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Per uno Statuto di Architettura e Museologia liquida

2016

ABSTRACT (it) & (en) Questo articolo fornisce il primo Statuto di Architettura e Museologia liquida facendo seguito al primo tentativo di definizione da me proposto nel 2014. Prendo atto che presso il grande pubblico e particolarmente in Italia il concetto di liquidità è stato completamente frainteso mentre in ambito critico internazionale è stato invece correttamente svolto e ha potuto affermare propria incisiva presenza nello spazio della cultura d’avanguardia. Come noto infatti Marcus Novak propone nel 1993 il termine Architettura Liquida in relazione alla realtà virtuale nell’era dell’informazione telematica e Zygmunt Bauman applica il concetto di liquidità nel 2000 nella sfera sociologica sondando i rapporti tra architettura e territorio mentre Salvatore Rugino propone una rassegna dei rapporti tra architettura e liquidità nel 2008 e altri autori seguono su questo corretto filone esegetico. Per approfondire la definizione critica internazionale di architettura e museologia liquida ho proposto nel 2014 di considerare il concetto di “liquido” nell’arte come erede del concetto di anticlassico già individuato da Giulio Carlo Argan, prima nel 1930, in riferimento alle osservazioni di Milizia nei confronti di Andrea Palladio, e poi nel 1984 seguito da Bruno Zevi nella sua monografia del 1973. In seguito alla creazione, sempre nel 2014, di un Gruppo di Ricerca alla Sapienza su Architettura e Museologia liquida mi è sembrato importante proporre in questa sede di considerare fondamentale per l’individuazione dei caratteri liquidi nell’architettura e nella museologia quattro elementi tipologico-simbolici fondamentali: specchio, labirinto, frattali e mostro e ribadisco che la concezione di “anticlassico”, dalla quale nasce negli anni Novanta del Novecento quella di “liquido”, è presente anche in ambito archeologico come proposto da Graziella Becatti e dimostrato da Enrico Ascalone, entrambi facenti parte del Gruppo di Ricerca della Sapienza su Architettura Liquida. Cfr. E. Ascalone, L’anticlassico che diventa classico. Sostituzione, elaborazione e affermazione di nuovi codici di propaganda al tempo dei Sukkalmakh (ca. 1900-1520 a.C.), 8 Novembre 2016, n. 821 http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00821.html This article provides the first Statute of Architecture and Museology liquid further to the first attempt at definition proposed by me in 2014. I note that among the general audience and especially in Italy, the concept of liquidity has been completely misunderstood while in international areas has been properly carried out and instead was able to affirm its effective presence in space of the avant-garde culture. As previously noted, Marcus Novak proposes in 1993 the term liquid architecture in relation to virtual reality, in the telematic information era, and Zygmunt Bauman applies the concept of liquidity in 2000 in the sociological sphere probing the relationship between architecture and landscape. Salvatore Rugino, instead, offers an overview of the relationship between architecture and liquidity in 2008 and other authors followed his correct exegetical trend. To study the critics international definition of liquid architecture and museology, I proposed in 2014 to consider the concept of "liquid" in art like a heir to the concept of anti-classic, identified by Giulio Carlo Argan, first in 1930, in reference to the comments of the Militia against Andrea Palladio, and then in 1984, followed by Bruno Zevi in ​​his monograph of 1973. In 2014, a research group of Sapienza University started the study of Architecture and Museology liquid, and it seemed important to me to propose to start to consider, for the identification of liquids characters in architecture and museology, four basic typological and symbolic elements: mirror, maze, fractals and monster. Besides, I remind that the "anti-classical" concept, from which was born in the nineties of the twentieth century that of "liquid", is also known in archeology, as Graziella Becatti proposed, and Enrico ascalone demonstrated. They are two of the researchers in the Sapienza University liquid architecture study group. Cfr. E. Ascalone, The anticlassical that becomes classic. Substitution, development and affirmation of new propaganda codes at the time of Sukkalmakh (approximately 1900-1520 a.C.), 8th November 2016, n. 821 http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00821.html (English translation courtesy of Alessandra Bertuzzi)

Lettera Orvietana Verso il centenario: IPPOLITO SCALZA 1617/2017 F ortuna ha voluto -ma abbondantemente condizionata dai soci e dei consiglieri dell’ISAOche mi ritrovi ancora a presiedere l’Istituto nel momento in cui si profila per il 2017 il 4° Centenario della morte di Ippolito Scalza con il gradito compito di promuovere una più approfondita conoscenza di questo architetto/scultore orvietano finora troppo dimenticato. A tal fine il Consiglio direttivo dell’Istituto, oltre a programmare in collaborazione con l’Opera del Duomo una ‘Giornata di Studi’ in cui raccogliere nuovi contributi scientifici sull’opera dello Scalza, ha fatto propria una mia proposta per un progetto di comunicazione volto a sensibilizzare un pubblico più vasto. Avendo considerato che, se la Orvieto medievale ha assunto il volto di una città moderna, il principale artefice di questa trasformazione epocale è stato Ippolito Scalza, si è ritenuto prioritario che almeno questa informazione giungesse alla massa dei cittadini e dei visitatori nel modo più semplice e diretto; per questo bisognava trovare un’immagine/simbolo che attirasse l’attenzione dei passanti sui “luoghi scalziani”. Mentre molti studiosi si rincorrono, addirittura con l’ausilio della Polizia scientifica, nella ricerca del volto dell’architetto Andrea Palladio -vedi la mostra a Vicenza su Palladio. Il mistero del volto- ad Orvieto ci ritroviamo un perfetto autoritratto del contemporaneo Ippolito Scalza il cui simulacro può rappresentare, nel caso specifico, un testimone d’eccezione: la statua marmorea del San Tommaso Apostolo. Ippolito Scalza finì di scolpire il San Tommaso nel 1587 e la statua fu subito collocata in duomo dove erano già state poste quelle del San Paolo di Francesco Moschino (1556) e del San Pietro di Raffaello da Montelupo (1557); con il San Tommaso dello Scalza si confermò di fatto l’intendimento di realizzare per l’interno del duomo l’intero Apostolato, così come avverrà negli anni seguenti. Non è questo il luogo per valutare se lo Scalza scelse o suggerì l’apostolo da scolpire né se l’incarico sia stato volentieri accettato per la presunta attribuzione a San Tommaso del titolo di “protettore degli architetti” piuttosto che per la “proverbiale incredulità” del santo, ma resta il fatto che la statua rappresenta Quadrimestrale d’informazione culturale dell’Istituto Storico Artistico Orvietano Anno XVII N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 tecnica ostentata nel marmo non è soltanto simbolica bensì allude alle conoscenze teoriche necessarie alla professione come Scalza la intendeva: innanzitutto padronanza della « … geometria et matematica, che a uno Architetto gli conviene sapere queste due cose», come aveva scritto lo stesso Ippolito Scalza in una lettera all’Opera del duomo già venti anni prima del San Tommaso, nel 1567. Dello studio di queste materie, certamente approfondite in seguito, nel corso della sua attività di agrimensore, idraulico e cartografo, oltre che di architetto, lo Scalza volle lasciare con discrezione alcune tracce anche nella scultura del San Tommaso. Un primo segnale si coglie nell’altezza della scultura di metri 2.68 decisa dallo Scalza diversa dalle altre che -particolare finora non notato- è esattamente quella della canna orvietana, divisibile in 12 palmi o 7 piedi e mezzo. La profonda conoscenza della geometria è poi nascosta nelle proporzioni “auree” della pietra squadrata su cui lo Scalza/san Tommaso poggia il piede destro e in una mirata applicazione matematica si riscontra a partire dal righello graduato tenuto con la mano sinistra. Le tacche incise sul righello altro non sono che quelle delle dodici once in cui era diviso il palmo architettonico ed essendo la figura della statua (come le altre) molto più grande di quella naturale, il righello rappresenta la scala metrica con cui calcolare precisamente la percentuale d’igrandimento che in questo caso particolare di autoritratto, a conti fatti, rivela quanto era alto Ippolito Scalza: metri 1,75 ca. PALAZZI 1. Benincasa 2. Buzi 3. Carvajal 4. Clementini 5. Comunale 6. dei Sette 7. Gualterio 8. Guidoni 9. Marsciano 10. Monaldeschi 11. Orfei 12. Palazzi/Crespi 13. Saracinelli 14. Simoncelli 15. Soliano 16. Casa di Ippolito Scalza 17. Pozzo in piazza dell’Erba 18. Villa Ciconia CHIESE E CONVENTI 19. Annunziata 20. Duomo 21. S. Agostino 22. S. Bernardino 23. S. Domenico 24. S. Francesco 25. S. Lorenzo in vineis Individuati in numero di venticinque i palazzi, le chiese e i conventi in cui Ippolito Scalza lavorò come progettista e direttore di cantiere o come scultore, restava da mettere a punto il suo simulacro, da porre di fronte a ciascun edificio, di norma sulla destra dell’ingresso. Il modo ritenuto, per diversi aspetti, più conveniente per realizzare la ‘figura’ di Ippolito Scalza a grandezza naturale (alta m. 1,75) è stato quello facilmente attuabile di ritagliare con il laser la silhouette di una foto della statua stampata su forex (spessore 10 mm.) e fissarla a terra; il sistema sicuro di fissaggio prevede di ancorare la sagoma ad una base in lamiera di ferro (cm. 70x25x0,3) controventandola per l’intera altezza (m. 2,02) sempre con un lamierino incollato/avvitato verticalmente al forex e saldato alla base che sarà bloccata da quattro stop, sulla sede stradale vicino al muro. Sulla foto sagomata della statua compare l’iscrizioni 1617/2017. IPPOLITO SCALZA e www.isao.it: la prima lascia intuire a tutti che si sta ricordando un centenario dell’architetto orvietano e la seconda rimanda gli interessati all’evento e i più curiosi ad un sito on line che fornisce tutte le informazioni del caso. Digitando www.isao.it -operazione che oggi si può fare tranquillamente anche da un telefonino- si vedrà esplicitato innanzitutto il significato dell’installazione delle silhouettes scalziane (allegando una mappa della città con la dislocazione ragionata di tutte le 25 previste) e si potranno avere ragguagli sia sull’attività di Ippolito Scalza anche fuori di Orvieto sia sulle manifestazioni organizzate per il IV Centenario della sua morte. Alberto Satolli Sommario Le sorprese del Faina Silhouette della statua del San Tommaso Apostolo di Ippolito Scalza ed i ‘luoghi scalziani’ di fronte ai quali dovrà essere installata l’apostolo nelle vesti dell’architetto e addirittura con le sembianze del suo autore. La statua del San Tommaso è, in sintesi, l’autoritratto di Ippolito Scalza, chiaramente individuato dagli strumenti di lavoro propri dell’architetto che l’apostolo ha in mano (matita, compasso, squadra e righello graduato) e a terra, vicino ai piedi (quadrante e bussola), nonché da un altro autoritratto del solo volto, che Scalza aveva modellato in argilla come bozzetto per la scultura in marmo. Ma l’autorappresentazione dello Scalza non si limita agli aspetti formali, perché la strumentazione pag. 2 Corrispondenti d’eccezione » 3 Lions e merletti » 4 La Orvieto dei mari » 7 L’Architettura liquida » 11 La ceramica orvietana » 15 Il ritorno delle statue in Duomo » 19 Piermatteo d’Amelia » 21 Un territorio di confine: la Tuscia » 26 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Gli appuntamenti speciali al Museo “Claudio Faina” T re appuntamenti in un pomeriggio al Museo “Claudio Faina”: giovedì 29 settembre è stata senza dubbio una giornata importante per i musei orvietani. Sono state aperte, infatti, al piano nobile di Palazzo Faina, tre sale dedicate stabilmente alla pittrice Giuseppina Anselmi Faina. L’iniziativa scaturisce dalla mostra appena conclusa e dedicata alla sua figura, che ha riscosso un successo notevole e ha riproposto la figura di una donna dell’Ottocento che aveva scelto l’arte come possibilità di esprimersi a pieno. Le sale saranno utilizzate anche per ospitare mostre a carattere documentario e si è iniziato, senza esitazioni, con l’esposizione Etruschi “à la carte”. Libri e documenti dal Settecento all’Ottocento, che accoglie volumi, taccuini e disegni di personaggi che hanno fatto la storia dell’Etruscologia. Interessanti, nel percorso espositivo, una copia dell’opera monumentale De Etruria regali di Thomas Dempster (Firenze 1723), i libri scritti da Luciano Bonaparte, lo scopritore delle necropoli di Vulci, e pubblicati a Viterbo nel 1829, e copie delle riviste “Bullettino” e “Annali” dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica, vale dire pubblicazioni tra le più rilevanti, sotto il profilo scientifico, dell’intero l’Ottocento. In mostra, di sicuro spessore culturale, anche tre disegni di Adolfo Cozza relativi alle necropoli, all’architettura funeraria e alle iscrizioni dell’Orvieto etrusca. Essi vennero realizzati nel 1881, probabilmente in vista della stesura dell’apparato informativo del Museo Civico Archeologico cittadino voluto dal conte Eugenio Faina e allestito proprio dal Cozza. Nella mostra i libri e allora, nell’occasione, si è voluta prevedere la presentazione del volume Magica Etruria. Volterra, Arezzo, Cortona e Chiusi di Mario Bizzarri (I edizione: Firenze 1968) e appena ripubblicato dalla Nuova Immagine Editrice di Siena. All’iniziativa hanno preso parte gli archeologi Claudio Bizzarri e Giuseppe M. Della Fina. Giuseppina Anselmi Faina Giuseppina Anselmi nasce a Torino il 17 novembre 1818. Il padre, Giuseppe Anselmi, funzionario della corte dei Savoia, uomo colto e amante dell’arte, avvia ben presto la figlia allo studio del disegno e della 2 pittura, prima presso Lorenzo Metalli, poi nello studio privato di Giovan Battista Biscarra, primo pittore di corte e direttore dell’Accademia Albertina. Nel 1832, a soli 14 anni, Giuseppina partecipa alla seconda Pubblica Esposizione di Torino, che si svolge al Castello del Valentino, dove presenta un disegno a matita, un Gesù bambino dormiente, copia di un originale ritenuto di Sebastiano Conca. Nel 1838 è presente alla nuova esposizione che ha luogo presso le sale del Valentino con alcuni disegni. Acquisito un certo riconoscimento, nel 1841 esegue, dietro commissione di re Carlo Alberto, due opere per la rinnovata Galleria del Daniel in Palazzo Reale a Torino: il Ritratto di Eustachio Chappuis e Il ritratto di Attone vescovo di Vercelli. L’anno successivo si distingue alla prima Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Torino con quattro olii (Tre ragazzi che si divertono all’altalena, Un’Affricana in custodia di un tesoro, Un puttino e Una figura di donna tratta dal vero) e un disegno a matita (Ritratto di Giuseppe Baretti). Il quadro che più attira l’attenzione è quello raffigurante i tre figli del conte Melano di Portula effigiati sull’altalena: l’opera è scelta dalla Società per trarre da essa le litografie da donare ai soci del sodalizio artistico. Tra il maggio e il giugno 1842 inizia un lungo viaggio di perfezionamento che porterà l’Anselmi prima a Firenze e poi a Roma. Nella città eterna visita gli atelier di alcuni dei più importanti pittori e scultori del tempo: Vincenzo Camuccini, Pietro Tenerani, Luigi Cauda, Luigi Canina, Luigi Fioroni, Bertel Thorwaldsen, Natale Carta e Fedele Bruni. Viene nominata, nel 1843, accademica di merito dall’Accademia dei Virtuosi al Pantheon e più tardi riceve analoga nomina dalle Accademie di Belle Arti di Firenze e Perugia. Nel 1843 viene celebrato il matrimonio con il conte Claudio Faina di Orvieto. Nella nuova città in cui si trasferisce, l’Anselmi, abituata a frequentare i salotti torinesi, fiorentini e romani, fatica ad ambientarsi. Ricrea in piccolo un salotto artistico frequentato da letterati e pittori orvietani e perugini. Tra il 1844 e il 1851 nascono i tre figli: Clelia, Eugenia e Gemma. Divisa tra doveri familiari e interessi artistici, l’Anselmi non smette di dipingere. Invia quadri alle esposizioni torinesi del 1844, del 1845, del 1847 e a quelle perugine del 1848 e 1855. Negli anni cruciali in cui avvengono le vicende politiche legate al Risorgimento e che vedono la partecipazione attiva di due cognati dell’Anselmi, Mauro e Zeffirino Faina, l’attività artistica rallenta. La famiglia è al centro dell’attenzione della polizia pontificia: Zeffirino viene condannato a morte in contumacia per aver fatto parte del Governo Provvisorio instauratosi a Perugia nel 1859. Sono anni difficili per Lei che restano tali anche dopo l’Unità d’Italia per una serie di motivi: la sua salute comincia a mostrare i primi segni di un peggioramento; nel 1866 il figlio Eugenio, anche a seguito di una delusione d’amore, si arruola tra i volontari di Giuseppe Garibaldi nella III Guerra d’Indipendenza; l’anno successivo la figlia Gemma muore. Intanto i rapporti con il marito Claudio si deteriorano. L’Anselmi vive una dura crisi che supera dopo un viaggio che compie insieme alla figlia Clelia nell’Italia settentrionale. Ritorna sui luoghi della sua infanzia, a Torino e a Vercelli, città natale di sua madre Anna Rottari. Trascorre un piacevole soggiorno a Cannobio, sul Lago Maggiore, dove finalmente riprende in mano pennelli e tavolozza. L’Anselmi torna così a dipingere e piano piano supera il periodo difficile attraversato. Carica di aspettative e desiderosa di distinguersi a livello artistico, trascorre periodi a Firenze e a Roma dove si divide tra visite agli atelier di pittori e scultori, serate ai teatri e pomeriggi trascorsi in salotti culturali. Nel 1871 partecipa alla prima Esposizione nazionale dei lavori femminili, che si svolge a Firenze. L’Anselmi espone, tra l’altro, due nuovi ritratti: quello della principessa Maria Bonaparte Valentini e quello di Emma Marignoli, opere che le procurano lodi e premi. Nei primi mesi del 1872 la sua malferma salute torna a peggiorare e decide di tornare a Firenze per sottoporsi a nuovi controlli medici. Qui muore improvvisamente l’8 marzo 1872. “Vi dirigo con queste righe il dottore cavaliere Anselmi mastro uditore che accompagnato dalla sua figlia giovine pittrice che ha già dati molti bei frutti del suo ingegno, si recano a visitare la amenissima vostra città. Vogliate accoglierli colla solita vostra cortesia e presentarli agli artisti che frequentano le vostre adunanze. Io non vi chieggo perdono del disturbo che vi arreco, anzi sono persuaso che mi sarete grato di avervi fatto conoscere due persone così gentili e di tanto merito e vi abbraccio con viva cordialissima amicizia”. Lorenzo Valerio a Gian Pietro Vieusseux, Torino 25 maggio 1842. “Cinque quadri espose la signora Giuseppina Anselmi, i quali mostrano tutti, più o meno, la sua rara franchezza nell’arte. Si direbbe che la natura l’abbia creata pittrice. Raccolsero gran numero di suffragi i Fanciulli che si trastullano coll’altalena, lavoro di mirabile spontaneità” Angelo Brofferio, in “Il Messaggiere Torinese”, n. 22, 28 maggio 1842, pag. 89 “Io viaggio per stordirmi e per non riflettere troppo ed alla perdita fatta ed alla falsa posizione in cui sono stata messa!” Lettera di Giuseppina Anselmi Faina al figlio Eugenio, 17 luglio 1868 “Capisco che tu rimpianga di non averla potuta riabbracciare una ultima volta, ma ciò non fu per tua colpa, giacché tutti ti dicevamo che il caso non era gravissimo, ciò che io pure sentii dalla bocca di Cipriani stesso. E dire che il giorno della mia partenza essa stava tanto meglio, e mi disse le più tenere ed affettuose parole. Povera Sorella mia! Certo essa vivrà eternamente nel mio cuore, e presente alla mia mente, da dove non so toglierla né dì né notte. Io non feci nulla per essa ed ho anzi il rimorso di averla lasciata nella sua ultima malattia. Ma chi avrebbe mai creduto la sua fine tanto prossima? Io sì che dove volgo lo sguardo trovo delle care prove del suo affetto e del suo genio nei magnifici lavori che ho in tutte le cose da Lei eseguite. E fra queste la più atta a ricordarmela negli ultimi giorni che vivemmo insieme sì è il mio stesso ritratto ch’ella faceva con tanto amore, ma ripetendo sempre che non lo avrebbe finito!” Lettera di Luciana Bonaparte Valentini ad Eugenio Faina, Perugia 24 marzo 1872 “Fra queste spicca quell’egregia donna che visse dividendo tanta copia di affetti, fra la famiglia e l’arte, e che in questa raggiunse tanta eccellenza, da produrre opere che potrebbe qualche celebrato pittore, firmare. Giuseppina Faina fu vera artista” Giulio De Angelis, Le pittrici, in “Il giornale dell’esposizione provinciale umbra”, n. 10, 12 ottobre 1879, pp. 77-78 “Al perfezionamento ed alla fama della Artista nocque il pregiudizio della famiglia, dei parenti, della società in cui visse che la vollero “Dilettante di pittura” non pittrice, pregiudizio da cui seppe liberarsi l’anima energica ed avventurosa di Massimo D’Azeglio, non poté l’animo mite della Damigella Giuseppina Anselmi” Appunti di Eugenio Faina scritti su carta intestata della “Giunta Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dei contadini nelle Province Meridionali e nella Sicilia”, 1906-1909 - Mostra Etruschi “à la carte”. Elenco opere esposte MOSTRA ETRUSCHI “À LA CARTE”. LIBRI E DOCUMENTI DAL SETTECENTO ALL’OTTOCENTO Elenco delle opere esposte Thomas Dempster, De Etruria regali, Firenze 1723 (Collezione privata) Frontespizio Thomas Dempster, De Etruria regali, Firenze 1723 (Collezione privata) Tavola LXXXVII Luciano Bonaparte, Catalogo di scelte antichità etrusche, Viterbo 1829 Frontespizio Luciano Bonaparte, Museum Etrusque. Fouilles de 1828 à 1829, Viterbo 1829 Frontespizio Karl Otfried Müller, Die Etrusker, Stuttgart 1877 Frontespizio Disegni di Adolfo Cozza, architetto e archeologo, relativi alle necropoli e all’architettura funeraria di Orvieto etrusca Datazione: 1881 Disegno di Adolfo Cozza, architetto e archeologo, con iscrizioni dalla necropoli etrusca di Crocefisso del Tufo (Orvieto) Pianta degli scavi nell’area archeologica di Pagliano, nei pressi di Orvieto (9 gennaio – 6 dicembre 1890) Manifesto di associazione all’Instituto di Corrispondenza Archeologica (Roma) Elenco dei membri dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica nell’anno 1836 A. Kluegmann, Vasi fittili argentati, estratto dalla rivista “Annali dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica” (anno 1871) Adolfo Cozza, Avanzi di antico tempio scoperti in Civita Castellana, contrada Lo Scasato, estratto dalla rivista “Notizie degli Scavi” (luglio 1888) Domenico Cardella, Museo Etrusco Faina, Orvieto 1888 Frontespizio Domenico Cardella, I Dioscuri dipinti sopra una tazza del Museo Faina, estratto dalla rivista “Bollettino dell’Accademia La Nuova Fenice” (1892) Lettera di E. Gerhard a Th. Panofka pubblicata sul “Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica” (1831) e concernente l’etruscità o meno dei vasi rinvenuti a Vulci negli scavi di Luciano Bonaparte Numero della rivista “Annali dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica” (1877) con un articolo di Gustav Körte sugli scavi effettuati nella necropoli di Crocefisso del Tufo (Orvieto). Supplemento al BISAO LXVIII-LXX (2016) Piazza Febei, 2 - 05018 Orvieto Tel. e Fax 0763.391025 www.isao.it - [email protected] Direttore responsabile: Francesco M. Della Ciana In Redazione: Raffaele Davanzo Alberto Satolli Hanno collaborato: Elisa Angelone Maria Antonietta Bacci Polegri Giancarlo Breccola Donato Catamo Stefano Colonna Raffaele Davanzo Luca Giuliani Francesco M. Della Ciana Renzo Marziantonio Maria Teresa Moretti Flavia Perazzini Saverio Ricci Alberto Satolli Claudio Urbani Francesca Vincenti Autorizzazione del Tribunale di Orvieto N.13 del 24 agosto 1953 Layout e stampa: Tipografia Ceccarelli Acquapendente (VT) “Lettera Orvietana” è consultabile on line nel sito: www.isao.it Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 I nuovi soci corrispondenti Antonio PAOLUCCI dell’Istituto Storico Artistico Orvietano Come stabilisce l’art. 4 Titolo II dello Statuto, i soci corrispondenti dell’Istituto Storico Artistico Orvietano sono individuati dal Consiglio Direttivo tra “quegli scienziati, studiosi ed artisti, residenti fuori di Orvieto, i quali si occupino di studi e di opere riflettenti argomenti o soggetti tratti dalla storia, dall’arte o dall’ambiente della città”, valutando con particolare attenzione meriti, attività e vicinanza agli studi condotti in questi territori. Le figure chiamate a ricoprire tale dignità ricoprono incarichi prestigiosi, con profili professionali e culturale davvero eccezionali. Accogliamo quindi il gen. Roberto Conforti, il prof. Antonio Paolucci e il prof. Claudio Strinati nel nostro sodalizio, rivolgendo loro calorosi e grati saluti. Roberto CONFORTI N asce a Serre (SA), nel 1937. Si laurea in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Conservazione Beni Culturali (conferita “honoris causa” dall’Università degli studi di Lecce). Il generale Conforti inizia la sua lunga carriera nell’Arma dei Carabinieri nel 1960. Dopo aver retto numerosi settori operativi sul territorio nazionale, dalla Sardegna al Friuli Venezia Giulia, all’Alto Adige, all’Emilia-Romagna, alla Campania, all’Abruzzo, al Lazio, nel 1985, assume il comando del Reparto Operativo della Legione di Roma, particolarmente impegnato nella lotta alla criminalità eversiva, organizzata e non, e, nel 1991, il comando dei Carabinieri addetti alla Tutela del Patrimonio Culturale, che conserva fino al 1° settembre del 2002, quando viene raggiunto dai limiti di età. Il nuovo incarico, oltre che impegnarlo in numerose inchieste sul territorio nazionale, lo costringe a fare altrettanto a livello internazionale, dove è presente un ricco e variegato mercato della commercializzazione illecita delle opere d’arte. I risultati non si fanno attendere: recuperati in Italia e quindi in Svizzera, Olanda, Belgio, Spagna, Ungheria, Danimarca, Francia, Inghilterra, U.S.A. Giappone, migliaia di beni culturali sottratti da Musei, Biblioteche, Chiese, Aree archeologiche, abitazioni private, appartenenti a volte ad altre Nazioni, a far data dai primi anni del 1910/1920 fino ai giorni nostri. Ovviamente il recupero sottende anche l’acquisizione di numerosi elementi per ulteriori indagini dirette a riportare in Italia quanto sottratto nel tempo. Altro dato molto significativo emerge dai convegni annuali e da specifici incontri con rappresentanti della cultura europea ed extra-europea, che favoriscono la globalizzazione di una migliore coscienza culturale ed un costante confronto sulle tecniche operative, sia sotto il profilo preventivo che repressivo. In tale ambito, il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, fra le altre iniziative, potenzia la Banca Dati delle Opere d’Arte trafugate, che, per l’alta tecnologia di base, costituisce un punto di riferimento a livello mondiale. Partecipa a molteplici incontri internazionali sull’attività di contrasto alla commercializzazione illecita delle opere d’arte ed alla relativa conservazione, in particolare in Francia, Inghilterra (dove è stato ascoltato, a Londra, in audizione pubblica in Parlamento, dalla Commissione “Cultura, Media e Sport), Spagna, Portogallo, Ungheria, Russia, Austria, Giordania, Giappone, nonché in New-York, California, Florida. Dal 2003 al 2005, regge il settore “Musei, Archivi, Biblioteche ed Aree Archeologiche” della Regione Lazio. Dal 2003, presiede la Società Italiana per la Protezione dei Beni Culturali ed è consulente internazionale per il progetto Herity (marchio di qualità per siti museali). È decorato: • Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte concessa dal presidente della Repubblica; • Ufficiale dell’Ordine delle Arti e delle Lettere, conferita dal ministro della Cultura della Repubblica Francese; • Medaglia d’Oro per lungo Comando; • Medaglia d’Oro per lunga Navigazione aerea; • Medaglia Mauriziana; • Ufficiale, commendatore e grand’ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana; • Cavaliere di Grazia Magistrale del Sovrano Ordine Militare di Malta; • Croce di grande ufficiale con spade dell’Ordine al Merito Melitense; • Commendatore con Placca dell’Ordine di “San Gregorio Magno”; • Grande ufficiale dell’Ordine Equestre di “San Gregorio Magno”; • Accademico di San Luca; • Membro dell’Associazione dei “Cateriniani nel Mondo”; • Collare della “Beata Beatrix”. Ha ottenuto le seguenti benemerenze. • Diploma d’Onore del Presidium del Soviet Supremo della Federazione Russa; • Personalità Europea; • Cittadino Onorario dei seguenti comuni: - Castelli (TE); - Tossicia (TE); - Nocara (CS); - Calvanico (SA); - Altomonte (CS); - Miami (Florida), con le chiavi della città; - Socio onorario del “Centro Studi Alcide De Gasperi” N asce a Rimini nel 1939. Si laurea in Storia dell’Arte a Firenze, allievo di Roberto Longhi, per specializzarsi, con Francesco Arcangeli, a Bologna. Nel 1969, diviene ispettore alle Belle Arti. Inizia la sua carriera alla Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Firenze. È soprintendente, dal 1980 al 1986, a Venezia, Verona e Mantova. Direttore dell’Opificio delle Pietre Dure e Laboratori di Restauro a Firenze, poi agli Uffizi. Diviene soprintendente al Polo Museale Fiorentino poi direttore generale dei Beni Culturali per la Toscana, insegna all’Università degli Studi di Firenze e all’Università degli Studi di Siena, ministro della Cultura, nel 1995-1996. È nominato commissario governativo straordinario per il restauro della Basilica di San Francesco ad Assisi. Dopo il sisma del 1997, chiamato infine, nel 2007, da Benedetto XVI, alla Direzione dei Musei Vaticani. Tra gli altri incarichi: la presidenza del Comitato Scientifico per le mostre d’Arte delle Scuderie al Quirinale, la presidenza della Commissione Permanente per la Tutela dei Monumenti Storici e Artistici della Santa Sede. È accademico dei Lincei, accademico Claudio STRINATI N asce a Roma nel 1948. Si laurea in Storia dell’Arte, con Cesare Brandi. Docente nei Licei, dal 1971 al 1973, nel 1974, lavora presso il Ministero per i Beni e le Attività culturali. È ispettore storico dell’arte del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Liguria e alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma. Diviene direttore alla Tutela Territoriale e responsabile dell’Ufficio Mostre, fino al 1991. Dal 1991 al 2009, ricopre la carica di soprintendente per il Polo Museale di Roma. Si interessa in modo particolare della pittura e scultura del Cinquecento classicista e manierista e del primo Seicento, svolgendo anche un’interessante attività divulgativa, con programmi televisivi seguiti ed apprezzati. Tra le più recenti iniziative espositive e culturali promosse e curate: Caravag- Consiglio direttivo dell’ISAO Settore editoriale ISAO PRESIDENTE: VICEPRESIDENTE: SEGRETARIO: TESORIERE: CONSIGLIERI: DIRETTORE RESPONSABILE: Prof. Francesco M. Della Ciana DIRETTORE SCIENTIFICO DEL BOLLETTINO: Dott.ssa Laura Andreani (in regime di prorogatio) DIRETTORE SCIENTIFICO DEI QUADERNI: Arch. Alberto Satolli (2016-2019) Arch. Alberto Satolli Dott.ssa Alessandra Cannistrà Dott.ssa Maddalena Ceino Arch. Raffaele Davanzo Prof. Donato Catamo Prof. Francesco M. Della Ciana Dott.ssa Marilena Rossi Caponeri ordinario dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, accademico di San Luca. Ha realizzato cataloghi per musei e mostre, scritto saggi e monografie su Piero della Francesca, Luca Signorelli, Antoniazzo Romano, Filippo Lippi, Benvenuto Cellini, Bronzino, Michelangelo etc. Dirige la collana Piccoligrandimusei. Collabora con giornali e riviste, è redattore di “Paragone e Arte” e del “Bollettino dell’Arte” del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. L’editoria: 1989 Piero della Francesca, Cantini 1990 Luca Signorelli, Scala Group 1996 I Gonzaga e l’antico. Percorso di Palazzo ducale a Mantova, Palombi Museo Italia. Diario di un soprintendente-ministro, Sillabe 1997 Michelangelo The Pietas, con Aurelio Amendola fotografie, Skira 1998 Firenze: i secoli d’oro, con Marton G. Paolo e Scalini Mario, Magnus 1999 The museum of the Medici chapels and the Church of San Lorenzo, Sillabe 2000 Michelangelo. Les Pietà, Skira Cellini, Giunti Gli animali del Giambologna, Giunti 2002 Il David di Michelangelo, con Amendola Aurelio, 24 Ore Cultura Bronzino, Giunti 2003 Il mito di Venere, Silvana 2004 Michelangelo: il David, con Gary M. Radke, Franca Falletti, Giunti Toscana 360, con Ghigo Roli, Priuli & Verlucca La storia del Bargello. 100 capolavori da scoprire, con Paolozzi Strozzi Beatrice, Silvana La Banca di Cambiano e i suoi primi 120 anni. Origini, storia e prospettive del più antico istituto di credito cooperativo d’Italia (1884-2004), con Locatelli Franco, Olschki Florence. The golden centuries, con Scalini Mario, Marton G. Paolo, Magnus 2005 Marcello Fantoni. Una bella forma con un bel colore, con Gradi Elisa, De Paoli Firenze. Arte e architettura, con Cresti Carlo, Tartuferi Angelo, Magnus 2006 Raffaello, Scala Group Mille anni di arte italiana, Giunti 2007 Filippo Lippi, Giunti Michelangelo. Il David, Scala Group Scritti d’arte (1996-2007), Olschki 2010 Firenze. 2000 anni di storia, con Santi Bruno, Art Media Il Museo delle Cappelle Medicee e San Lorenzo, Sillabe 2011 Melozzo da Forlì. L’umana bellezza tra Piero della Francesca e Raffaello, con Benati Daniele, Natale Mauro, Silvana Arte e bellezza, La Scuola Cecco Buonanotte e il battesimo di Leona, con Nanni Romanbo, Skira 2012 Pensieri d’arte. Dentro e fuori i Musei Vaticani, Libreria Editrice Vaticana Firenze, arte e architettura, con Cresti Carlo, Tartuferi Angelo, Magnus Mille anni di arte italiana, Giunti 2013 Raffaello in Vaticano, Giunti gio e i primi caravaggeschi (Museo Teien di Tokio), Raphael. Grace et Beauté (Musée du Luxembourg a Parigi), Titian to Tiepolo (Museo Nazionale di Canberra), Sebastiano del Piombo (Palazzo Venezia a Roma poi a Berlino), Il Quattrocento romano. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino (Museo del Corso a Roma), Caravaggio (Scuderie del Quirinale). Tra i meriti più significativi, abbiamo la riorganizzazione della Galleria Borghese, di Palazzo Venezia, del Vittoriano, la riapertura di Palazzo Barberini, l’informatizzazione del patrimonio artistico di Roma e del Lazio, con attenti interventi di restauro e seguenti attività di catalogazione. Lunghissima la lista delle pubblicazioni, tra libri di storia dell’arte e contributi di carattere scientifico comparsi in riviste specializzate, italiane e straniere. Tra i libri più recenti, un ciclo di volumi dal titolo Il mestiere dell’artista, editi da Sellerio, che ripercorrono la storia dell’ arte italiana dal Trecento a oggi. Nel 2010, con l’editore Skira, è stata pubblicata l’opera da lui ideata su I Caravaggeschi, risultato di lunghi anni di lavoro in collaborazione con Alessandro Zuccari. Sempre nel 2010 sono stati pubblicati due imponenti volumi, il primo su Raffaello, edito da Scripta maneant, il secondo su Bronzino edito da Viviani. Gli interessi di Claudio Strinati oltre alle arti figurative comprendono anche la musica, di cui è grande esperto, tanto da curare una rubrica settimanale sul Venerdì di Repubblica. ha collaborato al “Dizionario Biografico degli Italiani” e presieduto per alcuni anni la “Commissione nazionale per la tutela degli Organi antichi” presso il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. numerosi articoli scientifici su alcune tra le principali riviste italiane come il Bollettino d’ Arte, Storia dell’Arte, Prospettiva, Antichità Viva, ha svolto attività divulgativa nel campo della storia dell’arte con articoli e de stefano isabella, LEB L’editoria: 1986 Capolavori da salvare, con Bernini Dante, Giunti 1991 Mattia Preti: disegno e colore, con Preti Mattia, Marini Maurizio, Ippoliti Carolina, Abramo 1998 Raphael, Giunti 2001 Annibale Carracci, Giunti Giannetti in Vaticano, Istituto Poligrafico dello Stato 2006 La ragione e il senso. Tiziano. Amor sacro e profano, con Bernardini M. Grazia, E-Medium 2007 Villa Madama: Raphael’s Dream, con Napoleone Caterina, Borghese Daria, Zoppi Mariella, Allemandi L’uomo e il mistero nelle opere di Giancarlo Mikò. Catalogo della Mostra (Ostia, 30 novembre-7 dicembre 2007), Artemide Il mestiere dell’artista. Da Giotto a Leonardo, Sellerio 2009 Raffaello, Giunti Il mestiere dell’artista. Da Raffaello a Caravaggio, Sellerio La “vera” vita di Caravaggio secondo Claudio Strinati, Arte’m Palazzo Chigi, Mondadori Electa Piero Boni. Mondi partecipativi dipinti e disegni, con Panetta Marina, De Stefano Isabella, Lubrina-LEB 2010 Raphael, Giunti I Caravaggeschi: Percorsi e protagonisti, con Zuccari Alessandro, Skira Raffaello universale, Scripta Maneant 2011 Il mestiere dell’artista. Dal Caravaggio al Baciccio, Sellerio 2013 Andrea del Sarto. Un San Sebastiano ritrovato, Gangemi 2014 Il mestiere dell’artista. Dal Trecento al Seicento, Sellerio 2015 La Roma dei Papi. Il Rinascimento, Giunti 3 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Il Merletto Orvietano T entare di ricostruire la storia del Merletto Orvietano si presenta già una impresa difficile ed insidiosa, in assenza quasi completa di documentazioni. A distanza di pochissimi decenni dalla scomparsa delle protagoniste di quella straordinaria stagione caratterizzata dal grande sviluppo dell’Arte Gentile di Orvieto, notizie scritte e certificate di come nacque e si sviluppò quest’Arte in Orvieto sono purtroppo difficilmente rintracciabili e spesso non verificabili; quasi non ci restano che tradizionali fonti e testimonianze orali che, come spesso avviene, sono viziate da un eccesso di partigiana commozione. Ci atterremo dunque, oltre al poco che rimane di documentato, all’ancora vivido ricordo di chi conobbe personalmente le ultime grandi Merlettaie di Orvieto, prima che a sua volta anche quest’ultimo filo si spezzi. Rimangono comunque, gelosamente conservate, incontrovertibile testimonianza, presso le case di tanti orvietani e presso le sedi delle più importanti Istituzioni, quali Comune, Cassa di Risparmio, Azienda del Turismo, moltissimi pregevoli lavori e capolavori di quest’Arte che solo molto faticosamente è tenuta ancora attiva da un piuttosto esiguo numero di appassionate. A questo Monumento Diffuso, a questo Tesoro Nascosto, a queste pressoché oscure Artiste, si intende ora rendere omaggio con una riconoscente testimonianza. Il Lions Club di Orvieto, sempre sensibile alla salvaguardia ed alla valorizzazione delle tradizioni artistiche locali, ha ideato quindi un Service intitolato “Il Lions Club di Orvieto adotta il Merletto Orvietano”, che si prefigge, allo scopo di non perdere la memoria e le tracce di questo importante e corale episodio arti- stico, che ha prodotto un così grande numero di eccellenti opere, la formazione di un Catalogo Generale dei Merletti Orvietani ancora rintracciabili, un Repertorio fotografico costruito casa per casa di un patrimonio spesso gelosamente conservato, talvolta invece negletto e dimenticato, ma sempre preziosissimo, esclusivo della città. Nella Nuova Italia, finalmente riunificata, di fine ottocento e dei primi novecento, insieme ad un fiorire di studi storici ed artistici, tendenzialmente volti a rinnovare le antiche tradizioni e glorie d’Italia, non disgiunti peraltro da un impetuoso rinnovamento tecnologico che investiva tutta la società nei più diversi campi, si rinverdivano anche gli antichi fasti del famoso Merletto Italiano, così apprezzato in tutta Europa fin dal 1500: il merletto di Venezia, con la riapertura della scuola di Burano, la fondazione dell’“Aemilia Ars” di Bologna e poi a Firenze, con la manifattura Campodonico Navone, a Quarrata, in Liguria, nel Friuli ed in Abruzzo ed in molte altre regioni. Moltissime ed importanti iniziative fiorirono in tutta Italia, per lo più patrocinate dalla nobiltà locale, a non smentire quanto riportava un articolo dell’inglese “Magazine of Art” del 1883, che dichiarava “…In Irlanda l’arte del ricamo non era una occupazione per ricchi o nobili come invece lo era in Italia o in Spagna. La sua origine si deve alle iniziative benefiche che fecero pensare, ai tempi della carestia, come la lavorazione del merletto potesse essere un modo vincente per i contadini nel guadagnarsi il pane…”. La lavorazione del Merletto d’Irlanda approdò, è proprio il caso di dire, all’Isola Maggiore Tovagliato da dodici coperti del Trasimeno, importato dalla Marchesa Guglielmi. Questa tecnica, che consisteva nell’assemblare diversi elementi ripetitivi, su un disegno predisposto, era ideale per essere suddiviso tra varie lavoranti e poi ricomposti a creare manufatti di grande bellezza, quali tovaglie, centrotavola, finiture per abiti ed altro, sollevando, con la suddivisione del lavoro, dalla secolare indigenza le donne dei pescatori dell’isola ed Rosone su ispirazione dal Duomo di Orvieto assolvendo quindi anche a quella funzione sociale già da tempo auspicata. Nel 1904 sull’isola erano nove ragazze al lavoro, nel 1906 erano già venti; in seguito aumentarono ancora. Nel 1907 il merletto d’Irlanda, mutuato dal Trasimeno, arrivò ad Orvieto, la città del Duomo. Pannello decorativo primi decenni 1900 4 Orvieto, per definizione “Città Vecchia” lentamente ma tenacemente si rinnovava, smentendo nettamente l’impressione che ne ebbe Gabriele d’Annunzio nel 1904, quando scrisse della città, nel suo “Elettra”, “Le città del silenzio”: “…ovunque par che incomba la Morte…”. Tra le prime città in Umbria, la città si dotò, tramite gli impianti dell’Ing. Netti, di corrente elettrica e si collegò, con una avveniristica funicolare ad acqua, alla stazione ferroviaria e quindi al mondo. Si rinnovava l’acquedotto, opera primaria per l’igiene pubblica e si dotava la città di un nuovo ufficio postale, dai soffitti di vetro, nei cortili del vecchio Palazzo del Governatore papale. Era già costruito un magnifico teatro e si rinnovava l’interno del Duomo riportandolo alle Sua antica purezza (distruggendo peraltro interi cicli decorativi e pittorici), nuove e prestigiose Accademie rinnovavano i fasti della città, magnifichi palazzi privati venivano in fretta eretti per la nuova emergente ricca borghesia e per la nuova nobiltà che contendeva il primato sociale e politico all’esausto antico patriziato storico che volgeva irrimediabilmente al suo finale declino. Perfino il nome di tutte le strade di Orvieto veniva rinnovato con gli altisonanti ricordi medioevali. L’artigianato rifioriva dando nuova vita al legno, al ferro, alla ceramica, alla pittura, al mosaico ed a tutte le arti decorative rielaborando con gusto le antiche forme tradizionali. Turisti eleganti si pavoneggiavano per il Corso e per gli scintillanti caffè, insieme alle signore locali ed in questo ambiente moderno ed elettrizzante l’esigenza di lusso e di raffinatezza diventava sempre più pressante, dietro la spinta del diffondersi di riviste di moda e delle idee portate nella vecchia città dalle dame di Roma e di Firenze, ora così vicine. Modiste, sarti e sarte, pellicciaie ed orefici lavoravano a pieno ritmo Su questo humus perfetto, dove Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Centro tavola con decorazioni rinascimentali tutto sembrava possibile, stava per nascere una nuova e mai vista prima forma d’arte, eterea e nobile, tutta al femminile ed assolutamente esclusiva: Il Merletto di Orvieto. La contessina Maria Vittoria Faina, insieme ad un gruppo di nobildonne locali, sulla scia del revival del merletto e di quanto avveniva in altre città, seguendo un po’ l’esempio della vicina Marchesa Guglielmi al Trasimeno, “importò” le forme decorative e la tecnica del già sperimentato “Merletto di Irlanda”, fondando un Patronato che si chiamò “Ars Wetana”, che si proponeva lo sviluppo del merletto, ora chiamato appunto Arte Orvietana, dando al contempo possibilità di guadagno, e quindi di riscatto sociale, alle donne orvietane. La fondazione del Patronato avvenuta nel 1907, solo dopo tre anni dalla nascita del Merletto del Trasimeno, ebbe un immediato e travolgente successo, dovuto ad una serie di fattori che ne determinarono non solo lo sviluppo, ma anche la gemmazione di una serie di iniziative individuali che produssero a loro volta esiti sia artistici che economici decisamente ragguardevoli. Bordatura tovagliato di gala per diciotto coperti Cartolina pubblicitaria del merletto autografa datata 1916 Le cause determinanti lo sviluppo dell’Ars Wetana furono quindi, come già accennato, l’ambiente cittadino, ricco e fervente di iniziative e di rinnovamento, l’alto livello sia culturale che artistico dei dirigenti del Patronato, ai quali era affidata la realizzazione dei disegni spesso mutuati dalle decorazioni del Duomo di Orvieto, la diffusione della realizzazione degli elementi decorativi, ripetitivi, presso larghi strati della popolazione femminile, la facile commercializzazione dei prodotti finiti non solo sulla Rupe, ma anche nelle grandi città ed all’estero. Nel giro di qualche anno si può dire che quasi tutte le famiglie di Orvieto e dintorni erano coinvolte, a vario titolo, nella produzione dei preziosi manufatti, che via via diventavano sempre più raffinati, diversificati e soprattutto richiesti. Potremmo dire che proprio questa fitta rete di semplici operaie, disegnatrici e disegnatori, creatrici di moda, stiratici etc., andavano a creare un nuovo, diffuso e solido tessuto sociale ed un forte senso di appartenenza comune di cui ancora oggi esiste commossa memoria. Ciascuno poteva annoverare e vantare una o più “merlettaie” tra i suoi parenti e conoscenti, che contribuivano a questa nuova, e retribuita, Arte del Merletto, che rappresentava in città un vero e proprio fenomeno sociale oltre ad una non più secondaria fonte di reddito. Come ho accennato l’Ars Wetana ebbe anche il merito di “gemmare” artiste autonome, facendo fiorire, negli immediati anni successivi, laboratori di lavoratrici autonome, che non seguivano più i disegni e le commissioni del Patronato, ma che erano in grado di creare originali, anche se pur sempre tradizionali, disegni, di organizzare il lavoro, di portare a fine splendidi manufatti ed infine commercializzarli. Da un archivio privato orvietano emerge una bellissima serie di cartoline postali, prodotte dalla ditta Armoni, illustranti decine di esemplari di merletti dell’epoca, di un unico laboratorio, quasi un catalogo di vendita; una sola è viaggiata. Datata 1916,spedita al fronte, è indirizzata al fidanzato dell’autrice dei merletti con brevi, pudiche e commoventi parole affettuose, nascoste perfino sotto il francobollo, per via della censura. Questa merlettaia orvietana aveva all’epoca 19 anni, ma era già padrona di una tecnica perfetta e di una inusuale ed innata abilità nel disegno, nonché di creare una rete commerciale per diffondere i prodotti del suo neonato laboratorio, lavorando per mettere su casa, al posto del futuro marito, chiamato per lunghi anni alla guerra. Non fu un caso isolato, ma certo documentato ed emblematico; molte donne orvietane si cimentarono in creazioni più o meno complesse ed artistiche, certo con esiti diversi, ma fu un corale fiorire di tralci di uva e di acanto ed un intero bestiario di animali reali e fantastici: grifoni, delfini, uccelli in cieli di trina stellati e nuvole ariose cosparse di fiori. Forme zoomorfe ed elementi fantastici si animano sempre più e si inseguono in arditi ed eleganti disegni, gareggiando e giocando con l’aria che sottilissimi fili intrecciano ed imprigionano. Questo è stato il merletto di Orvieto e questa breve storia familiare credo possa riassumere, una per tutte, cosa sia stato e cosa sia tuttora il Merletto per Orvieto e per gli orvietani: non solo una nobile tradizione di alto artigianato artistico, ma una assoluta peculiarità, esclusività e soprattutto un vibrante senso di appartenenza, legato imprescindibilmente alla loro storia ed alla loro anima, forse secondo soltanto al loro Duomo. A questi profondi sentimenti dovremo accostarci con grande rispetto nell’affrontare lo studio e la valorizzazione di questo vasto fenomeno artistico e sociale che ha contraddistinto ed ancora contraddistingue la nostra società orvietana, ma che sempre maggiormente tende oggi ad affievolirsi e con l’ineluttabile passare del tempo, ad essere dimenticato, condannando anche gli stessi artistici manufatti, assai deperibili per la loro eterea leggerezza, alla perdita ed alla dissoluzione. Il Lions Club di Orvieto si è accostato quindi a questo mondo, che oggi appare così effimero nella sua insita delicatezza, con l’intento di produrre un repertorio fotografico, e quindi creare delle schede sinottiche allo scopo di censire e catalogare sistematicamente tutte le opere ancora reperibili sul territorio che andranno a formare un Catalogo Generale del Merletto Orvietano, preceduto da una storia del Merletto stesso e dalle biografie di almeno quattro tra le maggiori artiste che hanno illustrato e diffuso quest’arte. Ricorderemo tra le maggiori artiste, Luisa Geremei Pettinelli, Matilde Marziantonio, Maria Luigia Moretti e Clara Paragiani, in rappresentanza delle moltissime merlettaie orvietane di cui, per larga parte, a distanza di pochi decenni, si è perduta memoria. Renzo Marziantonio Foto: Vandino Zappitello Centro decorativo intitolato “le Opere del mattino” 5 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 A PROPOSITO DELL’ARTE DEL MERLETTO AD ORVIETO… COSÌ SCRIVEVO VENTIDUE ANNI FÀ Le motivazioni di una riscoperta e valorizzazione L e motivazioni per cui l’Istituto Statale d’Arte di Orvieto ha ritenuto opportuno collaborare al tentativo di una riscoperta e soprattutto di una rivitalizzazione del merletto orvietano, vanno ricercate non in una pura e semplice esibizione del fare scuola in maniera diversa, quanto in un modo organico di attuare interventi di natura pedagogico-didattica collegati alle vocazioni storiche, culturali ed artistico-artigianali di questo territorio. Una scuola che opera ed avvia i giovani, almeno a livello intellettivo e concettuale, all’esercizio delle arti applicate nell’ambito di una preparazione culturale complessiva ampia ed articolata, non poteva non accorgersi di questo settore dell’Arte, definita impropriamente “popolana” che, al contrario, per la sua raffinatezza tecnica e delicatezza elaborativa, è da considerarsi nobile a tutti gli effetti, come la volontà di coloro che hanno pensato di introdurre il merletto di filo di Irlanda in Orvieto. In un’azione multi-metadisciplinare vi hanno infatti concorso materie come Lettere Italiane, Storia, Storia dell’Arte, Discipline Visive, Scienze, Progettazione e Laboratori ed ovviamente sul fronte ci son state alcune classi ed i rispettivi docenti, insieme a tutto il personale della segreteria ed ausiliario. L’esperienza degli anni passati che, attraverso lo studio sulla Vetrata dell’Abside del Duomo di Orvieto, portò nel maggio 1991, in occasione del VII centenario della Fondazione della Cattedrale, alla mostra che ancora oggi è visibile nel cortile del Palazzo Monaldeschi sede dell’Istituto , ha certamente insegnato, ma… In quella occasione l’oggetto della ricerca era a disposizione a pochi passi dalla scuola: si sapeva dove, come e quando documentarsi con interi e numerosi archivi e biblioteche in cui introdursi, anche se tutta l’operazione si protrasse per quattro anni. Oggi, questa nuova iniziativa, per quanto meno ampia ed articolata storicamente, comunque di elevata valenza culturale, ha dovuto superare, purtroppo, alcuni ostacoli: la difficoltà del reperimento dei “pezzi” d’arte oggetto di studio a causa dell’eterogenea distribuzione sul territorio orvietano, la “giusta” diffidenza dei proprietari sull’utilizzazione dei merletti e, non per ultimo, il timore di un possibile deterioramento degli stessi. Ma la produzione di un video, l’organizzazione di una mostra di pezzi pregiati dell’arte applicata in questione, l’edizione del relativo catalogo, e tutte le loro articolazioni interne, rappresentavano, per questo Istituto, un traguardo importante e soprattutto un’azione educativa e culturale, se non unica, certamente rara. Essa si è infatti consumata in gran parte al di fuori delle aule scolastiche, dimostrando che un’azione didattica efficace e significativa e quindi la qualità dell’apprendimento fuoriescono dalle pagine dei libri ti testo e dagli esperimento §”in vitro” e permeano la realtà esterna in modo che i segni e i significati prodotti siano visibili e tangibili. Donato Catamo PRESIDE DELL’ISTITUTO STATALE D’ARTE ORVIETO L ’Arte del merletto, nata a Venezia, dopo aver girovagato per l’Europa, così come narra Paolo Frongia nel video realizzato per l’occasione della ricerca in questione, dall’Irlanda tornò in Italia, trovando accoglienza ad Orvieto soprattutto nel secolo scorso, anche se un certo interesse in questa città era sorto, forse, con la venuta di Caterina dei Medici ad Orvieto nel 1532, ospite presso la famiglia Simoncelli. Ma tralasciando le notizie storiche per le quali si rinvia alla pubblicazione Arte del merletto in Orvieto1, altrimenti si dovrebbe far riferimento anche alla Trina, che invece, ha origine araba e ciò sarebbe molto lungo ed articolato, dico che alla realizzazione del progetto in questione hanno concorso il Comune di Orvieto, quale ente patrocinatore, la Fondazione C.R.O., quale agenzia di promozione, e l’allora Istituto Statale d’Arte, oggi Liceo Artistico, della stessa città, che ha curato l’organizzazione, la progettazione e, di conseguenza, la realizzazione. I rapporti tra le istituzioni sono stati curati da Donato Catamo per l’ISA, Pasquale Graziani per il 6 Comune e Arnaldo Olimpieri per la Fondazione. L’organigramma era così composto: GRUPPO DI RICERCA, STUDIO, DOCUMENTAZIONE, PROGETTAZIONE E REALIZZAZIONE: Donato Catamo, Adriano Casasole, Annamaria Chiasso, Santo Ciconte, Rossano Conti, Paolo Frongia, Laura Guidi di Bagno, Renato Ingala, Aldo Izzo, Anna Lapini, Flavio Leoni, Maria Teresa Nulli, Maria Tordi, Cristiana Valentini, Marita Teresa Caccavello, Franco Cesaretti, Lucia Cesaretti, Tonello Forbicioni, Ornella Prosperini, Maria Luisa Tilli e le classi terze, quarte e quinte. MOSTRA: Flavio Leoni, Adriano Casasole, Maria Teresa Caccavello, Lucia Cesaretti e Maria Luisa Tilli. VIDEO: Santo Ciconte, Paolo Frongia, Renato Ingala, classe V A. CATALOGO: Aldo Izzo, Annamaria Chiasso, Laura Guidi di Bagno, Maria Tordi, Rossano Conti, Maria Teresa Nulli, Cristiana Valentini. CATALOGAZIONE: Laura Guidi di Bagno, Adriano Casasole, Maria Luigia Moretti (Coordinamento culturale e scientifico) Il lavoro di schedatura è stato coordinato, a livello culturale e scientifico dalla Professoressa Laura Guidi di Bagno, con la consulenza tecnica della Signora Maria Luiga Moretti e la collaborazione del Professore Adriano Casasole. Dopo uno studio sulla nomenclatura e tipologia dei diversi punti che si è concretizzato in un primo inventario dei vari tipi di fondo, puntine ed elementi decorativi più usati, le schede sono state realizzate dagli studenti della Classe IV A dell’Istituto. Il numero delle schede pubblicate corrisponde a cinquantuno ed è relativo ai pezzi più pregiati, ma le opere sono state tutte censite e catalogate e le riprese fotografiche hanno raggiunto e superato il numero straordinario complessivo di duemila, di cui settecento circa di diapositive e milletrecento circa di negativi b/n. Ovviamente le riprese si riferiscono a tutte le opere in merletto che sono state reperite nella città di Orvieto e sul territorio del Comune (Sugano, Benano, etc…) ed in qualche comune del comprensorio. È chiaro che le riprese riguardano sia le opere intere che i particolari più interessanti. Tale operazione è stata anche un anticipo dell’ Alternanza Scuola/Lavoro, attività prevista dalle norme vigenti e in voga in tutte le tipologie di studi delle scuole secondarie superiori, in quanto gli allievi più attivi, allora hanno contribuito in maniera molto fattiva per impegno e volontà oltre che sotto l’aspetto culturale anche al di là del normale orario di lezione. Per questi motivi ed in seguito a richiesta del Preside e del Consiglio di Istituto, la Fondazione C.R.O. ha riconosciuto agli studenti coinvolti un contributo economico. Tenendo presente che ciò risale al 1994, quindi ventidue anni orsono, si può definire un’esperienza di Alternanza Scuola/Lavoro ante litteram. Procedendo nella descrizione del lavoro svolto dalla scuola, faccio notare che le opere catalogate sono circa cinquecento, le quali sono state messe in mostra presso il ridotto del Teatro Mancinelli dal 26 giugno al 10 luglio 1994 e riguardavano centrotavola, guide da tavolo, tovagliati fino a ventiquattro commensali, copri lampade e lampadari, copriletto, elementi decorativi, vestiti, camicie, corredi per neonati, tende, riproduzioni di opere importanti etc… La mostra è stata inaugurata alla presenza dell’allora provveditore agli studi di Terni dott.ssa Vittoria Puja. Per ciò che concerne il video sono state effettuate riprese per circa quindici ore, da cui è stato tratto un documento di dodici minuti, sul quale è stato raccontato tutto relativamente alla tecnica dell’arte del merletto ed è stato messo in evidenza lo spirito con cui le donne si approssimavano a questa umile/nobile Arte del fare creativo. In riferimento a quanto sopra descritto, faccio presente che tutti gli atti della documentazione citata, sono negli archivi del Liceo Artistico statale di Orvieto e sono a disposizione di chiunque, oggi, abbia desiderio di prenderne visione, ovviamente adducendo motivazioni valide e credibili. Mi sembra perciò superfluo, se non addirittura inutile, oltre che dispendioso di energie fisiche ed economico/finanziare, considerato tutto il materiale documentario raccolto sull’arte del merletto del territorio, ricominciare dalle origini, anche se qualsiasi iniziativa tendente a migliorare l’esistente, debba essere sempre ben accolta. Ritengo, inoltre, opportuno ringraziare ancora oggi tutti gli enti, le agenzie, le famiglie ed i singoli cittadini che allora hanno gentilmente messo a diposizione le loro collezioni, consentendo di realizzare al meglio i contenuti del progetto. L’operazione culturale che ha visto coinvolte tutte le componenti scolastiche dell’ISA a partire dagli studenti, ai collaboratori scolastici, al personale amministrativo, a quello docente, al Preside e ad alcuni genitori, nonché tutti gli organi di governo della scuola quali il consiglio di Istituto, il Collegio dei docenti ed i consigli di classe interessati, ha avuto una forte valenza sociale con particolare riferimento al coinvolgimento di molte famiglie e altrettanti cittadini che si sono resi disponibili a collaborare, pertanto mi ripeto e dico ancora GRAZIE! Inoltre l’attenzione e l’interesse per il merletto e per la trina di Orvieto, in relazione all’aspetto conoscitivo e divulgativo, hanno riferimenti ancora più lontani nel tempo, tant’è vero che nel 1986 ha avuto luogo una pubblicazione dal titolo Trine e Ricami in stile di Luisa Geremei Pettinelli. Il libro contiene quaranta immagini, la cui impaginazione è stata curata dall’arch. Alberto Satolli e la stampa è avvenuta presso la tipografia Zamperini di Orvieto su matrice zincografica. Diceva Pablo Picasso: chi cerca trova! Donato Catamo Arte del merletto in Orvieto, Grotte di Castro, 1994. 1 Abito da sposa / prima di coperta del catalogo della mostra realizzata dall’ISA di Orvieto al Teatro Mancinelli nel 1994 Porano, anni 80 - collezione privta Breccola Tiziana Autore: Velia Pollegioni Foto: Istituto Statale d’Arte / Liceo Artistico Orvieto 1994 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Una nave chiamata Orvieto lorda, lungo 163 metri, con due fumaioli, due alberi, tre macchine a triplice espansione con caldaie a carbone, tre eliche e una velocità massima di 18 nodi. C’erano sistemazioni per 235 passeggeri in prima classe, 186 in seconda e 696 in terza. Fu era nata nel 1869 con il nome di Anderson, Anderson e Co., che nel 1878, per avviare un servizio postale per l’Australia, acquisì una flotta di navi già di proprietà della Pacific Steam Navigation Company, divenendo Orient Steam Navigation Company (abbreviato in Orient Line). Il contratto con il governo australiano per il servizio postale era molto ben retribuito: subito dopo lo scadere del secolo la Orient Line conobbe un periodo di rapida espansione, e si rinnovò con la messa in cantiere di grandi piroscafi di 12.000 tonnellate, entrati in servizio a partire dal 1908. Il nome ufficiale della nostra nave era RMS Orvieto, cioè Royal Mail Ship, nave postale. Come già accennato, la nomenclatura della navi della compagnia iniziava sempre per O: le altre navi della stessa classe della Orvieto si chiamavano Orsova (città sul Danubio allora in Ungheria, oggi in Romania), Otway e Orama (parchi in Australia, rispettivamente presso Melbourne e a Sidney), Osterley (sobborgo e parco a ovest di Londra), e due città italiane: Otranto e Orvieto. È chiaro che i nomi furono scelti consultando un dizionario enciclopedico! La Otway, la Orama e la Otranto furono navi sfortunate, andarono perdute per siluramento o per incidente sul finire della prima guerra mondiale, come accadde anche all’altro piroscafo con nome di città italiana che la Orient Fig. 3. Il modello della Orvieto conservato presso l’Australian War Memorial di Camberra. Altre immagini del modello sono in https://www.awm.gov.au/collection/RELAW M09634/. Veduta della prua. Fig. 4. Il modello della Orvieto conservato presso l’AWM, la poppa. Il porto ufficiale di immatricolazione rimase sempre Belfast, dove l’unità era stata costruita. costruita nei cantieri Workman, Clark and Company di Belfast, e varata il 6 luglio 1909; il suo viaggio inaugurale da Londra a Suez, Melbourne e Sydney iniziò il 26 novembre dello stesso anno. La Orient Line era una decana per i viaggi nel Continente Nuovissimo: la società aveva messo precedentemente in linea, la Ortona4. Della storia della Orvieto, approfondiamone il periodo più avvincente, il 1914. Il suo secondo viaggio di quell’anno verso l’Australia iniziò dal porto di Tilbury, sull’estuario del Tamigi, il 3 luglio. A bordo era salita Fig. 1. Royal Mail Ship Orvieto. Brisbane State Library of Queensland, John Oxley Library, n. 49100. L a Nave è da sempre compagna di esperienze e di conoscenze, un’amica che ti accoglie e ti protegge in un ambiente ostile, che ti rammenta sempre i pericoli scampati e quelli che presto o tardi ti ritroverai ad affrontare. Prima di tutto è fonte di orgoglio se tu sei un buon marinaio e sei un tutt’uno con lei, piccola o grande che sia: ha personalità, di sicuro la tua stessa personalità, è cosa viva, in fondo un simbolo della scelta di vita sul mare. Ecco perché assegnarle un nome era, e lo è ancora, un rito, è un chiedere al Cielo che quella nave assicuri a sé e a te un futuro agevole, e comunque fortunato e lungo. Così il nome della più importante nave della mitologia, Argo (Ἀργώ), va ricollegato ad αργός (rapido), a sottolinearne la leggerezza quasi danzante sulle onde, anche se alcuni autori antichi lo riconducevano a quello del suo costruttore, Argo figlio di Phrixus, o alla città di Argos dove sarebbe stata costruita. È strano, ma Omero nell’Odissea non tramanda nessun nome per la nave di Ulisse (o meglio, le navi, perché gli dei gliene distrussero molte nelle tempeste); nell’Iliade poi (II, 494-759), il poeta ci fa un lungo Catalogo delle navi greche: ben 1.186, con i nomi dei comandanti e il luogo di provenienza, ma senza un solo nome di nave. Virgilio invece nel libro V dell’Eneide (116-124) narra come Enea, durante lo scalo a Drepanum (Trapani) nel primo anniversario della morte del padre Anchise, indicesse una serie di giuochi celebrativi, i novendiali, tra cui una gara tra navi: una vera regata. I nomi delle navi erano: Chimaera (capitanata da Gyas), Scylla (Cloanthus), Centaurus (Sergestus) e Pristis (Mnestheus). Nomi di mostri mitologici, compresa pristis che non è altro che il pescesega. Della flotta militare di base a Miseno, la Praetoria Classis Misenensis, sono stati ricostruiti per via archeologica ed epigrafica i nomi di moltissimi scafi1: quelli delle due ammiraglie (l’esareme Ops e la quinquereme Victoria) e di moltissime altre navi, quadriremi, triremi e liburne, con nomi tratti dalla mitologia2, dalla geografia (specialmente fiumi) e dalle tradizionali virtù romane. Il nome era scritto su una tavoletta, la ptychis, che si inchiodava a prora. In tempi più recenti, per imbarcazioni provenienti dallo stesso gruppo di progetti si preferì l’uso di nomi collegati fra loro, ma sempre provenienti dalla mitologia, dalle specie marine, da nomi di città, o dalle virtù della nave stessa: un modo per individuare una classe di unità, specie nelle flotte militari. Ma la nave chiamata Orvieto ebbe questo nome per un fatto del tutto casuale, legato essenzialmente al fatto che doveva iniziare per O, come tutte le navi della compagnia di navigazione a cui apparteneva, la Orient Line3. La Orvieto (figg. 1-2-3-4) era un piroscafo di 12.133 tonnellate di stazza Fig. 2. La Orvieto in una cartolina della Orient Line. una fitta delegazione di scienziati diretti in Australia per l’84° Convegno della British Association for the Advancement of Science, che si sarebbe tenuto quell’anno in diverse città australiane. Tra questi, il matematico canadese John Charles Fields ed il geografo italiano Guido Cora. Il 4 agosto 1914 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, e la Orvieto giunse nel primo porto australiano, Freemantle, proprio in quella data. La nave fu requisita dal governo del Commonwealth d’Australia, entrò in bacino di Sydney e dopo due mesi di lavori divenne HMAT Orvieto (His Majesty’s Australian Transport), un trasporto truppe5. Quando fu organizzato il primo convoglio australiano per il Mediterraneo, la Orvieto ebbe la sigla A3 (Australia 3), e vi si imbarcò il comandante del convoglio con la sua bandiera, divenendone la flagship. Sulla Orvieto trovarono posto 1.457 uomini, di cui 91 ufficiali; dopo essere partita da Melbourne (figg. 5-6), si riunì con altri convogli nel King George Sound, di fronte alla città di Albany sulla punta sud-occidentale dell’Australia, per affrontare l’Oceano Indiano6. Il 1° novembre 1914 fu il giorno della partenza del grande convoglio, che comprendeva 37 navi mercantili australiane e neozelandesi e tre incrociatori di scorta, gli australiani Melbourne e Sydney ed il giapponese Ibuki. Il convoglio copriva una superficie di oceano di circa 15 miglia per 10, e trasportava quasi 30.000 uomini e 8.000 cavalli. Il 15 novembre, durante la sosta a Colombo (Ceylon, odierno Sri Lanka), la Orvieto prese a bordo parte dei prigionieri dell’incrociatore corsaro tedesco Emden che era stato messo fuori combattimento nell’isola Cocos, a sud dell’Indonesia. Le truppe australiane e neozelandesi furono sbarcate a Suez e ad Alessandria (fig. 7): ma non si conosceva ancora come sarebbero state impiegate. Nel dicembre le truppe in Egitto furono inquadrate negli Australian and New Zealand Army Corps (ANZAC), e nei primi mesi del 1915 fornirono lo strumento per un’audace operazione ideata da Winston Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato, che prevedeva il forzamento dei Dardanelli e l’occupazione di Costantinopoli: il che avrebbe provocato l’uscita dal conflitto dell’Impero Ottomano che era schierato a fianco degli Imperi Centrali, e si sarebbe potuta rifornire di armi e munizioni l’alleata Russia. Le prime truppe australiane sbarcarono sulla penisola di Gallipoli7, il lato europeo dei Dardanelli, la mattina del 25 aprile Fig. 5. L’imbarco sulla Orvieto: Melbourne, 21 ottobre 1914, Wellington, National Library of New Zealand, Alexander Turnbull Library, F 77944-1. 7 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Fig. 6. L’imbarco sulla Orvieto, Alexander Turnbull Library, F 77944-2. Controcampo della foto precedente. Fig. 8. La vita a bordo della Orvieto in viaggio per Suez, novembre 1914. Dall’album del tenente Richard G. Casey. Camberra, National Archives of Australia, M1145. Fig. 7. Il 5° Battaglione australiano sbarca dalla A3 Orvieto ad Alessandria. Australian War Memorial, H02030. 1915, in una baia che è ancora chiamata Anzac Cove dal nome del corpo. Furono otto mesi di pesanti combattimenti: gli australiani partivano dalle loro basi sulla spiaggia, e per attaccare le truppe turche trincerate sulle prime alture, dovevano scalare sotto il fuoco nemico pendii impervi. Proprio nel loro settore comandava le truppe turche il colonnello Mustafa Kemal, colui che successivamente fondò la Repubblica Turca, ne fu il primo presidente e che è meglio conosciuto col nome di Kemal Atatürk: un ufficiale deciso e implacabile. Alla fine della campagna, i morti e dispersi australiani furono 8.709, ed i neozelandesi 2.721: il 35% delle truppe schierate, una delle carneficine belliche mai eguagliate a fronte di un insuccesso totale, in quanto le truppe furono ritirate alla fine dell’anno senza aver conseguito nessun vantaggio, né tattico né strategico. La strage di Galli- Fig. 9. Il castello di poppa della Orvieto in viaggio per Suez. Dall’album del tenente Casey. poli è uno dei capisaldi della storia australiana e neozelandese: ogni anno, il 25 aprile viene commemorato l’ANZAC Day per ricordare i caduti delle due nazioni oceaniche. Il forte simbolismo della giornata si collega alla nascita del sentimento di Patria, in quanto quella campagna bellica, anche se sfortunata, segnò l’emergere dell’Australia e della Nuova Zelanda come libere nazioni: non più colonie britanniche, ma stati sovrani con una genuina identità nazionale. Ricordiamo il bellissimo e tragico film del 1981 Gallipoli, gli anni spezzati del regista australiano Peter Weir (con Mel Gibson); ed il recente The Water Diviner (il rabdomante), diretto da Russell Crowe nel 2014, che narra di un padre australiano alla ricerca del figlio disperso a Gallipoli. Ma torniamo al viaggio della Orvieto dall’Australia a Suez: se in una nave passeggeri è facile fare amicizie, in un trasporto truppe l’incognita del futuro e una possibilità di prossima morte sono un collante perfetto per i sentimenti dei soldati: in realtà sapevano solo che erano destinati ai campi di battaglia, quasi sicuramente sul fronte francese. Una sensazione di attesa che si ritrova negli album fotografici che raccolgono istantanee scattate durante quel lungo trasferimento. In particolare, conosciamo foto scattate proprio sulla Orvieto dal tenente Richard G. Casey nell’album conservato presso i National Archives of Australia (figg. 8-9-10). Sono ritratti uomini che sbarcheranno il 25 aprile all’Anzac Cove (fig. 11), o che combatteranno e forse moriranno davanti alle trincee dette del Pino Solitario, poi conquistate il 6 agosto (fig. 12). Dopo la sosta in Egitto l’Orvieto procedette per Londra, dove arrivò nel gennaio del 1915: ma subito dopo fu requisita dal Ministero della Marina inglese Fig. 11. Il 4° Battaglione sbarca sulla spiaggia dell’ANZAC Cove il 25 aprile 1915. National Archives of Australia, A1861. Fig. 10. Sulla Orvieto erano stati sistemati anche numerosi cavalli. Dall’album del tenente Casey. 8 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Fig. 14. La Orvieto lascia il porto di Sidney diretta a Londra il 27 dicembre 1919. Foto di Frederick G. Wilkinson. Sidney, Australian National Maritime Museum, n. 42329. Fig. 12. Soldati australiani nella trincea del Lone Pine, catturata ai turchi il 6 agosto 1915. Australian War Memorial, PS1514. per essere trasformata in incrociatore ausiliario armato, imbarcando otto cannoni da 6 pollici (152 mm). Divenne quindi l’HMS Orvieto (His Majesty’s Ship, nave da guerra), e svolse dapprima compiti di nave posamine lungo la costa orientale della Scozia, e dal luglio 1916, con base a Liverpool, compiti di pattugliamento intercettando e perquisendo oltre 30 mercantili neutrali. Alla fine della guerra fu adibita alla protezione dei convogli transatlantici, effettuando viaggi in Brasile e in Canada. Terminate le ostilità, alla fine del 1918 fu smantellato l’armamento ed il piroscafo tornò alla Orient Line. Riprese i suoi viaggi per l’Australia (figg. 13-14-15-16) fino all’agosto del 1930, quando fu messa in disarmo perché era ormai superata: le sue caldaie bruciavano ancora carbone e non era economico convertirle a nafta. Fu venduta a demolitori marittimi, e concluse la sua vita a Bo’ness, sulla costa orientale della Scozia. Il nome Orvieto le Fig. 13. Il lussuoso interno della Orvieto in una cartolina promozionale della Orient Line. aveva portato fortuna: al contrario della maggioranza delle altre navi della sua classe, arrivò sempre a destinazione, anche accompagnata dalle note di un valzer (fig. 17). Raffaele Davanzo Note 1 M. Reddè, Mare nostrum, Roma 1986 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 260), pp. 665-671. Sui nomi delle navi antiche vedi anche L. Casson, Ships and Seamenship in the Ancient World, Baltimore 1955; P. Janni, Il mare degli antichi, Bari 1996; J. Morrison, J. Coates, Greek and Roman Oared Warships 399-30BC, Oxford 1997; The Age of the Galley. Mediterranean Oared Vessels since Pre-Classical Times, a cura di R. Gardiner, London 2000. 2 Particolarmente amati erano i nomi beneauguranti di alcune Nereidi: Thetis (a capo delle Nereidi e madre di Achille), Actea (abitatrice della riva), Amphinome (che si muove dolcemente), Nausithoe (delle navi veloci), Cimatolege (che calma l’onda), Evagore (che raduna i pesci), Eulimene (dei buon ritorni al porto), Galene (del mare calmo) e Pontoporea (che attraversa il mare). 3 C. Stewart, Ships of the Orient Line, London 1953; D. Divine, These Splendid Ships. The Story of the Peninsular and Orient Line, London 1960; S. Bremer, Home and Back: Australia’s Golden Era of Passenger Ships, Sydney 1984; N. McCart, Passenger ships of the Orient Line, Cambridge 1987; W. H. Miller, Picture History of British Ocean Liners, 1900 to the Present, Mineola-NY 2001; P. Plowman, Migrant Ships to Australia and New Zealand 1900 to 1939, Kenthurst 2009. 4 La Otway, trasformata in incrociatore ausiliario, fu silurata al largo delle Ebridi nel luglio 1917, e lo stesso accadde alla Orama, all’imboccatura occidentale della Manica. La Otranto ebbe un ruolo anche nella storia delle battaglie navali: davanti alla baia di Coronel in Cile, il 1º novembre 1914, insieme all’incrociatore leggero Glasgow riuscì a scampare al fuoco degli incrociatori tedeschi Scharnhorst, Gneisenau, Nürnberg, Leipzig e Dresden, che invece affondarono due incrociatori corazzati inglesi, il Good Hope e il Monmouth. La Otranto, mentre trasportava in Europa truppe americane, entrò in collisione il 6 ottobre 1918 col piroscafo Kashmir nel mare di Irlanda: fu tagliata in due tronconi, e vi perirono 431 soldati. La Ortona era stata costruita nel 1899 e adibita al servizio per l’Australia; nel 1906 fu acquistata dalla Pacific Steam Nav. Co., e nel 1910 fu ribattezzata Arcadian. Trasformata in trasporto truppe, fu silurata ed affondata nel Mediterraneo con la perdita di 279 uomini. J. Young, British Vessels Lost at Fig. 15. La Orvieto lascia Sidney il 27 dicembre 1919. ANMM, n. 42330. Fig. 16. Infermiere australiane a bordo del trasporto truppe Orvieto al ritorno in Australia, 1919. Australian War Memorial, H06813. Fig. 17. Orvieto Waltz: lo spartito di un valzer dedicato al comandante J. F. Ruthven. Sea, 1914-18 and 1939-45, London 1988. 5 A.W. Jose, The Royal Australian Navy, Sydney 1935; P. Plowman, Across the Sea to War. https://www.awm.gov.au/collection/F00160/) 7 Il nome, anche nella lingua inglese, è quello in italiano della città turca di Gelibolu. Il nome greco era infatti Καλλίπολις (come la omonima città del Salento), e dopo la quarta Crociata i veneziani ribattezzarono in italiano tutti i toponimi bizantini. Australian and New Zealand Troop Convoys from 1865 through two World Wars to Korea and Vietnam, Kenthurst 2003. 6 L’Australian War Memorial conserva due filmati: la partenza dei trasporti da Albany e la vita bordo della A3 Orvieto (https://www.awm.gov.au/collection/F00161/ e 9 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Ventotene, si riparte? We have a dream: The United States of Europe C volontà di mantenere gli orticelli dei nazionalismi ha determinato come determina debolezze evidenti nelle attività internazionali, le sovranità assolute dei singoli Paesi non hanno assicurato come non assicurano indipendenze economiche, né sicurezza, portano ad inevitabili conflittualità. Stiamo vivendo un periodo di grandi cambiamenti. Sebbene molti non se ne rendano conto, il clima è da Basso Impero, con un Occidente in decadenza, insicuro e sotto attacco, che non riesce ad esprimersi, dal mercato del lavoro all’innovazione tecnologica, dalle formule di convivenza civile alle necessarie risposte ad annose emergenze umanitarie. Vogliamo andar avanti con un’Europa siffatta? Sarà opportuno proseguire su percorsi di inefficienza, di blandi riscontri alle crisi epocali che il Terzo Millennio pone in evidenza, fatti di proclami elettoralistici dai toni assai grossolani, populistici e inconcludenti? Oppure vogliamo svegliarci, uscire da questo “stato di minorità” che rovina i nostri territori, le nostre Nazioni, la nostra gioventù, che ha reso intere generazioni schiave di una mediocritas sciatta e disgregante? Dal ’45, il nostro Continente ha vissuto un lungo periodo di pace e sviluppo, proprio seguendo, in parte, gli ideali dei padri dell’Europa Unita. In nome di sciocche burocrazie e storture indubbie, si vorrebbe tornare indietro, vagando su tracciati di perdizione… cui prodest? Si cambino rotte, si rafforzino i sentimenti, si trovino ancoraggi costruttivi. Dobbiamo a questo punto scegliere, non possiamo attendere oltre, ne vale dei nostri futuri politici e sociali, economici e culturali. È proprio vero: se non ora, quando? Dall’Europa delle Nazioni all’Eu- ropa dei popoli agli Stati Uniti d’Europa. Con le menti aperte e gli animi grati ai padri dell’Europeismo e del Federalismo mondiale, da Kant ad Hamilton, da Mazzini a Monnet, da Adenauer a Schuman, da De Gasperi e Einaudi, agli attuali esponenti dell’unica via che conduce alla salvezza. Su quell’isola delle Ponziane, nel ‘41, illuminati personaggi, al confino per motivi politici, Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, redassero il Manifesto di Ventotene, documento simbolo, costitutivo del federalismo europeo, di quella certa idea di Europa che vorremmo fosse quanto prima realizzata. Ad essi dobbiamo rivolgerci, testimoniando impegno e dedizione convinta. In varietate concordia, l’unità nella diversità, questo vogliamo. Contro recessioni ideologiche, sfaldamenti di ideali, tensioni e riproposti autonomismi, per una definitiva concezione sovranazionale di cittadinanza. Ecco il messaggio di Ventotene: la rinascita per la federazione mondiale. Un’Europa soprattutto politica e sociale, edificata su formidabili fondamenta culturali. he l’incontro di Ventotene sia davvero un nuovo inizio. È l’auspicio da più parti condiviso. Che sia l’avvio di un percorso politico, questa volta concretamente politico, che abbia come obiettivo prioritario l’unione federale dei diversi Stati continentali. Si è voluta sinora un’Europa non ben definita. Molto economica, ancora troppo poco politica, connotata dalle azioni di banche e banchieri, imprenditorie e imprenditori, interessi nazionali e particolari. Dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, quante trascuratezze invece per gli aspetti fondanti, quelli storici e culturali, spirituali e politici, che creano identità, appartenenze e desideri di azione. L’ostinata Q Al quarto numero i “Quaderni Monaldeschi: Ambiente, Storia, Costume” del Comune di Castel Viscardo uarto appuntamento con i “Quaderni Monaldeschi”, bollettino destinato alla conoscenza e alla valorizzazione del territorio comunale di Castel Viscardo, nel 2016 dedicato per questo a: “I prodotti del territorio: vino, olio, cotto” e pubblicato grazie al preziosissimo contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto e alla laboriosa attività della segretaria di redazione Elena Stefanini. Un’avventura cominciata nel 2014 e proseguita, dopo due numeri miscellanei su storia, ambiente e cultura, nel 2015 con una monografia dedicata alle commemorazioni per il centenario dallo scoppio della Grande Guerra. Il quarto numero, presentato ufficialmente il 10 agosto 2016 a Monterubiaglio nel suggestivo scenario del Cellaio del Castello (già sede del Centro Studi Jader Jacobelli) in occasione della XIX edizione di “Calici di Stelle”, si è rivelato un’ottima occasione di riflessione sull’importanza della promozione del territorio e delle sue eccellenze attraverso il “racconto” di ciò che ci circonda, ci rappresenta e ci appartiene. Scrive, a tal proposito, il direttore della collana, Christian Nardella, nel suo editoriale: “Se è vero che i Quaderni Monaldeschi hanno come scopo quello di raccontare il nostro territorio, in questo quarto numero si è scelto di farlo attraverso i suoi prodotti, ovvero il risultato dell’incontro tra ciò che la natura di questi luoghi ci ha offerto e la capacità dei suoi abitanti di trasformarlo. Qui a Castel Viscardo, nelle sue frazioni e nel più ampio suolo orvietano la terra ci ha destinato la vite, l’olivo e la creta e di queste peculiarità territoriali ci riferiranno tutti gli Autori”. Allo stesso modo, Daniele Longaroni (sindaco di Castel Viscardo) nella L’assessore regionale Fernanda Cecchini alla presentazione insieme ai relatori Renzo Cotarella, Simone Moretti, Giani e Maurizio Cecci 10 sua prefazione sottolinea: “La giusta valorizzazione del prodotto tipico, delle specificità (enogastronomiche, agricole e artigianali) che caratterizzano un territorio sono alla base del “saper far politica” in un certo senso, la Toscana ci insegna, del saper “vendere” il proprio territorio. in questa ottica, l’insieme di quanto presente in questo Quaderno numero 4, raccoglie quello che di buono si sta cercando di seminare (verbo quanto mai appropriato) e di mettere in atto per la riscoperta e la rivalutazione delle nostre bellezze, di quanto questo territorio può annoverare di singolare, se non di particolare o prettamente caratteristico. dalle medesime mosse sono “partiti” i «Quaderni Monaldeschi», proprio per essere specchio di una realtà, per essere strumento infinito, quale solo un libro può essere, e testimonianza di una attività prettamente legata alla valorizzazione del nostro territorio e delle sue bellezze naturali, storiche, architettoniche, artistiche, ma anche artigianali e agricole”. Il nuovo numero dei “Quaderni Monaldeschi” presenta questo indice: Renzo Cotarella, Orvieto, la rupe che profuma di vino; Maurizio Cecci, La storia di un territorio extravergine; Alessandro Leoni, L’Evo nei feudi degli Spada (e prima dei Monaldeschi); Elena Stefanini, Un piccolo museo; Carolina Filizzola, Il Museo dinamico del laterizio e delle terrecotte di Marsciano: Laterizi e terrecotte, la tradizione che va verso l’innovazione; Claudio Bizzarri - Simone Moretti Giani, Il cotto nel mondo antico e nel Medioevo; Luca Giuliani, …conservare il gesto: Fornaci e fornaciai di Castel Viscardo; Christian Nardella, Un’analisi dello stato dell’arte della tradizione manifatturiera nel nostro Francesco M. Della Ciana (Segretario Movimento Federalista Europeo - Orvieto) (da Orvietonews) territorio e una prospettiva economica basata sul concetto di rete. Per concludere nella nuova sezione “Biografie”: Gian Piero Jacobelli, Il Cavallo scosso: Storia e storie di una illustre famiglia ebrea, i Cahen di Torre Alfina. Luca Giuliani Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 H o accolto di buon grado l’invito di Francesco Maria della Ciana a scrivere un articolo per “Lettera Orvietana” dal momento che mi faceva piacere di collocare in casa amica e in territorio italiano un evento che per me ha un forte carattere simbolico, ovvero la scrittura dello Statuto di Architettura e Museologia liquida, operazione-ponte tra critica militante e Storia dell’Architettura. Ringrazio allo stesso tempo Mariella Combi che, discutendo insieme sui contenuti del mio articolo del 2014 (La dialettica di classico/anticlassico tra Argan, Zevi e Novak per una definizione critico-estetica di “Architettura Liquida”, 16 Giugno 2014, n. 715 http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00715.html) in occasione della presentazione del libro di Enrica Leo (Mentis Formam Sensu Formant. Arte e Scienza per una memoria dei Sensi, Roma, Gangemi, 2015) mi ha suggerito, a completamento della definizione critico-estetica di Architettura Liquida Museale del 2014, la scrittura di un vero e proprio Statuto di Architettura e Museologia liquida. L a nozione di “liquidità”, tanto bene messa a fuoco in Italia nel 2008 in sede scientifica da critici acuti come Salvatore Rugino sulla scorta di Bauman e Novak, nel sentire comune dei social networks e della stampa quotidiana, è stata invece purtroppo nel frattempo offuscata da letture “deboli” ispirate a pericolosi miti di potenza di carattere politico come il “celodurismo” di bossiana memoria che considerava “molli” le cose liquide in contrasto con quelle “solide”, sulla scorta di una psico-proiezione di carattere freudiano, oppure le ricorrenti superstizioni religiose del cattolicesimo neo-conservatore che reputa opera di Satana le manifestazioni della “liquidità” nella società contemporanea, o ancora dalle teorie complottiste statali teorizzate dal sito internet dei Servizi Segreti italiani che associano la parola “liquida” al terrorismo1. Queste sono varianti, purtroppo tutte italiche, di quell’unica chiave interpretativa semplicistica e fuorviante per cui la parola “liquido” equivarrebbe a “brodaglia informe” e sarebbe quindi sempre associata ad un concetto estremamente negativo. Questa fatale incomprensione ha causato molti problemi alla realizzazione e al successivo apprezzamento della prima architettura liquida della città di Roma, vale a dire il MACRO della com- pianta Zaha Hadid e anche all’edificio successivo, l “nuvola” di Fuksas, entrambi oggetto di numerose critiche, ed è forse la causa dell’aborto degli splendidi progetti liquidi del BETILE - Museo Mediterraneo dell’Arte Nuragica e dell’Arte Contemporanea di Cagliari sempre di Zaha Hadid e del Museo di Arte Contemporanea di Milano di Libeskind. Ben diverso è l’apprezzamento della nozione di liquidità in campo internazionale espresso per la prima volta, se non erro, da Marcos Novak nel 19932 con la storica definizione di “Architettura Liquida” che viene ad inserirsi come un’icastica chiave di lettura della contemporaneità nella sua accezione di multiforme determinazione del virtuale all’interno del reale. Una concezione assolutamente positiva che mira a capire in che misura la realtà del post-moderno si decostruisca interattivamente all’interno di una serie di universi paralleli umanistici le cui istanze sono desunte dalla ricchezza della poesia all’interno della letteratura. Novak magicamente richiama alla luce la forza evocativa delle figure retoriche della poesia quali forze motrici della realtà virtuale nella letteratura e, per associazione mentale, ut pictura poësis, le considera capaci di descrivere la novità intro- Per uno Statuto di Architettura e Museologia Liquida dotta nell’architettura dal concetto di “liquidità”. Novak esalta dunque con passione la liquidità come metafora del nuovo Cyberspazio, della realtà virtuale tanto bene poi descritta da Levy. Zygmunt Bauman in Modernità liquida del 20003 approfondisce il concetto della liquidità all’interno della sfera sociologica raggiungendo la questione degli spazî sociali che viene a configurarsi come un’istanza tipicamente urbanistica di alto impatto sociale mettendo a fuoco i problemi suscitati dall‘introduzione del mercato e delle sue seduzioni all’interno dei rapporti interpersonali sia di natura commerciale che culturale. Bauman fa infatti notare come gli spazî del consumo rimangano spesso le uniche occasioni d’incontro di persone la cui realizzazione passa attraverso le forche caudine dell’acquisto, spesso compulsivo, magari vissuto come un rito collettivo nei grandi centri commerciali, santuari laici della post-modernità fluida e decostruttiva. Bauman ricorda come la società contemporanea viva all’insegna dell’eterno presente, avendo demolito la venerazione per il passato e annullato la sicurezza del futuro, generando dunque un’angoscia generalizzata che dal campo sociale generale arriva fino alla sfera del sentimento intimo e quindi dell’amore estendendosi poi a macchia d’olio nella rete dei rapporti umani intesa sia a livello simbolico, sia a livello architettonico, determinando quindi il nuovo modo di costruire la città del futuro, completamente diversa da quella del passato. gli “errori” di Andrea Palladio e che, invece, secondo lo studioso, sono da considerare, appunto, i “germi” del cosiddetto codice anticlassico. Definizione che diventerà oggetto di un’importante monografia dello stesso Argan: Classico anticlassico: il Rinascimento da Brunelleschi a Bruegel edita a Milano da Feltrinelli nel 1984. Sulla scorta della felice intuizione arganiana Bruno Zevi nel suo libro Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico, edito da Einaudi, nel 1973 rifletterà sul valore intrinsecamente politico dell’anti-classico inteso come rifiuto degli schemi obbligatori imposti dalle dittature nei termini di cogente simmetria e parallelismi architettonici di natura claustrofobica. Secondo Zevi l’introduzione di piante a zig zag e irregolari e il disallineamento degli assi di distribuzione delle finestre e anche la modifica costante della loro stessa dimensione e l’abolizione del concetto classico di facciata a favore della messa in opera di elementi aggettanti e della scomposizione dei piani in moduli in contrapposizione tra di loro saranno tutti elementi di “libertà architettonica” sotto il segno del codice anticlassico. La costituzione di Gruppi di Ricerca alla Sapienza basati prima solo sul tema dell’Architettura Liquida (2014), con la discussione di temi di architettura museale, e poi su Architettura e Museologia Liquida e Informatica umanistica a geometrie variabili (del 2016 a cura di Stefano Colonna, Luca Ruzza, Stefano Lariccia, Vincenza Ferrara e Caterina Capalbo con la partecipazione di un totale di più di quaranta giovani e meno giovani studiosi) ha permesso ai componenti di mettere a fuoco in primo luogo, grazie al contributo di Graziella Becatti, che il codice anticlassico ha origini nell’archeologia e il primo contributo su questa linea di ricerca è a firma dell’archeologo del Vicino Oriente Antico Enrico Ascalone che collabora attivamente col nostro Gruppo di ricerca con un interessante contributo su L’anticlassico che diventa classico. Sostituzione, elaborazione e affermazione di nuovi codici di propaganda al tempo dei Sukkalmakh (ca. 1900-1520 a.C.) (BTA - Bollettino Telematico dell'Arte, 8 Novembre 2016, n. 821 http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00821.html). Partendo dalla consapevolezza che la nozione di liquidità ha origini Salvatore Rugino, nella sua lucida monografia intitolata Liquid Box edita da Aracne nel 20084, ripercorre i temi salienti della liquidità in architettura mettendone in luce i rapporti con la scienza e la filosofia del Novecento in una brillante carrellata. Maria Luisa Libertini ha portato alla mia attenzione anche il testo italiano meno noto ma molto interessante di Cesare Blasi e Gabriella Padovano, Ipotesi di Progetto per la Società Liquida (2012)5 e Vincenza Ferrara mi ha segnalato lo studio sul Museo Liquido di Cameron (2015)6. Io stesso mi sono espresso sull’argomento della liquidità in un articolo del giugno 20147 a seguito di un fecondo corso universitario della Sapienza su Classico, Anticlassico, Architettura Liquida che mirava a mettere in luce come il concetto di “liquido” in architettura non fosse una novità assoluta, ma derivasse da quello di “anticlassico” definito da Giulio Carlo Argan nel 1930 all’interno di un celebre saggio su quelli che Milizia considera 11 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 nel passato ho fatto notare come la nozione liquida delle architetture di Alessandro Mendini a Groninger (1994) derivi dalla cinquecentesca Casina Pendente del Sacro Bosco di Bomarzo e che quindi il concetto di “liquido” sia, a sua volta, una filiazione di quello di “anticlassico”. La precisazione mi sembra fondamentale per poter considerare correttamente il concetto di liquido in qualità di elemento dialettico e non come attributo puro e semplice come viene spontaneo di fare con la nozione “vulgata” che genera tanti fraintendimenti. Se intesa come concetto dialettico, come fa correttamente Bauman pur non facendo riferimento agli studiosi Argan, Zevi e Novak, la liquidità riacquista tutta la sua forza interpretativa e la molteplice ricchezza di significato assolutamente positivo. Come facevo notare nel mio intervento del 1994 il prefisso «anti», che deriva «dall’avverbio e preposizione greca «antì» di origine indoeuropea, oltre ad indicare avversione ed antagonismo, capacità o disposizione a contrastare, […] indica anche, in parole composte del linguaggio scientifico, posizione speculare, contrapposizione, inversione, presenza di opposte proprietà: anticiclone, antilogaritmo, antiparticella». In ambito umanistico si può citare l’Antirinascimento (1962) di Eugenio Battisti che va letto in questo senso costruttivo e precocemente decostruttivo ma non distruttivo. In questo senso la corretta appercezione del concetto di “liquidità” potrebbe restituire dignità al dialogo interpersonale, sia privato che pubblico, sia nella cultura che nella politica e pertanto la comprensione storica del fenomeno della liquidità assurge oggi a problema scottante della contemporaneità uscendo dalle fredde dimensioni della pura Accademia. Fatte queste premesse fondamentali, appurato cioè che per “liquido” in Architettura si intende la volontà di proporre un modello “de-costruttivo” alternativo al “classico” di cui si spezzano le regole di parallelismi e simmetrie a favore di linee zigzaganti, forme in contrapposizione monadica secondo schemi ispirati alla idrodinamica e alla aerodinamica come il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank O. Gehry a loro volta ispirate alla teoria della Relatività di Einstein e alle sculture futuriste di Umberto Boccioni, ecco che la sostanza del discorso diventa difficile da inquadrare. Infatti non è facile trovare un sistema ben definito per classificare le architetture liquide in quanto queste apparentemente sembrano sfuggire ad ogni regola. In realtà però anche in questo magma informe si possono trovare delle “firme” o di natura “matematico-geometrica” oppure “mitologico-simbolica” in possesso di una precisa individualità e identificabilità. Gli elementi da me identificati nel 2014 sono tre: labirinti, frattali e specchio. 12 ha origini antichissime e si perde nell’origine del mito nella notte dei tempi ma, in antico, ha come punto di riferimento ideale il mito di Arianna e Teseo di fronte al Minotauro. Il filo di Arianna dovrebbe essere interpretato come la ricerca di un senso all’interno di un mondo anticlassico. Il Minotauro ovviamente, già in antico, rappresenta il polo di contrapposizione alla solarità dello schema classico, quindi un sistema complesso “anti-classico”. É interessante vedere come il tema del labirinto sia ripreso nella società contemporanea nel momento drammatico di contrapposizione tra le “monadi architettoniche” di Frank O. Gehry nel Guggenheim Museum di Bilbao. Lo sguardo dello spettatore si inserisce tra gli elementi che compongono l’architettura nel suo insieme ed è costretto a fare continui cambi di visione a causa del moltiplicarsi dei punti di illuminazione per via dello sfaccettamento delle superfici e del conseguente assommarsi di diversi livelli di chiaroscuro che invitano l’occhio ad una continua ridefinizione del punto di inquadratura e della relativa messa a fuoco. Il richiamo all’importanza dello studio del sistema di visione umana effettuato mediante l’analisi dei movimenti del globo oculare è dovuto a Corrado Maltese che, già negli anni ‘80 in Semiologia e Sematometria (1983), proponeva esempi interessanti8. Possiamo essere certi che la modalità di costruzione dello spazio per monadi in contrasto dialettico operata da Gehry a Bilbao sia stata ispirata da studi approfonditi sulla cinetica e l’ottica, l’idro e l’areo-dinamica. In questo senso il tema del labirinto è servito all’architetto come elemento di “messa a sistema” di tali elementi scientifici che, presi in quanto tali, sarebbero stati poco “finalizzati”. Il labirinto vale dunque come sistema teleologico, ovvero finalistico, che si avvale, a sua volta, di sistemi scientificamente fondati per arrivare a muovere gli affetti dello spettatore in maniera estetico-percettiva. Per quanto riguarda il labirinto va riconosciuto che esistono numerosi labirinti costruiti in pianta secondo schemi araldici e simmetrici, pur tuttavia il labirinto in quanto tale presume sempre uno svolgersi della “narrazione dello spazio” come continua dicotomia filosofica secondo lo schema dell’aut aut di Kirkegaard, poi ripreso anche nella filmografia contemporanea per esempio in Sliding doors. Il concetto chiave sta nel fatto che il protagonista è chiamato ad una continua scelta di campo che genera in lui quel sentimento di precarietà ed ansia che Bauman ha definito come la sensazione dell’”eterno presente” della società post-moderna. Tale “filosofia del labirinto” Il tema dei frattali9, tipicamente Mandelbrot, consiste nel creare forme geometriche dotate di una forte carica estetica ed emotiva ma allo stesso tempo generate da un rigoroso motore matematico interno. Uno degli architetti che maggiormente sembrano essersi ispirati ai frattali è Jean Nouvel nel National Museum of Qatar (2010-) dove, oltre al rimando alle geometrie tipiche del minerale locale, vale a dire la cosiddetta “rosa del deserto”, si può notare la volontà di costruire forme complesse derivanti dalla intersezione di corpi solidi di forma irregolare. La letteratura critica sull’argomento ci informa del fatto che i corpi solidi realmente costruiti da Nouvel in Qatar sono talmente complessi che è stato particolarmente difficile documentarli con gli strumenti CAD esistenti e si è dovuti ricorrere a sofisticate implementazioni ed aggiornamenti del software. Questo dimostra come Nouvel non abbia semplicemente messo in opera una poetica rivisitazione di un minerale locale, ma si sia voluto cimentare in un’impresa assolutamente inedita per la storia dell’architettura che rimarrà come un esempio nei futuri manuali. Il tema dei frattali è strettamente collegato a quello di caos deterministico (Vulpiani10) e questo a sua volta a quello della Logica Fuzzy e alla Teoria della Complessità11 che saranno oggetto di nostri specifici studi futuri. Intanto possiamo accennare alla parentela tra la Logica Fuzzy e il Sequenzialismo filosofico di Achille Varzì documentato nel libro di Giangiacomo Gerla12 che a sua volta sarà oggetto di uno studio analitico da parte dell’artista ACA (Angelo Calabria) che ha dato vita al Sequenzialismo nell’Arte13. Il tema dello specchio è fondamentale nell’architettura liquida perché permette di affrontare in modo inedito il tema psicologico del “doppio” negli spazi museali di nuova concezione. L’architetto che ha maggiormente approfondito le implicazioni architettoniche dell’uso articolato dello specchio è Koolhas dal momento che i suoi edifici, si veda in particolare l’Ampliamento del Museo Nazionale delle Belle Arti del Québec (MNBAQ) del 2013, possiedono la capacità di far interagire gli spazî interni con quelli esterni tramite un sapiente e calibrato uso delle proprietà riflettenti oppure opacizzanti del vetro decostruendo il concetto classico di facciata. La scelta del tema dello specchio in Koolhas deriva da un’oculata riflessione sulle teorie concettuali di Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren e Bertand Lavier, tutti artisti che si sono cimentati sul tema dello specchio appunto in chiave concettuale14. In questo senso il tema dello specchio nell’architettura liquida deve molto agli studî della psicologia contemporanea sulla formazione dialettica dell’io. La riflessione sul rapporto tra interno ed esterno è frutto di ricerche psicanalitiche miranti a ricomporre l’io diviso che è a sua volta un tema centrale della società contemporanea. Volendo rimanere nel periodo storico preso in esame per l’architettura liquida, vale a dire il costruito a partire dagli anni ‘90 del Novecento, tale riflessione appare collegata alle nuove tematiche di relazione sociale nell’epoca della rete internet dove la comunicazione avviene con il sistema “molti-a-molti” invece che con il meccanismo di “uno-a-molti” tipico della televisione tradizionale. Il rapporto neurale tra gli individui inaugurato dall’architettura liquida è ben codificato nel nuovo concetto di facciata dell’edificio che prevede un gioco di trasparenze tra esterno ed interno, ma anche, nello stesso tempo, un rimando di riflessi che porta all’indagine sulla dinamica dialettica contemporanea, sempre in bilico tra narcisismo e comunicazione interpersonale. Il tema dello specchio ben documenta quest’inedita dialettica dei social media che viene offerta dalle nuove strutture museali liqui- Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 de che a loro volta suscitano emozioni visive impensabili in un’architettura di tipo classico tradizionale15. Adesso vorrei aggiungere un quarto tema, quello del mostro che ritengo sia offerto dallo splendido progetto per il Museo delle Arti Nuragiche e Contemporanee di Cagliari di Zaha Hadid. L’edificio non è stato realizzato ma gli affascinanti computer rendering sono consultabili in rete. Questo superbo esempio di Architettura Liquida cita il Gaudì di Barcellona che era interessato agli esoscheletri di animali di grandi dimensioni in chiave darwiniana, mentre la Hadid sembra voler fare un passo in avanti invitando lo spettatore di questo nuovo museo liquido all’interno della balena di Giona, che fu prima inghiottito e poi risputato fuori dall’animale divenuto il simbolo di un percorso iniziatico di conoscenza di se stessi. Riletto in questo senso il museo liquido di Cagliari della Hadid acquisterebbe un valore antropologico di natura para-religiosa “laica” seguendo una tendenza ormai diffusa in questo tipo di musei. Basti pensare all’inedita usanza sociale di celebrare un matrimonio civile all’interno di un Museo che sta diventando una moda dei nostri tempi ma che in realtà è un portato della nuova società “liquida” che ha “de-localizzato” o “ri-localizzato” l’atto sacro esportando la sacralità dalle Chiese ai Musei. Il percorso ora descritto viene in realtà esperito dallo spettatore in modo del tutto implicito, cioè a dire in modo assolutamente inconsapevole, dal momento che questo “spostamento” della sacralità dalla Chiesa al Museo viene vissuto dal cittadino della società liquida come una forma di “ateizzazione” o laicizzazione dell’esperienza antropologica e religiosa individuale e non, come in realtà è, come una sublimazione dell’atto religioso secondo le modalità inedite della nuova società liquida. Questa modalità di fruizione della “religio” da parte dell’architettura e museologia liquida è incapsulata in una dimensione estetica in quanto essa stessa è anche un fenomeno percettivo. I quattro temi finora individuati non si presentano sempre singolarmente, ma talvolta interagiscono tra di loro. Per esempio il tema del mostro implica quello del labirinto e viceversa. Quello dello specchio contiene elementi di riflessione utili per affrontare i percorsi iniziatici previsti dal labirinto o dall’esperienza di Giona. Il tema dei frattali è infine fondamentale per quella larga parte del pensiero contemporaneo che cerca nella scienza piuttosto che nella religione la ragione ultima delle cose naturali. REALTÀ “LIQUIDA” D’altra parte il progresso della scienza ci ha messo di fronte alla necessità di cambiare la prospettiva del nostro sguardo sulla realtà e sul mondo. In relazione alle scoperte scientifiche di tutto il ‘900 le “cose” e “gli eventi” non esistono in dimensioni strutturate secondo le teorie Tridimensionalista e Quadrimensionalista, ma come flussi di particelle che scorrono in dimensioni sequenziali (Sequenzialismo) in evoluzione costante (successioni molecolari), un po’ come succede per i fotogrammi di una pellicola che, scorrendo nello spazio e nel tempo, costruiscono l’elemento completo (l’immagine). All’interno della materia esiste un “microcosmo” in un certo modo speculare rispetto al macrocosmo, e tutto ciò che noi vediamo è il risultato di un’interazione tra la luce, le particelle elementari e il nostro cervello che si apre al mondo attraverso la vista. Per avere un’idea di quanto sia diversa la realtà “in sé” (che Kant chiamava “noumeno”) da quella che vediamo noi (fenomeno) è utile un esempio. Mettiamo- ci nel punto di vista di un neutrino (particella subatomica di massa piccolissima e carica elettrica nulla) e prendiamo un oggetto, per esempio un tavolo: il neutrino si muoverà nello spessore del tavolo come un’astronave verso la luna … a livello di una misura infinitamente piccola c’è uno spazio dentro la materia che a noi appare solida e compatta! L’aspetto che chiameremo “virtuale” della materia è fluido e indeterminato: e questo la rende simile all’energia della mente e del pensiero. Ci rendiamo conto, così, che il modo tradizionale di considerare la realtà è incompleto e rigido e che, in futuro, ci abitueremo a considerarla plasmabile e modellabile grazie all’arte e al lavoro dell’uomo sia sul piano delle opere d’Arte, Scultura, Pittura, Musica, Architettura, sia su quello delle opere socialmente utili e necessarie alla vita. Sarà una vera rivoluzione, ma nell’ordine della realtà fisica e naturale: se fatta con rigore logico e spirito creativo il mondo intorno a noi, potenzialmente, diventerà più bello e potrà adattarsi alle nostre esigente. La realizzazione migliore dei progetti si otterrà grazie alla collaborazione tra tecnologie avanzate e creatività in tutti i settori: scienziati, maestranze, artisti, artigiani, imprenditori e cittadini dovranno collaborare in modo costruttivo, dando ognuno un valido contributo nello svolgimento del proprio ruolo. Si potrà costruire una “Città immateriale” con il materiale offerto dall’”energia-informazione” contenuta in ogni particella di materia nel continuum delle sequenze spazio-temporali … e questa Città sarà modificata e cambierà volto ad ogni passo avanti della ricerca scientifica e delle attività creative che la accompagneranno. Sarà il modello ideale a cui ricondurre ogni edificio, monumento, giardino, opera d’Arte creato dagli uomini... Ecco il senso profondo di “Architettura liquida”: una creazione dell’uomo in continuo adeguamento alla crescita degli individui e dei popoli. Ma tutto questo si potrà ottenere soltanto con la pace e il rispetto della dignità umana. Non è certo facile, ma qualcuno dovrà cominciare: il nostro progetto vuol essere un valido contributo all’edificazione di una società più giusta in un mondo profondamente rinnovato. Stefano Colonna 9781118829059.wbihms117 7. Stefano Colonna, La dialettica di classico/anticlassico tra Argan, Zevi e Novak per una definizione critico-estetica di “Architettura Liquida”, in “BTA - Bollettino Telematico dell’Arte”, 16 Giugno 2014, n. 715 <http://www.bta.it/txt/a0/07/bta00715.html 8. Corrado Maltese, Dalla semiologia alla sematometria. Studi sulla comunicazione visiva, Roma, Il Bagatto, 1983. 9. Nicoletta SALA, Gabriele CAPPELLATO, Architetture della complessità: la geometria frattale tra arte, architettura e territorio, Milano, F. Angeli, 2004. Ringrazio Lucia Signore, che fa parte del nostro Gruppo di Ricerca della Sapienza, per la segnalazione di questa interessante voce bibliografica. 10. Angelo VULPIANI, Caos deterministico, voce per la Treccani, Enciclopedia della Scienza e della Tecnica, 2007 http://tnt.phys.uniroma1.it/twiki/pub/TN Tgroup/AngeloVulpiani/CAOS_3c.pdf Ringrazio Andrea Chiariello per questo suggerimento bibliografico. 11. Per la teoria della complessità si vedano A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli. Introduzione alla scienza della complessità, Torino, Bollati Boringhieri Ed., 1999 e R. Benkirane, La teoria della complessità, Torino, Bollati Boringhieri Ed., 2007 (edizione originale: Editions Le Pommeri, Parigi 2002) che comprende una raccolta di brevi saggi dei maggiori studiosi della complessi- tà: da Morin a Prigogine, da Langton a Varela, da Kauffman a Derrida a Chaitin e adesso Massimo Mariani (che fa parte del Gruppo di Ricerca della Sapienza), Architettura Liquida e pensiero complesso, in corso di pubblicazione in “BTA – Bollettino Telematico dell’Arte”. 12. Giangiacomo Gerla, La Logica Fuzzy. I paradossi della vaghezza (versione light), Facoltà di Scienze, Università di Salerno, s.d. http://www.dmi.unisa.it/people/gerla/www /Down/Light%20logica%20fuzzy.pdf visitato in data 04/09/2016. 13. ACA (Angelo Calabria), Il Sequenzialismo nell’Arte. Linguaggio spazio-temporale del segno. L’evoluzione della comunicazione artistica nell’Era dell’Informazione, Roma, Gruppo Albatros Il Filo, 2013. 14. Speculazioni d’artista. Quattro generazioni allo specchio (catalogo della mostra), a cura di AUGUSTA MONFERINI, MARIA GRAZIA TOLOMEO, ALBERTO DAMBRUOSO, Roma, Comune di Roma, CAM Editrice, 2009. 15. Per le implicazioni positive e negative dell’uso delle nuove tecnologie nel contesto di Museologia Liquida si veda ora: Michela Ramadori, Il museo liquido: evoluzione storica, potenzialità, rischi, in “BTA - Bollettino Telematico dell’Arte”, 9 Maggio 2016, n. 807 <http://www.bta.it/txt/a0/08/bta00807.html> Note 1. https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/archivio-notizie/salto-di-qualitadell-intelligence-contro-il-terrorismoliquido.html visitato in data 08/10/2015. 2. Marcos NOVAK, Architetture liquide nel ciberspazio, in Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, pp. 233-265. 3. Zygmunt BAUMAN, Modernità liquida, (vers. Orig. Liquid modernity, Cambridge, Polity Press ed Oxford, Blackwell Publishers Ltd., 2000), Roma-Bari, Laterza, 2012. 4. Salvatore RUGINO, Liquid box, Roma, Aracne, 2012 (1.a ediz. 2008). 5. Cesare Blasi e Gabriella Padovano, Ipotesi di Progetto per la Società Liquida, Aprilia, Novalogos, 2012. 6. Fiona Cameron, The Liquid Museum: New Institutional Ontologies for a Complex, Uncertain World, 2015. DOI:10.1002/- 13 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Il Quaderno Alleronese n. 7: studi e ricerche sul primo conflitto mondiale Il Quaderno Alleronese n. 8: Gli ottant’anni di don Albino Ermini Q N ella stessa circostanza è avvenuta la presentazione del n. 7 dei “Quaderni Alleronesi” sul tema “Studi e ricerche per onorare la memoria degli alleronesi caduti nella Grande Guerra”, curato da Sonia Catana Volpini, Sisto Pacetti e Claudio Urbani, illustrato con grande cura da parte della dott.ssa Marilena Rossi Caponeri, direttrice dell’Archivi di Stato di Terni e Orvieto, che si è a lungo soffermata a tratteggiare il dramma della Grande Guerra: • quella combattuta al fronte in trincea, la prima guerra moderna, una guerra non di battaglie combattute in modo tradizionale, ma fatte di lunghe attese, con uso massiccio di armi pesanti, di gas chimici, dell’aviazione ai suoi primordi, che bombardava anche città e paesi vicini alla linea del fronte; • quella vissuta dai soldati in trincea e davvero terribile, devastante come si apprende dai numerosi diari e dalle lettere che, seppur controllate dalla censura, fanno trasparire la percezione della sua assurdità; • quella vissuta nel “fronte interno”, nelle città e nei paesi dove la popolazione era chiamata alla mobilitazione per sostenere lo sforzo bellico della nazione, attraverso azioni di propaganda tese a favorire lo spirito patriottico a sostegno del prestito nazionale, ad esempio, oppure chiamando le donne e le varie associazioni di assistenza a predisporre indumenti di lana necessari ai soldati al fronte, oppure incentivando le requisizioni di beni di consumo e di mezzi. Entrando nel merito del volume, ha riassunto il contenuto del «primo capitolo che illustra la situazione dell’Italia alla fine dell’Ottocento, la politica coloniale, l’assassinio di Umberto I, la guerra di Libia, fortemente voluta dai nazionalisti, lo scoppio della Guerra e l’iniziale neutralità italiana, tramutatasi poi in intervento a fianco dell’Intesa, viste le promesse di vedersi riconosciuti i territori di Trento e Trieste. Il secondo capitolo è invece dedicato ad Allerona, di cui si analizza nelle prime pagine la situazione socio-economica nel momento in cui scoppia la guerra. Il Comune contava 2000 abitanti di cui il 74% sparsi in case di campagna e il 26% aggregato nel capoluogo; netta prevalenza di addetti all’agricoltura per tutto il territorio del comprensorio orvietano, il più “agricolo” di tutta l’Umbria, che allora comprendeva anche il reatino. Le condizioni delle classi popolari erano molto difficili e crebbe il malcontento, nacquero le prime leghe contadine nel comprensorio di Orvieto (una anche ad Allerona) e iniziarono nel 1902 i primi scioperi favoriti dall’affermarsi sulla scena politica dei partiti di massa, primo fra tutti il partito socialista; in quel contesto già critico si innescò la guerra. Interessante è il paragrafo che ricorda i nomi degli Alleronesi protagonisti del conflitto, diremmo loro malgrado. Fa eccezione solo il conte Ugo Cahen, sindaco di Allerona, che partì volontario per il fronte, seguendo l’esempio del re. A Cahen e alla moglie Ida Bertinoro, che si prodigò durante gli anni del conflitto a sostegno dei più poveri e dei malati, è dedicato un paragrafo. Ma, tornando ai soldati semplici, gli autori affermano che è difficile ricostruire con esattezza il numero effettivo degli alleronesi inviati in guerra; dalle carte conservate nell’archivio comunale risultano oltre cento nominativi, diligentemente riportati perché non se ne perda memoria. Leggendo i loro nomi, si nota come ricorrano spesso gli stessi cognomi, a dimostrare l’apporto alla guerra in termini umani dato dalle famiglie: Carletti, Tiberi, Lupi, Ricci, tanto per citarne alcune. E allora è spontaneo il richiamo all’ interessante e coinvolgente “Epigrafe”, posta all’inizio del volume, a firma di Sonia Catana Volpini, che riesce a rendere con efficacia quanto la guerra sconvolse la vita delle persone e con essa quella delle comunità d’appartenenza e Allerona diventa paradigmatica, esemplare in questo senso. Così scrive Sonia: “Allerona, distesa tra colline pervase di una calma solenne, quasi sacrale, e rinfrescata Per i caduti della Grande Guerra, cerimonia ad Allerona con la consegna di medaglie N el 2014, si è ricordato il centenario dello scoppio della Prima Guerra mondiale ed è cominciata una lunga serie di iniziative commemorative, che si protrarranno fino al 2018, promosse a vari livelli e solo in parte inserite nel programma del Centenario curato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri- Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale. Anche i Comuni, come tanti Enti pubblici e privati e Associazioni, hanno dato vita a iniziative con lo scopo di considerare l’occasione del centenario come una importante opportunità per ampliare e approfondire la conoscenza di quello che fu la Grande Guerra. Il Comune di Allerona, il 22 luglio di quest’anno, ha promosso una manifestazione per ricordare tutti i caduti nella Prima Guerra che si è svolta alla presenza della popolazione e delle autorità civili e militari, con la partecipazione dell’on. Gianpiero Giulietti e della dott.ssa Fer- nanda Cecchini, assessore alla Cultura della Regione dell’Umbria. All’inizio della cerimonia è stata posta una corona d’alloro sulla lapide che ricorda i caduti in Via Centrale (ex Municipio), a cui è seguita la consegna ai familiari dei caduti in guerra delle medaglie ricordo personalizzate, coniate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Regione del Friuli Venezia Giulia, raffiguranti da un lato il logo del Governo per il Centenario della Grande Guerra e dall’altro la statua presente nel Cimitero degli Eroi di Aquileia. Presentando l’avvenimento, il sindaco di Allerona, Sauro Basili, ha sottolineato che la memoria della Grande Guerra costituisce un ingente patrimonio morale, culturale, etico da difendere e valorizzare perché non sia dimenticato o ignorato dalle giovani generazioni e per questo il Comune intende partecipare a pieno titolo alle attività del Centenario con questa ed altre iniziative che seguiranno entro il 2018. Un saluto a Paolo Rossi U n altro personaggio che amava la città se n’è andato. L’Amico Paolo Rossi, che tanto ha dato per Orvieto, rimane adesso nei nostri ricordi. L’impegno nell’Associazione Nazionale Granatieri, la riapertura della Chiesa di S. Francesco, con Legambiente, le tante iniziative promosse per il miglioramento dell’offerta turistica cittadina. Un uomo buono e generoso, di profonda e illuminata cultura, che merita i nostri saluti grati, carichi di riconoscenza. Pure Lollo c’ha lasciato U n personaggio eclettico, dai toni particolari. Al secolo Jannuccelli, per tutti Lollo, il grande Lollo, cultore di Scienze Matematiche, orvietano di quelli veri. Con l’aria sorniona, i baffi caratteristici, la sua presenza alle conferenze dell’Istituto garantita. Una figura della Rupe di quelle che restano nel ricordo di tante generazioni. Per originalità, per bizzarria intelligente e sottile umorismo, per carica di umana bonarietà. 14 uesto Quaderno è stato stampato per sottolineare un significativo traguardo del parroco di Allerona Scalo, don Albino Ermini, a cui le istituzioni locali e la popolazione tutta hanno voluto esprimere il proprio apprezzamento ed attaccamento per la dedizione con cui ha trascorso praticamente tutta la propria esistenza con loro e soprattutto per loro. Nella pubblicazione, curata da Marcello Tomassini, sono stati raccolti innanzitutto gli auguri del Vescovo e dei Sindaci dei tre Comuni (Allerona, Castel Viscardo e Ficulle) su cui si estende la giurisdizione parrocchiale ed è stato tracciato il profilo del sacerdote con il ricordo delle iniziative più importanti e significative da lui messe in campo per far crescere la parrocchia sia sotto il profilo spirituale che materiale. Sono state raccolte nel volume anche diverse testimonianze di gente, la sua gente, che ha inteso esternargli così i propri sentimenti di affetto, di gratitudine e stima. La celebrazione della festa patronale della seconda domenica di settembre è stata l’occasione per distribuire a tutti una copia del libro che con la vita del parroco ha messo insieme anche pezzi di storia religiosa e laica della collettività di Allerona Scalo. Claudio Urbani tutt’intorno da boschi sciropposi di linfe e di resina, fu chiamata al furore delle armi il fatidico mese di maggio del 1915. La dichiarazione di guerra incombeva sui grappoli fiammanti di frutti, sulla giostra di colori e profumi rimandati dalla valle, sui giardini ombrosi delle vecchie case e sulle gialle aie coloniche … La nostra gioventù bonacciona, piacevolmente curiosa e di una certa vivacità canora, stava per misurarsi in lungo e in largo sui monti sempre più lontani, con un nemico oscuro e finora tremendamente differito, essa stava per riunirsi a tutta la famiglia del popolo italiano… i nostri giovani partivano per conquistare la vittoria… a prezzo della propria stessa vita… Quella gioventù partiva ignara… E cadde proprio in quella bocca di fuoco che sbavava il fumo di guerra barbarico delle trincee…”. Esemplare è poi la storia di Sisto Monti Bozzetti, l’alleronese al fronte assurto, certo inconsapevolmente, a fama nazionale, al quale è dedicata una parte del II capitolo. La sua vicenda è già nota grazie al prezioso carteggio (oltre 200 fra lettere, cartoline, telegrammi) scambiato con la famiglia negli anni 1916-1917, fortunatamente conservato dagli eredi, edito in un volume che ha ricevuto nel 2007 il Premio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Sisto partì per il fronte nel marzo del 1916, pieno di speranze, di coraggio e di fiducia, sentimenti che via via lasciano il posto a considerazioni sempre più amare e disilluse che passano attraverso uno scampato pericolo (una pallottola gli aveva forato la giacca a sinistra sotto le costole ma il colpo aveva trapassato il portafogli con tutte le carte e aveva rotto la penna stilografica e l’aveva ferito in modo non grave) fino alla morte avvenuta sul Col Bricon nel giugno 1917 per le ferite riportate. Ugualmente degno di nota è il breve paragrafo dedicato al flagello della “spagnola”, l’epidemia che si diffuse nell’ultimo anno di guerra, mietendo vittime numerose non solo fra i soldati, ma anche fra la popolazione civile. Un nuovo dramma che si assommava a quello della guerra e che sconvolse le varie realtà locali. Ad Allerona, così risulta nel volume, la malattia uccise una settantina di persone fra cui don Natale Carletti, pievano di Santa Maria Assunta, morto a soli quarantasette anni di età dopo aver contratto il morbo assistendo i malati e i moribondi suoi parrocchiani». Aggiungiamo un altro personaggio alla serie di biografie dei frati vissuti nel Convento di S. Maria dei Servi di Orvieto, composta da padre Roberto Fagioli OSM, quando era priore, con l’intento di ricordare l’attività di quei personaggi e mostrarne la rilevanza. Frate Annibale Canuti S i propone una breve sintesi della vita ed attività di padre Canuti in base ad una documentazione abbastanza consistente, anche se solo di carattere locale, che documenta la sua attività, quale Maestro in Sacra Teologia. Frate Annibale Canuti inizia la sua vita da religioso dei Servi di Maria ed emette la professione dei voti nel Convento di San Giacomo di Foligno. Si applica agli studi con buon profitto, ne è prova il fatto che fu promosso ai gradi di baccelliere e maestro in Sacra Teologia. Per un periodo indeterminato svolse attività, si può supporre, nel Convento di Foligno; dal 1597, come apprendiamo dagli scritti di Alessandro Filippo Piermattei1, fu parroco nella Chiesa di San Marcello al Corso in Roma, fino al 1601, quando iniziano ad aversi notizie della sua vita e attività nel Convento di Santa Maria dei Servi di Orvieto. Nel maggio di quell’anno c’è un gran movimento di frati nel monastero orvietano che vanno e tornano dal Capitolo Provinciale che si celebra a Viterbo, tra i quali è registrata varie volte la sua presenza. Nel 1602, è di stanza ad Orvieto, nel settembre infatti è curato per malattia, e nell’aprile 1603 percepisce il primo «vestimento», la cifra che annualmente veniva data ad ogni confratello per le piccole spese personali2. Nel 1604, predica la Quaresima e l’Avvento in Orvieto; tra l’agosto 1606 e l’aprile 1607, essendo tornato dalle sue parti il priore di Orvieto, padre Cesare da Cesena, padre Annibale presiede al Convento come vicario priore. Nel 1611, per la festa del beato Filippo Benizi si reca a Todi, dove si ammala ed è curato dal priore di quel Convento, l’orvietano Gabriele Giorgioni. Nel maggio 1612, durante il Capitolo Provinciale, celebrato nel Convento di San Marcello di Roma, viene eletto priore provinciale della Provincia romana. Rimase di stanza ad Orvieto, ma vari furono i viaggi richiesti per l’espletamento del suo incarico. Nel gennaio 1613, è costretto a prendere un provvedimento punitivo verso il fratello converso Graziano, mastro muratore, figlio del Convento orvietano, che era stato destinato ad altra sede, ma temporaneamente lasciato in Orvieto per ultimare lavori di arte muraria che aveva in corso. Sembra che il cambiamento non fosse gradito al frate, che si gingillava invece di lavorare veramente. Richiamato più volte sia dal priore che dal provinciale, rispose con insulti verso il i suoi superiori e il provinciale dovette intervenire condannandolo alla pena del carcere, secondo le norme delle Costituzioni allora in vigore nell’Ordine. Nell’agosto 1613, fra’ Graziano era già libero dal carcere, ma tornò nel suo Convento solo nel 1619. Il padre Annibale, nel Capitolo a Viterbo del 1615, terminò il suo servizio di provinciale, sostituito dal padre Feliciano Penna da Perugia; fu eletto definitore generale e riprese in pieno il suo servizio di predicatore e con le lezioni al popolo sulla Bibbia nel Duomo di Orvieto, per incarico del vescovo, cardinal Sannesio (1605-1621). Dal maggio 1617 al maggio 1619, ricoprì di nuovo l’incarico di priore del Convento. Negli anni 1620-1522, il Convento soffrì di una carenza momentanea di liquidità: supplì il padre Annibale con i proventi della sua predicazione. Per la festa del settembre 1622, il Convento fu onorato della presenza del nuovo vescovo di Orvieto, cardinale Pietro Paolo Cre- scenzi (1621-1645); il padre Annibale fu molto attivo nel preparare l’accoglienza dell’alto prelato e del suo seguito, per la quale pagò una parte consistente delle spese, come si può vedere dal testo sotto riportato. Da tenere presente che il padre Annibale, dal 1618, aveva rinunziato alla quota del suo vestimento a favore del Convento. Dopo il maggio del 1623, il padre Annibale cadde malato di una malattia che lo condusse alla morte, il 14 settembre 1623. Padre Annibale Canuti da Foligno contribuì al benessere del Convento e dei frati non solo in vita, ma anche in morte; nel deposito del Convento e nella sua stanza furono trovate tante «robbe» provenienti dalla sua predicazione e da altre attività sacerdotali; robbe che in parte furono date per «amor di Dio», altre vendute ai confratelli e ad altre persone, come era uso, con discreto beneficio per la cassa del Convento. Negli Annali dell’Ordine, dove è registrata la sua morte, viene qualificato uomo che godette molta stima, specialmente presso il cardinale Sannesio vescovo di Orvieto, a richiesta del quale il padre Annibale tenne corsi di cultura teologica e biblica in Duomo; la predicazione del padre Annibale Canuti si estese in un territorio molto vasto anche fuori della città di Orvieto. Ci sembra interessante, ai fini della conoscenza degli usi culinari del tempo, riportare le voci relative agli acquisti effettuati in occasione del pranzo imbandito dalla comunità il giorno della festa del Convento, 8 settembre 1622, al quale partecipò anche il vescovo P. P. Crescenzi. Nei registri contabili dell’Archivio del Monastero, nella parte destinata alle Uscite3, sono riportate, in data 5 settembre 1622, la spese effettuate in vista del pranzo che si sarebbe tenuto tre giorni dopo, a cui avrebbe preso parte il vescovo e la sua famiglia; per diciassette scudi furono acquistate: pignatte grandi e piccole e tegami, lardo, strutto, formaggio, spezie, carne di vitello (per pasticci), tre capponi, pignoli, ruta, agretto4, tarantello5, alici e pesce, un paio di starne, mosto cotto e uva passera; sono compresi nel prezzo il pagamento per i facchini che «condussero e ricondussero la tavola delli Signori», alcuni fiaschi e i sugheri per chiuderli, per un totale di diciassette scudi. Furono inoltre acquistati personalmente dal padre Annibale6, che evidentemente non voleva fare brutta figura, carne di vitella7, diciotto para di pollastri, piccioni (non è specificato il numero), fegato di capra, meloni, persiche, fichi e mèle (prob. miele) per crostate, per un totale di 9 scudi e 13 baiocchi. Inoltre, nella carta successiva, è aggiunto: « nota che li capponi, l’oche, quaglie, polanche di India8, beccafichi, un castrato, li salami, frittelline fatte fare dalle monache, in torte e crostate, in butirro e altre cose, il p. maestro Annibale le messe del suo e le donò al monastero»9. Note 1 A. F. Piermattei, Memorabilium Sacri Ordinis Servorum B.M.V., «Breviarum», III , p. 284. 2 Scrive il camerario del convento «E più diedi al padre maestro Annibale per suo vestimento, spesi in sui bisogni, scudi sette»; ACSO, codice segnato XI, Uscite, c. 152r. 3 Ivi, c. 214v. 4 Tipo di salsa. 5 Mosciame di tonno rosso; preparazione di filetto di tonno essiccato, tipico delle zone rivierasche della Liguria. 6 Ibidem. 7 «Una vitella» nel testo; Ibidem. 8 Pollanca d’India, tacchina giovane destinata all’ingrasso, castrata per ottenere carne di pregio, più delicata e fine. 9 ACSO, Uscite, cod. XI, c.215r. SPECIALE Lettera Orvietana CERAMICA N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 QUANDO SI DICE TRADIZIONE CERAMICA … T rattando della tradizione ceramica si evoca una manifattura che accompagna la storia dell’uomo e si pensa a quei centri in cui la produzione ceramica è perdurata per secoli e, talora, per millenni. Una legge dello Stato -l a n. 88/1990 sulla tutela della ceramica artistica e tradizionale- individuò 19 centri di antica tradizione ceramica dove la produzione era ancora attiva e quattro di questi, tra cui Orvieto, erano concentrati in Umbria. A distanza di oltre vent’anni la Regione Umbria ha rivisto il senso della tradizione ceramica focalizzandone le finalità nella visibilità dei ‘prodotti’ e per questa reinterpretata esigenza ha individuato un nuovo (bari)centro ceramico nella città di Assisi, se non come bottega, come vetrina per una massa di turisti/pellegrini. Dopo la compartecipazione nel 2015 alla mostra organizzata dal Comune di Assisi su Maceo Angeli, (vedi Catalogo Maceo tra sogno e ironia), una mostra più che dovuta specialmente per lo svelamento della sua lunga quanto dimenticata attività di ceramista -peraltro avviata a Orvieto nel 1934 nella bottega dell’amico Ilario Ciaurro, che fu il suo maestrola Regione Umbria ha programmato e sostenuto nel 2016 una serie eccezionale di manifestazioni sulla ceramica ‘made in Umbria’ nella città Francescana: la grande mostra su “Ceramica Umbra del ‘900. Sperimentazioni e innovazioni” (luglioottobre), il Convegno Internazionale su “La maiolica italiana del Rinascimento” (9-11 settembre) e l’evento conclusivo del Premio Internazionale: Ceramica Made in Umbria 2016 “Il segno del tempo” organizzato insieme all’ADI - Associazione Disegno Industriale, con la presentazione dei numerosi progetti e la premiazione dei vincitori (14 ottobre). Aldilà delle valutazioni critiche sulle mirate scelte regionali, la partecipa- zione alle manifestazioni andava assicurata e il sottoscritto, che ha collaborato di persona a tutte e quattro, rende parzialmente conto in questo inserto speciale della visibilità ottenuta dalla presenza ad Assisi sulla ceramica orvietana. Nelle pagine seguenti si pubblica infatti l’intervento su Tradizione e innovazione nella ceramica orvietana dal dopoguerra ad oggi, estratto dal catalogo della mostra in corso di realizzazione on line, ed in questa stessa pagina gli elaborati di rito -la Relazione e le Tavole- del progetto presentato da Paola Biancalana e Andrea Miscetti al Concorso Internazionale, bandito da Regione Umbria e ADI, non soltanto perché ripropone originalmente l’attualità di “segni” distintivi della maiolica arcaica orvietana -fonte d’ispirazione per molti concorrenti-, ma anche perché a quel progetto è stato assegnato il prestigioso riconoscimento del 3° Premio per la categoria Professionisti. A fronte dell’attivismo esercitato dalle istituzioni regionali nei confronti della tradizione ceramica umbra e della vitalità mostrata da quella orvietana non può passare sotto silenzio la degenerazione strisciante nel settore ceramico messa in atto a Orvieto. Se anche il sindaco in carica seguiterà a temporeggiare facendo solo promesse sulla realizzazione deliberata dal Consiglio Comunale del Centro Ceramico di Palazzo Simoncelli, dopo che i suoi due predecessori hanno invertito la rotta per bloccarne la fase conclusiva già raggiunta, non resterà che denunciare i responsabili degli atti che hanno portato ad una situazione di stallo, prima che le chances per il futuro della tradizione ceramica orvietana come bene comune da salvaguardare, contenute nel progetto del Centro -dal Laboratorio ceramico al museo e alla banca dati- non siano del tutto vanificate. Alberto Satolli Regione Umbria - ADI. Premio internazionale: Ceramica Made in Umbria 2016 “Il Segno del Tempo”. Terzo premio Relazione Materiali e colori vaso lo stesso “ gioco viaggiante”. Here we are! Siamo qui! Il percorso Dopo letture e riletture del bando scegliamo gli elementi decorativi, tra quelli medievali suggeriti. Alla fine dal nostro “setaccio” ce ne restano in mano solo due, vivi e pulsanti. - la Pigna, come icona - il Retino, inizialmente come campo, sfondo che si perde, per poi diventare la campitura delle piante urbane. L’idea che prende forza è raccontare e celebrare le nostre città attraverso gli elementi decorativi selezionati. Attraverso queste mappe urbane la via, come un dove di ricerca, di avventura, libera, vuota: assenza di retino. Questa via corre tra i fabbricati, si apre nelle piazze: è anche ramo, curva e si aggroviglia come tralcio e vitigno di vite. La pigna suggerisce da sempre l’idea di gemma e foglia, bocciolo ancora verde, grappolo d’uva immaturo. La pigna è tradizionalmente un elemento in rilievo, stampato ed aggiunto, e così lo pensiamo all’inizio, come parte del corpo d’argilla, aggiunta a durezza cuoio come nelle botteghe dei vasai, o già contemplata nello stampo in caso di produzione seriale. Poi nel seguirsi delle modifiche, nel “ ripulire & distillare” l’antica icona-Pigna ce ne suggerisce prepotentemente un’altra, attualissima, e -capovolta dal peso del frutto-uva - in essa si converte, acquisendo un’allegra pennellata di colori presi in prestito dalla grafica web: SIAMO QUI-HERE WE ARE, La nostra Pigna via via si fa piatta, solo un gioco di pennello, essenziale nell’esecuzione e nel ruolo. In tutte le variazioni ( piatto, vaso, mattonella) abbiamo considerato in prima istanza la maiolica, la copertura sarà uno smalto avorio, matt o semi matt. Consideriamo tuttavia interessante la versione porcellana, su cui decorare a pennello a terzo fuoco, o anche applicare una decalco I campi-retino sono dipinti a mano con colori sopra smalto, bruno manganese, ma -in caso di serialità- potremo utilizzare la fotoceramica (decalco) senza nulla togliere al messaggio “reminescenza attualizzata”. Come nella tradizione a pigna è verde ramina, sta di lato al ramotralcio-strada come un frutto, una sorpresa per il viaggiatore, un ristoro delizioso, ma si colora anche di colori più vivaci convertendosi nell’altra sorpresa: “ ecco SIAMO QUI, ...possiamo anche perderci di nuovo!” È così che turchese, fucsia e giallo fanno capolino, addirittura irrompono su queste “mappe minimali”. Sulle curve di strade e vicoli che raccontano le città umbre, questi colori un po’ neon si affiancano allegramente allo scarno cromatismo medievale . Ci è venuto spontaneo pensare questi pezzi come narrazione: storie modulari che si snodano in infinite possibilità, lasciando aperta la possibilità di acquisire personali connotazioni mappali, a seconda della città che vogliano raccontare, attingendo a dettagli - o in toto alle mappe reali. La modulabilità Il suggerimento è certamente venuto dalla mattonella, modulo per eccellenza, ma ci è piaciuto continuare anche sul piatto e sul Nella mattonella alla fine il decoro si è “ distillato” allo stremo, a lei, modulabile in verticale e in orizzontale, abbiamo lasciato l’essenza delle mappe: il dettaglio degli angoli, la luce che mette in risalto l’angolo sghembo di un palazzo, e l’ancora di salvezza, “la PignaSiamo qui-Here we are, perdiamoci ancora” costruiamo nuove città, qui abbiamo anche l’elemento neutro: il cielo, tutto lo spazio ancora da esplorare e immaginare. Nel dettaglio: A) la mattonella: prendiamo a modello un formato 20x20, ma facilmente convertibile ad altre dimensioni. Ogni mattonella può essere una storia a sé, ma la combinazione dei 5 moduli (più uno neutro) rende possibili infinite sequenze. B) il piatto: abbiamo inizialmente lavorato su una superficie lineare e molto piatta, senza bordi, per una soluzione più minimal, ma nel fare e disfare il fascione si è affacciato e attestato dando la possibilità di proporre il decoro come suggerimento sul fascione stesso, su una sua parte di esso o su tutta la superficie; la profondità del piatto potrà variare senza compromettere l’effetto forma-decoro. C) il vaso: il volume più suggestivo, capace di contenere e di esprimersi nello spazio, l’abbiamo interpretato come pezzo singolo, ma anche lui vuole essere modulo. Alle linee curve del boccale non abbiamo voluto sottrarre il becco. Questo vaso, componendosi verticalmente a ritmo variamente alternato (diritto-capovolto) potrà creare una colonna “infinita” di brancusiana memoria. Paola Biamcalana / Andrea Miscetti 15 SPECIALE CERAMICA I. Paolo Cosenza/ Mastro Paolo Vaso con coperchio, 1967 Ceramica, h=25cm Ceramiche orvietane esposte alla mostra su “Ceramica umbra del ‘900. Sper II. Paolo Cosenza/ Mastro Paolo Vaso cilindrico, 1970 Maiolica, h=21cm. III. Paolo Cosenza/ Mastro Paolo Boccale, 1980 Maiolica, h=16cm. generazione di ceramisti, per intravedere, se non proprio innovazioni, orientamenti diversificati nelle nuove botteghe rigenerate dalle vecchie. Mentre Giacomini manda avanti il suo laboratorio a conduzione familiare, dalla Società Ceramiche Orvietane (SCO) si distacca Marcello Cecconi per mettersi in proprio nel 1962 e nel 1964 la stessa Società si divide in due fabbriche, quella in parte rilevata dai fratelli Fusari, Gianfranco e Giorgio (Ceramiche Fusari) e quella che Spartaco Malentacchi, tra i vecchi fondatori, chiamò Laboratorio Artistico Ceramiche (L.AR.CE.), tuttora esistente; nel 1965 aveva intanto aperto la sua bottega Paolo Cosenza, con il nome di Mastro Paolo. Tradizione e innovazione nella ceramica orvietana dal dopoguerra ad oggi T radizione e innovazione sono parti integranti dello stesso processo evolutivo, componenti complementari della conoscenza in generale e della pratica artigiana in particolare, laddove prevale ora l’una con gesti ripetitivi quasi automatici, ora l’altra con la scintilla che alimenta l’atto creativo, la novità. Andare oltre la tradizione, superarla senza dimenticarla, magari disconoscendola, è un’esigenza avvertita da ogni ceramista nel vivere il suo tempo. A traghettare la tradizione ceramica in Orvieto, dal primo ‘900 quando era risorta grazie all’attività quasi ventennale di Ilario Ciaurro, prima come direttore della fabbrica dei “Vascellari” e poi della propria1- agli anni del dopoguerra, furono Ugo Giacomini e Spartaco Malentacchi. Nelle due nuove fabbriche aperte nel 1948, oltre a lavorarvi i familiari dei ceramisti, si riversarono quasi tutte le maestranze che si erano formate nella bottega di Ciaurro, compresi saltuariamente i pittori/decoratori Leonello Solini e Francesco Velluti e il tornitore Umberto Tiberi; nella bottega di quest’ultimo2 si è perpetuata, fino ai giorni nostri, una produzione esclusivamente di buccheri ad opera dei nipoti Paolo, con forme tradizionali, e Michele con forme innovative [FIG. 1 e FIG. 2] Per oltre un decennio la produzione ceramica non si distaccò quasi per nulla da quella di Ciaurro, il maestro che, rielaborando forme e decorazioni di gusto neo-medievale, aveva dato un carattere riconoscibile alla ceramica orvietana contemporanea. Bisognerà attendere gli Anni Sessanta, con l’avvento di una nuova 16 IV. Livio Orazio Valentini Boccale, 1985 Maiolica, h=19,5 cm. Fig. 1. Paolo Golia ‘Alabastron’ in bucchero, 1991 Fig. 2. Michele Golia Figura stilizzata in bucchero, 2005 Non fu un caso che questa proliferazione di fabbriche di ceramica si verificasse mentre si concludevano i lavori dell’Autostrada del Sole, quando fu aperto il casello di Orvieto nel 1965 e il numero delle presenze di visitatori aumentò subito sensibilmente; d’altronde la produzione ceramica era incentrata su oggetti d’uso, ancora rivolti ad un mercato anche interno, e su oggetti-ricordo per i turisti, mentre per le forme e le decorazioni non si usciva dal solco tracciato dallo stile medievaleggiante divenuto ‘tradizionale’ dai tempi di Ciaurro. A differenziarsi, anche se solo parzialmente, dal filone dominante -nel senso che per i modelli estetici il riferimento era sempre alla produzione artistica locale del passato- saranno, in anni successivi, e per proprio conto, Elio Cecconi con le imitazioni dei manufatti greco-etruschi [FIG. 3] e Mirella Cecconi, con le riproduzioni su ceramica degli affreschi del Signorelli e d’altre opere d’arte, grazie ad una padronanza pittorica che le permetteva elaborazioni personali di gusto classico, oltre soluzioni particolari per recipienti funzionali [FIG. 4]. V. Studenti e docenti del Corso di ceramica, Orvieto 1997-1998 Lastra ricordo, 1998 Maiolica, lato=37 cm. Fig. 5. Paolo Cosenza/ Mastro Paolo Piatto con arpia, ispirato alla maiolica arcaica, 1995 Fig. 3. Elio Cecconi/ Ceramiche artistiche Castel Viscardo ‘Stamnos’ in ceramica, 1993 Fig. 4. Mirella Cecconi Boccale antropomorfo, 2006 Chi invece aveva puntato sin dall’inizio al rinnovamento della ceramica, pur restando nell’ambito dell’oggettistica artigiana, era stato Mastro Paolo e questa ricerca innovativa lo animerà per tutta la vita, fino al 2013: cercare suggestioni nell’orizzonte più ampio della ceramica italiana contemporanea -da Guido Gambone a Enzo Mari, da Nedo Merendi a Ettore Sottsass3- non significava per Mastro Paolo tagliare i ponti con la tradizione locale perché la sua formazione di base avveniva grazie allo studio paziente condotto sulle ceramiche del passato, delle quali aveva esemplari e frammenti a portata di mano da cui dedurre sperimentalmente le componenti tecniche e le modalità decorative. Infatti Mastro Paolo affiancava alla sua linea produttiva d’avanguardia una parallela realizzazione di ceramiche “antiche”, sul doppio binario della riproposizione di quelle appartenenti alla tradizione e della creazione di veri e propri falsi [FIG. 5]. Esistono molti falsi realizzati da Mastro Paolo, il quale non amava eseguire semplici copie, ma preferiva immedesimarsi nello spirito del tempo per riproduzioni libere, ma perfette sia dal punto di vista tecnico che figurativo. Si tratta di oggetti che ripercorrono tappe salienti nella storia della ceramica: dai vasi attici del V secolo a.C. ai buccheri, dalle ceramiche dipinte sotto vetrina alle maioliche arcaiche orvietane del XIII e XIV sec., dalle zaffere rinascimentali ai lustri, al ‘compendiario’ derutese e, perfino, alle ceramiche orvietane degli Anni Venti del ‘9004. La ripresa degli studi sulla ceramica medievale orvietana -che a settant’anni dall’introvabile volumetto dell’Imbert del 1909, scritto da Perali5, ebbe l’impatto di una vera e propria riscoperta- raggiunse un vasto pubblico con le mostre di Spoleto del 19816 e di SPECIALE CERAMICA Palazzo Monte Frumentario, rimentazioni e innovazioni” Assisi, Luglio Ottobre 2016 VI. Victor Greenaway Coppetta, 1999 Porcellana, h=9,5 cm. VII. Marino Moretti Mattonella, 1999 Maiolica, lato=21,5 cm. VIII. Marino Moretti Figura a forma di vaso, 2000 Maiolica, h=74 cm. X. Valter Ambrosini e Stefania Portarena/L’Arpia Boccali antropomorfi, 2002 Ceramica, h=28 cm. IX. Marino Moretti Piatto ellittico, 2009 Maiolica, asse max = 36 cm. corpo, cioè volume, ad alcune di esse, come l’ambigua sirena bicaudata che diventò bottiglia con il tappo ‘a corona’ [FIG. 7]. Milano del 19837 e stimolò l’orgoglio dei ceramisti locali che finalmente potevano disporre di molte immagini dei “modelli” che fino ad allora si erano dovuti procurare quasi clandestinamente. Chi, invece, non ebbe bisogno di questa opera di sensibilizzazione diffusa fu Marino Moretti, che era cresciuto in mezzo ai “cocci” della nutrita collezione paterna e che nel 1978 decise di intraprendere quella faticosa attività di ceramista8, che l’impegno e la creatività artistica gli renderanno più agevole e soddisfacente, come si vedrà. Il rinato interesse per la ceramica, sia come ricerca che come produzione artigiana, non poteva non coinvolgere l’amministrazione comunale che, infatti, sostenne iniziative di settore finanziando scavi di ‘butti’ sotto gli edifici pubblici, pubblicazioni, mostre di ceramica e corsi professionali, fino a deliberare, nel 1999, l’istituzione di un ‘Centro di documentazione, ricerca e sperimentazione della ceramica’9. A seguito dei corsi professionali di ceramica presero avvio, com’era auspicato, nuove imprese produttive che avrebbero rivitalizzato il settore. Nel 1987 fu aperta la bottega ‘Ceramicare’ da Nadia Formiconi e Carla Roticiani, dove si rinnovarono le forme della tradizione semplicemente ingigantendole ed esasperando il ‘culto del frammento’ si inaugurò una originale linea decorativa [FIG. 6]: successivamente separatesi, le due ceramiste sono tuttora attive, la prima con Alberto Caldoro (‘Ceramicarte’) e la seconda lavorando nella vecchia fabbrica de L.AR.CE.. Nel 2000 Stefania Portarena accese il forno di un’altra manifattura, “L’Arpia”, e familiarizzando, insieme a Valter Ambrosini, con le figure fantastiche rappresentate sulle superfici delle maioliche medievali orvietane dettero Fig. 6. Nadia Formiconi e Carla Roticiani/Ceramicare Piatto ‘A frammenti’ in ceramica dipinta, 1992 Fig. 7. Stefania Portarena/L’Arpia Versatore, a forma di sirena bicaudata, in maiolica, 2000 Fig. 8. Paolo Cosenza/ Mastro Paolo Versatore in maiolica, 2006 Fig. 9. Anna Spallaccia Piatto in maiolica, 1998 Contemporaneamente a queste ultime realtà produttive erano attive in Orvieto -e lo sono ancora- le vecchie botteghe: innanzitutto, quella di Mastro Paolo (ora ereditata dal figlio Giuseppe), che per molti anni è stato il decano dei ceramisti. Mastro Paolo aveva sempre manifestato il suo impegno anche come pittore, realizzando composizioni astratte con delicati colori acrilici su tela, ma soltanto in qualche caso riversava i risultati di questa sua esperienza estetica sulla ceramica, come se la diversità del supporto e la varietà formale delle superfici smaltate esigessero un approccio diverso, che poteva oscillare ampiamente tra contenute, precise geometrie e pennellate liberatorie. [FIG. 8] Per un certo periodo collaborò con Mastro Paolo Anna Spallaccia che, facendo tesoro degli insegnamenti del maestro, trovò percorsi espressivi autonomi in raffinate lavorazioni del bucchero e in minuziosi pattern decorativi su maiolica [FIG. 9], salva restando sempre una produzione tradizionale ripresa dalla ceramica medievale, esibita un po’ da tutti i ceramisti come marchio d’origine. Marino Moretti, dal canto suo, ha sviluppato una ricerca continuamente tesa all’innovazione sia artistica che tecnologica: le sue radici saldamente infisse nello studio della maiolica arcaica orvietana -ma anche delle zaffere viterbesi e delle ceramiche ingobbiate castrensi/acquesiane, decorate con busti di donne tutt’altro che “belle”- hanno alimentato (e alimentano) la creazione di ceramiche brillanti popolate di “mostri” ironici e compassati. La produzione di Moretti, che spazia dalle ceramiche d’uso alle piastrelle componibili per progetti Fig. 10. Marino Moretti ‘L’Acqua’: decorazione in maiolica di una seduta nel giardino della biblioteca comunale, 2014 Fig. 11. Victor Greenaway Tazza in porcellana, 1998 Fig. 12. Marino Moretti (con Victor Greenaway) Tazza in porcellana, 2008 di arredamento, ha avuto un riconoscimento pubblico, a livello urbano, con la decorazione in maiolica del giardino della Biblioteca comunale10 [FIG. 10]. Con Moretti collabora, ormai da quasi vent’anni, Victor Greenaway, artista australiano che ha eletto Orvieto a seconda patria, trascorrendovi periodicamente lunghi periodi; eccellendo Greenaway nella manifattura della porcellana11 [FIG. 11], Marino ha approfittato dell’amicale frequentazione per apprendere questa raffinata tecnica aggiungendo alla sua produzione abituale candide tazze trasparenti finemente decorate ed analoghi contenitori resi unici da un tocco personale. [FIG. 12] Il laboratorio di Marino Moretti -nelle antiche stanze al piano terreno del castello di Viceno, con vista su Orvieto- è diventato, non solo per le presenze temporanee di Greenaway, un punto di riferimento internazionale: vi sono approdati noti studiosi di ceramica come Matthias Ostermann12 e figure mitiche come Alan Caiger-Smith13 ed altri ceramisti e ceramologhi più vicini sono di casa14. Nei dintorni di Orvieto, in località diversamente suggestive ma ugualmente accoglienti, lavorano altri due ceramisti orvietani: Paolo Velluti, a Cerreto presso il lago di Corbara, e Paola Biancalana, fra i boschi del ficullese, vicino all’abbazia di Monte Orvietano. Velluti ha imparato il mestiere da ragazzo, seguendo il padre nelle 17 SPECIALE Lettera Orvietana CERAMICA N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 XI. Paolo Velluti Piatto, 1997 Maiolica, diam.=26,5 cm. XII. Anna Spallaccia Sfera ‘a colombino’, 2000 Bucchero, diam=18 cm. Un caso a parte è rappresentato da Livio Orazio Valentini, artista orvietano per eccellenza, che ha realizzato anche molte opere in ceramica, piccole e grandi sculture -come l’ultima per una rotatoria a Orvieto scalo. Nel suo ‘laboratorio di ceramica, metalli e grafica’, in via Maitani 8, davanti al duomo (quotidiana fonte di ispirazione), il pittore Valentini non faceva altro che sperimentare nuove applicazioni artistiche per i diversi materiali utilizzati dagli artigiani, per restare nella tradizione e, al tempo 18 XIV. Paola Biancalana ‘Panatella’, 2006 Terracotta smaltata, h=14 cm. XV. Giorgio Pernazza e Anna Spallaccia Due boccali, 2006 Maiolica, h= 18,5 cm. stesso, sfuggirne. Manipolando argilla o terra refrattaria, Valentini cercava effetti nuovi in composizioni plastiche da sigillare col fuoco, ma non disdegnava realizzare oggetti più tradizionali come piatti e scodelle, brocche e boccali, decorandoli a suo piacimento15 [FIG. 15]. fabbriche esistenti alla fine degli anni ’50, e si è mantenuto in esercizio durante la sua trasferta romana per motivi di lavoro; tornato nella sua terra d’origine, da oltre vent’anni si dedica alla ceramica riproponendo quella tradizionale, ma dando anche sfogo liberamente alla sua attitudine per il disegno e la pittura su smalto. [FIG. 13] Particolarmente apprezzabile è l’invenzione di divertenti figure tridimensionali che Velluti ottiene tagliando e manipolando sottili lastre di argilla. Paola Biancalana, memore della produzione delle popolari terrecotte invetriate storicamente attestata a Ficulle -anche perché aveva appreso i rudimenti delle lavorazioni figuline nelle botteghe dei cocciari- ha principalmente orientato la sua ricerca sulle qualità espressive dell’argilla, quando viene a contatto col fuoco: impastando terre diverse per formare oggetti d’uso corrente, ingobbiati e vetrificati anche ad alta temperature nel forno da lei costruito, Biancalana ottiene ceramiche che trasmettono senza troppe mediazioni un gusto ‘primitivo’. [FIG. 14] Tra l’altro, ben noti ai collezionisti e presenti in alcuni musei, sono i suoi fischietti in terracotta grezza o verniciata, che al soffio emettono suoni modulati da forme diverse e imprevedibili. XIII. Nadia Formiconi/ Ceramicarte Caraffa, 2005 Fig. 13. Paolo Velluti ‘Panatella’ decorate in maiolica, 2010 Fig. 14. Paola Biancalana Boccale con applicazioni a rilievo, gres smaltato, 2006 Le opere di questi ultimi, come quelle degli altri ceramisti orvietani operanti fino al XXI secolo, sono documentate nei cataloghi delle tre mostre organizzate dal Comune di Orvieto dal 1991 al 200816, mantenendo fede all’impegno di sostenere ed incentivare una tradizione millenaria -creando le condizioni per la sua conoscenza e per la trasmissione del fare ceramico in una struttura pubblica- come bene della collettività da salvaguardare. Alcune ceramiche selezionate tra quelle esposte nelle mostre recenti erano state acquistate dal Comune per conservarle, come testimonianza della produzione contemporanea, all’interno del Centro di documentazione di palazzo Simoncelli all’uopo restaurato, ma il penultimo sindaco -che ha ostacolato con manovre surrettizie la realizzazione dei previsti Laboratorio ceramico e Museo della tradizione ceramica orvietana- proprio quelle ceramiche le ha regalate. Che freno si può mettere alla volubilità degli amministratori sprezzanti dell’interesse pubblico? Alberto Satolli* *Il testo e le foto sono tratte dal Catalogo on-line della Mostra di Assisi, curati entrambi da Giulio Busti e Franco Cocchi NOTE 1 Sull’attività di Ilario Ciaurro ceramista vedi Satolli A., La ceramica orvietana degli Anni Venti, Catalogo della Mostra (San Giovanni, Orvieto, 21 maggio-21 giugno e Palazzo delle Esposizioni, Faenza, 24 luglio-9 ottobre), Centro di, Firenze 1983 e Idem, La ceramica degli anni orvietani, in Sacchi Lodispoto T., Spinazzè S., Ilario Ciaurro (1889-1992), Arte Cultura Sviluppo, Orvieto, GraficArt, Formia 2012, pp. 83-115, 231-233 e 245-247. 2 Su Umberto Tiberi, eccellente tornitore, vedi L’arte del vasaio, con scritti di G. C. Bojani e A. Guiducci, Electa, Milano 1982. 3 Cfr. F Bertoni, J. Silvestrini, La ceramica italiana del Novecento, Mondadori Electa, , Milano, 2005, ad vocem. 4 Per questo argomento si rimanda alla rela- Fig. 15. Livio Orazio Valentini Ciotola con uccello, ceramica invetriata e dipinta, 1986 zione di A. Satolli, Falsi d’autore: omaggio a Mastro Paolo da Orvieto, per la terza giornata di studi sulla ceramica su “Falsi e copie nella maiolica medievale e moderna” (Bagnoregio 11 giugno 2016), atti in preparazione. 5 La scoperta della ceramica orvietana medievale è avvenuta tra imperdonabili leggerezze e razzie impunite e la sua storia è cominciata con un falso (cfr. A. Satolli, 1908-1910: documentazione non riciclata sul programmatico saccheggio delle maioliche arcaiche orvietane, in Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano’ LXV-LXVI (2009-2010) 2011, pp. 39-120 e Idem, La collezione Imbert, in “Vascellari”, O, 1997, pp. 16-23). 6 Vedi A. Satolli, Fortuna e sfortune della ceramica medievale orvietana, in Ceramiche medioevali dell’Umbria, Catalogo della mostra (Spoleto, Palazzo Ancaiani, 25 giugno-12 luglio 1981), Nuova Guaraldi, Firenze 1981, pp. 34-78 e 112-161. 7 Vedi A. Satolli, a cura di, La ceramica orvietana del medioevo, Catalogo della mostra (Milano, Castello Sforzesco, 15 dicembre 1983-30 gennaio 1984), Centro di, Firenze 1983; alla mostra e al catalogo furono chiamati a contribuire Riccardo Francovich, David Whitehouse e Otto Mazzucato, gli studiosi che fino ad allora avevano mostrato interesse per la ceramica medievale orvietana. 8 Marino racconta la sua personale esperienza in Moretti M., Mesticanza di Ceramica, in “Quaderni Monaldeschi” 2, 2015, pp. 14-25. 9 A proposito vedi una puntuale sintesi in D. Volpi, Attività del Comune di Orvieto nel campo della ceramica, in “Vascellari, 1, 2003, pp. 260-271. 10 Vedi A. Satolli, Il miscrocosmo ceramico di Marino Moretti, in Microcosmo ceramico, a cura dell’A., Comune di Orvieto Ed., Tip. Ceccarelli, Acquapendente, 2014, pp. 21-59. 11 Vedi Victor Greenaway. Ceramics 19652005, con introduzione di T. Jacobs, The beagle Press, Roseville, 2005. 12 Vedi Ostermann M., The ceramic surface, A. & C., London 2002, p. 115; Idem, con Whiting D., The ceramic narrative, University of Pennsylvania Press 2006, cap. 7, pp. 106109; Idem, con Hemachamdra R., Master: Earthenware. Major Works by Leading Artist, Lark Ed., s.l., 2010, pp. 138-145. 13 Vedi la testimonianza di Caiger-Smith in Microcosmo ceramico, cit. p. 61. e Moretti M., Mesticanza, cit. pp. 17-18; il numero di gennaio-febbraio 2016 di “Ceramic Rewiev” ha dedicato a Caiger-Smith la copertina (Master of lustre. Alan Caiger-Smith vessels) ed ha presentato una collezione delle sue opere (Martin C. The potter and the plantsman, pp. 42-47, con biografia nell’ultima pagina). 14 Oltre la testimonianza di Timothy Wilson vedi quelle di Franco Cocchi e Ettore Sannipoli in Microcosmo ceramico, cit, pp. 61-63 e 66-69. 15 Per l’attività e la bibliografica di Valentini si rimanda a Livio Orazio Valentini. Opere 19701993, Catalogo della mostra (Perugia, Rocca Paolina, 15 gennaio-13 febbraio 1994), a cura di M. Duranti e A. C. Ponti, Guerra Ed., Perugia 1994, pp. 117-125; sulle opere in ceramica si veda Satolli A., Livio Orazio Valentini filosofo/ceramista, in Valentini, s.l. (1987) pp. 3-10. 16 Curati da chi scrive vedi i cataloghi delle ultime tre mostre: La forma del vino (2005), Bere con gusto (2006) e Cotto & biscotto (2008), Comune di Orvieto Editore. Le ceramiche esposte alla Mostra di Assisi provengono dalla raccolta di Alberto Satolli (eccettuato il boccale di L.O. Valentini, prestato dalla figlia Silvia) Le foto delle ceramiche, comprese quelle che illustrano il testo, sono di Massimo Roncella e Alberto Satolli Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 © Opera del Duomo di Orvieto Opera Del Duomo - Orvieto L ’Annunciazione di Francesco Mochi è conosciuta come una delle opere più interessanti e rappresentative dell’arte italiana. Per quasi tre secoli essa ha ornato l’interno della cattedrale insieme alla serie di splendide sculture commissionate dall’Opera del Duomo per valorizzare lo spazio liturgico del Tempio cittadino ed esprimere concretamente la devozione della comunità orvietana. Alla fine dell’Ottocento, gli interventi “ideologici” di matrice purista condotti nel restauro della Cattedrale portarono alla rimozione del capolavoro del Mochi e delle statue degli Apostoli dal loro contesto originario, causando una lacuna nella ininterrotta continuità della storia religiosa e artistica del monumento. La giornata di studi, organizzata e promossa dai Musei Vaticani in collaborazione con l’Opera del Duomo di Orvieto e Sapienza Università di Roma-Dipartimento di Storia disegno e restauro dell’Architettura, ha avuto per oggetto la proposta del reinserimento del ciclo scultoreo nell’interno del Duomo elaborata su basi scientifiche e sulla valutazione della sua reale fattibilità alla luce della consistenza attuale dell’edificio. Sono state esaminate le tendenze attuali del restauro architettonico nel campo della sistemazione interna dei maggiori edifici di culto, il significato del cosiddetto de-restauro e della sua praticabilità in alcuni casi, le vicende dei grandi restauri della cattedrale orvietana tra XIX e XX secolo in relazione alle normative del tempo e alle coeve tendenze figurative e critiche, alcuni saggi delle indagini attualmente in corso sul complesso per meglio comprenderne sia i più significativi elementi d’arredo sia l’intero organismo architettonico e strutturale. Giornata di studi Il duomo di Orvieto oggi: per un possibile reinserimento del ciclo scultoreo degli Apostoli e dell’Annunciazione Sala Conferenze - Musei Vaticani Giovedì 14 aprile 2016 PROGRAMMA 9.30 Apertura della Giornata di studi Antonio Paolucci - direttore dei Musei Vaticani S.E. Benedetto Tuzia - vescovo di Orvieto-Todi Francesco Venturi - presidente dell’Opera del Duomo di Orvieto Francesco Scoppola - direttore generale Belle Arti e Paesaggio MiBACT Gisella Capponi - direttore Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro Daniela Esposito - direttore Scuola di specializzazione Beni architettonici e Paesaggio, Sapienza Università degli studi di Roma INTERVENTI 10.20 Antonio Paolucci - Relazione introduttiva 10.40 Stefano Gizzi - Mantenere le stratificazioni della storia 11.00 Giuseppe M. Della Fina - Il duomo di Orvieto nelle pagine di Cesare Brandi COFFEE BREAK PRIMA SESSIONE 11.30 Bruno Toscano - Il ciclo scultoreo del Duomo di Orvieto nel contesto della Riforma 12.00 Vittorio Franchetti Pardo - Architettura e funzionalità dello spazio liturgico nel Duomo di Orvieto tra XIV e XVI secolo 12.30 Giovanni Carbonara - Restauro e derestauro. Motivazioni e scelte operative 13.00 DISCUSSIONE 13.30-15.00 PAUSA © Opera del Duomo di Orvieto SECONDA SESSIONE 15.00 Alessandra Cannistrà - Elisabeth Huber - L’Apostolato del Duomo di Orvieto: progetti 1985-2017 15.30 Gerardo De Canio - Il ciclo scultoreo del duomo di Orvieto: innovazione nella conservazione 16.00 Piero Cimbolli Spagnesi - Restauri del XIX e XX secolo nel Duomo di Orvieto 16.30-17.00 Antonio Paolucci - Vittorio Franchetti Pardo Conclusioni e note finali RELATORI Alessandra Cannistrà Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto Giovanni Carbonara già Dir. Scuola Specializzazione Beni Architettonici e Paesaggio - Sapienza Università di Roma Piero Cimbolli Spagnesi Sapienza Università di Roma Gerardo De Canio ENEA Giuseppe M. Della Fina Opera del Duomo di Orvieto Vittorio Franchetti Pardo già Dir. Dipartimento Storia ArchitetturaSapienza Università di Roma Stefano Gizzi Soprintendente Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria Elisabeth Huber Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro Bruno Toscano emerito Università degli studi Roma Tre 19 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Il complesso scultoreo del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto T © Opera del Duomo di Orvieto ra il 1552 e il 1729 furono eseguite 25 statue marmoree, rispettivamente dedicate agli Apostoli, ai santi protettori della città, al culto cristologico e mariano, che andarono a comporre un complesso di straordinaria rappresentatività nei suoi aspetti iconografici e iconologici, oltre che di notevole rilevanza storico-artistica a motivo delle personalità coinvolte e delle eccezionali opere prodotte. Nel 1897 il gruppo dell’Annunciazione e il ciclo degli Apostoli vennero rimossi dalla cattedrale insieme ai loro basamenti marmorei, anch’essi tuttora integralmente conservati. Dal 2006, insieme alle statue dei quattro Santi protettori, sono esposte al pubblico nel Museo dell’Opera del Duomo presso la sede distac- cata della chiesa di Sant’Agostino. Si riassume qui la cronologia del ciclo completo: 1552 - Cristo Risorto, Raffaello da Montelupo 1556 - S. Paolo, Francesco Moschino 1557 - San Sebastiano, Ippolito Scalza 1560 - S. Pietro, Raffaello da Montelupo 1574 - Pietà, Ippolito Scalza 1579-1590 - Madonna, Eva, Adamo, Fabiano Toti 1579-1587 - S. Tommaso, Ippolito Scalza 1588-1594 - S. Giovanni, Ippolito Scalza 1589-1599 - S. Andrea, Fabiano Toti (1589) e Ippolito Scalza (1599) 1590-1591 - S. Giacomo, Giovanni Caccini 1593-1607 - S. Brizio, S. Costanzo, S. Rocco, Fabiano Toti 1595-1600 - S. Matteo, Giambologna (1595) e Pietro Francavilla (1600) 1603-1605 - Angelo Annunciante, Francesco Mochi 1608 - Annunziata, Francesco Mochi 1608 - Ecce Homo, Ippolito Scalza 1609-1612 - S. Filippo, Francesco Mochi 1618 - S. Bartolomeo, Ippolito Buzi 1627 - Cristo alla colonna, Gabriele Mercanti 1644 - S. Taddeo, Francesco Mochi 1722 - S. Giacomo Minore e S. Simone, Bernardino Cametti 1729 - S. Gabriele e S. Michele, Agostino Cornacchini © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto © Opera del Duomo di Orvieto 20 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Nuove ipotesi su Piermatteo d’Amelia « Quando gli esperti non sanno a chi attribuire un certo quadro, lo assegnano a quel nome. Così per il Quattrocento, abbiamo Francesco di Gentile da Fabriano per la scuola marchigiana; il Bonsignori per i pittori veronesi; Ercole de Roberti per i pittori ferraresi. Per la scuola fiorentina, uno di questi pittori è il cosiddetto Maestro di San Miniato»1. Così, con acume ed estrema capacità di sintesi, Federico Zeri riassumeva il problema annoso riguardante l’esteso e disomogeneo catalogo di opere che nel corso del Novecento era stato individuato, secondo criteri non sempre univoci, formando il corpus assegnato per lungo tempo all’anonimo Maestro di San Miniato. Succede talvolta che questi ipotetici raggruppamenti trovino l’avallo delle fonti documentarie e che si amplino addirittura grazie a nuove scoperte. È stato il caso, davvero emblematico, del cosiddetto “Amico di Sandro”: si intendeva con questa dicitura, che più che un nome convenzionale è una parola polirematica, che il pittore in questione doveva essere un artista che aveva avuto strettissimi contatti con il coevo artista fiorentino Sandro Botticelli. Questo pittore però altri non era che Filippino Lippi, di cui si è poi ricostruito un catalogo fittissimo e altisonante di dipinti autografi. Succede anche però, come per il Maestro di San Miniato, che le indagini, pur lodevoli per l’impegno profuso, non conducano alla soluzione del caso. L’identità del maestro rimane ignota e alcune opere a lui attribuite per via indiziaria sembrano non potersi più riconoscere come eseguite dalla stessa mano. L’opera che qui viene presentata per la prima volta con l’attribuzione a Piermatteo d’Amelia rientra in modo esemplare nella seconda casistica. Intorno al 1956, infatti, Zeri la vede, quasi certamente a un’asta londinese: si procura una foto in bianco e nero [Fig. 1] e annota sul retro della stampa fotografica: “Londra, Christie’s. Già Milano, coll. Shubert”. Circa trentacinque anni più tardi, nel 1988, invitato a scrivere la prefazione al volume collettivo dedicato al Maestro di San Miniato Zeri ha ormai rimosso il ricordo di quest’opera. Non perché il dipinto in sé sia trascurabile, ma perché, evidentemente, l’attribuzione da lui stesso proposta decenni prima al fantomatico artista toscano non gli sembrava, a distanza di molti anni, più plausibile. Fallito il tentativo, Zeri rimanda probabilmente ad altra occasione un’indagine più esaustiva, archiviando la foto nel suo sterminato repertorio di immagini in un faldone dedicato a vari artisti senza nome, tra cui il Maestro della Natività Johnson -altro artista privo d’identità certa2, a cui questo dipinto viene riferito proprio nella medesima circostanza da Gemma Landolfi3. Dopo di che, la tavola in questione finisce nel dimenticatoio. Nessuno la pubblica più. Ma la sua riproduzione fotografica, fortunatamente, giunge fino ai giorni nostri, quando chi scrive la nota all’interno della fototeca appartenuta a Zeri e decide che sia opportuno dedicarle delle nuove ricerche, dato che quelle di Zeri si erano interrotte di certo prima del 1988. Confronti stilistici che, a opinione dello scrivente, appaiono pressoché incontrovertibili, permettono ora di poter ricondurre il dipinto alle mani di altro ben più noto autore, ossia Piermatteo d’Amelia. Anch’egli, come gli addetti ai lavori ben sanno, è rimasto a lungo -praticamente sino a quel momento, giacché solo nel 1987 documenti d’archivio ritrovati a Terni ne consentono l’identificazione sicura4-, conosciuto nell’ambito storico-artistico come l’ineffabile Maestro dell’Annunciazione Gardner, eponimo che trae origine dal capolavoro proveniente da Amelia oggi conservato nell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Quest’artista, a distanza di trent’anni da quel fondamentale ritrovamento documentario, è adesso meglio conosciuto: alcune sue opere sono esposte in prestigiosi musei internazionali, altre all’interno di edifici di rilevantissima importanza storica, altre ancore sono approdate in collezioni private, mentre ulteriori documenti hanno precisato con dovizia di particolari la realizzazione di altre opere nonché diversi dei suoi spostamenti e le permanenze romane5; gli sono state dedicate diverse pubblicazioni, convegni, una mostra monografica con due sezioni distinte allestite una a Terni e l’altra ad Amelia nel 2009; recentissimamente è apparso pure un nuovo volume monografico firmato da Lucilla Vignoli6. Tuttavia, molti aspetti della sua biografia e della sua produzione artistica rimangono ignoti: ci sono ipotesi da valutare, opere da esaminare approfonditamente, connessioni con ambienti artistici da stabilire con maggiore esattezza. Non esistono scorciatoie nella storia dell’arte: non si può prendere il catalogo di opere assegnate a un artista e decurtarne una percentuale, ristretta o ampia, per farla confluire in un catalogo altrui. Infatti questa è l’unica opera, tra le centinaia esaminate che recavano attribuzioni ad anonimi maestri fiorentini coevi che presentano una qualche presunta o palese analogia stilistica con il Maestro di San Miniato, che si rivela già a un primo sguardo evidentemente difforme, autonoma e propria della mano di un altro artista. Non solo: questa è l’unica opera tra le decine e decine esistenti sul tema che si discosta, fornendo una propria originale interpretazione, dal fortunatissimo modello iconografico rappresentato dal dipinto di Pesellino, la Madonna della rondine [Fig. 2], casualmente conservato anch’esso nel Museo Gardner di Boston. Quest’opera, risalente agli anni ‘50 del Quattrocento (1455 ca), è stato uno dei dipinti più riprodotti a Firenze nella seconda metà del XV secolo. Uno studio che pare assolutamente esaustivo7, ha calcolato che la composizione attribuita all’inventiva del Pesellino è apparsa, sostanzialmente identica o con varianti, in trentotto tavole eseguite all’interno di un laboratorio vicino al Pesellino, quindi verosimilmente quello guidato fino alla sua morte da Filippo Lippi e poi dal 1469 da Fra Diamante. Queste copie e varianti sono state prodotte utilizzando un metodo di trasferimento meccanico, dal momento che presentano dimensioni, se non uguali al centimetro, praticamente sempre corrispondenti al prototipo, il quale misura cm. 59,7 x 39,5. Un dipinto conservato al Christian Museum Esztergom (Ungheria), e considerato anch’esso quasi all’unanimità una replica autografa di Pesellino, misura cm. 60 x 36. Le misure del dipinto qui attribuito per la prima volta a Piermatteo sono invece, stando alle annotazioni di Zeri, cm. 51 x 37. Questo leggero scarto in altezza si spiega con il fatto che il dipinto già a Milano e ora di ubicazione sconosciuta presenta un “taglio” all’altezza delle ginocchia della Vergine, che sono invece visibili nella composizione di Pesellino, da cui trasse evidentemente ispirazione Piermatteo. Si deve correttamente definire la sua un’opera ispirata, in luogo di copia con varianti, dall’originale di Boston, perché la tavola piermatteana contempla molte differenze: alcune lievi, altre più macroscopiche8. Innanzitutto lo sfondo: scompare il trono marmoreo con dossale terminante a catino conchigliforme, per far spazio invece al prezioso fondo oro. Peraltro vi è un indizio in più a favore dell’ipotesi di una paternità piermatteana, ovvero le punzonatore delle aureole, sostanzialmente omogenee a quelle impiegate da Piermatteo ai tempi del suo soggiorno orvietano per il Polittico degli Agostiniani [Fig. 3], periodo che coincide secondo l’ipotesi più accreditata- con il rientro in Umbria da Firenze e l’avvio di un’attività autonoma del maestro. Il pannello visto da Zeri nei primi anni Cinquanta nella galleria antiquaria Schubert (quella, con tutta probabilità, gestita da Arnoldo Schubert in via Durini fino al 1957, anno della sua morte, oppure la galleria dei fratelli Gualtiero detto Totò e Renato Schubert sita in Galleria del Toro, vicino a Corso Matteotti) è, chiaramente, successivo di diversi decenni rispetto al prototipo di Pesellino, verso cui denota tuttavia un’aderenza evidentissima a riguardo soprattutto della figura dell’infante. La modellazione è molto delicata e la pennellata fluida. Il disegno preparatorio è visibile in alcuni punti attraverso la pellicola pittorica, denotando anche alcuni piccolissimi ma significativi pentimenti apportati alle linee di contorno, ad esempio in corrispondenza del piede sinistro di Gesù Bambino e anche nella testa della Rondine. Questi dettagli implicano che il pittore che vi mise mano realizzò un’opera di nuova invenzione, non ricalcata da un cartone preesistente. Infatti, rispetto al quadro di Pesellino, il velo trasparente che la Vergine indossa sul capo è decorato da perline, la veste non è tenuta ferma annodandone due lembi ma mediante una voluminosa spilla decorata con perle o pietre preziose (il bianco e nero non permette di distinguere di cosa si tratti); il Bambino non è seduto sulle cosce della madre ma poggia invece su un elegante cuscino e tiene la rondine in pugno in modo ben diverso: invece che stringerla all’altezza del collo in modo da vedersi fuoriuscire l’estremità della tipica lunga coda biforcuta, qui se vedono bene le ali spiegate con il caratteristico piumaggio bicolore (bianco e nero)9<. Il volto della Vergine, inoltre, ha gli occhi socchiusi, a differenza del prototipo di metà secolo dal quale si differenzia davvero non poco per la strabiliante qualità del disegno del volto della Madonna, in assoluto la parte di miglior esecuzione e quella che rivela in maniera davvero convincente notevoli similitudini con altre opere del catalogo piermatteano [Fig. 4]. L’ultimo e decisivo particolare che differenzia il dipinto di Pesellino da quello di Piermatteo è la presenza di due stemmi nobiliari agli angoli inferiori della tavola di quest’ultimo. Questi emblemi araldici valgono quanto e forse più di una firma dell’artista stesso, in quanto rivelano la circostanza della committenza dell’o- 21 pera e quindi l’indubbio valore ad essa riconosciuta già al momento dell’assegnazione dell’incarico al pittore, tanto da richiedere per l’appunto di testimoniare in maniera indelebile il ricordo dell’evento apponendo simmetricamente due armoriali. Mi è stato possibile pervenire all’identificazione di quello di sinistra, appartenente alla famiglia Lenzoni di Firenze. L’arme di destra dovrebbe riferirsi alla sposa di un membro maschio dei Lenzoni, della cui casata nobiliare, estinta forse qualche decennio dopo, si è persa cognizione del blasone. Di conseguenza la data di creazione del dipinto deve coincidere con la data di un matrimonio di un esponente di sesso maschile dei Lenzoni. Dopo aver consultato uno scritto genealogico riguardante la casata Lenzoni10 e aver richiesto la consulenza dell’araldista Francesco Canali, si può ipotizzare, con un ridotto margine di dubbio, che il matrimonio che fornì occasione per la committenza dell’opera possa essere avvenuto tra il 1480 e il 1490, potendo trattarsi in via ipotetica o del matrimonio di Noferi, che in seconde nozze sposò Francesca di Tommaso Magrezzi11, o di quello di uno dei suoi figli, verosimilmente Giuliano (nato nel 1465), dal momento che è il solo di cui si ignorano il nome della consorte e la data del loro sposalizio (ma è certo che ebbe due figli, per cui appare lecita la congettura che si sia sposato quando era sui vent’anni). Più improbabile uno scenario che ricolleghi il dipinto a un altro figlio di Noferi, Simone, unito in matrimonio nel 1490 con Leonarda di Lorenzo Chiarozzi e poi con Oretta di Marco de’ Bernardi nel 1493, mentre è impossibile che si tratti di Antonio, andato a imparentarsi agli Spinelli, di cui è ben noto il blasone familiare. In definitiva, considerando i cambiamenti stilistici che si registrano nell’opera di Piermatteo, in un percorso 22 evolutivo che tende via via a monumentalizzare le figure sacre, prediligendo con il tempo atteggiamenti più statici ed espressioni meno vivaci, penso che sia possibile collocare l’esecuzione a metà degli anni Ottanta: indicazione che appare sufficientemente equilibrata, sia da un punto di vista storico-mecenatistico,12 sia soprattutto sotto l’aspetto critico, guardando in questo caso alle strettissime analogie riscontrabili con la Vergine che occupa la posizione centrale nella Pala dei Francescani [Fig. 4], datata in ragione dei documenti d’archivio rinvenuti a Terni all’intervallo 1483-8513. La questione della datazione non è di poco conto. Se davvero l’autore del dipinto è Piermatteo, come il ductus lineare, i dettagli fisiognomici, la pennellata fluida, le dorature eseguite con estrema dovizia, come tutto, insomma, lascia supporre, allora bisognerà tornare a riflettere e a indagare in maniera assai più accurata sui legami dell’artista con i circoli artistici fiorentini coevi. Infatti, questa piccola tavola assurgerebbe al ruolo di testimonianza imprescindibile all’interno dell’ancora esiguo catalogo di dipinti attribuiti a Piermatteo, in quanto l’unica a legarlo in maniera concreta all’ambiente fiorentino, a una precisa committenza e soprattutto a uno specifi- co milieu culturale. Quest’opera ha molto in comune infatti con certi orientamenti stilistici che cercavano di conciliare novità compositive rinascimentali e preziosismi di memoria gotica di cui l’interprete più noto e prolifico era stato, per un ventennio circa, Filippo Lippi. Si potrebbe perfino spingersi a supporre che questa tipologia di quadro (per formato, per soggetto, per presenza di un fondo oro, per circostanza della commissione) sia stata una delle più richieste all’artista umbro appena affrancatosi dalla bottega lippesca. E qui l’originalità del maestro umbro si rivela appieno, dal momento che agisce prendendo spunto dai modelli sui quali si era a lungo esercitato, ma senza imitarli pedissequamente. Anche la scena dell’Annunciazione all’interno di un ambiente porticato aveva in diverse tavole e nell’affresco del Duomo di Spoleto uno straordinario modello che era stato un grande successo per quella prolifica “azienda manifatturiera” sorta attorno alla figura del carismatico maestro fiorentino morto proprio a Spoleto nel 1469. Quindi è ragionevole affermare che Piermatteo abbia affrontato anche la committenza dell’Annuncia- zione per il Convento francescano dell’Annunziata di Amelia tenendo bene a mente le composizioni lippesche. Tornando all’attività fiorentina di Piermatteo, si possono inquadrare nel medesimo filone della Madonna della rondine anche due opere giovanili già riconosciute anni fa come di mano del pittore amerino, quasi certamente prodotto di committenze private: la Madonna con il Bambino esposta al Museo di San Marco a Firenze14 [Fig. 4] e un’altra tavoletta di analogo soggetto, anch’essa corredata da stemma nobiliare, segnalata per la prima volta a Londra nel 1972 e oggi in ubicazione ignota15. Sono entrambi due dipinti che, per una certa acerba sommarietà che emerge nel disegno dei volti, una predilezione per le pose frontali poi abbandonata in favore della ripresa di tre quarti, denunciano una esecuzione prematura, da fissare verso la prima metà degli Settanta. Appare molto accattivante, sul piano della sfida storiografica, lo scenario che si apre, dunque, prendendo in considerazione questa nuova proposta attributiva. Piermatteo potrebbe aver continuato a soddisfare incarichi e richieste da agiati clienti della società fiorentina anche a molti anni di distanza dalla sua partenza da Firenze. Bisognerà svolgere indagini negli archivi delle famiglie fiorentine dell’epoca: primi fra tutti i Lenzoni, imparentati con famiglie di rango come gli Spinelli, i Del Nero e i Medici di cui acquisirono perfino il cognome (Lenzoni de’ Medici), che erano esponenti della più elevata classe sociale fiorentina. All’epoca dell’esecuzione del dipinto risultano proprietari di un palazzo in Via del Moro, nel quartiere di Santa Maria Novella, rilevato nel 1456 dai Cecchi, e di alcune case nel borgo Santa Trinità: tutti gli immobili erano stati acquisiti da uno dei più illustri membri della dinastia, Lenzone d’Antonio Lenzoni, al quale principalmente si dovettero le fortune economiche accumulate dalla famiglia, poi consolidate e ulteriormente ampliate dal fratello minore Noferi e dai figli di quest’ultimo (Lenzone ebbe infatti soltanto discendenza femminile), in particolare dal primogenito Antonio16. Inoltre, con quest’occasione si vuole avvicinare al catalogo piermatteano anche un’altra opera, della quale finora non si è mai considerata la davvero notevole tangenza con l’Annunciazione Gardner. Sto parlando di un’altra Annunciazione, conservata nelle Gallerie dell’Accademia a Firenze, che ha avuto una travagliatissima storia attributiva: Berenson la attribuì all’allievo di Filippo Lippi detto Maestro della Natività di Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Castello, mentre Scharf per primo vi ravvisò due mani distinte (lo sfondo e l’angelo che valica la porta del Maestro della Natività di Castello mentre l’angelo inginocchiato e la Vergine annunciata di Filippino Lippi, che avrebbe secondo questa ipotesi completato l’opera rimasta incompiuta nella bottega del padre). L’intervento di Filippino venne confermato dalla critica successiva (la datazione al 1472 è di Salvini, in seguito accettata da tutti gli altri studiosi); la mano dell’altro pittore venne in seguito attribuita al Maestro di San Miniato e infine al Maestro della Natività Johnson, con una datazione di questo primo intervento oscillante tra il 1460 e il 1472. Considerata, però, l’eccezionale rassomiglianza tra l’ambientazione architettonica dell’Annunciazione Gardner e il fondale prospettico dell’Annunciazione dell’Accademia [Fig. 5], forse anche in questo caso è lecito espungere il dipinto dai cataloghi davvero un po’ troppo abbondanti dei due maestri suddetti e ricollegarlo, almeno in via dubitativa, ai primissimi anni di attività di Piermatteo a fianco di Fra Diamante, tra il 1469 e il 1472; tanto più per il fatto che l’Annunciazione dell’Accademia deriva in maniera lapalissiana da quella di Filippo Lippi (attualmente all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera) del 1450 circa. La parte centrale del dipinto comprato da Isabella Stewart Gardner sembra addirittura, a ben guardare, una citazione letterale del muraglione di fondo in cotto, con nicchia architravata centrale, che nel quadro di Firenze è tamponata, mentre in quello ubicato a Boston - con un virtuosismo tipico di chi è ormai maestro affermato - diventa un’illusionistica apertura verso un orizzonte infinito. Tutto ciò rende lecita e ancora più plausibile la definitiva ipotesi di studio: Piermatteo venne impiegato nei primi anni della sua permanenza a Firenze nella realizzazione di dipinti che rielaboravano i maggiori successi ideati da Lippi e da alcuni di essi continuò a trarre ispirazione anche quando era divenuto ormai titolare di una propria bottega. Certo qualche punto di contatto con la nutrita e diversificata bottega verrocchiesca sono indubitabili in alcune opere della maturità, ma è pur vero che l’influsso lippesco domina in maniera schiacciante le opere collocate a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, quando il pittore amerino, fresco dell’apprendistato fiorentino, tornava trionfatore in territorio umbro, accaparrandosi committenze di prestigio a Orvieto e Amelia. Anche l’affresco della chiesa di Sant’Agostino a Narni è a torto conside- rato espressione diretta dell’ascendente verrocchiesco, quando invece è possibile individuare modelli assolutamente compatibili nelle opere, per tornare all’inizio della disquisizione, attribuite al Pesellino: si veda ad esempio la Sacra Conversazione conservata al Louvre, datata 1455-57 circa, che presenta nella parte centrale la Vergine seduta su di un trono sopraelevato, contraddistinta da un panneggio della veste dalle sembianze scultoree, che sembra preludere a quello della Vergine affrescata a Narni. Considerazioni simili scaturiscono inevitabilmente, qualora si accetti questa proposta di attribuzione, rimettendo in discussione la supposizione, non avallata in alcun modo da fonti documentarie, che vorrebbe Piermatteo essere stato a Firenze scolaro del Verrocchio, mentre sembra più attendibile l’ipotesi che abbia continuato a militare, per lungo tempo, nelle fila della compagine lippesca, tramite la quale poté entrare in contatto con diverse botteghe fiorentine dell’epoca, tra cui ritengo di poter dimostrare, in un futuro contributo, anche quella di Domenico Ghirlandaio. Saverio Ricci Note 1 F. Zeri, “Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte”, Milano 1987, p. 190. Cfr. inoltre Prefazione, in Il “Maestro di San Miniato”. Lo stato degli studi, i problemi, le risposte della filologia, a cura di Gigetta Dalli Regoli, con la collaborazione di Serenella Castri, Gemma Landolfi, Paola Richetti; Pisa, 1988. 2 Il nome convenzionale di Maestro della Natività Johnson fu proposto da Everett Fahy nel 1966 sulla base di raffronti instaurati con l’Adorazione del Bambino di proprietà della collezione Johnson di Oxford, l’opera meglio conosciuta agli studi. Sulla base dei dipinti raccolti attorno al nome del pittore da parte di Fahy, crebbero a dismisura le opere assegnate all’artista. Successivamente, nel 1990, Anna Maria Bernacchioni identificò l’artista con Domenico di Zanobi: a partire dallo studio della tavola di Domenico di Michelino per la cappella Chellini di San Miniato al Tedesco, la studiosa individuò nella predella un intervento di un suo collaboratore che stilisticamente coincideva con la mano del Maestro della Natività Johnson, al quale peraltro la storiografia artistica aveva attribuito l’Incoronazione della Vergine di Santa Maria del Fortino, ora in Palazzo Roffia a San Miniato, commissionata dalla stessa famiglia a un artista di nome Domenico che tuttavia per ragioni stilistiche e di datazione non poteva essere identificato con Domenico di Michelino. Fu quindi l’intrecciarsi delle strettissime analogie stilistiche con gli indizi documentari, quali la presenza dal 1467 nella bottega di Domenico di Michelino di via delle Terme di un compagno di nome Domenico, a confermare l’identificazione del Maestro della Natività Johnson con Domenico di Zanobi (cit. Bernacchioni). 3 G. Landolfi, ‘Il Maestro della Natività Johnson’, in Il “Maestro di San Miniato”, op. cit., pp. 241–348, in part. fig. 211, cat. 14. 4 Cfr. A. Ricci, Pier Matteo d’Amelia e la Pala dei Francescani. Un documento notarile per identificare l’autore dell’opera, in Arte sacra in Umbria e dipinti restaurati nei secoli XIII-XX, catalogo della mostra, Todi 1987; F. Zeri, Piermatteo d’Amelia e gli Umbri a Roma, in Dall’Albornoz all’età dei Borgia. Questioni di cultura figurativa nell’Umbria meridionale, Atti del Convegno di Studi (Amelia, Teatro Sociale, 1987), Todi 1990. pp. 17-40. 5 Cfr. L. Andreani, Nuovi documenti per Piermatteo d’Amelia, in «Studi di storia dell’arte», 3, 1992, pp. 237-250; E. Lucci, La casa di Piermatteo ad Amelia ed altri dati, in «Studi di storia dell’arte», 14, 2003, pp. 231-240; F. Marcelli, ‘Piermatteo lavora tantissimo’, in Piermatteo d’Amelia e il Rinascimento in Umbria meridionale, catalogo della mostra, a cura di V. Garibaldi, F.F. Mancini, Cinisello Balsamo (Milano), 2009, pp. 37-55. 6 Piermatteo d‘Amelia. Un maestro umbro tra Firenze e Roma, Perugia, Fabrizio Fabbri Editore, 2016. 7 Megan Holmes, “Virgin and Child with a Swallow” in Eye of the Beholder, edited by Alan Chong et al., Boston 2003, (ISGM and Beacon Press), p. 49. 8 Si è ipotizzato che lo strumento utilizzato da altri artisti di bottega -tra i quali spicca in particolare il cosiddetto Pseudo Pier Francesco Fiorentino, al quale sono state ascritte negli anni numerose copie e versioni della Madonna della Rondine- sia stato un cartone ricalcato presumibilmente sul pannello oggi nel Museo Gardner o su quello di Esztergom, strofinato poi sopra gli strati preparatori delle altre tavole con polvere di carbone. L’origine degli studi su Pseudo Pier Francesco Fiorentino risale al contributo di F. Mason Perkins, Nuovi appunti sulla Galleria Belle Arti di Siena, in “La Balzana”, II, 1928, pp. 183 – 203: il celebre storico dell’arte statunitense coniò in tale articolo quest’appellativo convenzionale sotto il quale riunì un cospicuo gruppo di opere che Bernard Berenson (in The Florentine Painters of the Renaissance, New York - London, 1900, pp. 132 – 134) aveva attribuito a Pier Francesco Fiorentino. 9 Segnalo in quest’occasione un’altra replica dal dipinto di Pesellino anch’essa di ottima fattura, assegnata in passato a Fra Diamante (cfr. Miklòs Boskovits, Un dipinto poco noto della collezione Lanckoronski e il problema di Don Diamante, in “Folia historiae artium”, IV, 1998, pp. 159-172) che mostra qualche punto di contatto con l’opera qui attribuita per la prima volta a Piermatteo d’Amelia. 10 Cfr. L. Randi, Genealogia e storia della famiglia Lenzoni, Firenze, Tip. Salesiana, 1909. 11 Stando alle ricerche archivistiche compiute da Randi a inizio Novecento, questo matrimonio fu celebrato nel 1485. Cfr. Randi, op. cit., tav. II. 12 Come osservato in maniera inconfutabile da Francesco Canali, che ringrazio pubblicamente per la sua disponibilità, un indiscutibile termine ante-quem si può fissare perlomeno al 1494: in quell’anno infatti Giuliano, figlio di Noferi, venne insignito dal re di Francia Carlo VIII della dignità cavalleresca col privilegio di unire alla propria arme il cosiddetto “capo d’Angiò”, ovvero, in termini araldici, d’azzurro a tre gigli d’oro posti fra quattro pendenti di un lambello di rosso. Da quell’anno dunque la famiglia adottò uno stemma “differente” da quello che appare nel dipinto su tavola qui presentato. Cfr. ad eempio Nuovo giornale de’ letterati, Tomo XI, Nistri, Pisa 1825, pp. 119. 13 Per ulteriori confronti con opere datate successivamente alla Pala dei Francescani di Terni e che con essa manifestano indubbi nessi stilistici ,si rimanda al precedente saggio: S. Ricci, Un lascito, due iscrizioni, la fortuna del modello e il riuso del cartone: il Redentore di Orte restituito a Piermatteo d’Amelia, in “Predella. Rivista di arti figurative”, a. II, nr. 4, 2011 (2012), numero monografico Su Lorenzo da Viterbo e Piermatteo d’Amelia. Ricerche in Abruzzo, Lazio, Marche, Umbria, a cura di Gerardo de Simone e Fabio Marcelli. Felici Editore, Ghezzano (Pisa), 2012, pp. 167-190. 14 “Piermatteo d’Amelia e il Rinascimento nell’Umbria meridionale” a cura di V. Garibaldi, F. F. Mancini, Cinisello Balsamo 2009, pp. 118-119 15 L’opera è stata per la prima volta accostata a Piermatteo d’Amelia da Filippo Todini, La pittura umbra dal Duecento al primo Cinquecento, Milano 1989. Venne offerta all’asta a Londra da Christie’s come opera di Fiorenzo di Lorenzo (Asta 8 Dicembre 1972, lotto 17). 16 Antonio, primogenito di Noferi, era nato nel 1459 e seconda la testimonianza del Randi “giunto all’età conveniente si unì in matrimonio con Francesca di Niccolò Spinelli [...]. Nella professione di setaiolo, in cui era stato iniziato dal padre, fece lauti guadagni; e dalle scritture risulta che egli acquistò molti beni immobili” (Randi, op. cit., p. 21). Sul mecenatismo della famiglia Spinelli cfr. P. Jacks, W. Caferro, The Spinelli of Florence: Fortunes of a Renaissance Merchant Family, Pennsylvania State University, 2001. L’archivio familiare è ancora in parte conservato a Quarrata (Pistoia), in una villa di proprietà degli eredi Lenzoni de’ Medici: è costituito da un piccolo fondo di pergamene, 40 pezzi (secc. XIV-XVII) e da circa 350 buste, filze e registri (inizi sec. XVI-XIX), che comprendono in grandissima parte libri contabili (entrate e uscite, giornali, mastri, ricevute, saldi) relativi soprattutto all’amministrazione delle fattorie e delle aziende di famiglia. Manifestazioni a Chianciano in ricordo della I Guerra mondiale N ell’ambito delle celebrazioni relative al 90° anniversario dell’Unione Nazione Ufficiali in Congedo d’Italia (UNUCI), associazione istituita con Regio Decreto legge del 9 dicembre 1926, il Centro Studi Culturali e di Storia Patria di Orvieto, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, Sezione di Spoleto e del suo presidente, cap. Freg. Sandro Galli, ha allestito la Mostra “Ricordando i percorsi della Grande Guerra” presso Villa Simoneschi in Chianciano Terme. L’allestimento, inaugurato il pomeriggio del 29 ottobre come da programma UNUCI, dal presidente nazionale della stessa UNUCI, gen. C.A. Rocco Panunzi, e dal sindaco, Andrea Marchetti, alla presenza di tutte le autorità, consta di 175 quadri che riproducono i disegni realizzati da Achille Beltrame per la Domenica del Corriere tra il 1915 ed il 1918 ed èrimasta fruibile con ingresso gratuito fino al 13 novembre. L’evento ha inteso fornire al visitatore ed agli studenti sostanziali spunti di riflessione intorno alla difficile vita di trincea, ai mezzi di combattimento ed agli sforzi compiuti anche per il trasporto degli armamenti lungo gli impervi sentieri montani, ma anche intorno alle gesta di eroismo compiuti dai nostri ragazzi, anche giovanissimi (nati nel 1900), sui vari fronti. La Mostra è arricchita dai model- lini delle navi della Grande Guerra realizzati dalle espertissime mani di Giampiero Tini, socio dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, Sezione di Perugia. Il 13 novembre, all’interno della Cripta di Santa Maria della Stella in via San Michele, è stato presentato il libro di Mario Laurini e Anna Maria Barbaglia “Dagli Stati Preunitari a Caporetto, alla Vittoria”. Con gli Autori, il sindaco del Comune di Chianciano Terme, Andrea Marchetti, il presidente della Sezione territoriale UNUCI di Chianciano Terme, ten. Massimo Palazzi, il presidente nazionale UNUCI, gen. C.A. Rocco Panunzi, il presidente dell’Università dei Saggi “Franco Romano”, gen. C.A. Giuseppe Richero, il delegato regionale toscano UNUCI, gen. Div. Calogero Cirneco, la pronipote del patriota Ciro Menotti, Anna Maria Menotti, la nipote dell’eroe Luigi Rizzo, Giuseppina Rizzo di Grado e di Premuda, il presidente del Comitato Internazionale Lanzarotto Malocello, Alfonso Licata, lo storico e geografo militare ten. colonnello Silvio Manglaviti, con la moderazione di Guido Palamenghi Crispi, pronipote dello statista Francesco Crispi. Nel corso dell’evento sono stati ricordati i caduti chiancianesi della Grande Guerra. Una valida ed interessante realizzazione in terra toscana, promossa ed organizzata da appassionati umbri. 23 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Gle caschò la jocciola et morì… Di alcune patologie e rimedi rinascimentali O ggi alle strutture sanitarie ci si rivolge per un’infinità di ragioni che un tempo venivano affrontate in altro modo. E non possiamo pensare di affrontare i problemi della cura delle malattie (ma anche quelli della tutela della salute) senza riflettere a quanto e a come è cambiato il modo di curarsi. Q uesta considerazione di Luciano Osbat sulla “nuova sanità”, mi ha indotto ad affrontare un argomento che da tempo mi incuriosiva, e cioè quello della sprovveduta essenzialità della medicina medievale e rinascimentale. Queste parole, che per dirlo con Sciascia, sono di una chiarezza che raggiunge l’ovvietà come accade quando la meditazione è severa e serena, costituiscono un efficace approccio alla comprensione di alcuni dei molteplici problemi che stanno alla base dei cambiamenti delle strutture sanitarie pubbliche. L’accelerazione dello sviluppo scientifico, e la conseguente adozione di nuove tecnologie, pur portando al miglioramento della qualità delle cure, ha infatti implicato l’introduzione di attrezzature e prodotti sempre più articolati e costosi; cioè di una realtà organizzativa che, essendo caratterizzata da significativi livelli di complessità, in quanto più specializzata e specialistica, necessita di adeguate forme di strutturazione e coordinamento. In definitiva, la tipologia dei piccoli ospedali di 50-100 anni fa, non potendo più rispondere alle articolate esigenze della medicina attuale, sta cedendo il passo, con tutte le problematiche del caso, ai grandi sistemi super organizzati e super complessi. Le piccole, vecchie strutture, invece, potrebbero/dovrebbero ritrovare una funzione adeguata alle loro dimensioni e potenzialità (pronto soccorso, medicina interna di base, day surgery). Ciò premesso, a conferma della tendenza alla complessità che, collegata al dilatarsi delle conoscenze scientifiche, caratterizza la nostra società, vorrei riportare alcuni documenti risalenti al tempo in cui le cause dei decessi, escludendo gli eventi traumatici, potevano rientrare in un ridotto ed essenziale ventaglio di patologie. Patologie delle quali non si comprendevano le ragioni e che, pertanto, venivano indicate con il nome del sintomo: flusso, apostema, puntura, pornellata. Per contro, nei pochi casi in cui si presumeva di conoscerne i motivi, si cadeva, come nel caso della goccia, in definizioni che tradivano la grossolana conoscenza dei meccanismi biologici. Le notizie di cronaca utilizzate in questa breve ricerca - che oltre alle indicazioni dei decessi contengono interessanti note di carattere sociale e culturale - sono prevalentemente tratte da un diario, redatto negli anni che vanno dal 1482 al 1514, da ser Tommaso di Silvestro, notaio e canonico della cattedrale di Orvieto. Flusso, fluxo, fluzo Il termine flusso, fluxo, fluzo, voce che ricorre spesso nel diario, è certamente da riferirsi a casi di emorragie esterne di varia natura: epistassi, emottisi, rettorragia, menorragia, 24 Salasso terapeutico: li si butti qatro coppe di sangue et subito guarirà… etc; ma non si può escludere che indicasse anche dei fenomeni a queste assimilabili come, ad esempio, il flusso dissenterico. La genericità dell’uso del vocabolo non permette di relazionarlo né a una specifica patologia, né ad una precisa branca specialistica medica. Una figluola grande de x anni morì de fluxo ogie, che fu mercordì, a dì xv de jugno 1502. Fu dicta die sepellita in Sancto Domenico.1 La Helisabetta, figluola de madonna Diambra, giovene de XXIIJ anni o circha, quale non era ancora maritata, morì de fluxo jovedì ad nocte, et ogie che fu venardì a di cinque de septembre 1505, fu sepellita in Sancto Francesco.2 Teodorico de P.° Paulo de Paulo, cittadino d’Orvieto, buono abbichista et valente in 25 simile arte et buono ciptadino, de buono naturale, morì ogie che fu venardì a di XVIIIJ de luglo 1504 et morì de pò pranso, et dieta die là verso compieta fu sepellito in Sancto Domenico. Stecte male circha ad xvij dì de fluxo et de quello morì.3 Una figluola di Franceschino de P.° de Meco, de 6 anni o 5, morì de flusso ogie che è venardì ultimo de agosto.4 Bartholino, hospitaliere dell’ospitale de’ calzolare, quale era marito dell’Agnila zoppa et mio vicino, morì jovedì ad nocte, et lo venardì a dì xij de jugno fu sepellito in Sancta Maria d’Orvieto; morì de fluxo: andò ad Roma et alla sua tornata se infermò; pigiò mezo dattolo de cassia et sì lo menò tanto forte che mai restitte cinque dì che sempre andava, adeo che morì.5 Postema o apostema Postema - dal greco apóst –ema (aphistánai) uscir fuori, gonfiarsi, andar via, quindi “ciò che se ne va dal corpo” - è il termine con il quale la medicina popolare ancora oggi indica l’ascesso, la piaga o la generica tumefazione, anche tumorale. Nella lingua italiana è usato talvolta con significato contiguo a indicare l’orzaiolo, l’otite, l’indigestione. Nell’ambito dialettale della Tuscia lo troviamo registrato con significato analogo a designare i lividi e le ecchimosi (Montefiascone e Blera),6 oppure una malattia che colpisce il cuore e il fegato (Viterbo). In italiano, in forma traslata equivale a dispiacere, grossa preoccupazione, grave fastidio. E in questa accezione è presente a Blera per indicare una persona noiosa o petulante, ma anche in altre località del viterbese tra cui Piansano: “ch’ apostèma, ‘sto fjo! ”.7 fiera de Pasqua magiure passata, ad Fuligne, et retornò ad piede. Gle colse certa innundantia d’acqua et prese sì terribile humidità, che se infermò et visse XXIIIJ giorni: haviva una postema allo stomacho, che non finiva mai de aurlare et de fioctare forte mente et terribile mente. Morì lunidì ad sera alle tre hore de nocte, et lo martedì a dì XIIIJ de magio 1504 fu sepellito in Sancto Domenico de pò vesparo.9 Pontura Il termine puntura, pontura o punctura, che per il Tommaseo è sinonimo di pleurite - la pleuritide è apostema dentro le coste, chiamasi la puntura [...] pleuritide o puntura che chiamano - veniva utilizzato per indicare una generica e vasta gamma di malattie del sistema respiratorio: la bronchite la polmonite, la pleuropolmonite e anche la peste polmonare. Il preciso riferimento alla pleurite è dovuto a un sintomo caratteristico di questa malattia, un dolore toracico improvviso, una sensazione dolorosa acuta che tende a peggiorare quando il malato respira o tossisce, da cui l’appellativo pontura. La conferma che la voce pontura indicava malattie dell’apparato respiratorio si rileva sia nei pochi stralci sopra riportati, ma anche dai molti altri decessi causati da questa malattia e registrati nel diario di ser Silvestro, quasi tutti avvenuti durante i mesi invernali, e nei quali, tra l’altro, compare una significativa attenzione relativa agli sbalzi termici: rischaldare et refredare, febre freda e calda. Mese de frebaro del 1490 [...] morì lo decto Rofino, figliolo d’essa Maria Helisabetha et morì nante vespero et depo fu facto lo noctorno in casa, et lo jovadì fu sepellito de pò messa maiure. Fuoro curati la matre et lo figluolo da dui medici, ciò è da mastro Giuhanni spagnuolo et da mastro Helya hebreo, medico salariato dal Comune et non li scamparo. Se disse che moriero de punctura et febre pestilentiale incognita: ma la matre se crede che morisse per la malenconia grande quale prese per lo figluolo suo.10 La Helisabectha mia amorosa et amatissima matre, ciò è di me ser Tomasso di Silvestro canonico de Sancta Maria, mòri sabbato ad nocte intra le sey et le sette bora: et la domenica che fu lo dì sequente a dì nove del mese di febraro del 1500 fu sepellita in Sancto Domenico; l’anima della quale se ripose in pace. Fu donna de età de septanta nove anni o circha: stecte male tre dì naturale: se infermò lo mercordì passato, ciò è a dì cinque de pò cena et visse insino al sabbato ad sera ad presso alle sette hore; se infermò primo de certa febre freda, da puoi gle prese la calda che mai l’abbandonò, et lu dì nante che ley morisse gle se scoperse la punctura socto alla zinna.11 La Girolama, mogie che fu del figlo de Francesco [...] morì venardì ad nocte et lo sabbato a dì cinque de novembre [1500], fu sepellita in Sancto Gihuanni. Era de casa lo Pontarino et era andata ad Roma al giubileo, et alla sua tornata se infermò et morì de pontura.12 Paulecto de Gostanzo da Jalche, da Orvieto habitante, venne la novella ogie che fu lo martedì de carnasciale, a dì xx de frebaro 1504, come lo decto Paulecto era morto in uno castello chiamato Craparuola, in quel de Roma; et dixise che era morto domenica passata a dì XVIIJ del presente mese, et che era morto de punctura lui et haviva exercitato, circha ad dui mesi passati, de trafficare, ciò de de menare ad Roma bestie baccine. Comparava et revendiva, et in tale exercitio lui se debbè rischaldare et refredare, et pigiò la punctura.13 Antonio de mastro Bartholomeo, giovene de 30 anni, morì de pontura ogie che fu venardì, a dì XIIIJ de febraro 1505, et morì jovedì ad nocte, et ogie che fu venardì a dì decto fu sepellito in Sancto Angnilo, quale era artisciano de fare canape concia, ciò è lo decto mastro Bartholomeo suo patre, et lui, era stato mulactiere del Castellano et anque usava [...] de far la canape concia.14 Gregorio di Juzo da Tode, quale habitava in Orvieto et era buon maestro de frabo ad fare gomere, accette, roncie et falcie et altre cose, morì de pon- La Paula, figluola de Bernardino de’ Martinelli, morì la domenica ad nocte de carnasciale intra le sey et le septe hore de nocte, che fu a dì XIIIJ de febraro 1496. Era maritata: morì che ebbe una postema dentro nella boccha.8 Pietropaulo de Teodorico, giovene bello et virtuoso, de età de XXVJ [...] era spetiale et andò ad Fuligno questa Ammalati che, per dirlo con Tommaso di Silvestro, hanno preso la “pornellata” tura ogie che fu mercordì a dì XVIIIJ de marzo 1505, et lo jovedì a dì xx fu sepellito in Sancta Maria maiure d’Orvieto.15 Grazie ad Andrea Guadagnini, notaio di Montefiascone, siamo a conoscenza di uno dei rimedi consigliati per questa malattia, terapia che, ai nostri occhi, appare comunque alquanto preoccupante. Ad mal di pontura [...] Fate che non magni cosa nesciuna salvo una minestra di panatella et non bevi, et si pure vole bevere che bevi un poca di aqua cotta in termine di otto o nove di, et quando sello sente subito li si faccia una sdrifulatio si lu sdrefula li stia direto et sdrefulato dinanti in nelle coste, et facto questo li si butti qatro coppe di sangue et che dorma al contrario dove ave el decto male subito guarirà.16 Quindi si doveva bere poco per otto o nove giorni - andando così incontro alle implicite complicazioni di una disidratazione - e poi, dopo una sdrifulatio [massaggio?], si doveva procedere con un salasso, pratica in grado di estrarre dal corpo gli “umori peccanti, concotti e putredinosi”. Resta la difficoltà di capire quale, tra malattia e terapia, si rivelasse fattore maggiormente pernicioso. Pornellata Nel diario di ser Tommaso, redatto nel periodo in cui la peste si riproponeva ciclicamente con fasi di due o tre anni, si trovano registrati tantissimi decessi causati dal letale contagio, ma solo in un caso il morbo viene indicato con un termine, verosimilmente riferibile al dialetto dell’area orvietana, che rivela tutta l’immediatezza dell’inventiva popolare. Mastro Giuhanni, quale era forestiero et era marito dell’Agnila zoppa, et era spedaliere et stava nello spedale de’ Calzolare, qua, qui ad sancto Domenico ad presso ad casa mia; quale mastro Giuhanni se delectava de andare medicando l’ammorbate et era cerusico; finaliter lui volse andare ad guardare et medicare lo sopradecto Francescho dell’Alberici, ei se prese la pornellata, idest se infermò lui de peste et visse cinque dì de po’ la morte d’esso Francesco. Et morì esso mastro Giuhanni de peste a dì primo de frebaro 1486, et non visse se non dui dì.17 L’ospedaliere e cerusico mastro Giovanni, che andava medicando l’ammorbate, rimase quindi contagia- Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 cerebrale, o ictus, e dell’infarto. E certamente questa astrusità agì da stimolo alla fantasiosa presunzione popolare che, disinvoltamente, avventurandosi in spazi al di là della conoscenza e della ragione, inventò la storia di una goccia di umore che, staccandosi dalla testa e cadendo nel cuore, determinava il fatale accidente.22 Da ciò il nome di goccia, gocciola o iocciola, e anche l’interiezione dialettale “gocce”, con valore analogo alle italiane “accidenti” e “colpo”. Bernardino del Chirico ricorda che a Orvieto si usava l’espressione “ti pigliasse una goccia” allo stesso modo di “ti pigliasse un colpo”. Ma del colpo che “pigliò” a Cristofano de Cianfro - homo che nella sua vecchiezza di 67 anni o più, dopo aver preso in moglie una giovenecta de 24, con lei riuscì a convivere, o forse resistere, soltanto 22 giorni pur nella drammaticità dell’evento, grazie alla narrazione più o meno maliziosa del cronista, riusciamo a immaginarne la causa. Ma forse i maliziosi siamo noi… Giancarlo Breccola (da La Loggetta) Ricetta per guarire il “mal di pontura” (ASV, Notarile di Montefiascone, prot. 31, c. 10v) to e prese anche lui la pornellata, cioè si ammalò di peste. L’etimologia del termine è ipotizzata da Ranieri Fumi nel glossario aggiunto alla edizione del Rerum Italicarum Scriptores: “In dialetto pornélla è susina o prugna, quindi pornellata darebbe l’idea di qualche cosa che abbia attinenza con le pornélle. Sapendo che la manifestazione più caratteristica della peste, alla quale il cronista si riferisce, è la tumefazione delle ghiandole ascellari ed inguinali, si può pensare alla somiglianza di questi bubboni, che appaiono ben distinti sotto la pelle, con una manata di pornélle”.18 Goccia Memoria come Francesco del Nobile a dì xv de dicembre 1497, che fu de venardì, morì de iocciola. Gle cascò la iocciola nella taverna, ciò è in casa sua, che vendiva lo vino, et non visse dui hore. Fu sepellito lo sabbato in Sancto Andrea a dì xvj de decembre.19 Xpofano de Cianfro morì sabbato ad nocte a dì 6 de jugno [1500]: era homo de 67 anni o più: volse piglare donna et prese in sua vecchiezza una giovenecta de 24 anni et dotolla de fiorini 50, adeo che ce stette con essa 22 dì: et sì gle caschò la gocciola et morì. Fu la domenica a dì 7 sepellito in Sancto Stefano.20 Angnilo de Giuhanni de P.° de Pauluzo, artisciano et mio vicino, homo de 60 anni o circha, essendo de’ Conservatori, se retrovò ad fare lo bossolo dello stato. Fornito de fare lo stato, se infermò et visse da sei dì. Gle caschò la jocciola et morì ogie che fu sabbato a dì 25 de jugno 1502: fu sepellito in Sancto Domenico.21 Incomprensibili, in quanto non relazionabili a un evidente meccanismo di azione-reazione, dovevano risultare all’epoca le cause dell’apoplessia Note 1 RIS, vol. II, Diario di ser Tommaso di Silvestro, p. 120. 2 Diario II, p. 293. 3 Diario II, p. 261. 4 Diario II, p. 103. 5 Diario II, p. 133. 6 Zerbini, Giorgio, La buca della strega, Montefiascone; Dizionario di Blera. 7 Bordo, Gioacchino, La Loggetta. 8 Diario I, p. 48. 9 Diario II, p. 255. 10 Diario II, p. 13. 11 Diario II, p. 129. 12 Diario II, p. 149. 13 Diario II, p. 246. 14 Diario II, p. 274. 15 Diario II, p. 275. 16 A.S.V. (Archivio di Stato di Viterbo), Notarile di Montefiascone, prot. 31 (14951497), c. 10 verso. 17 Diario I, p. 10. 18 Fumi, Ranieri, a cura di, Glossario di voci poco note, corrotte ed anche sconosciute che ricorrono nel “Diario di ser Tommaso di Silvestro”, pp. 508-509. 19 Diario II, p. 97. 20 Diario II, p. 133. 21 Diario II, p. 181. 22 Battaglia, ad vocem. 28° EDIZIONE DEL PRESEPE NEL POZZO iI Quaranta Giorni TESTIMONI NIZIA IL CICLO DEI D al 23 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017 si svolgerà ad Orvieto la 28^ edizione del Presepe nel Pozzo, il presepio-evento sotterraneo del Pozzo della Cava. Concluso il ciclo, amatissimo, delle “narrazioni”, si inaugura con questo allestimento quello dei “testimoni”, con alcuni personaggi secondari che raccontano il primo Natale dal loro insolito punto di vista. Quest’anno saranno le vicende del vecchio Simeone ad accompagnarci lungo le grotte del Pozzo della Cava, ricche di ritrovamenti archeologici etruschi, medievali e rinascimentali. Saranno i suoi ultimi quaranta giorni, dalla nascita di Gesù alla sua presentazione al Tempio, a condurre il visitatore, attraverso alcune tappe fondamentali, all’ultima grande grotta del complesso ipogeo, alta 14 metri, dove finalmente si potrà assistere all’incontro tra il vecchio e il neonato Messia. Non mancheranno, naturalmente, né la precisa ricostruzione storica di usi e costumi della tempo di Gesù, né i personaggi meccanici a grandezza naturale, eseguiti da professionisti degli effetti speciali teatrali e cinematografici, elementi che hanno reso famoso l’evento natalizio. Dopo molte edizioni, ritornerà anche la Natività all’interno del Pozzo della Cava, allestita grazie alla collaborazione con alcuni speleologi locali. Tante interessanti novità Nuovi temi: concluso il ciclo triennale delle “narrazioni”, si inaugura con questo allestimento quello dei “testimoni”, in cui sono dei personaggi secondari a raccontare il primo Natale. Nuovi personaggi: ad arricchire il presepio 2016-2017 ci saranno anche nuovi realistici volti in silicone, come quello della la profetessa Anna realizzata da Carlo Diamantini e quello di Maria, opera di Andrea Giomaro (autore degli animatroni del nostro presepio). Un nuovo Gesù Bambino: uno dei bambinelli presenti nelle varie scene del presepio è stato realizzato lo scorso ottobre dalla nota artista britannica Samantha RoseHarker, esperta di reborn, la tecnica della rigenerazione le bambole in vinile facendole diventare dei bebè molto realistici. La Natività nel Pozzo: dopo 14 anni la scena della Natività ritorna all’interno del Pozzo della Cava, grazie allo speleologo Marco Santopietro che allestirà tutto calandosi all’interno del pozzo con delle corde, sospeso a oltre trenta metri sopra la sorgente. Dal Natale 2003, infatti, anno del “referendum” tra vecchi e nuovi presepi, la Natività è stata sempre allestita nell’ultima grotta del percorso, che quest’anno ospita la scena della presentazione al Tempio. La colonna sonora: l’ultima sorprendente scena del presepio avrà per colonna sonora un brano della compianta Giuni Russo, che mise in musica le parole di San Giovanni della Croce; il brano è stato incon- sapevolmente suggerito da Grazia di Michele che lo ha eseguito al Festival del Dialogo 2015 (nello stesso anno la cantante aveva visitato il Pozzo della Cava per la mostra di Orvieto in Fiore realizzata proprio all’interno delle nostre grotte). Il testimonial: è il celeberrimo volto orvietano di Sergio Riccetti (figurante storico del corteo del Corpus Domini) a impersonare Simeone il Vecchio sul materiale promozionale del Pozzo della Cava; a lui i ringraziamenti di tutto lo staff del Pozzo della Cava. 28° Presepe nel Pozzo - i Quaranta Giorni dal 23 dicembre 2016 all’8 gennaio 2017 orario continuato dalle 9.00 alle 20.00 Pozzo della Cava - Via della Cava 28 05018 Orvieto (TR) - 0763.342.373 [email protected] www.pozzodellacava.it/presepe Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 I territori di confine tra Umbria e Lazio: luoghi di storia, costume, tradizioni comuni C i sono territori tra l’Umbria e il Lazio - Comuni, frazioni, Parrocchie, località - dove le differenze tra una Regione e l’altra, tra una Provincia e l’altra, tra una Diocesi e l’altra scompaiono. E la stessa distanza che separa due città sembra svanire: i dialetti si avvicinano fin quasi a diventare un unico linguaggio, un unico accento; la gente non si sente umbra e laziale ma piuttosto parte della stessa Provincia del Patrimonio; secoli di storia dagli Etruschi sino ad oggi hanno creato una popolazione che si sente unita dalle stesse abitudini, dalle stesse necessità e dagli stessi problemi. L’Orvietano e la Tuscia viterbese sono territori che hanno in comune un Medioevo durante il quale i castelli di principi, duchi, conti e baroni vengono a caratterizzare tutte le alture; attorno a quei castelli si sviluppano piccoli centri abitati che possono assicurare un minimo di protezione dai pericoli e un minimo di ristoro dai miasmi delle valli; centri dove si può vivere, lavorare, allevare animali, coltivare la poca terra a disposizione. Sono gli stessi territori scelti dagli Ordini monastici più importanti (Benedettini, Agostiniani, Francescani) per costruire i loro insediamenti, che pian piano diventano nuclei di vita di fede ma anche luoghi produttivi e punti di riferimento economico e culturale. Quei territori dove la gente si incontra e si unisce per aiutarsi, per sostenersi, per lavorare, per pregare. Sono territori dove i confini coincidono con le proprietà feudali e mutano con il mutare di quelle, fino a confondere chi ci vive sulla sua appartenenza Fig. 1. Chiesa Castellonchio 26 ad una Delegazione piuttosto che ad un’altra, ad una Diocesi piuttosto che ad un’altra. Una parte di questi territori, nell’area tra il Viterbese e l’Orvietano, in particolare quella parte dell’antica Diocesi di Bagnoregio che confina con l’antica Diocesi di Orvieto e che comprende oggi i Comuni di Bagnoregio, Lubriano e Castiglione in Teverina è stata oggetto di un recente studio. Questo territorio, dove tra Medioevo ed Età moderna si possono contare 97 Chiese, 21 Conventi e Monasteri, 31 Confraternite, 6 Ospedali, diversi monti frumentari e poi eremi, cappelle e oratori. Uno studio particolareggiato - come si dirà più avanti - è partito dalla documentazione che consente di ricostruire la loro storia ed è giunto a rilevare sul terreno quello che rimane di quegli edifici. Sono queste Chiese e questi “luoghi pii” che hanno lasciato la testimonianza della loro esistenza e della vita della gente comune, quella che non vive solo dentro i castelli e nelle corti, quella che si incontra per strada e si ritrova la domenica a messa o all’oratorio, che lascia un’offerta per i più poveri, che lavora e si organizza per aiutare chi ne ha più bisogno, che costruisce chiese e santuari per invocare un aiuto o una protezione dalle calamità. Quella gente che, quelle chiese e quegli oratori e quegli ospedali, li ricostruisce dopo il terremoto del 1695, e dopo le tante scosse che lo hanno seguito. Sono numerosissime le testimonianze lasciate negli archivi storici che attestano la grande diffusione di questi “luoghi pii” (Conventi e Fig. 2. Natività Monasteri, Confraternite e Ospedali, Monti di pietà e Monti frumentari, Orfanotrofi e Case di ricovero): uno studio di Luciano Osbat1 ha documentato come alla fine del XVIII secolo, quando il numero di queste istituzioni era già sensibilmente diminuito, i luoghi pii nell’Alto Lazio fossero almeno tre volte più numerosi delle Parrocchie. Hanno svolto un ruolo importante nel campo della socializzazione: la confraternita e la sua chiesa sono il luogo abituale dell’espressione della vita religiosa mentre la parrocchia lo è solo per le ricorrenze straordinarie come il precetto pasquale e la festa del patrono o per la celebrazione del battesimo e del matrimonio. Hanno una funzione centrale nella vita economica della comunità in relazione alla gestione del patrimonio fondiario e immobiliare posseduto (al quale sono interessate le famiglie che afferiscono al luogo pio attraverso affitti ed enfiteusi), sia per le provvidenze che mettono a disposizione della popolazione più bisognosa (sia che si tratti di affamati, ammalati, condannati o povere zitelle). Hanno un ruolo importante nella produzione di un patrimonio di beni architettonici e storico-artistici di straordinaria importanza. E poi ci sono le parrocchie attorno alle quali ci si raduna per l’amministrazione dei Sacramenti (battesimo, cresima, matrimonio, morte), per l’attività del clero nella cura d’anime, per il controllo delle espressioni e delle modificazioni del costume e della sensibilità religiosa dei fedeli, per l’impegno sociale a favore di tutti i devoti. Si possono provare testimonianze della vivace attività di questi enti nel campo della pubblica assistenza, della beneficienza, del sostegno economico e morale alla popolazione2. Tutte queste chiese e questi luoghi pii sono cambiati nel corso del tempo, hanno spostato e trasferito le loro sedi, hanno modificato il loro aspetto e la loro organizzazione, il loro patrimonio e le risorse a disposizione, ma non hanno mai smesso di essere un punto di riferimento per gli abitanti di un territorio, al di là della fede religiosa, al di là dell’osservanza dei precetti o delle disposizioni ecclesiastiche e civili, al di là dell’appartenenza ad un comune, ad una contea, ad una baronia, ad una parrocchia, ad una diocesi. Hanno fatto e continuano a fare la storia dei popoli. Uno degli impegni che quest’anno ha coinvolto il Centro di documentazione della Diocesi di Viterbo è stato il censimento di tutti le Chiese, i Conventi, i Monasteri, le Confraternite, gli Ospedali e gli Orfanotrofi presenti dal Medioevo ad oggi - come già accennato - nel territorio dell’antica Diocesi di Bagnoregio che si estendeva da Lubriano e da Sermugnano (frazione di Castiglione in Teverina), fino a Bomarzo e a Vitorchiano (Diocesi oggi unita a quella di Viterbo). Il censimento non si è limitato ad elencare i luoghi pii presenti in questo territorio, ma per ognuno di essi ha rintracciato le poche notizie storiche presenti nella bibliografia corrente ed ha individuato e schedato tutte le fonti archivistiche conservate nell’Archivio storico dell’antica Diocesi di Bagnoregio (oggi presso il Centro di documentazione per la storia e la cultura religiosa a Viterbo), quelle riportate dal censimento del 19423 e ancora conservate nelle Parrocchie di appartenenza, quelle di pertinenza dei monasteri soppressi e conservate negli archivi comunali: un insieme di documentazione sino ad oggi mai individuato in maniera così sistematica che potrà consentire agli studiosi e agli appassionati di ricostruire le vicende storiche del territorio. Tra tutte le istituzioni censite, alcune chiese site al confine tra Lazio e Umbria nel 1565 passano dalla Diocesi di Orvieto a quella di Bagnoregio e viceversa. Si tratta nel primo caso della Madonna del Castellonchio e della Natività di Maria entrambe site nel territorio di Tordimonte (frazione di Castiglione in Teverina). La prima, antica chiesa parrocchiale costruita intorno al XIV secolo, è una piccola costruzione a navata unica, di forma quadrata, coperta a tetto visibile sorretto da una capriata e pavimento in cotto. Ha una modesta facciata esposta a nord, un portale centrale e due finestrine laterali di cui una cieca, soprastate da un timpano riquadrato da una cornice e con al centro l’occhio di facciata. A levante un piccolo locale adibito a sacrestia con un campaniletto a vela. All’interno un unico altare addossato alla parete con una pala in affresco raffigurante la Madonna e i Santi Gaetano e Antonio Abate [fig. 1]4. La seconda, posta nel cortile del Castello di Tordimonte, ha annesso un oratorio dedicato a S. Giovanni Battista costruito nel 1710. È a navata unica, coperta a tetto visibile sorretto da due capriate e pavimento in cotto. Ha una facciata con portale raggiungibile tramite una gradinata, un soprastante occhio di facciata e un campaniletto a vela. Nel XIX secolo accanto alla Chiesa è documentato uno stabile con una camera adibita a Monte frumentario che, nel 1882, viene ceduto alla Congregazione di Carità di Orvieto [fig. 2]5. Il secondo caso si verifica sempre a Castiglione in Teverina dove la chiesa di S. Egidio nel 1974 viene ceduta alla diocesi di Orvieto. L’edificio, costruito con bozze di pietra di colore rosa, come pure il campanile a torre eretto a poca distanza dal tempio ma comunicante tramite la sacrestia, sorgeva in territorio che oggi fa parte dell’Umbria (il confine tra le due regioni passa a poche centinaia di metri dal centro abitato di Castiglione in Teverina). L’interno della Chiesa è a navata unica, con un unico altare sul quale è posto il simulacro di S. Egidio [fig. 3]6. Sono queste citate costruzioni di piccole dimensioni, semplici nella struttura e nella forma, che insieme a tanti altri edifici, in alcuni casi anche di grandi dimensioni, hanno animato e costruito la storia di questi territori. Le Chiese di cui si ha più antica notizia sono quelle di S. Donato e di S. Pietro a Civita di Bagnoregio, documentate già dall’VIII secolo e seguite subito dopo (IX secolo) da due chiese di Sermugnano affidate all’Ordine dei Benedettini. Nell’XI secolo altre due Chiese sorgono a Bagnoregio e a Castiglione in Teverina, amministrate dai Benedettini e dai Templari. È nel XIII secolo che si manifesta un notevole aumento del numero delle istituzioni: 15 Chiese (di cui 7 affidate ad Ordini monastici) e 4 Ospedali (uno a Civita di Bagnoregio, 2 a Lubriano e uno a Bagnoregio) e 2 Confraternite. A testimonianza di come la popolazione locale stia cominciando ad organizzarsi intorno a punti di riferimento e stia cominciando ad intrecciare quel tessuto sociale fatto di solidarietà, assistenza e sostegno reciproco. Questa crescita continuerà a manifestarsi, ma sarà superata solo nel XVI secolo quando le nuove Chiese di cui si trova testimonianza sono addirittura 30 e le confraternite 11. È il momento di maggiore sviluppo e di maggiore attività delle istituzioni ecclesiastiche e delle associazioni di laici, ma è anche il momento di maggiore controllo da parte della Chiesa verso tutte quelle attività che riguardano il sociale e che devono essere regolamentate e disciplinate Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Quattrocento anni di calcografia ad Orvieto I secondo i dettami del Concilio di Trento. Saranno i vescovi a regolare i modelli della devozione e della pratica assistenziale delle confraternite. Con il Settecento il progetto di un organico e disciplinato ordinamento basato sulla centralità della parrocchia comincia a diventare realtà indebolendo le confraternite che diminuiscono di numero: sono ormai poche quelle di nuova istituzione7. Ma l’impegno della popolazione intorno all’assistenza sociale e al reciproco sostegno continua fino a che le confraternite vengono assorbite dalle più moderne Congregazioni di Carità, cambiano aspetto, non hanno più risorse proprie, si occupano ormai soltanto di mantenere quelle piccole chiese rurali, lontane dalla parrocchia, che altrimenti andrebbero in rovina e si impegnano nel sostegno reciproco e nell’assistenza, magari solo spirituale, agli associati e ai più deboli. Nel Settecento non sono documentate nuove chiese costruite nel territorio preso in esame: le nuove confraternite sono soltanto 2 (a Lubriano) e un solo ospedale (anch’esso a Lubriano); alcune chiese vengono abbandonate ed altre diventano private. Nell’Ottocento si trovano solo notizie di restauri degli edifici, spesso a carico dei confratelli o della comunità locale. Un minimo di attività riprenderà negli anni a cavallo delle due guerre mondiali del Novecento (tra cui le Chiese della Madonna della Vittoria a Ponzano nel 1935 e della Madonna della Pace al Vetriolo nel 193945) e continua fino ad oggi. Tra tutti i territori e i comuni dell’Alto Lazio quelli posti al confine tra una Regione l’altra offrono lo spunto e l’occasione per auspicare uno studio più approfondito sulle Fig. 3. S. Egidio abitudini di vita che caratterizzano le zone rurali, quelle lontane dai grandi centri abitati, che si organizzano in maniera autonoma, senza la stretta sorveglianza degli organismi civili e religiosi più forti, senza le rigide regole economiche che guidano le decisioni dei governi; quelle fatte dalla gente che si aiuta a vicenda, che si sostiene e che condivide le stesse difficoltà. Tra i tanti documenti disponibili per affrontare questo tipo di ricerca si elencano di seguito quelli conservati nell’Archivio dell’antica Diocesi di Bagnoregio e relativi ai tre Comuni di confine presi in esame: Bagnoregio:  Bagnoregio: Chiese e Confraternite (98 unità archivistiche, 1553-1983)  Capraccia (2 u.a., 1576-1930)  Ponzano (2 u.a., 1531-1976)  Vetriolo (26 u.a., 1578-1983)  Civita di Bagnoregio (48 u.a., 1539-1960)  Castel Cellesi (50 u.a., 15681969) Castiglione in Teverina  Castiglione in Teverina: Chiese (131 u.a., 1548-1968)  Castiglione in Teverina: Confraternite (18 u.a., 1637-1971)  Sermugnano (87 u.a., 15701977)  Vajano (44 u.a., 1573-1979) Lubriano  Lubriano: Chiese (82 u.a., 1526-1985)  Lubriano: Confraternite (4 u.a., 1771-1940) disponibilità, rispetto al passato, nell’accesso alle carte è uno dei compiti che il Centro si prefigge da anni oltre a quello della conservazione e valorizzazione degli archivi storici, con la speranza di incoraggiare studiosi ed appassionati alla conoscenza della nostra storia. Elisa Angelone Note 1 L. Osbat, Introduzione, in: La storia delle Confraternite nel territorio viterbese: origini, vicende, funzioni sociali e religiose, a cura di D. Dottarelli, Viterbo, Sette Città, 2011, pp. 7-10. 2 L. Osbat, Introduzione, in: Gli archivi delle chiese parrocchiale della diocesi di Viterbo, a cura di E. Angelone e L. Osbat, Viterbo, Sette Città, 2016, pp. 9-12. 3 S. Pagano - G. Venditti, Il Censimento degli archivi ecclesiastici d’Italia del 1942, Lazio-Campania-Beneventana-Lucania e Salernitano, Città del Vaticano, 2011. 4 E. Ramacci, Le chiese di Castiglione: i luoghi di culto attraverso i secoli, Viterbo, 1991. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 L. Osbat, Gli archivi confraternali. Le confraternite nell’antica diocesi di Viterbo e nell’Alto Lazio, in Le fonti per lo studio delle confraternite, delle arti e corporazioni in età moderna e contemporanea nell’Alto Lazio, Viterbo, Coop. Fani, 2009, pp. 3-25. l 9 novembre scorso, presso la Sala dei Quattrocento del Palazzo del Capitano del Popolo si è inaugurata la Mostra “L’Arte della Stampa. La Stampa Originale”. La rassegna, che ha avuto luogo nel Palazzo dei Sette dal 9 novembre al 18 dicembre, ha esibito oltre cento calcografie coprendo un arco temporale che va dal XVII al XXI secolo. L’idea di questa esposizione è nata durante il corso pomeridiano di incisione calcografica organizzato presso il Liceo Artistico Statale orvietano, tenuto dai professori Donato Catamo e Massimo Crivello. È proprio durante i due anni di corso (2014/’15 -2015-’16) che è maturata l’idea di portare in mostra quanto realizzato dal folto gruppo di partecipanti che, onorando e promuovendo il valore della formazione continuata, avevano un’età compresa dai 14 agli 85 anni. Attorno al primo nucleo di opere realizzate durante il corso sono state man mano raccolte stampe e incisioni che documentano il valore artistico di questa tecnica. Nelle sale espositive del Palazzo dei Sette ha preso, così, forma un itinerario che conduce il visitatore alla scoperta di un mondo fatto di lastre di rame, inchiostri, bulini, torchi, acqueforti, maestria e tanta passione. Centodieci sono le opere esposte: opere di artisti provenienti dal Liceo Artistico “Scuola del Libro” di Urbino, quelle relative ai laboratori del Liceo Artistico di Orvieto. Ad arricchire la rassegna sono giunte anche alcune opere di collezioni private e storiche incisioni a bulino e rami originali provenienti dall’Opera del Duomo di Orvieto, le più note quelle utilizzate nel 1791 per illustrare il volume “Storia del Duomo di Orvieto“ di padre Guglielmo Della Valle. Quanto detto è riportato fedelmente all’interno di una prestigiosa pubblicazione corredata dalle immagini di tutte le opere esposte e dai contributi scientifici scritti da esperti in materia. La Mostra è stata realizzata grazie al contributo del personale del Liceo Artistico, al sostegno della Dirigenza, all’impegno incondizionato di Donato Catamo, Massimo Crivello, Irene Nicolosi e Cristiana Valentini e soprattutto grazie al manipolo di “artisti in erba” che con solerzia, responsabilità e creatività ha partecipato ai corsi pomeridiani. Dagli anni Settanta agli inizi degli anni Novanta, presso questa Scuola la Calcografia ha avuto ampio spazio nell’ambito dell’insegnamento delle varie Tecniche grafiche, grazie anche alla presenza di insegnanti-artisti del calibro di Livio Orazio Valentini. Bene hanno fatto le Agenzie Culturali che si sono rese disponibili a collaborare per la riuscita della Mostra: il Liceo Artistico Statale-Scuola del libro di Urbino, L’Opera del Duomo di Orvieto, Il Comune di Orvieto, La Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, la Tipografia Ceccarelli di Acquapendente, LE. TA. BE. Di Castel Viscardo, la Vetrya di Orvieto. È nel promuovere e sostenere tali attività che la scuola riesce ad aiutare i ragazzi a forgiare i propri caratteri, sensibilizzare gli animi e scoprire le proprie passioni. Progetti come questo, sono atti di indirizzo che promuovono, in primis, il benessere degli studenti contrastando situazioni di disagio allentando il sentimento della noia, dell’apatia e dell’insoddisfazione. Francesca Vincenti Un libro sulla storia di Muzio Cappelletti Tutti i documenti elencati, uniti alle visite pastorali della diocesi (preziosa fonte per lo studio della storia locale) dal 2015 sono consultabili presso il Centro di documentazione di Viterbo. La maggiore 27 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 Che artista eccezionale Q uel che colpiva di Anna Marchesini era soprattutto la sua briosità, il suo fervore. Una ragazza nata e cresciuta alla Rupe, bella di una bellezza particolare, brava di una bravura fatta di studi universitari e di passione per lo spettacolo, buona di una bontà casalinga e familiare, di un attaccamento alle proprie origini. Rientrava tra i pochi orvietani che sono riusciti a staccarsi dalla forza ammaliatrice del masso tufaceo, allontanatisi dal natio borgo, bellissimo ma selvaggio, per nuovi orizzonti professionali, sociali e culturali. Aveva tutte le carte in regola per farlo: preparazione e ingegno, passione e costante determinazione. Così Anna se n’è andata dai tufi, è riuscita a divincolarsi dai tentacoli della placidità provinciale, forse più paesana, tra l’altro non disdegnata, con fulgidi, meritati risultati. Ha regalato agli italiani sorrisi intelligenti, mai sguaiate risate, ilarità che provenissero da testi grossolani, di basso lignaggio. E’ stata protagonista di una meravigliosa rappresentazione di quell’italietta accomodata e accomodante degli anni ’80-’90, che ritroviamo pressoché intatta, rivestita di qualche fronzolo in meno e tanta aggiunta incertezza, cosparsa di vaporoso perbenismo, restia al cambiamento, dedita agli schermi televisivi, che offrono talk-show, partite e fiction, poche cose di pessimo gusto, che placano ardori e rendono inabili alla riflessione. La sua era un’espressione artistica 28 profonda e di rara freschezza. Una comicità acuta che dominava sugli argomenti trattati. Per chi l’ha conosciuta soltanto sui teleschermi o nei teatri, di certo trasmetteva un’energia come indomabile, una esultanza senza paragoni, una carica esplosiva di comunicatività. Saranno stati i giochi sapienti di battute, gli atteggiamenti e i doppi sensi, le smorfie unite ai mugugni, quei linguaggi da centro storico orvietano, insomma incisive rappresentazioni di un’italianità unificante, ma di sicuro quel complesso di doti singolari la rendevano straordinaria. Ben esprimeva quel concetto di nazional-popolare, modus comunicandi che al grande Pippo veniva attribuito e come rimproverato, cercando di sminuirne, senza riuscirvi tra l’altro, la funzione educativa prima che spettacolare. Un personaggio, quello di Anna, che coglieva con arguta raffinatezza i caratteri della gente, magari proprio quella della sua infanzia e giovinezza, per riprodurli con sagacia, trasformati ad uso e consumo di programmi intelligenti, vivaci e di grande effetto. Questa specie di caricature dell’orvietano che avevi dentro casa, che sentivi dai balconi, che incontravi nelle vie, diventavano come per prodigio artistico prodotti umani di ogni altra parte del Paese, potevano essere altoatesini o pugliesi, romagnoli o toscani. Con le dovute cautele, azzarderemmo il paragone che come le realizzazioni pirandelliane hanno mon- dializzato una certa sicilianità, così la nostra Orvietana ha nazionalizzato l’orvietanità, senza che alcuno se ne accorgesse. I personaggi che son venuti fuori dall’estro della sua frizzante creatività avevano del tufo: la vicina della finestra di fronte, le chiacchiere al mercato, la parente ciarliera diventano “ …so’ ciecata”, “ …signorina, prego”, “Dai che te ridai…” sino ai cortesi formalismi delle parodie di telenovelas ispano-americane con il famoso “Pedro, prendi qualcosa”… una miriade di citazioni divertenti. Chi non ricorda poi i nuovi promessi sposi, quella scoppiettante carrellata di personaggi che si avvicendano in un improbabile quanto surreale intreccio narrativo mai dissacrante, comunque fresco e simpatico. E’ proprio con spirito manzoniano che desideriamo ricordarci non tanto dell’Anna dei fulgori, dei successi, quanto quella dell’ultima rappresentazione.., più umana, immersa nella sofferenza, nella solitudine mediatica, nel distacco conclusivo. Magnifica l’attrice di successo, la comica televisiva, la scrittrice di memorie… ma ancor più affascinante la lottatrice nel doloroso percorso terreno. Il tufo da cui proveniva se la riprende, nell’apparente quiete di una Rupe inerte. Non mancherà un grato ricordo. Francesco M. Della Ciana (da Orvietonews) L’Organo di San Nicolò di Baschi L a storia dell’organo di S. Nicolò di Baschi ha inizio nel dicembre 1560. Per realizzare lo strumento, di dimensioni modeste, la Compagnia del SS. Sacramento spese 5 scudi (10 fiorini). Dopo 9 anni, nei documenti dell’Archivio parrocchiale, risulta un intervento di manutenzione. Questo organo, quindi, fu installato nella prima Chiesa di S. Nicolò, poi del tutto demolita (1576) per dar luogo a quella attuale, splendida opera dell’architetto Ippolito Scalza, il migliore della piazza di Orvieto, di quel tempo. Mecenate dell’opera fu il conte Ranuccio dei Baschi (unico membro della famiglia sfuggito al massacro perpetrato dai parenti di Carnano nel 1553); lo attesta anche la lapide, in latino, murata a sinistra dell’altare. Bisogna arrivare al 1653, per trovare una spesa di 10 scudi relativa al restauro dell’organo, spesa sostenuta dall’arciprete, don Epifanio. Dieci anni dopo, si decide di acquistare uno strumento nuovo. L’arciprete e il fabbriciere vanno a Stroncone per l’acquisto (20.09.1663). Fu coinvolto nella consulenza un certo fra’ Damiano di Roma. Nel settembre successivo, arrivano le casse con il materiale. La spesa, di 80 scudi, viene saldata immediatamente, ciò grazie anche ad un censo di 25 scudi da parte delle Monache delle Lucrezie di Todi. Con l’organo era compreso anche un cimbalo. Per il trasporto da Stroncone a Baschi (60 km.), furono usati carri trainati dai buoi e l’impegno di nove uomini. Fu montato in 10 giorni; vi lavorarono fra’ Domenico, l’organaro Pietro Gernani, maestro Francesco muratore, fabbri e falegnami insieme a parrocchiani volontari. L’organo fu posizionato quasi sicuramente su un palco nella cappella sita a destra dell’altare, la cappella di S. Sisto; i mantici furono sistemati in una stanza accanto. Tre anni dopo è registrata una riparazione regolarmente pagata, poiché non c’era nessuna garanzia a lungo termine. L’organaro veniva da Sangemini. Lo strumento ebbe bisogno spesso di interventi di manutenzione riguardanti le parti lignee, le canne, la meccanica, i mantici. Tra gli organari coinvolti si ricordano Nicolò Orfetti di Roma, Tommaso Bucci e Innocentio Innocentj di Todi; costui seguì l’organo per circa 20 anni fino al 1713. Nel 1717, altro restauro di un organaro di Viterbo, che fu pagato con un sacco di grano. Le spese per gli operatori furono sempre a carico dei committenti. Ci fu un altro intervento da parte dei Padri di S. Agostino di Orvieto, pagato con 54 scudi e un rubbio di grano. Dopo un lungo periodo di abbandono, nel 1776, si raduna una congregazione con l’arciprete, don Pasquale Erasti, vicario foraneo, e il Fabriciere e si espongono le ragioni per l’acquisto di un organo nuovo. Essendo capitato a Baschi un organista di Camerino, il signor Raffaele Fedeli, che dimorava temporaneamente ad Orvieto, avendo restaurato l’organo del Duomo in maniera eccellente, si propose di affidare a lui l’impresa. La spesa fu divisa tra la Confraternita di S. Bernardino e la Compagnia del SS. Rosario. Viene trasportato a Orvieto il vecchio organo e si lascia una caparra di 55 scudi agli organari Raffele e Antonio Fedeli. Viene presa la decisione di sistemare il nuovo strumento sopra l’ingresso di S. Nicolò e si decide anche di costruire la bussola per riparare la Chiesa dal vento e dalla polvere. Contribuisce alla spesa anche la signora Camilla Fioravanti, priora dell’altare del Soccorso, con 33 scudi. La messa a punto durò circa 6 mesi: le opere di falegnameria furono eseguite da mastro Giovanni Pinti (1778). Costo totale 204 scudi. Le decorazioni e l’indoratura della cassa e della cantoria furono realizzate 4 anni dopo dall’artista orvietano Serafino Serafini, per un compenso di 22 scudi e 60 baiocchi. Ogni 3 anni circa, l’organo veniva ripulito, accordato e fatti lavori di manutenzione delle varie parti. Nel 1876, fu cambiato il mantice insieme a molti altri pezzi: fu chiamato Felice Ercoli di Vallerano. A trattare con l’artigiano andò il segretario comunale, Giorgio Bernardi, amministratore della Parrocchia, per una spesa di 550 lire. Fu anche ingrandito il cassone e spostata in avanti l’orchestra. Altri interventi si registrano nel 1880, 1883, 1891,1904, 1931. Nel 1940, si spendono 2.113 lire per la Ditta Migliorini di Roma per un restauro che non fu dei migliori. Negli anni ’70, l’organo era stato riportato nella cappella di destra dell’altare, fino al sostanziale e accurato restauro del 1988-’89. Restauro decisamente voluto da don Filippo Zafferami. Fu necessario smontare lo strumento e trasportarlo nel laboratorio della Ditta Pinchi (25.03.1988). Collaborò alla ristrutturazione il prof. Patrizio Barbieri. Delicato e laborioso fu il restauro delle decorazioni in legno intagliato, dorate in foglia d’argento e delle laccature. La spesa fu di circa 70 milioni di lire. L’organo conta 500 canne in lega ed è a una sola tastiera; è uno strumento piccolo, in quanto destinato, come quasi tutti gli organi del XVIII sec., all’accompagnamento del canto corale. Domenica 11 giugno 1989, fu inaugurato con un concerto del famoso organista danese Wijnand Van De Pol, professore di organo e composizione organistica al Conservatorio Morlacchi di Perugia e ispettore onorario del Ministero dei Bani culturali per la tutela degli organi antichi dell’Umbria. Un ultimo intervento è avvenuto nell’estate scorsa (2016): l’organo è stato accordato e ripulito dalla ditta Pinchi di Foligno. L’organaro ha rilevato la devastante opera dei tarli sullo strumento, per cui si dovrà smontarlo e portarlo in laboratorio per un definitivo trattamento. Maria Antonietta Bacci Polegri Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 I M A G O U R B I S Ippolito Scalza, gruppo marmoreo della Pietà (1578) inizialmente collocato nella Cappella Nova (foto d’epoca) Ippolito Scalza, bozzetto in argilla per la statua di San Tommaso (1587), suo autoritratto (dopo il recente restauro) 29 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 P A G I N E L E T T E Chi si rivede! Ristampato il catalogo Cardella I l Museo “Claudio Faina” resterà aperto nelle giornate del 25 aprile e del 1 maggio con orario continuato (ore 9.3018.00) come in tutti gli altri giorni a cavallo tra aprile e maggio. Potrà essere visitato ora idealmente con una guida d’eccezione: Domenico Cardella, l’autore del primo catalogo a stampa della raccolta pubblicato nel 1888 per i tipi della “Tipografia M. Marsili”. Proprio all’azienda erede di quella tradizione d’impresa e al suo attuale proprietario, Luciano Damasso, in accordo con la Fondazione per il Museo “Claudio Faina”, si deve la ristampa anastatica del volumetto che costituisce la testimonianza preziosa di una stagione dell’archeologia orvietana di notevole vivacità (seppure con qualche ombra) e di grande progettualità: la riscoperta del passato della città doveva assicurarle un futuro dignitoso nella nuova Italia e negli anni a venire. Intorno alla figura di Domenico Cardella conosciamo poco: sappiamo che insegnò ad Orvieto quale “professore nelle scuole liceali e tecniche” per un periodo della sua vita; che aveva un sicuro interesse per le antichità; che riuscì a inserirsi nella vita culturale cittadina attraverso la partecipazione all’attività dell’Accademia “La Nuova Fenice”, costituita nel luglio del 1888. Infine che strinse un rapporto di collaborazione con l’uomo politico e collezionista Eugenio Faina e con lo storico e archivista Luigi Fumi. Tali informazioni possiamo desumerle direttamente dalle sue pubblicazioni, oltre al Museo Etrusco Faina, il Catalogo illustrativo del Museo Civico di Orvieto, (pubblicato sempre nel 1888 dalla stessa Tipografia e anch’esso ora ristampato) e Le pitture della tomba etrusca degli Hescanas (presso Orvieto) (Roma, Tipografia Laziale, 1893). Di aiuto risultano anche i frequenti interventi nelle sedute dell’Accademia, di cui fu “socio effettivo”. Il libriccino Museo Etrusco Faina è prezioso in quanto descrive lo stato della collezione alla fine dell’Ottocento e fornisce per i reperti esposti indicazioni, quali la provenienza e la collocazione, che, altrimenti, sarebbero andate perdute. La raccolta aveva sede al secondo piano del Palazzo Faina, in Piazza del Duomo, e occupava allora solo sei sale. Nella sala d’ingresso erano collocati reperti eterogenei: canopi, cippi, urne cinerarie in terracotta, ceramica comune, argentata, a vernice nera e altro ancora. Seguiva quindi il monetiere. La terza stanza, detta “dei bronzi”, presentava la congerie dei bronzi etruschi e romani raccolti dai conti. Vi erano esposti pure i reperti preistorici. Nella quarta sala, denominata “delle tazze”, trovavano posto soprattutto kylikes di produzione attica. Nella successiva, denominata “dei buccheri”, si trovava appunto la serie dei buccheri “in buona parte provenienti da Chiusi”, città dove Mauro Faina, l’iniziatore della raccolta, aveva operato i primi acquisti. Il percorso si chiudeva con la camera “dei grandi vasi dipinti” dove figuravano i capolavori della raccolta, tra i quali le tre anfore attribuite ad Exekias. Una visita al museo, in questi giorni, può essere anche l’occasione per visitare la mostra Giuseppina Anselmi Faina. Una pittrice dell’Ottocento tra Piemonte e Umbria che sta riscuotendo un successo notevole. La sua figura è ricordata anche in Costellazione familiare, il romanzo più recente di Rosa Matteucci (Adelphi, 2016). Tuscia dei misteri: viaggio inconsueto tra itinerari affascinanti e enigmatici del Viterbese P er chi ama andare alla scoperta dei luoghi non limitandosi semplicemente a vederli, ma coltivando il piacere di scoprire ciò che di più profondo e sfuggente hanno da raccontarci. Questo libro è dedicato a loro. “Tuscia misteriosa e insolita. Esoterismo, leggende nere, enigmi irrisolti, Templari” (Intermedia Edizioni) è l’ultimo libro di Claudio Lattanzi, giornalista e saggista umbro che ha conquistato record di vendite con inchieste dedicate alla politica e all’attualità umbra (I Padrini dell’Umbria, Chi comanda Terni, la Zarina, la Mafia in Umbria) prima di dedicarsi alla divulgazione storica con il recente “Misteri, leggende e storia del lago di Bolsena”. È un viaggio sulle orme degli enigmi, nascosti a bizzeffe tra le pieghe di un passato arcaico in una terra da una storia antichissima quello proposto da questo testo arricchito da numerose foto. Seppur esclusa dai grandi itinerari turistici, o forse proprio per questo motivo, la Tuscia presenta infatti una quantità sconfinata di misteri collegati ad un passato denso di eventi che si dispiega dagli Etruschi fino all’epoca moderna. Questo percorso ci condurrà a Bomarzo dove andremo a scoprire la colossale e inspiegabile piramide scavata nella pietra migliaia di anni fa all’interno di un bosco. Allo stesso modo, seguiremo le tracce dell’introvabile tomba di papa Alessandro IV che viene cercata a Viterbo da oltre 750 anni e si ritiene essere stata occultata in un cunicolo segreto. Ci addentreremo nel percorso esoterico che rappresenta la chiave di lettura per decifrare il significato sfuggente e complesso del parco dei Mostri e verremo a contatto con le sinistre presenze che aleggiano da secoli intorno all’impenetrabile Selva Cimina e il lago di Vico. Quest’ultimo è al centro di episodi sinistri e di singolari fenomeni naturali che potrebbero essere in qualche modo collegati alla presenza di una enorme base militare, tenuta completamente nascosta dall’epoca fascista fino a metà anni Novanta, al cui interno si producevano ingenti quantità di letali armi chimiche. Non potranno essere trascurate le significative tracce legate alla presenza dei Templari, così come l’incomprensibile Cuccumella di Vulci, un’enorme costruzione apparentemente simile ad una gigantesca tomba, ma contenente quello che è considerato il più grande labirinto scavato nella roccia che si conosca. Altrettanti ignoti sono i motivi che portarono le popolazioni pre etrusche a realizzare gli enormi tumuli ciclopici sommersi sotto il lago di Bolsena per i quali manca ancora una spiegazione archeologica credibile e condivisa. L’incredibile reliquia di Calcata ovvero il prepuzio di Gesù, l’identità di Santa Rosa e la sua trasformazione in simbolo politico, la sacralizzazione del territorio della cultura etrusca, l’oscura distruzione di Ferento, il collegamento tra Sutri e la nascita dello Stato pontificio, le tavolette enigmatiche di Valentano sono solo alcuni degli altri argomenti trattati. Di particolare interesse è la ricostruzione del Sacro Bosco, o Parco dei Mostri, di Bomarzo. Alla luce degli studi più recenti, l’autore fornisce una serie di chiavi interpretative su questo singolarissimo e suggestivo giardino realizzato nella pietra a metà del Cinquecento da Vicino Orsini. La prospettiva più importante da tenere presente è quella del percorso iniziatico, connesso a concetti filosofici e religiosi, collegati al clima del Concilio di Trento, al neoplatonismo e alla posizione di alcuni circoli intellettuali di fronte alla Riforma protestante. C’è poi la questione dinastica legata anche alla parentela di Orsini con i Farnese e l’aspirazione a celebrare i nobili natali del casato. Un terzo elemento è invece quello semplicemente ludico, scaturito dalla volontà di Vicino di stupire e meravigliare. “Sol per sfogare il core”, come recita la frase scolpita in una roccia. Dalla lettura di “Tuscia misteriosa e insolita” emerge la descrizione di un territorio, la provincia di Viterbo, caratterizzato da una straordinaria densità culturale, con un potenziale anche turistico in larga misura inespresso e anzi ampiamente trascurato rispetto alla vicina Umbria o alla Toscana. Oltre che nelle librerie, nelle piattaforme internet e sul sito della casa editrice, il libro è disponibile anche in tutte le 160 edicole della provincia di Viterbo. http://www.intermediaedizioni.it/home/849-tuscia-misteriosa-e-insolita-esoterismo-leggende-nere-enigmi-irrisolti-templari-di-claudio-lattanzi.html Pagina facebook: https://www.facebook.com/Tuscia-misteriosa-e-insolita-215449592178477/?fref=ts 30 Domenico Cardella, Museo Etrusco Faina, Tipografia Marsili, Orvieto 2016 Claudio Lattanzi, Tuscia misteriosa e insolita Esoterismo, leggende nere, enigmi irrisolti, Templari, Intermedia Edizioni, Orvieto, 2016 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 S E G N A L A N O Quanti tesori in magazzino! Che i magazzini dei musei italiani sono carichi di opere è risaputo. Non sono prodotti di poco pregio. Magari mancano gli spazi espositivi. Un Paese incredibile quello che nasconde le sue bellezze perché non trova fondi o ha difficoltà organizzative e non trova strutture. Non dovrebbe esser difficile che questi tesori siano resi fruibili ai visitatori, con la realizzazione di percorsi originali, alternativi e forse meno agevoli dei tradizionali, ma che consentano la visione di meraviglie altrimenti come inesistenti… V. B. I N i L E T T O R I Non solo città Spesso si parla di turismo artistico e culturale. Un turismo comunque di città. Sono i flussi turi- stici che si recano nei centri della nostra Nazione e che ammirano chiese, palazzi e monumenti, paesaggi e particolari. Ma una ricchezza enorme resta spesso poco conosciuta nelle campagne, nelle frazioni, nelle piccole località, senza che se ne sappia niente. Eppure sono riferimenti preziosi che andrebbero senza dubbio riscoperti. Sono una miniera di tradizioni, iniziative e suggestive attrazioni campestri, che meritano attenzioni e programmi di valorizzazione. P. F. C I T T À XXIV CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDI SULLA STORIA E L’ARCHEOLOGIA DELL’ETRURIA ORVIETO, 9 - 11 DICEMBRE 2016 GLI ETRUSCHI NELLA CULTURA E NELL’IMMAGINARIO DEL MONDO MODERNO VENERDÌ 9 DICEMBRE Ore 9.30 RELAZIONI Maria Bonghi Jovino (Università degli Studi di Milano) Tra immaginario e conoscenza. Gli Etruschi nella letteratura inglese dall’Ottocento ai nostri giorni Giovanna Bagnasco (Università degli Studi di Milano) Etruschi alle grandi esposizioni: tra proposte e ricezioni Marie-Laurence Haack (Université de Picardie “Jules Verne” - Amiens) Gli antropologi alla ricerca degli Etruschi Giuseppe M. Della Fina (Fondazione per il Museo “C. Faina”) I paesaggi dell’Etruria Ore 12.15 COMUNICAZIONI Laura Ambrosini (Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del C.N.R.) Souvenirs dall’Etruria per il Grand Tour Susanna Sarti (Soprintendenza Archeologia della Toscana) Disegnare gli Etruschi tra arte e tutela Ore 12.45 DIBATTITO Ore 15.00 RELAZIONI I DUOMO DI ORVIETO Studi di Bologna) Falsi in etruscologia tra collezionismo, campanilismi e identità cittadine Paolo Mauri (Gruppo Editoriale “L’Espresso”) Lettere agli Etruschi Stefano Bruni (Università degli Studi di Ferrara) Gli Etruschi nell’opera lirica Maurizio Harari (Università degli Studi di Pavia) Vaghe stelle a Volterra. I due fratelli etruschi di Luchino Visconti Francesco Roncalli (Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici) Friedrich Nietzsche, la Grecia e gli Etruschi Ore 18.45 COMUNICAZIONI Vincenzo Bellelli, Andrea Ercolani (Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del C.N.R.) La civiltà etrusca nelle vignette filateliche Alessandra Caravale, Paola Moscati, Alessandra Piergrossi (Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del C.N.R.) SABATO 10 DICEMBRE nteressante proposta culturale e turistica quella promossa ed organizzata quest’anno dall’Opera del Duomo di Orvieto per il tradizionale Presepio all’interno della Cattedrale orvietana. Le sculture dell’architetto Flavio Leoni, dall’8 dicembre al 6 gennaio attireranno l’attenzione dei tanti visitatori che si recheranno in città per ammirare le bellezze artistiche e monumentali del centro umbro. L’allestimento segue un percorso nei sotterranei del Duomo. L’iniziativa registra la collaborazione dell’Istituto Carcerario Attenuato di Orvieto e dell’Atelier Carli. VISITE AL DUOMO E AL MODO La Pietà di Ippolito Scalza Giuseppe Sassatelli (Università degli Ore 16.00 Apertura dei lavori Saluto delle autorità Ore 16.30 Presentazione degli Atti del XXIII Convegno Internazionale di Studi sulla Storia e l’Archeologia dell’Etruria Ore 17.00 Relazioni Giovanni Colonna (Accademia Nazionale dei Lincei) L’uso politico degli Etruschi nel mondo moderno Giovannangelo Camporeale (Accademia Nazionale dei Lincei) Gli Etruschi e la cultura europea del Settecento: il caso dell’Accademia Etrusca di Cortona Filippo Delpino (Istituto Nazionale di Studi Etruschi e Italici) Gli Etruschi e la Guerra Fredda Ore 19.15 COMUNICAZIONI Andreas Steiner (Rivista “Archeo”) Etruschi ed Ebrei nel Novecento: Giorgio Bassani ed Elie Wiesel Ore 19.30 DIBATTITO Le sculture di Flavio Leoni nei sotterranei della Cattedrale MATTINATE FAI PER LE SCUOLE Il recupero degli Etruschi tra media e web Marina Micozzi (Università degli Studi della Tuscia) Gli Etruschi nei manuali scolastici Ore 19.30 DIBATTITO DOMENICA 11 DICEMBRE Ore 9.30 RELAZIONI Giuseppe Pucci (Università degli Studi di Siena) Gli Etruschi nei fumetti Adriano Maggiani (Università degli Studi di Venezia) “Io sono etrusco”. Marino Marini e l’arte etrusca Nico Stringa (Università degli Studi di Venezia) Gli Etruschi nel mondo figurativo di Arturo Martini Elena Calandra (Soprintendenza Archeologia dell’Umbria) Massimo Campigli e la folgorazione per l’arte etrusca Gianluca Tagliamonte (Università degli Studi del Salento) Gli Etruschi e la Pop-Art italiana Ore 12.30 DIBATTITO GENERALE GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE PERSONE CON DISABILITÀ P er proseguire sul percorso dell’accessibilità del patrimonio artistico della Cattedrale e del Museo MODO, l’Opera del Duomo propone alle Scuole di Orvieto e del territorio una particolare ed emozionante esperienza che coinvolge persone con disabilità. Sabato 3 dicembre, alle ore 9.30, presso Palazzo Soliano Museo Emilio Greco, è stato proiettato un video sulla disabilità realizzato dalla classe III/A, indirizzo Audiovisivo e multimediale, del Liceo Artistico. All’interno della Cattedrale ha avuto luogo la visita per i disabili visivi illustrata alle Scuole attraverso gli strumenti del modello architettonico in scala, realizzato nel 2014 dal Liceo Artistico di Orvieto, e le tavole tiflodidattiche della facciata e della pianta. Inoltre, eccezionalmente è stata possibile la perlustrazione tattile del gruppo scultoreo della Pietà di Ippolito Scalza, compresa nell’ambito delle iniziative di avvio del Centenario. Si sono potute toccare le splendide forme della statua originale in marmo di Carrara, firmata dall’artista nel 1579, collocata nel braccio sinistro della crociera, davanti all’Altare della Visitazione, ma fino ai primi del Novecento all’interno nella Cappella Nova. Gli alunni delle Scuole di Orvieto e del territorio sono stati guidati dagli Apprendisti Ciceroni dell’IISACP nella visita dei capolavori artistici nei Palazzi Papali e nella sede distaccata di Sant’Agostino. Il progetto “Arte accessibile nel duomo di Orvieto e nel museo MODO”, avviato nel 2013, è dedicato in particolare ai visitatori ciechi e ipovedenti ma pensato anche per le scuole di primo grado come esperienza di conoscenza sensoriale estremamente formativa. Viene infatti proposta una modalità nuova di visita della cattedrale e del museo MODO attraverso un percorso guidato da personale specializzato con perlustrazione tattile di alcune significative opere d’arte, sculture principalmente, con il supporto di strumenti didattici specifici, tavole tiflodidattiche, schede descrittive in braille, audioguide. Per la sua valenza culturale e sociale, il progetto è stato portato avanti con il contributo della Regione Umbria nella prospettiva di incrementarlo gradualmente per moduli integrati. Mostra della Croce Rossa Italiana Concerto in Comune Sala Unità d’Italia L L a Mostra Fotografica dedicata ai giovani “Dal sorgere dell’alba all’Infinito: i giovani e il futuro”, organizzata dal Comitato di Orvieto della Croce Rossa Italiana, da un’idea di Maria Assunta Pioli e Maurizio Chiavari, ha registrato il record di presenze. Migliaia e migliaia di persone presso alla Chiesa di San Giacomo, in Piazza del Duomo a Orvieto. Duecento le immagini esposte, catturate dall’obiettivo di Maria Assunta Pioli, soggetti di varia nazionalità, istanti della vita giovanile, piena di serenità, gioia e spensieratezza, ma che sa essere concreta, attenta e altruista, contrastando tutti i mali che la società propone e impone. La speranza rappresentata dal presepe, realizzato dai Volontari della CRI di Orvieto, Stefano Stella e Pamela Casasole, da un’idea degli autori della Mostra come segno di vicinanza e solidarietà alle popolazioni colpite dal terremoto nelle Marche, in Abruzzo, nel Lazio ed in Umbria. Un viaggio di immagini suddiviso in macrosettori: le attività umanitarie e sociali, lo sport, la sicurezza stradale, verso il futuro e gli incontri dei giovani con il Santo Padre e, grazie alla concessione de “L’Osservatore Romano” sono esposte alcune fotografie che ritraggono i Papi: S. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, proprio insieme ai giovani. Oltre alle immagini, sono state esposte alcune poesie tratte dal libro: “Dialoghi nell’immenso”, scritto da Maria Assunta Pioli e Maurizio Chiavari edito dalla Casa Editrice “Armando Curcio Editore”, il cui ricavato sarà destinato ad iniziative umanitarie. ’Istituto Storico Artistico Orvietano ed il Comune di Orvieto hanno organizzato un concerto del famoso pianista Roustem Saitkoulov che si terrà il giorno 8 agosto, alle ore 21,00, nella Sala dell’Unità d’Italia del Palazzo Comunale di Orvieto. Il Maestro Saitkoulov suonerà il pianoforte di proprietà ISAO e concesso in comodato alla Scuola di Musica di questa Città: si tratta di un Bechstein del 1894, a tre quarti di coda, che per le sue caratteristiche ben si adatta al tipo di brani che il maestro Saitkoulov ha in animo di eseguire. IL PROGRAMMA: Franz Liszt: Consolazione N. 3; Notturno N. 3 “Sogni d’amore”; Fryderyk Chopin: 2 notturni Op. 48; 12 studi Op.10. Si ringraziano i maestri Cambri e Catalano per aver permesso il contatto col maestro Saitkoulov, e l’Associazione B&B per il supporto. 31 Lettera Orvietana N. 43-44-45-46-47 dic. 2016 TIPOGRAFIA CECCARELLI TIPOGRAFIA CECCARELLI prestampastampaallestimento via Luigi Galvani, snc - Loc. Campomorino 01021 Acquapendente (Viterbo) 0763.796029 798177 fax 0763.797230 [email protected] ISTITUTO STORICO ARTISTICO ORVIETANO Piazza Febei, 2 05018 ORVIETO (TR) Tel. e Fax 0763.391025 www.isao.it - [email protected] 32