Oggettivazione del corpo femminile
> di Laura Sugamele*
Abstract
Il presente articolo ruota attorno al concetto di oggettivazione del corpo femminile, alla
cui base vi è l’azione che la cultura, la società e i meccanismi di comunicazione attuali
come pubblicità, pornografia e le immagini, in generale, che sviliscono il genere
femminile, attuano principalmente sulla sessualità. Agendo su di essa, si agisce sul corpo
al fine di modellarlo esteticamente ed esteriormente, ma non solo. L’utilizzo che i mass
media fanno del corpo femminile, infatti, è atto allo scopo di orientare la figura o il ruolo,
mediante una sua falsificata rappresentazione, mantenendo, in tal modo, inalterati gli
stereotipi, per poi, concludere con una breve disamina sul rapporto tra oggettivazione del
corpo femminile e utilizzo delle tecnologie.
Corpo, immagine e stereotipo femminile
L’oggettivazione del corpo implica che il corpo sia strettamente connesso
alla società stessa, nel quale questo corpo è collocato e su cui essa inscrive
determinati significati. In tal senso, il corpo maschile o femminile viene
letto a partire dal sociale che ne fa luogo di riconoscimento e
differenziazione. Premettendo che il riconoscimento sociale del corpo
comporta una frammentazione simbolica di esso, sono i mezzi di
comunicazione che rappresentano lo strumento atto a questa costruzione
simbolica. Da questo punto di vista, l’individuo viene determinato
socialmente mediante il corrispondente riconoscimento in immagini e
codici culturali e questo meccanismo contribuisce ad assegnare «un
preciso ruolo sociale e un’identità ben definita» (Paola Giacomazzi, 2012,
p. 5).
Tale meccanismo ha una fisionomia sostanzialmente pervasiva attraverso
l’interiorizzazione di modelli che vengono presentati dalla pubblicità e
dalle riviste e che, pertanto, propongono un modello generale di bellezza
femminile, spesso, irraggiungibile o irreale. «L’attenzione a raggiungere la
propria espressione […] si è mercificata nell’autosoddisfazione che deriva
dalla perfezione del corpo. L’autoespressione è divenuta ottimizzazione
dell’espressione corporea nei canoni socialmente condivisi» (Caterina
Arcidiacono, 2012, p. 5).
Il risultato di ciò può manifestarsi negativamente nella percezione delle
donne maggiormente come qualità fisica. È interessante osservare, che la
società occidentale ha infatti privilegiato eccessivamente il corpo, il quale è
divenuto l’indicatore della soggettività individuale «complice il sistema dei
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media nel suo complesso, che riveste un ruolo fondamentale nel processo
di costruzione sociale del corpo» (Patrizia Calefato et al., 2009, p. 37).
Da un altro punto di vista, la femminista Annette Baier sostiene che gli
individui si determinano socialmente attraverso le relazioni interpersonali
che già instaurano nell’infanzia e che, poi, si concretizzano e condizionano
i comportamenti e azioni, all’interno del sistema di decisioni e pensieri che
vengono a formarsi in età adulta. Nella prospettiva esposta dalla Baier,
l’individuo non si presenta come soggetto autonomo nelle decisioni e
azioni; esso è in realtà influenzato da questo sistema di relazioni (Roberto
Mordacci, 2003, p. 239). Baier afferma che gli esseri umani sono «persone
seconde» (Ibid.), il risultato dei significati che le persone attribuiscono
quando si relazionano con altre persone. Detto ciò, le donne «non sono
state pensate come soggetti razionali autonomi e hanno dovuto definirsi in
base alle relazioni» (Ibid.). Vi è dunque connessione tra le pratiche socioculturali e il corpo che viene così modellato attorno a tali pratiche.
L’aspetto che attualmente il femminismo sottopone a critica è la
rappresentazione di genere proposta dai media. I messaggi che essi
forniscono danno enfasi al corpo delle donne, condizione che tende a porre
in secondo piano le qualità intellettuali femminili. Il proporre visivamente
un’immagine di eccesso di magrezza, si allinea con l’idea di un corpo
femminile oggettivato (Cfr., Patrizia Calefato et al., op cit., p. 40).
Secondo la prospettiva femminista, «l’enfasi sulla bellezza del corpo
femminile riprodurrebbe l’asservimento delle donne sia alla cultura
patriarcale (nel far dipendere la propria autostima dal giudizio e dallo
sguardo maschile, o male-gaze), che alle logiche del mercato (inducendole
a spendere una fortuna per riuscire a riprodurre il corpo ideale snello, che
garantirebbe appunto la possibilità di tale sguardo)» (Ibid.). Nello
specifico, l’oggettivazione del corpo femminile avrebbe nello sguardo
maschile l’azione principale di tale oggettivazione. Nello sguardo
oggettivante si attuerebbe un meccanismo psicologico, in quanto nel
momento stesso in cui la donna si percepisce nello sguardo altrui come
oggetto, ella tenderebbe ad interiorizzare in se stessa tale atteggiamento.
A tal proposito, la bioeticista Susan Sherwin osserva che, storicamente,
l’approccio medico si è caratterizzato per l’interesse posto sul corpo
femminile e la riproduzione.
In particolare, dalla metà del XIX secolo, la medicina si è incentrata
notevolmente sulla riproduzione femminile e la fase gestazionale. È in
questo periodo storico che emergerebbe una stretta connessione tra
pratica medica, paternalismo e oggettivazione-medicalizzazione del corpo
delle donne. Altresì, nell’analisi di Sherwin, emerge come l’adattamento
del corpo femminile attorno a dei specifici canoni estetici non fosse solo un
fattore riferito ad una particolare fase storica, bensì come essa sia invece
continuativa, anche, nella società di oggi. Premettendo che Sherwin
riconduce le sue riflessioni, in particolare, alla società americana, la
problematica viene esaminata con riguardo il ruolo che in essa hanno le
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autorità mediche sul discorso della salute e del peso. Precisando che la
posizione della studiosa non è contro il consiglio medico per il controllo
dell’obesità che, tuttavia, rappresenta un reale problema per la salute; ciò
su cui ella puntualizza, è l’esposizione a canoni estetici di cui le giovani
donne americane soffrono. Questa omologazione viene supportata da
modelli culturali e, alla fine, orienta persino le prescrizioni mediche ai fini
del raggiungimento del personale benessere, per lo più, legato ad un
fattore estetico e meno ad una questione reale di salute. Tale
atteggiamento porta le donne a percepirsi come inadatte per l’ideale
estetico generale e a biasimarsi.
In tal senso, secondo Sherwin «nel pensare […] la donna come corpo»
(Adriana Cavarero, 1995, p. 9), è normale che subentri in lei una pressione
e una frustrazione interiore per l’incapacità di realizzare e adattare questo
canone esteriore in se stessa. Inoltre, l’ideale della snellezza comunicato
dalla pubblicità diffonde significati diversi, nel senso che differisce una
forma inversa di valore femminile come diminuzione e oggettivazione
sessuale. Di converso, ci sono immagini pubblicitarie che propongono
donne dedite al mondo del lavoro e che assumono atteggiamenti di
rigidità e un iper-controllo esagerato, assumendo e adattandosi a quelle
caratteristiche considerate prettamente maschili.
«L’ideale di un sé perfettamente gestito e regolato all’interno di una
cultura consumistica» (Patrizia Calefato et al., op cit., p. 45), invece, offre
solo «l’illusione di sapersi dominare, di esercitare autocontrollo e potere su
di sé» (Ibid.) Allora, c’è da chiedersi se siamo di fronte ad un nuovo tipo di
oggettivazione delle donne. Naturalmente, l’immagine che i media
propongono della donna, si allinea con l’attuale riflessione femminista
sull’oggettivazione del genere femminile. Da questo punto di vista, infatti,
«la società consumistica, di cui i mass media sono l’espressione più diretta
e conseguente, […] ha contribuito a rendere fasce della società
particolarmente accorte e suggestionabili delle immagini femminili e
maschili trasmesse» (Mirella Zecchini et al., 2005, p. 22).
Oggettivazione e sessualità
Tra gli anni Sessanta e Settanta, le femministe riconducono il discorso
sull’oggettivazione del corpo femminile alla sessualità che, tra l’altro, è uno
dei temi fondamentali connesso alla liberazione delle donne.
Questa prospettiva teorica, negli anni Ottanta, porta invece una parte del
femminismo ad estendere il discorso assumendo una posizione critica nei
confronti della pornografia, individuata come nuovo strumento di
oggettivazione. Secondo, Andrea Dworkin e Catharine Mackinnon,
l’industria pornografica tende ad acuire tale oggettivazione riducendo la
donna a semplice materialità. Nella pornografia il soggetto-donna si
tramuta in oggetto-donna. Nello specifico, il corpo femminile è plasmato
sulle esigenze maschili, all’interno di un «contesto prostituzionale»
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(Brunella Casalini, 2011, p. 346), venendo strumentalizzato in quanto
parte di un sistema capitalistico generale, inclusivo della distribuzione e
commercializzazione del prodotto.
La linea critica del femminismo individua la pornografia come elemento
altamente oggettivante delle donne e di continuità della loro
sottomissione, in quanto nuovo fulcro del potere fallocentrico (Cfr., Valeria
Giordano et al., 2006, p. 212). Il corpo pornografico è così alienato in un
circuito di produzione-consumo, all’interno di una logica in cui ogni parte
di questo corpo è smembrato in un sistema standardizzato di domanda e
offerta. Analogamente, il sistema della vendita pubblicitaria cosmetica ed
estetica femminile, fa emergere, come sul corpo femminile vi siano delle
attese e per questo soggetto a progetti trasformativi. Tammy Quintanilla
Zapata, avvocato ed esperta di discriminazione di genere e di traffico
illegale di donne presso le Nazioni Unite, sostiene che la pornografia si
pone su un livello simile alla prostituzione, in quanto in entrambi i casi si
istituisce una oggettivazione e una commercializzazione conclamata della
femminilità ridotta a merce, i cui derivati economici sono connessi alla
fruibilità e al potenziale profitto del commercio, del prodotto sessuale
scambiabile (Cfr., Aurora Javate de Dios et al., 2006, p. 65).
Tra gli anni Ottanta e Novanta, il movimento femminista si è notevolmente
interessato a discutere su tale problematica, grazie alla diffusione in
ambito accademico e di ricerca dei Women’s e Gender Studies, per poi
spostare l’attenzione sul terreno giuridico e individuandolo come lesione
dei diritti umani. Ci sono vari fattori che conducono le donne,
prevalentemente giovanissime, ad essere vittime della prostituzione.
A causa dell’insicurezza e della povertà nella quale le donne sono costrette
a vivere, soprattutto, se pensiamo a paesi come l’America Latina o al sudest asiatico, esse si avvicinano a questa situazione di terribile natura,
magari ingannate e perché in cerca di un futuro guadagno, o persino, per
fuggire da violenze precedenti subite nei paesi di provenienza (Cfr., p. 76).
È certo, che le femministe identificano la violenza e le azioni di
oppressione sulle donne in generale, nella percezione che si ha di loro
come di un essere parziale. Detto ciò, l’asimmetria di genere è strettamente
collegata alla perdita del riconoscimento con l’Altro.
Alla luce di tale osservazione, risulta rilevante il rapporto tra violenza e
corpo, in particolare, considerando i contesti di guerra nei quali le donne
sono le vittime preferenziali di prevaricazione e aggressività maschile. Con
la violenza sulle donne nei contesti di guerra, ad esempio la guerra in
Bosnia-Erzegovina, si supera l’ambito strettamente oggettivante del corpo
femminile, perché in questo caso, tortura e manipolazione rendono nullo il
corpo e diventano il fulcro brutale di un’azione che sostanzia la creazione
di una nuova identità etnica (Cfr., Consuelo Corradi, 2009, p. 34). In tal
modo, il corpo delle donne è diventato luogo di un «processo di
desoggettivazione-oggettivazione» (Adriana Lotto, 2011, p. 5). Inoltre, la
violenza sessuale nei contesti di guerra ha principalmente una
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caratterizzazione sessuale, che fa capo ad una organizzazione sociale in cui
i rapporti tra i generi racchiudono un’asimmetria di potere, nella quale la
sessualità rappresenta una strategia su cui agire. «Il corpo di una donna
violentata diventa un campo di battaglia rituale» (Fabrizio Battistelli et al.,
2010, p. 19). Da questo punto di vista, la violenza sessuale sulla donna
tende a ridurla ad oggetto su cui attuare la trasformazione della società
stessa, ad esempio, attraverso il proseguimento forzato sulle donne
bosniache delle gravidanze scaturite da tale violenza.
La violenza e la tortura sul corpo femminile sono strumenti atti
all’attraversamento di un nuovo orizzonte simbolico riadattato per i propri
scopi. «Se il corpo della donna viene assunto come simbolo della purezza
di una comunità, esso diventa estremamente vulnerabile, assoggettabile a
pratiche per valorizzarlo o contaminarlo. Certamente più del corpo
maschile, il corpo femminile è una materia incandescente sulla quale
interviene la cultura» (Consuelo Corradi, op. cit., p. 52). In questa
prospettiva, la sessualità è, in genere, utilizzata come elemento
oggettivante e costitutivo del potere che interviene su di esso per
imprimere una forma.
Il corpo tra oggettivazione e potenziamento
Come precisato nel precedente paragrafo, la sessualità è l’elemento su cui
si agisce per determinare un processo di trasformazione del corpo,
argomento che non può prescindere dal discorso attuale rivolto all’azione
delle biotecnologie su di esso. Lo sviluppo tecnologico ha infatti posto
numerosi interrogativi etici, in particolare, con riguardo le tecnologie
migliorative o gli interventi di chirurgia. A tal proposito, è interessante la
posizione della femminista Susan Bordo, la cui riflessione teorica si è
incentrata sulla condizione del corpo in generale e, nello specifico, su
quello femminile, in considerazione dell’esponenziale diffusione della
chirurgia. Secondo la Bordo, il nuovo ideale del corpo che viene promosso
dalla società odierna è quello di un corpo plastico.
Analoga posizione è quella di Jürgen Habermas, secondo il quale
nell’utilizzo positivo delle biotecnologie sulla natura umana, in realtà, si
celerebbe una strumentalizzazione dell’Altro. Nella prospettiva esposta da
Habermas, si verrebbe a delineare una fisionomia essenzialmente negativa
che condizionerebbe persino le relazioni umane. La riflessione di
Habermas prende in esame il concetto di enhancement che si traduce con
la parola «potenziamento» (Maurizio Balistreri, 2011, p. 17). Questo
termine viene adoperato generalmente nel dibattito bioetico attuale con
riferimento alle tecnologie e agli interventi connessi, che esulano
dall’ambito strettamente terapeutico e che, invece, sono diretti al
miglioramento o al potenziamento delle caratteristiche fisiche o
anatomiche degli individui. Pertanto, nella prospettiva teorica del filosofo
e sociologo tedesco, ci sarebbe una grande riserva sugli effetti connessi alle
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tecnologie migliorative, il cui utilizzo sarebbe indotto da una società che
invita a migliorarsi nel fisico e ad aumentare le sue potenzialità e, dunque,
«inconciliabile con l’autonomia e la libertà personali» (Ivi, p. 138). Detto
ciò, la tecnologia rivela la natura oggettivante del corpo, frammentato e
trasformato in oggetto-per-noi a scapito del corpo inteso come essere-séstessi (Cfr., p. 141). «Una percezione di sé come oggetto sarebbe
intollerabile, perché metterebbe in luce da una parte il carattere
strumentale dell’intervento subito e dall’altra l’impossibilità per la persona
di identificarsi e sentirsi tutt’uno con il proprio corpo, in quanto tale
identificazione, secondo Habermas, sarebbe possibile soltanto quando il
soggetto fosse capace di vivere la propria corporeità come qualcosa di
naturalmente indisponibile, ossia come qualcosa che non dipende dalla
scelta di altre persone» (Ibid.).
Ritornando al pensiero di Susan Bordo, la femminista nel
libro Unbearable weight. Feminism, western culture, and the body del
1993, espone una teoria di un certo rilievo che delinea la diffusione nella
società contemporanea dei disturbi alimentari femminili, focalizzando il
discorso sulla connessione tra problemi alimentari e l’esposizione delle
donne ai vari agenti normativi, sociali e comunicativi di un tipo di corpo e
di identità, fattore che sembra influire su un errato rapportarsi delle donne
con il cibo (Cfr., Anna Colella, 2003, p. 32). In questo caso, Bordo insiste
sul parallelismo tra adattabilità e modellamento del corpo, disturbi
alimentari e chirurgia. Bordo sottolinea, è come se ci trovassimo di fronte
ad una metaforica patologia autoprodotta dalla cultura, con l’imposizione
di modelli e la cristallizzazione in identità esteriori. Esempio classico è il
corsetto, di moda in epoca ottocentesca e che indossato dalle donne,
costituiva un’imposizione già nell’abbigliamento ed era quindi espressione
di restrizione del movimento e di un controllo del comportamento a livello
sociale. In questo orizzonte si dipana una riflessione molto cara per il
femminismo odierno: quello del rapporto tra autodeterminazione
femminile e tecnologie riproduttive (Cfr., Francesco Saverio Trincia, 2005,
p. 119). In questa problematica converge, infatti, il difficile rapporto tra
libertà e corporeità; tra corpo femminile e autonomia, «ossia della libertà
come decisione morale» (Ibid.) da parte delle donne di decidere
consapevolmente, senza condizionamenti esterni, se o non adoperare le
tecnologie migliorative ed estetiche o quelle a fini riproduttivi.
A tal proposito, Susan Bordo pone l’attenzione proprio sulle scelte
personali delle donne fatte in funzione dei condizionamenti sociali come,
ad esempio, il desiderio di raggiungere un dimagrimento eccessivo o, di
sottoporsi agli interventi di chirurgia, condizione che cela un
atteggiamento di standardizzazione del corpo. Difatti, il potere sotteso ai
modelli socio-culturali può condurre le donne ad una percezione di se
stesse come difettose, in quanto inserite in un processo di ricomposizione
del corpo, in un circuito di aggiustamento delle parti di esso. L’uso
eccessivo della chirurgia e della tecnologia, darebbe maggiore fervore al
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processo di sessualizzazione e oggettivazione delle donne. In una società
come quella attuale, che spinge per una continua ricerca della perfezione e
della bellezza, il processo naturale dell’invecchiamento non viene accettato
ma rifiutato.
Alla luce di questa considerazione, l’oggettivazione del corpo femminile
indurrebbe nell’immaginario maschile ostilità e insufficienza nei confronti
delle donne, come soggetti poco rilevanti socialmente. «L’oggettificazione
femminile potrebbe sembrare una misura che, neutralizzando la
soggettività femminile consente rapporti meno conflittuali tra i sessi;
risulta, invece, essere a sua volta induttrice di ostilità» (Caterina
Arcidiacono, op. cit., p. 5). Pertanto, il corpo come espressione esteriore,
conduce le donne ad essere semplicemente ricondotte all’esibizione del
corpo (Cfr., ibid). Essere nel mondo esclusivamente per il tramite della
rappresentazione figurativa del corpo, costituisce dunque una limitazione
sostanziale rispetto alla personale capacità di azione nel mondo.
Il superamento di questo orizzonte così limitativo, potrebbe concretizzarsi
mediante un dualismo comunicativo tra il farsi conoscere come interiorità
ed essere riconosciuto come Altro e non come solo corporeità.
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