partecipazione ai
processi decisionali (VENEZIANI B., 2006) e la realizzazione di azioni
sindacali coordinate a livello comunitario (WARNECK W.; MIGLIORINI S.),
almeno con riferimento a vicende di dimensione transnazionale
(ORLANDINI G.), possano rafforzare una dimensione europea del diritto
del lavoro e contribuire a limitare l’incidenza di fenomeni come il
dumping sociale (CARUSO B.). In definitiva, non è la Corte di Giustizia a
dover fare un passo indietro su tali tematiche, cosa invero improbabile
considerata la sua attitudine, ma il diritto comunitario a dover fare un
deciso passo avanti, definendo a livello comunitario uno standard minimo
di diritti da garantire nelle situazioni transnazionali. Nel frattempo,
occorre valorizzare gli indicati meccanismi dei controlimiti, a livello
costituzionale, e delle norme di applicazione necessaria e dei principi di
ordine pubblico, nei limiti in cui possono venire in rilievo a livello di
rapporti di lavoro internazionalprivatistici, al fine di riequilibrare a livello
nazionale ciò che, nel momento attuale, appare sbilanciato a livello
comunitario.
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