Academia.eduAcademia.edu

Metastasio traduttore e lettore di Orazio

2002, Riscrivere gli antichi, riscrivere i moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento

sta in: Riscrivere gli antichi, riscrivere i moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento Edizioni dell'Orso, ALESSANDRIA 2002 ISBN:8876945946 LUCIANA BORSETTO, Metastasio traduttore e lettore di Orazio Il vasto patrimonio di letture e l'esperienza stessa della scrittura di Metastasio si inscrive nel segno di Orazio. Orazio intride l'elegante colloquialità della prosa e la leggerezza, la trasparenza, l'apparente finalità del discorso drammaturgico, modula e innerva gli snodi speculativi della poetica, intreccia filosofiche meditazioni sull'uomo e valutazioni critiche sull'arte. In questo continuum coabitano insieme il poeta dei carmina, dei sermones e delle epistulae, il maestro di urbanitas e di medietas che tempera ebbrezza e malinconia e consente di formulare con le parole dell'antico le istanze di razionalità e di ordine e di decoro del presente. Parole chiave: Letteratura italiana; Letteratura comparata; Critica letteraria; Letteratura europea; Traduzione letteraria vedi anche: anche in: PROBLEMI DI CRITICA GOLDONIANA, Anno 2004 - N.10-11 - Pag. 303- 326

Metastasio traduttore e lettore di Orazio But suppose an imitator to be most excellent (and such there are), yet still he but nobly builds on another’s foundation; his debt is, at least, equal to his glory; which, therefore, on the balance, cannot be very great. On the contrary, an original though but indifferent (its originality being set aside), yet has somehing to boast; it is something to say with him Horace, Meo sum Pauper in aere (Edwuard Young, Conjectures on Original Composition, in a Letter to the Author of Sir Charles Grandison, 1759) Some Beauties yet, no Precepts can declare, For there’s a Happiness as well as Care. Musik resembles Poetry, in each Are nameless Graces which no Methods teach, And Which a Master-Hand alone can reach. (Alexander Pope, An Essay on Criticism, 1711) Ah, caro fratello, siam noi, non è il mondo che invecchia: e noi rovesciamo sul mondo il nostro proprio difetto. Sempre si è fatto così: Aetas maiorum peior avis tulit nos nequiores; mox daturos progeniem vitiosiorem diceva a’ suoi tempi Orazio. «Declina il mondo e peggiorando invecchia», esclama nel Demetrio il mio Fenicio. 56 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI Così il Metastasio, a suggello delle riflessioni che attraversano la lettera al fratello Leopoldo del 9 febbraio 17671, aprendo uno squarcio sul vario tessuto di relazioni che sostanziano, nella prassi quotidiana dello scambio epistolare non meno che nell’esercizio letterario vero e proprio, il dialogo fittissimo da lui intrattenuto, oltre che col Tasso, col poeta di Roma2. Nel segno di Orazio si inscrive in gran parte il suo vasto patrimonio di letture e l’esperienza stessa della scrittura. Decontestualizzato in formule topiche, in frammenti modulari che ne sintetizzano la lezione di metodo e di stile e la piegano ai diversi riusi dell’estetica settecentesca, Orazio intride l’elegante colloquialità della prosa e la leggerezza, la trasparenza, l’apparente facilità del discorso drammaturgico, modula e innerva gli snodi speculativi della poetica, intreccia filosofiche meditazioni sull’uomo e valutazioni critiche sull’arte. Il suo magistero è polimorfo, e dispiegato in un continuum temporale che, dagli anni dell’apprendistato giovanile presso il Gravina e il Caloprese, si prolunga sino alla stagione dell’estrema maturità. In questo continuum coabitano insieme il poeta dei Carmina, dei Sermones e delle Epistulae, il maestro di urbanitas e di medietas che tempera ebbrezza e malinconia e consente di formulare con le parole dell’antico le istanze di razionalità, di ordine e di decoro del presente, e l’autore dell’Ars; il legislatore e il modello con cui confrontarsi o con cui gareggiare in un gioco allusivo di specchi, la guida e lo sperimentatore in cui riflettersi, riconoscendosi uguale e al contempo diverso, avallando antiche e nuove forme di comunicazione letteraria o prendendone per sempre le distanze. Egli è il luogo della saggezza e insieme del canone, segnala lo spazio, astratto e immobile, della precettistica e quello, empirico, dell’esempio che non sempre la invera; indica l’opportunità della regola, ma anche la necessità del «buon giudizio», imprescindibile alla sua concreta applicazione. 1 Cfr. Tutte le opere di Pietro Metastasio, a c. di B. Brunelli, vol. IV (Lettere), n. 1562, Milano, Mondadori, 1954, p. 527. D’ora in poi l’epistolario metastasiano (Lettere, voll. III-V dell’edizione mondadoriana), salvo diversa indicazione, si cita: Lett., volume, numero, pagina. 2 La citazione oraziana (Demetrio, atto II, scena IX) proviene dal libro terzo dei Carmina (6, 46-48); le parole di Fenicio, invece, dal secondo atto dell’Aminta (scena II). METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 57 Questa dialettica di rispecchiamento e di confronto, di assimilazione e di distacco, di consonanza e dissonanza, che a livelli minimi governa il vario fluire della memoria intertestuale (citazioni, riprese, adattamenti del dire sotto forma per lo più di sentenza o di monito didattico), a livelli “altri” articola forme complesse di specularità e di raddoppio, incrocia itinerari stratificati di letture e pratiche vere e proprie di riscrittura. Di tali pratiche sono esemplare testimonianza non soltanto la riduzione in terzine della satira VI del libro II (a Mecenate) e il rifacimento in quartine dell’invito a cena a Torquato (Epistola V del lib. I)3, dove, nella lenta ripresa dei successi viennesi degli anni Cinquanta e nel loro definitivo declino un ventennio più tardi, il poeta cesareo, ripiegato su se stesso, si ritrova a intonare con l’antico vate di Roma l’elogio della vita rustica, ma anche, e soprattutto, la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Ars, le annotazioni, il commento di questa. Metastasio traduce l’Ars oraziana intorno alla metà degli anni Quaranta, nella fase di stanchezza e smarrimento in cui era allora caduto, oppresso da «febbri», «mal di stomaco» e «incommodissimi stiramenti di nervi», a conclusione di un lungo periodo creativo, denso di esperienze drammaturgiche nuove e di grandi, ma non sempre universalmente condivisi, entusiasmi4. Non si tratta di un semplice esercizio letterario attuato volgendo e rivolgendo le antiche carte 3 Cfr. rispettivamente Satira VI del libro secondo di Q. Orazio Flacco, in Tutte le opere di Pietro Metastasio, cit., vol. II, pp. 1221-1226; Invito a cena d’Orazio a Torquato, ivi, pp. 1226-1227. 4 Il 18 giugno 1746 Metastasio ne dava notizia al fratello Leopoldo con queste parole: «Le mie febbri non son più tornate ed io vado anche respirando di quando in quando da’ miei ostinati tormenti di testa e di stomaco. Fra i quali ho fatta per divertirmi una traduzione in verso sciolto della Poetica d’Orazio» (Lett., III, n. 242, p. 272). Tre anni dopo, il 10 maggio 1749, scriveva ad Anna Pignatelli di Belmonte: «[…] nella scorsa estate, trovandomi meno tormentato di stomaco e di testa da quegl’incomodissimi stiramenti di nervi che da cinque in sei anni in qua mi perseguitano, terminai il mio Attilio Regolo […]. La Poetica d’Orazio è parimenti terminata: ma essendo una traduzione, ho qualche repugnanza di pubblicarla» (Lett., ivi, n. 311, p. 390; corsivo nostro qui e nelle altre citt.). Pronta, dunque, in prima stesura, fin dal 1746, rivista e annotata nel 1558, nel 1768 e nel 1773, e in seguito ancora ritoccata, la traduzione, assieme agli spunti oraziani disseminati nell’Estratto dell’Arte poetica di Aristotele, sarà edita nel XII volume delle Opere a c. di G. Pezzana, Paris, 1782 [ma 1783]. 58 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI in colloquio assiduo con amici devoti appassionati dei classici – il barone di Hagen, il conte di Canale –, di un’occupazione felice nell’otium dorato successo ai negotia, benché anche questo compaia qua e là tra le righe nelle lettere che ne danno notizia: alla versione oraziana si è accinto «per divertimento», «per ozio», «per sedurre i suoi malanni», si legge in più luoghi nella fitta corrispondenza quotidiana del tempo5. Avviata pressoché in parallelo con la versione della Poetica aristotelica, in seguito abbandonata per le chiose, dense e articolate, dell’Estratto, la traduzione dell’Ars attiva fin da subito un dialogo serrato col grande Venosino, che mentre sollecita in Metastasio poeta l’emulazione del poeta latino, induce nel critico che lo sovrasta il vaglio delle regole da quello formulate, il loro accertamento, la loro rifondazione alla luce della personale sperimentazione artistica e dell’estetica contemporanea che l’attraversa6. Prima ancora che tradursi nella pratica “seconda” dell’annotazione e del commento, che impegnerà a fondo la riflessione metastasiana soltanto a conclusione dell’Estratto aristotelico, trovando peraltro ampio spazio di azione già all’interno di questo7, 5 Che attesta anche la sostanziale insoddisfazione del traduttore, mai pago dei risultati raggiunti. Su questa corrispondenza, come anche sulla resa del testo latino cfr. F. Della Corte, Metastasio e l’Arte poetica d’Orazio, «Atti del Convegno indetto in occasione del II centenario della morte», 25-27 maggio 1983, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, pp. 167-186 (p. 168 in particolare). 6 Accintosi alla versione delle due poetiche «per potersene valere nella pratica» (Lett., IV, n. 1489, p. 451), per cercarvi autorevoli avalli alla propria sperimentazione drammaturgica, per contrastare le assurde teorizzazioni di molti «dottissimi, ma inesperti critici» (Lett., V, n. 2130, p. 275), il Metastasio abbandona in seguito la resa della poetica aristotelica per l’Estratto. Assieme alla traduzione annotata del testo oraziano, esso andava a sostituire, come avverte il Della Corte, «il primitivo ambizioso progetto di una […] Poetica personale», annunciato sin dal’32 e definitivamente rimosso solo intorno al’50. Cfr. F. Della Corte, Metastasio e l’Arte poetica d’Orazio, cit., pp. 167-168. 7 In particolare nella sezione finale relativa ai modi dell’elocutio (capp. XXI-XXII), ma anche nelle pagine precedenti (capp. V, IX-X, XII, XIV-XV, XVII, XXVI), disseminate di confronti oraziani, con puntuali citazioni dell’Ars, esplicitamente richiamata nella versione poetica prodotta. Alcune annotazioni all’Ars ne accompagnano verisimilmente la traduzione sin dall’inizio e in qualche modo la guidano, altre la chiosano a posteriori, lavoro preparatorio e parallelo al commento aristotelico, di cui si ha notizia in diverse lettere già dal 1746: «Penso di guarnirla [la versione dell’Ars] di qualche notarella per dichiarare il mio sentimento su diversi luoghi che danno ocasione a questioni ragionevoli e non alle pedantesche METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 59 tutto ciò comporta conseguenze di rilievo nell’esercizio “primo” della resa dell’auctor, sul piano concreto del vertere. La «scrupolosa fedeltà» cui il traduttore dichiara di essersi attenuto nella lettera al fratello Leopoldo del 18 giugno ’46 non sempre consente la «franchezza di un originale»8. Venuto meno l’obbligo del «pensar con la mente altrui», di «dir tutto», di «non dir di più», di cui parla, a proposito della riduzione in terza rima della Satira VI di Orazio, la missiva all’Algarotti del 16 settembre ’479, la versione in endecasillabi sciolti dell’epistola ai Pisoni, nonché produrre la totale immedesimazione col che sono infinite» (all’Algarotti il 18 giugno 1746 (Lett., III, n. 242, p. 272); «L’occasione di tradurre la lettera Ad Pisones mi fece già sovvenire alcune mie riflessioni non del tutto le più comuni, che la lunga pratica del poetico mestiere mi ha di quando in quando suggerite. Ho incominciato a scriverle come non affatto inutili a’ candidati di Parnaso, ma questa mia scomposta macchinetta interrompendone il filo, me ne ha estremamente intiepidita la voglia, onde non so quando o se mai porrò mano al lavoro» (al medesimo, 16 settembre 1747, ivi, n. 265, p. 322); «Prima ancor di quest’Estratto avea io già scritta in verso sciolto un’esatta versione italiana della Poetica d’Orazio con la più scrupolosa fedeltà e guarnitala di note non comuni e non fastose, ma necessarie» (ad Antonio Eximeno, il 22 agosto 1776 (Ivi, V, 2254, pp. 399-401). Una sistematica revisione dei materiali raccolti e la loro rielaborazione per la stampa, chiaro approfondimento del confronto aristotelico in atto, ma anche autonomo momento di riflessione sull’estetica del tempo, iniziano a prospettarsi soltanto alla fine degli anni Cinquanta. Nella lettera del 30 agosto 1758 a Giuseppe Barbieri (Ivi, IV, n. 1062, p. 63) si legge. «Scrissi già tempo fa una traduzione della Poetica d’Orazio, ed ora la vado provvedendo di necessarie annotazioni, delle quali alcune combattendo diverse antiche, pedantesche, false, ma ricevute opinioni, degenerano in piccioli trattati. Non mi affretto, né sono impaziente di compiere l’opera; mi basta che mi vado occupando per non essere grave a me stesso». La comparazione delle due poetiche si protrae in ogni caso sino agli anni della tarda maturità, intensificandosi tra il 1765 e il 1782, in relazione agli snodi importanti della sperimentazione drammaturgica dell’epoca. Di annotazioni e commenti al testo oraziano si parla di fatto ancora nella lettera del 2 gennaio 1773 a Domenico Arborio di Gattinara: «Ho scritto un Estratto della Poetica d’Aristotile, tratto dal testo originale: ho detto francamente il parer mio quando non concorre con quello degli espositori, ed ho confessato ingenuamente quando la mia perspicacia non è giunta ad intendere alcuni dogmi di così gran maestro. L’occasione mi ha indotto a parlar della natura della poesia, e del verisimile e di molte verità che la pratica di oltre mezzo secolo mi ha scoperte. Feci alcuni anni sono una versione in verso sciolto della Poetica d’Orazio: ora mi è paruta bisognosa di note, e le vado a poco a poco applicando, più per riempire il vòto dell’ozio che per alcuna lode ch’io me ne prometta» (Ivi, V, n. 2063, p. 208). 8 Ivi., III, n. 242 cit., p. 272. Di scrupolosa fedeltà parlerà anche nella lettera del 22 agosto 1776 ad Antonio Eximeno sopra citata (cfr. supra nota 8). 9 Lett., III, n. 265, p. 321. 60 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI poeta latino, scherzosamente evocato nei ragguagli al medesimo Algarotti del 7 maggio ‘46, rivela, talora, l’arte sottile del travestimento: […] l’Arte poetica del nostro Flacco è già quasi affatto travestita. Grazie al Cielo che non è vera la metempsicosi. S’ei fosse in corpo di qualche uccel di rapina, verrebbe senza fallo a beccarmi gli occhi10. Siamo, senza dubbio, lontani dalle modernizzanti Imitations of Horace del Pope degli anni Trenta, lontanissimi dagli Hints from Horace del Byron, o dalle ottave parodiche del tredicenne Leopardi di un settantennio più tarde11. Benché assolutamente accertabile, l’«esattezza» della versione metastasiana non si realizza tuttavia more geometrico, alla maniera dei pedanti che immobilizzano il dettato oraziano rendendolo muto e inerte alle sollecitazioni dei moderni. Senza ridurlo a modello esclusivo di una poetica critica di stretta osservanza razionalista, come quella a modello Boileau consegnata da Gottsched all’Aufklärung tedesco12, Metastasio traduce Orazio en poète, e, come lettore tutt’altro che passivo della sua precettistica, 10 Ivi, n. 239, p. 270. Sulla maniera del “travestimento” metastasiano, che sembra non aver avuto alle sue spalle modelli rilevanti cui attingere, né per quanto concerne il passato né per quanto concerne il presente, cfr. gli studi di P. Arcari, L’Arte poetica di P. Metastasio, Milano, 1902; L. Dondoni, Della fortuna d’Orazio. L’Arte poetica tradotta e commentata da Metastasio, in «Rivista italiana di letteratura», 95, 1961, pp. 453-480; F. Della Corte, Metastasio e l’Orazio da lui travestito in Tradizione dell’antico nelle letterature e nelle arti d’occidente. Studi in memoria di Maria Bellinciossi, 1990; ID., Metastasio e l’«Arte poetica» d’Orazio, cit., pp. 166-186 e M. Volta, Metastasio, Orazio e l’arte poetica in Orazio e la letteratura italiana. Atti del convegno svoltosi a Licenza dal 19 al 23 aprile 1983 nell’ambito delle celebrazioni per il bimillenario nella morte di Quinto Orazio Flacco, Roma, istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994, pp. 333-343. 11 Le Imitations del Pope riguardano tuttavia in particolare le Satire. Gli Hints byroniani si possono leggere ora in G. G. Byron, Spunti oraziani. L’«Arte poetica» liberamente tradotta e interpretata da George G. Byron, a c. di V. Pepe, Venosa, Osanna, 1992. Per Leopardi (L’Arte poetica di Orazio travestita ed esposta in ottava rima, 1811) cfr. G. Leopardi, Tutte le opere, a c. di W. Binni-E. Ghidetti, I, Firenze, Sansoni 1989. 12 Versuch einer critischen Dichtkunst: Kommentar. Si intitolava così l’opera di Johann Christoph Gottsched, uscita per la prima volta nel 1730, il cui frontespizio recitava letteralmente: «Tentativo di una poetica critica per i tedeschi, in cui vengono dapprima trattate le regole generali della poesia, di poi tutti i generi letterari particolari illustrati con esempi, e dove però si mostra che l’intima essenza della poesia consiste in una imitazione della natura; in luogo di una METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 61 intende renderne nuovamente eloquenti gli enunciati, sottraendoli agli assurdi rigorismi di nuovi e vecchi filologi, apertamente combattuti nelle Annotazioni e nell’Estratto13, e prestando a essi nuove parole, in grado di richiamare problematiche estetiche nuove, di veicolare nuovi scenari di senso e di gusto, nuovi concetti. Questi concetti solo in parte pertengono alla sfera di competenza del genere drammatico toccato da Orazio, sulla quale verterà comunque il confronto con il testo aristotelico. Essi concernono innanzitutto l’opera d’arte nella sua generalità, la sua fruizione in quanto spectaculum, le qualità, la natura dell’artista. Inceptis gravibus plerumque et magna professis purpureus, late qui splendeat, unus et alter adsuitur pannus si legge ai vv. 14-15 dell’Ars14; Taluno ordisce opre sublimi e spesso Per vana pompa alla sua tela appunta Di porpora un ritaglio traduce Metastasio15. Versione ambigua e arbitraria, ancorché elegante, è stato rilevato, dove la «polisemica scelta di ordire, verbo tratto dall’arte del tessere, sta a indicare il lavoro preparatorio al fabbricare la introduzione è tradotta in versi tedeschi l’Arte poetica di Orazio, e spiegata con note». Cfr. N. Merker, Estetica fra vecchio e nuovo, in ID., L’illuminismo tedesco. Età di Lessing, Bari, Laterza, 1968, p. 212. Per Boileau cfr. N. D. Boileau, Arte poetica, a c. di P. Oppici, introduzione di F. Garavini, Venezia, Marsilio, 1995. 13 Costante, nelle due poetiche, il dialogo critico con gli esthéticiens alla D’Aubignac che confondono vero e verisimile, la presa di distanza dai rigoristi che pretendendo di dettarne le leggi dell’uso stravolgono il principio dell’unità dell’opera, il confronto serrato con i vecchi e i nuovi lettori e commentatori del testo oraziano: da Lambino a Dacier. Si vedano, per le Annotazioni oraziane, le osservazioni puntuali di F. Della Corte, Metastasio e l’«Arte poetica» d’Orazio, cit., pp. 170-172; per l’Estratto si rinvia invece all’Introduzione (pp. I-LXV ) di Elisabetta Selmi alla recente edizione per la Novecento di Palermo da cui d’ora innanzi si cita (P. Metastasio, Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, a c. di E. Selmi, Palermo, Novecento, 1998). 14 Si cita (qui e in seguito) da Orazio, Arte poetica. Introduzione e commento di A. Rostagni, Torino, Loescher, 1972. 15 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, in Tutte le opere di Pietro Metastasio, II, cit., p.1229, vv. 22-24. 62 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI tela»16. Versione poetica innanzitutto, essendo l’ambiguità specie per eccellenza della poesia. Versione al contempo attraversata dalla personale meditazione sul precetto del «simplex et unum», che informa i primi 37 versi del testo latino17. La nozione di partizione iniziale, di incipit, inequivocabilmente rinviata da questo in inceptis, viene non a caso eclissata dalla sovrapposizione metonimica del tutto alla parte, dal corto circuito semantico stabilito dal nesso «ordire»: «opera»18. Al poeta dell’Ars – chiarisce a se stesso e al lettore il poeta cesareo con la chiosa al suo testo – poco importa denunciare gli indugi descrittivi dell’incipit e la loro incoerenza con il tutto. Il fuoco dell’argomentazione oraziana è volto a denunciare l’inconvenienza dei «vani ornamenti», che, ovunque si trovino all’interno del testo, fanno perdere di vista l’insieme. 16 Così il Della Corte (Metastasio e l’«Arte poetica» d’Orazio, cit., p. 173) e ancora: «Altri esempi di incipere nell’Ars ci fanno invece propendere proprio per un inizio solenne […] cui succedono descrizioni che abbassano la gravità del tono sublime dell’epica e della tragedia. La sua interpretazione del v. 14 si fonda su due luoghi di Sallustio […] dove arbitrariamente Metastasio interpreta inceptum come impresa» (Ivi). 17 Come si legge nell’annotazione al v. 1: «Humano capiti: Ne’ primi trentasette versi raccomanda Orazio l’unità del Poema, l’analogia delle sue parti con un tutto solo, e fra di loro: mette innanzi agli occhi, con la stravagante immagine che figura, la mostruosità, che ridonda dalla trasgressione di questo precetto, ed accenna le cagioni principali che ci seducono a trasgredirlo. Solido e necessario insegnamento, che già ci aveva dato Aristotile, ma così dai critici inesperti di poesia sofisticamente spiegato; che se dovesse intendersi a lor modo, ridonderebbero d’irremissibili errori ed Omero, e Sofocle e Virgilio, e tutti i nostri più venerandi esemplari. Per isvilupparsi da cotesti pericolosi eruditi sofismi, convien ricorrere all’analisi de’ termini, de’ quali si è abusato, ed intender limpidamente in che sien distinti tra loro il vero dal verisimile: le imitazioni dalle copie: e l’unità poetica dalla matematica…Inchiesta troppo lunga in una nota, ma da me prolissamente eseguita ne’ primi capitoli del mio Estratto della Poetica d’Aristotile» (Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1255). 18 In quanto intrinsecamente connessa alla produzione dell’opera d’arte, la semantica di ordire (Ordisce…tela…telaio…ritaglio) è inequivocabilmente decodificata dallo stesso Metastasio in vari luoghi del suo epistolario: «Bisogna trovare un’azione che impegni; che sia capace di soffrire il telaio» (a Leopoldo Trapassi, 25 giugno I735: Lett., III, n. 97, p. 129); «[…] non ardisco ordir tela che possa troppo risentirsi dello svantaggio degl’interrompimenti» (a Francesco Algarotti, I6 settembre I747: Ivi, n. 265, cit., p. 321); «Il mio demonio drammatico […] mi suggerirebbe le fila per formarne la tela d’una favola teatrale» (al Capitano Cosimelli, 19 maggio 1769: Ivi, IV, n. 1781, p. 735); «che la Didone abbia potuto esser eletta, anche senza l’incendio a cui l’ho sempre creduta in gran parte debitrice di sua fortuna; che dovendo farsi in essa cambiamento sia caduta in mani così amiche e così maestre che la sua scrupolosa delicatezza abbia e voluto e saputo far uso così leggiadro de’ più minuti ritagli d’un panno immeritevole di tanto risparmio» (a Francesco Algarotti, da Vienna il 1742: Ivi, III, n. 201, p. 230). METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 63 Una descrizione non opportuna, quantunque si voglia eccellente, produce quello sconcio d’un componimento che per necessità produrrebbe una pezza, o ritaglio di porpora inutilmente soprapposto a veste o a qualunque cosa, che altri far si proponga. In somigliante fallo si può cadere in tutto il corso di un’opera, e non ne’ soli principij: onde io non credo come molti degli Espositori han creduto, che a’ principij soli abbia voluto Orazio restringere questo suo insegnamento: ma che, intendendo per la parola inceptis non principj ma imprese, tutto abbia voluto abbracciare il poema19. La questione dei «vani ornamenti» indotti dalle descrizioni non opportune, che intorno agli anni Sessanta trascina nel Laokoon di Lessing quella della poesia pittorica, legata alla produzione dell’artista mediocre, e finisce per toccare seriamente il rapporto tra le arti sorelle, mettendo in luce l’eterogeneità dei procedimenti imitativi attualizzati da queste, l’autonomia dei rispettivi linguaggi, ma anche il principio unificatore dell’armonia compositiva che li governa20, non è di poco 19 Cfr. annotazione al v. 14 (Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1256). E ancora: «Le narrazioni, e le sentenze morali s’intendono incluse in questo precetto. Esse, non meno che le descrizioni, sono materiali necessarj, ed insieme luminosi ornamenti d’un Poema, quando sono opportunamente impiegate: ma spesso la voglia di far pompa di quello, che meglio crediamo di saper fare, ci rende meno attenti nell’esaminarne l’opportunità: ed il perdere di vista, o per questo o per qualunque altra ragione, il principale oggetto del nostro lavoro, fa poi che si producan da noi opere imperfette» (Ivi); «[…] tutte le parti di un poema – si legge non a caso a proposito dell’annotazione al verso 23 dell’Ars – debbono esser membra convenienti di un corpo solo» (Ivi, p. 1257). 20 Gotthold Ephraim Lessing, nel suo Laokoon, mette sotto accusa, in quegli stessi anni, i poeti pittori, che mescolano tra loro il proprio di arti separate così che i modi dell’una invadono indebitamente campo dell’altra. «Può darsi che tutti i quadri poetici esigano una conoscenza preventiva dei loro soggetti. Non voglio neanche negare che in colui che già possiede una tale conoscenza, il poeta non possa suscitare un’idea più vivida di alcune parti. Gli chiedo solo che ne è del concetto del tutto? […] Se un poetastro, come dice Orazio […], non è in grado di proseguire, comincia a dipingere un boschetto, un altare, un ruscello che serpeggia per ameni praticelli, un rivo mormorante, un arcobaleno […]. Il Pope maturo considerava con grande disprezzo i tentativi pittorici della sua giovinezza. Egli esigeva espressamente che chi non volesse portare indegnamente il nome di poeta, dovesse rinunciare al più presto alla smania delle descrizioni, e dichiarava una poesia soltanto pittorica come un’offerta di ospitalità a base di solo brodo» (G. E. Lessing, Laocoonte, ovvero sui limiti della pittura e della poesia, a c. e con Introduzione di G. Cusatelli, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 156-157). 64 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI conto nelle varie discussioni sull’arte all’altezza degli anni Quaranta, basterebbe pensare al canone del bello stabilito dal Batteaux21. Certo deve evocare in Metastasio traduttore il problema dei rapporti tra parola recitata e parola cantata, incontrato nel corso della propria sperimentazione drammaturgica, lo scoglio della decoratività nella fabula melodrammatica, degli «interrompimenti» prodotti dalle «arie», il difficile equilibrio, insomma, tra le varie componenti di uno spettacolo capriccioso e irregolare, ma di enorme successo, che, da un secolo almeno, soffre di spinte centrifughe irriducibili, la cui immagine complessiva, nell’ottica dei riformatori provvisti di personale esperienza, e più ancora in quella dei critici puri, finisce per coincidere con l’icona inverosimile del mostro dipinto da Orazio nei primi 10 versi dell’Ars. Può, se non erro finalmente concludersi, che i moderni drammi, considerati un genere di poesia rappresentativa e di tragedia, sono un mostro, e un’unione di mille inverisimili si leggeva nel libro III, capitolo V, dell’opera del Muratori (Della perfetta poesia italiana, stampata a Modena nel 170622), mentre, nel suo lavoro del 1755, l’opera in musica era definita dall’Algarotti […] una delle più artifiziose congregazioni dello spirito umano, […] una composizione languida, sconnessa, inverosimile, mostruosa, grottesca, degna delle male voci che le vengono date e della censura di coloro che trattano il piacere da quella importante e seria cosa ch’egli è. 21 Ovvero quello del «concerto unitario delle arti» (Les Beaux Arts réduits à un meme principe, Paris, 1746), idea-guida dell’estetica metastasiana, pure incentrata sulla supremazia della parola («L’esecuzione d’un dramma è difficilissima impresa, nella quale concorrono tutte le belle arti, e queste, per assicurare, quanto è possibile, il successo, convien che eleggano un dittatore» (a Giovanni Francesco di Chastellux, il 29 gennaio 1766: Lett., IV, n. 1473, pp. 438); idea guida al contempo di tutta l’estetica settecentesca, che – avvertono Raimondi e Battistini (Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana, III, Torino, Einaudi, 1984, p. 129), corrisponde ossimoricamente al principio dell’imitazione creativa. Per un approfondimento cfr. F. Bollino, Teoria e sistema delle belle arti. Charles Batteaux e gli «Esthéticiens» del sec. XVIII, in «Studi di estetica», 3 (1976, ma 1979), pp. 217-224. 22 L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, libro III, cap. V, Modena, 1706. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 65 E il critico concludeva con una citazione dell’Addison, che, al Discorso V del I Tomo dello Spectator, dedicato al melodramma italiano, aveva non a caso premesso il verso di Orazio: «spectatum admissi risum teneatis amici?»23. La prospettiva attualizzante sottesa al travestimento concettuale di inceptis affiora, con fattispecie problematica diversa, nella resa di imus, l’epiteto di cui Orazio si serve, al v. 32 dell’Ars, per indicare la modestia, non certo la spregevolezza, del cesellatore, abilissimo nell’arte esatta e meccanicamente riproduttiva del dettaglio, ma incapace di ricreare la realtà effigiando l’insieme: Aemilium circa ludum faber imus et unguis exprimet et mollis imitabitur aere capillos, infelix operis summa, quia ponere totum nesciet (Ars, 32-35). «Dozzinale» si legge nella versione metastasiana, che corregge il dettato di esegeti e commentatori autorevoli, sostituendo al significato proprio del vocabolo latino, invalso solitamente presso questi ultimi (basso, ultimo, infimo di luogo), quello figurato indicante valore24 e inscrivendo così fin da subito nel proprio contesto la dialettica poeta 23 Cfr. F. Algarotti, Saggio sopra l’opera in musica, in Saggi, a c. di G. Da Pozzo, Bari, Laterza, 1963, p. 150. «Il proposito dell’Algarotti era di dimostrare la relazione che dovevano avere tra loro le varie parti costitutive dell’opera in musica perché ne riuscisse un tutto armonico, tale da «ravvisarsi in essa una viva immagine della greca tragedia, dove l’Architettura, la poesia, la Musica, la Danza e l’apparato della scena» creassero un’«illusione» tale per cui «di mille piaceri» se ne formasse «uno solo ed unico al mondo» (Ivi, pp. 190-191). 24 «È ben notabile che fra tanti e sì strani pareri non sia caduto in mente ad alcuno degli espositori che a me sono noti di attribuire alla parola imus non il significato proprio che vale ordinariamente basso, ultimo, infimo di luogo, ma il senso figurato, che può ottimamente trasportarsi dai gradi fisici di lunghezza, d’altezza o di distanza ai metaforici di merito, di ricchezza, di nobiltà, di scienza o di valore, dicendo per cagion d’esempio l’infimo de’ capitani o de’ poeti, degli artisti […]. Quando ancor non vi fosse esempio negli antichi scrittori dell’uso di questa parola imus nel senso figurato; chi ha mai detto che un traslato abbia bisogno d’esempi per esser permesso? La novità appunto di questo distingue gli eccellenti Poeti» (Annotazione al v. 32, in Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1258). 66 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI ordinario / poeta eccellente, copista pedissequo / imitatore creativo di cui, con argomentazioni “altre” rispetto a quelle che articolano i precetti oraziani per l’artifex ai versi 128-152 dell’Ars, a partire dalle dubosiane Reflexions sur la poesie et sur la peinture del ’17, si nutre abbondantemente il dibattito settecentesco sull’originalità e sul genio25: Quel, d’Emilio colà presso la scuola, Artista dozzinal l’unghie in metallo T’esprimerà: fia d’imitar capace Un molle crin: sempre infelice poi Nella somma dell’opra, il tutto insieme Perché accordar non sa26. A questo dibattito è in gran parte intonata la resa del v. 309: «Scribendi recte sapere est et principium et fons»: «Il buon giudizio è il capital primiero / Dell’ottimo scrittor»27 e l’ampia annotazione al v. 408: «Natura fieret laudabilie carmen an arte»: «Chieder si suol se la natura o l’arte / Faccia i buoni poeti»28 che ne riprende e ne decodifica il senso29. Il «buon giudizio», che connota in Metastasio la figura dei 25 «Du Bos è stato uno dei primi filosofi nel Settecento a formulare una teoria del genio e non sarebbe difficile individuare nei decenni che hanno seguito la pubblicazione delle Rèflexions l’enorme influenza che essa ha avuto su numerosi filosofi, critici e pensatori […]. La novità del Du Bos è di aver saputo legare indissolubilmente il concetto di genio a quello di opera d’arte […]. Du Bos si può considerare il primo filosofo che abbia legato genio e artista, individuando in esso la qualità esclusiva e sufficiente per produrre un’opera d’arte […]. Il genio è una facoltà sui generis senza la quale non può esistere arte ma solo artigianato […]. D’altra parte […] pur essendo natura, sorgività e spontaneità, non è né sregolarezza, né arbitrio […] si caratterizza per una condizione di libertà di cui non gode il mediocre, il «manovale» dell’arte, asservito a regole e principi imposti dall’esterno» (E. Fubini, Introduzione a J. B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, Milano, Guerrini e Associati, 1990, pp. 19-20). Per una trattazione più generale del concetto di genio legato all’arte nel trapasso tra Sette e Ottocento e oltre cfr. anche L. Cellerino, Genio e arte, in Letteratura italiana, V, Le questioni, Torino, Einaudi, 1984, pp. 943-964. 26 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 47-52. 27 Ivi, vv.467-468. 28 Ivi, vv. 630-631. 29 È una della più ampie annotazioni al testo oraziano, una sorta di piccolo trattato, nel quale Metastasio, oltre a rendere ragione della propria versione del v. 309 dell’Ars, riprende e sviluppa il METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 67 buoni, anzi degli ottimi scrittori e li staglia nettamente al di sopra degli scrittori mediocri, ordinari, «dozzinali» appunto, non coincide con la sapienza di ordine etico-filosofico cui rinviano le Socraticae carthae al v. 310 dell’epistola ai Pisoni: Rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae […] […] La merce ond’egli Fornir si dee, raccoglierà, se vuole, Da’ socratici fogli […]30. È un «sesto senso» del poetico, che presiede indistintamente al processo della valutazione e a quello della creazione artistica. Come tale, è dono gratuito del cielo, allo stesso modo dell’ispirazione, dell’estro, del furore, dello stato di eccitazione, di rapimento o di divino entusiasmo che la tradizione filosofica antica, aristotelica non meno che platonica, e l’estetica settecentesca del sublime, connettono alla figura del «poeta naturale». Chi lo detiene non è tuttavia assimilabile al «poeta naturale», perché affrancato dall’influsso dell’insania, che tinge di opacità irriducibili le manifestazioni espressive di questo. È invece guidato dall’equilibrio oraziano di ingegno e dottrina, dal freno all’impulso esercitato dall’arte31. testo dell’annotazione relativa, nella quale si legge fra l’altro: «Quel buon senso, o sia buon giudizio, che si spiega nel verbo sapere, è certamente fondamento principale del bene scrivere […] e cotesto sapere è puro e gratuito dono della benefica natura Senza di questo, il più distinto vigor dell’ingegno e la più profonda dottrina non solo non giovano, ma rendono facilmente ridicoli e dannosi i più eruditi scrittori. Cotesto per altro volontario dono del Cielo, per essere utilmente impiegato, ha bisogno della dottrina: la quale nelle cognizioni e nelle pratiche esperienze, delle quali non può fornirci la natura, gli somministra la materia e gli strumenti per operare utilmente. E la differente porzione di questo naturale preziosissimo dono ha sempre fatto e farà sempre la più sensibile differenza fra i grandi, fra i mediocri e fra gli uomini dozzinali» (Ivi, pp. 1273-1274). 30 Ivi, vv. 469-471. 31 Gli studiosi hanno creduto di intravedere una doppia poetica nel corso della produzione oraziana: quella dell’ingenium e dell’invasamento e quella della doctrina e dell’ars. Al tempo dei Sermones, Orazio avrebbe distinto tra poesia alta, connessa all’ingenium e all’ispirazione divina, e poesia di tono humilis, legata allo sforzo elaborativo. Nei Carmina avrebbe mostrato di ritenere necessaria per la poesia alta l’ispirazione dionisiaca. In seguito, nell’Ars, avvicinandosi alla sapientia, avrebbe messo in ridicolo, nei suoi aspetti più paradossali, l’ispirazione dionisiaca e sovrumana. 68 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI For Wit and Judgement often are at strife, Tho’ meant each other’s Aid, like Man and Wife. ’Tis more to guide than spur the Muse’s Steed; Restrain his Fury, than provoke his Speed; The winged Courser, like a gen’rous Horse, Shows most true Mettle when you check his Course. si legge nell’Essay on Criticism (1711) di Alexander Pope, che il freno dell’arte esplicitamente richiama nei suoi versi, invitando a dirigere più che a spronare il corsiero delle Muse32; […] perché cotesto efficace utilissimo impulso, che chiamasi Estro, non trascenda mai i limiti, pur troppo vicini, oltre de’ quali degenererebbe in pazzia; convien aver sempre presente l’aurea sentenza d’Orazio, Scribendi recte sapere est et principium, et fons. cioè: Il buon giudizio è il capital primiero dell’ottimo scrittor afferma il Metastasio nell’annotazione ed a tenore di questa star in guardia che non giunga mai l’Estro a turbar ne’ suoi trasporti l’equilibrio della ragione, ma che ne senta sempre l’impero. Siccome un ardente, ma bene ammaestrato corsiere nelle azioni le più focose, senza veruna repugnanza, ubbidisce ad ogni minimo cenno del freno33. 32 «Poiché il giudizio e l’ingegno, pur studiati per aiutarsi / a vicenda, sono sempre in conflitto, come moglie e marito. / Vale più dirigere che spronare il corsiero delle Muse, / più tenere a freno la furia che spingerlo in corsa: / come un cavallo generoso, il destriero alato / mostra la sua vera tempra quando ne controlli il percorso». Si cita da A. Pope, An Essay on Criticism, in Alle origini della letteratura moderna. Testi di poetica del Settecento inglese: il romanzo e la poesia, a c. di P. Nerozzi Bellman con contributi di E. Zuccato e di E. Sanson, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 478. 33 Annotazione al v. 408, in Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1277. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 69 L’antico assioma secondo il quale poeta nascitur, orator fit, che accredita presso i contemporanei della scuola di Zurigo il concetto di genio, sintesi ideale di creatività e sregolatezza, e fa dell’Orazio delle Odi il modello per eccellenza del poeta ebbro34, viene del tutto ridimensionato in Metastasio alla luce di una clarté cartesienne di indubbia matrice graviniana che rivisita i vv. 409-410 dell’Ars: […] ego nec studium sine divite vena, nec rude quid prosit video ingenium […] stringendo in un nodo indissolubile razionalismo e sensismo e indicando nell’artifex un prodotto dell’educazione letteraria e un dubosiano juge par sentiment35: Io senza il vanto Di ricca vena il solo studio, o senza Cultura il solo ingegno, inver non veggo Che vaglia a conseguir, d’esse ciascuna Tanto ha d’uopo dell’altra e tale è il nodo Che questa e quella in amistà congiunge36. In quanto prodotto dell’educazione letteraria, l’artifex non può confondersi coi «rustici giovanetti», e le «villanelle», che «non sapendo […] leggere, e ignorando […] qualunque metrica legge, cantan versi improvvisi su qualunque soggetto»; in quanto juge par sentiment, l’«acuta sensibilità all’armonia, al numero, ed al metro» di 34 Si allude all’attività critica degli svizzeri Bodmer e Breitinger, per i quali il poeta latino si propone come modello in quanto cultore per eccellenza dell’ode, considerata fra i generi lirici quello più squisitamente sublime, il più adatto all’espressione dell’entusiasmo. Cfr. D. Mugnolo, Lessing, Le «Riabilitazioni» e Orazio, in G. E. Lessing, Riabilitazioni di Orazio, Venosa, Osanna, 1992. 35 Contrapposto, per Du Bos, ai critici di professione, les gens du métier, del tutto prive di genio, che invece di servirsi del sentimento giudicano per via di erudizione, mettendo ogni cosa in discussione e soffocando ogni autentica percezione dell’arte. Cfr. J. B. Du Bos, Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, Paris, Jean Mariette, 1719 (vol. II, sez. XXV). 36 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 631-636. 70 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI cui è naturalmente dotato e la straordinaria «docilità, o sia attività del cuore» che lo connota nell’investirsi «delle varie umane passioni», gli impediscono di fare della sola precettistica il primum della poesia: […] per esser atto a divenir poeta, si legge ancora nell’annotazione al v. 408 è necessaria una natural acuta sensibilità all’armonia, al numero, ed al metro: quale è quella che s’incontra non di rado in Italia fra i rustici giovanetti, e le villanelle de’ contorni particolarmente di Firenze e di Roma: i quali, non sapendo per lo più né men leggere, e ignorando affatto qualunque metrica legge, cantan versi improvvisi su qualunque soggetto, che lor si proponga: e con la sola guida dell’orecchio non ne trasgrediscono mai gli accenti e le misure. Operazione, che a moltissimi uomini di distinto ingegno e dottrina e provveduto perfettamente di tutte le regole del metro riesce difficile e malsicura, se non ricorrono a contar le sillabe sulle dita. È necessaria una naturale docilità, o sia attività del cuore ad investirli facilmente delle varie umane passioni, che si vogliono in altri eccitare: effetto, che non può conseguirsi da chi non le sente prima in se stesso, come […] ha magistralmente Orazio insegnato37. Nonché semplice succedaneo del «buon gusto» arcadico che reagisce agli eccessi barocchi, il «buon giudizio» che caratterizza le operazioni dell’artifex rappresenta in tal modo il risultato di una competenza estetica riflessa, acquisita per arte, inscritta tuttavia nell’istinto e volta al sentire. Esso rende necessaria la trasparenza del messaggio, ma punta all’eccitazione della fantasia, assicura la nitidezza delle immagini, ma si preoccupa di suscitare emozioni, garantisce il pieno controllo della ragione, ma mira a commuovere il cuore. 37 Annotazione al v. 408, cit., p. 1276. «Learning we thank, genius we revere; that gives us pleasure, this gives us rapture; that informs, this inspires; and is itself inspired; for genius is from heaven, learning from man» si legge nelle Conjectures on Original Composition, in a letter to the Author of Sir Charles Grandison (1759) di Edward Young, dove si riflette sugli stessi concetti. Si cita da Alle origini della letteratura moderna. Testi di poetica del Settecento inglese: il romanzo e la poesia, cit., p. 380. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 71 L’universo razionalistico e al contempo sensistico-emozionale richiamato da Metastasio nella resa del v. 309 dell’Ars e nella chiosa ai vv. 408-409, che ne riprendono e ne dichiarano il senso, attraversa abbondantemente anche la nozione di stile consegnata alla traduzione dei vv. 99-100: Non satis est pulchra esse poemata: dulcia sunto et quocumque volent animum auditoris agunto. […] lo splendido stil pregio bastante D’un poema non è, senza quel dolce Incanto seduttor che il core altrui In mille affetti a suo piacer trasporta38. Il bello, ripronunciato dal patetico con la stessa semantica del «dolce incanto seduttore» elaborata nel Parnaso accusato e difeso del’38: È un dolce incanto Che d’improvviso Vi muove al pianto, Vi sforza al riso, D’ardir v’accende, Tremar vi fa39, la stessa che nella lettera al Chastellux del 29 gennaio ’66 indicherà il proprio della musica nell’opera melodrammatica: Conveniamo […] sia la musica un’arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze […] d’illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano40, 38 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 145-148. Cfr. Il Parnaso accusato e difeso, in P. Metastasio, Opere, II cit., p. 259. 40 Cfr. Lett., IV, n. 1473, cit., p. 436. 39 72 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI non include nell’orizzonte metastasiano le metafisiche oscurità d’espressione propagandate in Europa, intorno al quinto decennio del Settecento, dalla scuola svizzera di Bodmer e Breitinger41. Il «nebbioso stile» gotico, diffuso sia pure cautamente in Italia, nella seconda metà del secolo, dai novelli aristarchi Bettinelli e Baretti42, volto ad affettare il sublime al solo scopo di «facilitare lo spaccio» di «merci imperfette», e capace di trar «fuor di cammino» la comunicazione, «rompendo» la «catena, ossia connessione d’idee», inibendone la concreta fruizione, è esperienza assolutamente da evitare per Metastasio43. Per il poeta cesareo il bello si fa ethos catartico, che esalta per via di chiarezza la magia del linguaggio poetico e per via di chiarezza stempera gli affetti eccitati illimpidendo il piacere delle emozioni. Il poeta, scaltro e avveduto, può attingervi riducendo la sua opera a godibile spectaculum sia attraverso la lezione graviniana della meraviglia e dello stupore, sia attraverso il precetto oraziano dell’autocommozione. Nel primo caso è alla collocazione artificiosa delle parole che deve mirare, alla callida junctura addetta alla produzione metaforica, 41 Nelle Lettere critiche. Cfr. J. J. Bodmer- J. J. Breitinger, Critische Briefe, Zurich, 1746. Vedi anche supra nota 31. 42 Dal Baretti soprattutto nella «Frusta letteraria», con la risposta (Lettera di Onesto Lovanglia, 132) a una Lady inglese, dove il critico oppone la Lettera sull’entusiasmo dell’inglese Antony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury (1671-1713) al saggio Della perfetta poesia del Muratori (si può leggere ora in Baretti, Bettinelli, Gozzi. Polemiche letterarie nel secolo dei lumi, a c. di P. Bajoni, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, pp. 129-134); dal Bettinelli con Dell’Entusiasmo delle belle arti [1758], dove, facendo consistere nell’estro l’essenza della poesia, il critico si accostava a una concezione collocata ormai alle soglie del romanticismo. Sull’opera del Bettinelli cfr. almeno E. Bonora, Pietro Verri e l’«Entusiasmo» del Bettinelli, in «Giornale storico della letteratura italiana», XXX (1953), pp. 204-225. Ma si veda anche M. T. Marcialis, Comunicazione ed espressione in Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo. Atti del Convegno, Venezia, 6-7 febbraio 1997, a c. di I. Crotti e R. Ricorda, Prefazione di E. Sala Di Felice, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 49-65. 43 Cfr. l’annotazione al v. 408 cit., dove viene espressamente condannato il vizio dell’oscurità, che alcuni, invece di fuggire, cercano, ed affettano, come nobile pregio e sublime (Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1277). Cfr. anche la lettera del 6 aprile 1775 a Clemente Filomarino, dove il Metastasio loda la nobile chiarezza manifestata dalla prova poetica presentatagli dal suo destinatario, sottratta alle seduzioni del «nebbioso stile» di molti poeti sparsi per le contrade d’Italia, che «disprezzando il favore del popolo», cioè del «più sicuro mallevadore dell’immortalità», e affettando «profondità di sapienza e dottrina, si perdono tra le nuvole de’ confusi oracoli di Delfo» (Lett., V, n. 2185, p. 329). METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 73 all’abilità di combinare, trasferire, alterare i segni delle cose sensibili, spargendovi sopra il colore della novità, così che il vero si trasformi nell’inaspettato e il finto commuova a paragone col vero, come aveva insegnato il Gravina, chiaramente ripreso nelle chiose ai vv. 46-48 dell’Ars 44; nel secondo, al precetto oraziano dell’autocommozione, mediante la duplice arte dell’alienazione drammatica e dell’emotività simpatetica nell’analisi cartesiana delle passioni, nel chatoûillement dei sentimenti45, nella resa del cuore. 44 Dove si distingue tra nomi comuni e nomi ornati, evidenziando la superiorità della teoresi oraziana su quella aristotelica in materia, si confutano le interpretazioni del Lambino, del Dacier e del Sanadon e si parla di magia della metafora, magnificamente esemplificata proprio dalla callida junctura di cui si legge ai vv. 47-48 dell’Ars (Dixeris egregie notum si callida verbum / reddiderit junctura novum): «[…] junctura non significa appresso d’Orazio la cucitura di vari pezzi di parole, ma l’artificiosa collocazione delle parole intiere, che prendono un nuovo vigore dalla vicinanza di quelle alle quali sono applicate. E non so se a caso o per arte, nel pronunciar il precetto, ce ne somministra Orazio istesso l’esempio: poiché aggiungendo l’epiteto di scaltra alla congiunzione (callida junctura) trasporta ad essa la qualità dello scaltro scrittore, che l’ha formata: e con questo, non prima usato, trasporto, rende nuovo e mirabile l’epiteto di scaltro, ch’era notissimo per se stesso e comune» (Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., p. 1260). Sui magici effetti, della metafora, che Metastasio indica come il più ricco, più frequente, più ingegnoso capitale d’ogni poetica, quasi con le stesse parole, già si era espresso il Gravina in Della ragion poetica, del 1708: «[…] le cose umane e le naturali, esposte ai sensi, sfuggono dalla nostra riflessione, […] bisogna sparger sopra di loro il colore di novità, la quale ecciti maraviglia […]. Questo […] s’imprime nelle cose dalla poesia, che rappresenta il naturale sul finto; […] quel che per natura è consueto e vile, per arte diventa nuovo ed inaspettato […] la poesia è possente a muoverci gli affetti col finto a paragone del vero […] essendo la poesia una maga […] il [cui] mestiero è di scambiare le proprietà e di travolgere e permutare le sembianze e gli oggetti: Dixeris egregie notum si callida verbum reddiderit junctura novum» (Cfr. G. F. Gravina, in Della ragion poetica, Lib.1, capp. 11 e 14, in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Roma-Bari 1973). 45 La graviniana titillazione, ovvero il sentimento complesso che si prova – afferma lo studioso, traducendo nella sua poetica il nodo concettuale che era già nel Traité des passions de l’âme di Cartesio (1649) –, quando a molti affetti, quantunque mesti, è perlopiù innestato il diletto e particolarmente quando assistiamo alla rappresentazione delle tragedie e delle mestizie. Allora infatti godiamo d’affligerci, perché l’animo è da leggier titillamento stimolato senza che sia scosso e costernato» (Ivi, cap.11). Nel Traité si leggeva: «[…] on prend naturellement plaisir à se sentir émouvir à toutes sortes des passions, mesme à la Tristesse et à la Haine, lors que ces passions ne sont causées que par les avantures estranges qu’on voit representer sur un theatre, ou par d’autres pareils sujets, qui ne pouvant nous nuire en aucune facon, semblent chatoüiller nostre ame en la touchant» (R. Descartes, Les Passions de l’âme, art. XCIV, in Oeuvres, XI, par C. Adam et P. Tannery, Paris, 1897-1913, p. 339). Il concetto è ripreso anche dal Caloprese nell’Esposizione delle Rime del Casa (1684): «[…] la lettura, o rappresentazione de’ tragi- 74 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI A quest’arte, afferma Metastasio, commentando i vv. 102-103 del testo latino con la scorta dei maestri Caloprese e Gravina e del francese Du Bos, a loro volta lettori di Orazio, si deve «il più esquisito di tutti i piaceri», giacché rende «visibili le diverse, ne’ diversi individui, interne alterazioni degli affetti» 46. L’ottimo poeta – il poeta drammatico in particolare – vi si dispone sdoppiandosi sulla scena del testo allo stesso modo dell’attore, che s’investe del sentire degli altri spogliandosi del proprio: […] si vis me flere, dolendum est primum ipsi tibi si legge in Orazio ai vv. 102-103 dell’Ars; Se vuoi ch’io pianga, Piangi tu primo, e dal tuo duol trafitto Eccomi allor ripete Metastasio47, che riconosce al poeta latino il merito di aver stigmatizzato in due versi la superiorità del drammaturgo sull’uomo comune nel governare il grande teatro delle emozioni, la possibilità, ignorata da Aristotele nella sua Poetica, di scordarsi di sé parlando col cuore altrui, di far piangere sentendosi afflitto, sintetizzando in un istante figure diverse, rendendo spontaneo l’artificio, apparendo a un tempo lontano e vicino, presente e assente, o, per meglio dire, «sur la ci, et dolorosi avvenimenti desta in noi o la Tristizia, o la Compassione, o lo Sdegno, o altro doloroso affetto, secondo la diversità degli oggetti, che si rappresentano alla Phantasia: et nel medesimo tempo, per lo destamento di cotali affetti, s’infonde, per così dire, nell’animo un piacere di tanta soavità, che ci rende quella lettura, et quella rappresentazione fuor di modo grata, et piacevole» (Rime di M. Gio. Della Casa, sposte per M. Aurelio Severino secondo l’Idee d’Hermogene, con la giunta delle Spositioni di Sertorio Quattromani, et di Gregorio Caloprese, In Napoli, presso Antonio Bulifon, MDCXCIV, p. 242). 46 Cfr. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. XXVI, p. 167. Il «più esquisito di tutti i piaceri» è «il piacere di tanta soavità che ci rende la rappresentazione fuor di modo grata, et piacevole» di cui parla il Caloprese (Rime di M. Gio. Della Casa, sposte per M. Aurelio Severino secondo l’Idee d’Hermogene, con la giunta delle Spositioni di Sertorio Quattromani, et di Gregorio Caloprese, cit., p. 242). 47 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 150-152. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 75 scène et à l’orchestre», come ben illustrava il contemporaneo Diderot nel suo Paradoxe sur le comedien del ’7348. Non so perché abbia taciuto Aristotile il merito più grande del tragico poeta, cioè quello di soddisfare, scrivendo, all’indispensabile impegno di scordarsi affatto di se medesimo, di non parlar mai col proprio, ma sempre col cuore altrui; si legge nell’Estratto arte che suppone una ben difficile conoscenza ed una non comune attività a poter assumere a suo talento il carattere, cioè le disposizioni dell’animo d’un personaggio introdotto; arte che produce il più esquisito di tutti i piaceri, mentre rende visibili le diverse, ne’ diversi individui, interne alterazioni degli affetti umani; de’ quali, a seconda del bisogno, investito il poeta, ne investe l’animo de’ suoi spettatori, e seco dolcemente li trasporta dove gli aggrada; arte magistralmente insegnata da Orazio nella sua Poetica49. 48 «C’est au sang- froid à tempérer le délire de l’enthousiasme […]. Ce n’est pas l’homme violent qui est hors de lui-même qui dispose de nous; c’est un avantage réservé à l’homme qui se possède» (D. Diderot, Paradoxe sur le comédien, in Id., Oeuvres esthétiques, Paris, Garnier, 1968, pp. 309, 307). Diderot – sostiene Lucia Roller – mostra l’attore «al bivio fra sensibilità e intelligenza nel momento in cui deve esprimere qualcosa che non si può ricondurre alla sua persona e al suo tormento, ma un compromesso tra menzogna e verità»; Metastasio – afferma Claudio Varese – sembra «rintracciare in se stesso, per conto suo e come autore, i termini della contrapposizione del Paradoxe sur le comédien dell’attore distante, puramente professionale e intellettuale, e dell’attore emotivamente ed esistenzialmente partecipe» (cfr., rispettivamente, L. Roller, Il teatro europeo nel Settecento, in AAVV., Mappe della letteratura europea e mediterranea, II. Dal Barocco all’Ottocento, a c. di Gian Mario Anselmi, Introduzione di A. Prete, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 183; C. Varese, Metastasio scrittore in prosa, in Metastasio e il melodramma. Atti del Seminario di Studi. Cagliari 29-30 ottobre 1982, a c. di E. Sala Di Felice e L. S. Nowé, Padova, Liviana, 1985, p. 24. Per il Paradosso cfr. P. Alatri, Introduzione a D. Diderot, Paradosso sull’attore, Roma, Editori Riuniti, 1972 e G. Cerruti, Le paradoxe sur le comédien et le paradoxe sur le libertin. Diderot et Sade, in «Revue des sciences humanes», ns., n. 146, 1972, pp. 235-251). 49 Cfr. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. XXVI, pp. 167-168. Si tratta di una parziale riscrittura di un passo delle bubosiane Réflexions, laddove si dice che: «Tra tutti i talenti che danno potere, quello più valido […] è […] la capacità di commuovere gli altri uomini a proprio piacimento; cosa realizzabile principalmente apparendo a propria volta commossi e pervasi dai sentimenti che si vogliono suscitare» (J. B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., p. 58). 76 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI Il precetto dell’autocommozione non prevedeva in Aristotele lo scenario dello sdoppiamento e dell’emotività simpatetica configurato in Metastasio dal vario “spettacolo del cuore”; la dialettica alienazione /rispecchiamento, che attraversa, nel poeta cesareo, la lettura del dettato oraziano, rimaneva estranea alla teoresi dello Stagirita. Aristotele si preoccupava semplicemente che la mimesi messa in atto dal poeta drammatico con il processo dell’autocommozione fosse congrua alla catarsi della fabula tragica da lui progettata; gli bastava – afferma Metastasio – che il poeta drammatico fosse esattamente «nel caso e nelle passioni» – pietà e terrore – che intendeva rappresentare, sino al punto di accompagnarle col moto e col gesto: Vuole saviamente Aristotele che, nel tessere la sua favola si figuri il poeta d’esser nel caso e nelle passioni che vuol rappresentare e sino al segno che immaginandole, le accompagni anche col gesto (Ars, 101) essendo certissimo che chi vuol commuovere altri, conviene che abbia prima messo in moto se stesso50. Incrociando la lettura dello Stagirita con quella dell’Ars, il poeta cesareo affida a Orazio il compito di superare la teoresi aristotelica, sanzionando la distanza creatasi, proprio sul piano della catarsi, tra il dramma antico e quello moderno. Per il tramite oraziano intende legittimare l’ampliamento a dismisura registratosi, nel corso del tempo, nello spettro degli affetti eccitabili («In mille affetti a suo piacer trasporta» recita non a caso la resa del v. 100 del testo latino), la metamorfosi subita dal principio stesso della loro purgazione, la sua sostituzione con la strategia del coinvolgimento emotivo dello spettatore, con la pratica corneilliana dell’admiration51. 50 Cfr. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. XVII, p. 135. Esemplarmente messa a fuoco nello studio di E. Sala Di Felice, Il desiderio della parola e il piacere delle lacrime nel melodramma metastasiano, in Metastasio e il mondo musicale, Atti del Convegno della Fondazione Cini (21-23 settembre 1982), a c. di M. T. Muraro, Firenze, Olschki, 1986, che sottolinea come il progetto drammaturgico metastasiano di una tragedia non più fondata sulla catarsi, l’aristotelica purgazione degli affetti, ma sulla corneilliana admiration, fosse già in nuce nelle poetiche aristoteliche francesi e in particolare nella Poétique dell’abate La Mesnadière 51 METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 77 In obbedienza a tale pratica, affrancato dalla necessità di commuoversi in funzione dell’oggettività drammatica della fabula, liberato dall’unico vincolo del terribile e del compassionevole, il moderno poeta tragico – si legge nelle chiose a entrambe le poetiche –, può commuoversi per intenerire o per sottrarre alla noia, per rendere visibile, quindi insieme ammirevole e razionalmente controllabile, il gioco perturbante delle passioni, per eccitare infine, ma anche per raccordare tra loro, «delectando» – alla maniera oraziana – «pariterque monendo», i «mille diversissimi aspetti» della virtù (amicizia, gratitudine, amor di patria, costanza, generosità) e i «mille affetti» del cuore: Parmi […] che l’ammirazione della virtù, rappresentata in mille diversissimi aspetti – come nell’amicizia, nella gratitudine, nell’amor della patria, nella costanza de’ disastri, nella generosità co’ nemici ed in tante altre sue commendabili modificazioni –, e l’aborrimento, all’incontro, delle malvagie disposizioni del cuore umano […] siano tutti mezzi efficaci per dilettare non meno che per giovare, senza condannare lo spettatore a dovere inorridire eternamente ed eternamente a compiangere52. Il piacere moltiplicato suscitato da questo vario teatro di figure edificanti e patetiche ha il potere di decantare negli spettatori quello suscitato dalle emozioni reali, di trasfigurarlo, assimilandolo in qualche modo al «plaisir pur» di cui parla ancora una volta il Du Bos nelle sue Réflexions, di modificare psicagogicamente la natura stessa degli spettatori53. Non più costretti all’unico effetto catartico di azioni viziose e spregevoli, non più condannati soltanto a «inorridire eternamente» e a «eternamente compiangere», questi possono di volta in volta decretare il successo o l’insuccesso dell’opera drammatica cui assistono proprio in virtù dell’unico godimento da quella eccitato; possono, sulla 52 Cfr. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. IV, p. 121. Creando des êtres d’une nouvelle nature, capaci di emozione estetica. L’arte – afferma Du Bos – può infatti «separare le cattive conseguenze connesse alla maggior parte delle passioni da ciò che presentano di piacevole, può produrre oggetti che suscitano in noi passioni artificiali in grado di tenerci occupati nel momento in cui le sentiamo e incapaci, in seguito, di essere causa di pene reali e di vere afflizioni». Cfr. J. B. Du Bos, Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, cit., Parte I, sez. III, p. 52. 53 78 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI base di tale godimento, applaudire l’autore per la somiglianza alle proprie delle passioni rappresentate, rigettarne la fabula a causa della loro incredibilità. Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi aveva affermato Orazio al v. 188 dell’Ars, chiudendo fermamente il sipario su un piccolo catalogo di casi orridi e portentosi da sottrarre all’azione drammatica, e: Ficta voluptatis causa sint proxima veris, ne quodcumque volet poscat sibi fabula credi aveva ripetuto ai vv. 338-339, intrecciando tra loro verisimile e diletto e facendo della fruizione un momento fondamentale nel processo di elaborazione dell’opera, in quanto esteticamente legato alla sua stessa produzione di senso. Tutto ciò che a mostrar prendi in tal guisa, Il mio soffrir, la mia credenza eccede, e se vuoi dilettar, simile al vero Sia ciò che fingi: e dell’altrui credenza; Non abusar […] traduce Metastasio54, che nell’allegare i due luoghi oraziani a commento della teoresi aristotelica in materia di «portentose rappresentazioni», sottolinea, nell’Estratto, la profonda differenza di prospettiva che separa tra loro lo Stagirita e il poeta di Roma, la sua personale affinità con quest’ultimo, latore di un concetto di verisimile sciolto dall’obbligo, ormai intollerabile, della stretta aderenza all’antico cano- 54 Cfr. Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 284-285 e 514-516. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 79 ne tragico, aperto ai diversi riusi della moderna drammaturgia settecentesca, duttile alle oscillazioni del gusto e alle istanze del «buon giudizio», alle leggi della bienséance e del decoro che governano i costumi della società e alla immediatezza e alla naturalità del sentire popolare55. A questo sentire, che affonda le sue radici nel sentire medesimo del poeta drammatico, e dal quale il poeta drammatico non può in alcun modo prescindere, pena il venir meno dell’utilità del messaggio che intende trasmettere, si intona senz’altro l’adesione critica, da parte di Metastasio, al precetto oraziano dei cinque atti, assunto nel tempo ad avallo di concezioni rigide e astratte della perfezione drammaturgica, come le pseudo-aristoteliche tre unità, a conferma di una normatività essenzialmente dogmatica del canone, inteso come struttura autoritaria e coercitiva intangibile, assai più che come organizzatore generale di senso, atto a preservare dai rischi dell’incoerenza e del disordine formale. È in aperto dissenso nei confronti di tali concezioni, e nell’intento di affermare il margine di empiricità delle regole, la discrezionalità nella loro applicazione, la loro soggezione a principi estetici “altri”, primo fra tutti proprio quello della fruizione sociale dell’opera, proclamato come fondamentale nella pressoché contemporanea Hamburgische Dramaturgie di Lessing56, che il poeta cesareo, rileggendo in chiave moderna il senso dei vv. 189-190 dell’Ars: Neve minor neu sit quinto productior actu fabula, quae posci vult et spectata reponi 55 «Vieta anche Orazio le portentose rappresentazioni, ma rende ben diversa ragione del suo divieto. Ei dice che queste non sono sofferte dagli spettatori, perché nulla hanno in sé di credibile, e cotesta spiegazione è più proporzionata al mio intendimento» (Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. XIV, p. 121). 56 Sia pure nell’ipotesi, lontana dalle linee di ricerca perseguite da Metastasio, di un tragico liberato dall’ingombrante eredità di Corneille e di Racine, sciolto dai vincoli della maestosità, colto nella sublimità tutta borghese degli Affekten, nella manifestazione di sentimenti naturali capaci per se stessi di garantire alla rappresentazione un’intima verisimiglianza e un’intrinseca universalità. Cfr. G. E. Lessing, Drammaturgia d’Amburgo, a c. di P. Chiarini, Bari, Laterza, 1956, pp. 330 e 404. 80 RISCRIVERE GLI ANTICHI, RISCRIVERE I MODERNI Favola che richiesta e replicata Esser pretenda, alla comun misura De’ cinque atti s’adegui, e non si stenda Né più né men57, può affermare: […] il sentimento di questo insigne maestro ne’ due citati versi è ben differente da quello che si è comunemente adottato e che le parole a prima vista presentano. Sarebbe troppo assurdo credere che asserisse Orazio, che il dividere in cinque atti, e non più né meno, una tragedia, fosse qualità necessaria alla sua perfezione. Ma è ben prudentissimo e di lui ben degno consiglio l’avvertire il poeta che, per piacere al popolo ed essere con istanza ridimandato, non basta che il dramma sia intrinsecamente perfetto; […] conviene ancora aver grandissima cura di secondare in esso, scrivendolo, il comodo e l’assuefazione degli spettatori, a’ quali se ne destina la rappresentazione. […] Se avesse Orazio scritta la sua Arte poetica quarant’anni innanzi, avrebbe forse raccomandata la divisione de’ drammi in tre atti, per la ragione stessa per la quale, quaranta anni dopo, in cinque prescrisse che si facesse58. Se il popolo che assiste all’opera drammatica entra dunque in qualche misura nel piano compositivo di questa, segnalatore affatto secondario del suo successo finale, è il canone oraziano, in quanto canone flessibile, in quanto canone “aperto”, e quindi in contraddizione soltanto apparente con se stesso, a prevederne e a legittimarne l’ingresso. L’apparente contraddizione del canone – è quanto, in ultima istanza, si evince nella rilettura metastasiana dell’Ars –, non è che il segno del suo equilibrio, della sua vitalità, del necessario relativismo culturale inscritto nella sua precettistica. Mescolando «utile» e «piacere», verosimile e diletto, coniugando tra loro ambiti tradizionalmente distinti di pensiero, questo sostanziale equilibrio del canone, qui come altrove, non soltanto indica al poeta cesareo la maniera di liberarsi degli ingombranti apparati filologico 57 58 Dell’arte poetica. Epistola di Q. Orazio Flacco a’ Pisoni, cit., vv. 286-289. Estratto dell’Arte poetica d’Aristotile, cit., cap. XII, pp. 110-111. METASTASIO TRADUTTORE E LETTORE DI ORAZIO 81 antiquari che gli inibiscono la possibilità di comprendersi e di giustificarsi con se stesso59, gli consente anche di attingere ai risultati più maturi dell’empirismo critico del suo tempo. Per suo tramite egli può comporre in un unicum regole e affetti, cuore e ragione, sensiblerie e philosophie, consegnando alla versione del testo latino e alla pur frammentaria poetica delle Annotazioni e dell’Estratto, che ne riprende e ne rielabora i concetti, quella sintesi ideale di contrari nella quale si è voluto giustamente riconoscere il tratto più pertinente della sua lunga meditazione sull’arte60. 59 «L’oggetto di questi miei lavori – scriveva a Mattia Damiani il 3 gennaio 1774 a proposito della versione annotata dell’Ars e delle chiose alla poetica aristotelica dell’Estratto – è stato unicamente la premura di convincere me medesimo e giustificarmi nell’interno mio tribunale» (Lett., V, n. 2130, p. 275); «Non solo la mia versione in verso italiano della Poetica di Orazio con le note che ho credute necessarie, ma un Estratto di quella d’Aristotile con osservazioni che hanno reso e più laborioso e più lungo il lavoro, sono da qualche tempo affatto terminati – scriveva un mese più tardi, il 28 febbraio 1774, a Giuseppe Aurelio Morano – ed io ho esatto il premio della mia faticosa occupazione nell’essermi giustificato con me medesimo e nell’aver impiegato l’ozio mio senza rimorsi» (Ivi, n. 2139, pp. 284-285). 60 Decifrazione desanctisiana del poeta Cesareo, ripresa da Gavazzeni (Studi Metastasiani, 1964) e correttamente reinterpretata da Cesare Galimberti attraverso il tramite hegeliano (cfr. C. Galimberti, Metastasio, ad vocem, in Dizionario critico della letteratura italiana, UTET, 1973). Per una panoramica d’insieme cfr. M. G. Accorsi, Vent’anni di studi metastasiani (1968-1988), in «Lettere italiane», XLI (1989), n. 4, pp. 604-627.