TOLKIEN, TOMMASO D’AQUINO E L’ANALOGIA
di Claudio Antonio Testi
I. Premessa.
Si assiste in questi anni ad una straordinaria diffusione dell’opera tolkieniana, grazie soprattutto alla
trilogia cinematografica di Peter Jackson, e di questo non ci si può che rallegrare. Tuttavia, non è sempre
facile cogliere appieno la genialità e la profondità di questo autore e questa incomprensione, al di là degli
evidenti motivi ideologici1, risiede nel fatto che Tolkien è un autore ad un tempo facile e profondo,
semplice e ricco: risulta quindi possibile una lettura superficiale della sua opera, incapace di cogliere la
grandiosità della produzione tolkieniana.
In questo senso, dopo anni spesi a studiare il pensiero di Tommaso d’Aquino e a leggere con passione e
diletto gli scritti sulla Terra di Mezzo, sono persuaso che Tolkien, pur non essendo né un sistematico né
tantomeno un filosofo di professione, possa essere pienamente compreso proprio grazie alla nozione
logico-filosofica di “analogia” elaborata dall’Aquinate: è questa la tesi sostenuta in questo contributo. Si
tratta, in altri termini, di mostrare da un lato che l’analogia è uno strumento cognitivo essenziale e
versatile che può essere usato nei più svariati contesti; d’altro canto che Tolkien, quale superbo esempio
di uso letterario dell’analogia, aiuta a comprendere appieno la stessa nozione di analogia entis.
Della complessa teoria dell’analogia si possono dare ora solo alcuni cenni essenziali, ma sufficienti per
l’intento del presente studio2. Per Tommaso d’Aquino, in sintesi, gli elementi dell’analogia sono due
Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena.
Desidero sentitamente ringraziare Alberto Cevolini, Alberto Ladavas, Lorenzo Gammarelli e mia moglie Giovanna
Caselgrandi, che hanno avuto la pazienza di leggere il saggio prima della pubblicazione: i loro attenti suggerimenti e consigli
sono stati per me preziosissimi e indispensabili. Un grazie anche ai tanti che negli ultimi due anni hanno partecipato alle
approfondite discussioni svolte sul newsgroup it.fan.scrittori.tolkien, delle quali il saggio è largamente debitore. Naturalmente,
tutta la “responsabilità” del contenuto resta a totale carico dell’autore.
In Italia, purtroppo, il dibattito su Tolkien è stato incentrato soprattutto sull’appartenenza dello scrittore a una cultura di
destra o sinistra: sul primo versante è stato particolarmente impegnato Gianfranco de Turris [cfr. “Il ‘caso’ Tolkien”, scritto
dapprima come introduzione a H. CARPENTER, La vita di J.R.R. Tolkien, Milano, Edizioni Ares; poi ripubblicato in M. POLIA
et al., J.R.R. Tolkien. Creatore di Mondi, Rimini, Il Cerchio, 1992]. Un recente volume è invece dedicato a dimostrare quanto
l’appropriazione di Tolkien sia stata indebita da parte della destra italiana [L. DEL CORSO E P. PECERE, L'anello che non tiene.
Tolkien fra letteratura e mistificazione, Roma, Minimum fax (filigrana 33), 2003]. Sul “colore” politico di Tolkien si consulti
anche il volume di P. CURRY, Defending Middle-Earth, Harper Collins Ed. , 1997. Per il presente studio ho tenuto presenti, tra
gli altri, i seguenti studi: V. FLIEGER, A question of time, The Kent State University Press, Ohio, 1997; ID., Splintered Light,
The Kent State University Press, Ohio, 2002 (I ed 1983); A. MONDA-S. SIMONELLI, Tolkien: il signore della fantasia,
Frassinelli, Milano 2002; T. A. SHIPPEY, The road to middle earth, Harper Collins Ed., 1992, pp. 150-152; id., Tolkien author
of the century, Harper Collins Ed., 2000, p. 167; G. SOMMAVILLA, Peripezie dell'epica contemporanea, Milano, Jaca Books
(Già e non ancora 95), 1983.; E. LODIGIANI, Invito alla lettura di Tolkien, Milano, Mursia, 1982; O. PALUSCI, Tolkien, Firenze,
La Nuova Italia (Il Castoro 191), 1982; H. CARPENTER,, Gli Inklings. Tolkien Lewis Williams & Co., Milano, Jaca Book, 1985;
M. POLIA, J.R.R. Tolkien. Creatore di Mondi, Rimini, Il Cerchio, 1992; P. GIULISANO, Tolkien. Il mito e la grazia, Milano,
Àncora Edizioni, 2001; S. GIULIANO, Le radici non gelano. Il conflitto fra tradizione e modernità in Tolkien, Salerno,
Ripostes, 2001; E. Tavella, Tolkien. Dalla fiaba al mito: creazione e significato dell'universo fantastico de Il Signore degli
Anelli, Firenze, Firenze libri, 2002; I. FERNANDEZ, La spiritualità del "Signore degli Anelli", Torino, Edizioni ELLEDICI,
2003; A.A.V.V., Tolkien. Una creatività per il Vangelo, Panzano in Chianti (FI), Edizioni Feeria (Lampada ai miei passi 4),
2003.
1
Della sterminata bibliografia sull’analogia segnaliamo i seguenti studi: I. M. BOCHENSKI, “On Analogy”, in The Thomst, vol.
XI (1948); T. TYN, Metafisica della sostanza, partecipazione e analogia entis, Bologna, Edizioni Studio Domenicano 1991; G.
RIGHI, Studi sull’analogia, Milano Marzorati 1981, G. BASTI e C. A. TESTI, Autoreferenza e analogia, Marietti 1820, Milano,
2004; C. FABRO, Partecipazione e Causalità secondo S. Tommaso d'Aquino, Torino SEI 1960; L. B. GEIGER, La Partecipation
dans la Philosophie de S. Thomas d’Aquin, Vrin, Parigi, 1942.
2
1
diversi enti “analogati”, A e B, i quali stanno verso altri due enti “analoganti”, C e D, in due relazioni R1
e R2. Dati questi sei elementi, si ha analogia se3:
A) o gli analoganti sono diversi (C D) e le due relazioni sono identiche (R1 = R2): è la cosiddetta
analogia di proporzionalità. Per fare un esempio: la vecchiezza (A) è la fine (R1) della vita (C) come
la sera (B) è la fine (R2 = R1) del giorno (D)4. Questa analogia può valere tra cose anche
completamente diverse, visto che si basa sulle relazioni tra enti e non sulla natura intrinseca degli
oggetti;
B) o l’analogante è identico (C = D). E’ questa l’analogia di attribuzione che può essere (almeno) di
due tipi:
b1) Analogia di attribuzione secundum esse: nel caso in cui le due relazioni sono identiche (R1 =
R2) e sia A che B “sono” elementi dell’unico analogante. Ad esempio, Socrate (A) partecipa (R1)
dell’uomo (C) esattamente come Platone (B) partecipa (R1 = R2) dell’uomo (D = C), e ambedue
sono allo stesso titolo uomini, pur essendone diverse realizzazioni5.
b2) Analogia di attribuzione secundum esse et intentionem: i due analogati “sono” elementi
dell’analogante comune C, ma le due relazioni che li connettono a C sono diverse (R1 R2). Ad
es. la sostanza (A) partecipa primariamente (R1) dell’ente (C), come l’accidente (B) partecipa
secondariamente (R2 R1) dell’ente (D = C); infatti sia la sostanza che gli accidenti sono enti, e
tuttavia ogni accidente è ente in quanto è in una sostanza e quindi la presuppone (ad es. l’altezza
di Socrate esiste solo se prima esiste Socrate), cosicché la sostanza è ente a maggior titolo
dell’accidente6.
Nel saggio vedremo come:
- l’analogia di proporzionalità sia essenziale per capire la nozione di allegoria [II.1];
- l’analogia di attribuzione secundum esse possa essere utile per comprendere i concetti di simbolo,
esemplificazione [II.2], interpretazione e applicazione [II.3];
- infine, come l’analogia tra sostanza e accidenti (secundum esse e intentionem) sia fondamentale per
cogliere il nesso tra il nostro mondo (detto da Tolkien “primario”) e il mondo secondario (quello che lo
scrittore “sub-crea” coi suoi racconti) [III.1] e per capire la verità contenuta nelle stesse fiabe [III.2].
II. La logica tolkieniana
II.1 Allegoria e elemento allegorico: l’analogia di proporzionalità
“Alcune cose sono uno per proporzione o analogia, quando questo sta a quello come l’altro sta all’altro. E questo può
avvenire in due modi:- o le cose stanno in diverse relazioni verso una stessa cosa: così l’urina è segno della salute mentre la
medicina è causa della salute e per questo [riferimento comune alla salute] sano si dice di entrambe; - oppure le cose stanno
nella stessa relazione con altre due cose diverse: così la tranquillità sta al mare come la serenità al cielo. La tranquillità è infatti
la quiete del mare e la serenità la quiete del cielo” [“Proportione vero vel analogia sunt unum quaecumque in hoc conveniunt,
quod hoc se habet ad illud sicut aliud ad aliud. Et hoc quidem potest accipi duobus modis, vel in eo quod aliqua duo habent
diversas habitudines ad unum; sicut sanativum de urina dictum habitudinem significat signi sanitatis; de medicina vero, quia
significat habitudinem causae respectu eiusdem. Vel in eo quod est eadem proportio duorum ad diversa, sicut tranquillitatis ad
mare et serenitatis ad aerem. Tranquillitas enim est quies maris et serenitas aeris”.In V Metaph. lect. 8, n. 879; cfr. In I Sent. d.
19, q. 5, a. 2, ad 1].
3
4
ARISTOTELE, Poetica, cap. 21. Cfr. TOMMASO D’AQUINO, De Ver. q. 8, a. 1, ad 6
5
TOMMASO D’AQUINO, In I Sent. d. 35, a. 4, co.
TOMMASO D’AQUINO, In I Sent., Prologus, q. 1 art. 2 ad 2. C’è un terzo caso di analogia, che qui non useremo, definito come
quello dell’analogia secundum intentionem tantum. Qui le due relazioni sono diverse e i due analogati non sono l’analogante:
ad es. si può dire che il colorito (A) e il clima (B) si riferiscono analogicamente alla salute dell’animale (C = D) in quanto il
colorito ne è effetto (R1) e il clima ne è causa (R2 R1), e tuttavia nessuno è la salute dell’animale [cfr. TOMMASO D’AQUINO,
In I Ethic. lect. 8, n. 95].
6
2
Si tratta ora di sviluppare e approfondire la “logica” tolkieniana, per cercare di capire il significato
profondo della sua opera sulla Terra di Mezzo che, molto spesso è stata definita, anche da parte di
autorevoli critici7, come una grandiosa allegoria. Tolkien ha sempre vigorosamente rifiutato tale lettura,
distinguendo con precisione i concetti di allegoria, elemento allegorico, esemplificazione (o simbolo),
interpretazione allegorica e applicabilità. Per quel che concerne la prima distinzione, Tolkien intende
l’allegoria come una proprietà che vale di un intero testo, mentre l’elemento allegorico è una
caratteristica propria di una parte del testo. Molto chiaro a tal proposito è un brano introduttivo al Pearl,
poema medievale amatissimo da Tolkien, che narra della visione di un uomo il quale rivede nell’aldilà un
bambino morto prematuramente:
“Per essere una ‘allegoria’ il poema deve, come un tutto e con discreta consistenza, descrivere
in altri termini qualche evento o processo; la sua intera narrativa e tutti i suoi dettagli
significativi dovrebbero essere coerenti e lavorare per questo fine. Ci sono allegorie minori in
Pearl; la parabola dei lavoratori alla vigna (stanze 42-49) è in allegoria interna; e la stanza di
apertura del poema, in cui le perle cadono dalla mano del poeta nell’erba, è una piccola
allegoria della morte e sepoltura dell’infante.” [Introduzione a Sir Gawain and the green
knight, Pearl, Sir Orfeo, HarperCollins Publishers, Londra, 1995; trad. mia] 8
Per capire appieno tali distinzioni, è necessaria la nozione di analogia di proporzionalità, su cui si basa
quella di metafora (e poi di allegoria). Riprendiamo l’esempio aristotelico, usato anche dal Foscolo nella
sua celebre poesia “Alla sera”:
La vecchiezza (A) è la fine della (R1) vita (C) = la sera (B) è la fine del (R2 = R1) giorno (D)
Qui il tema (prima coppia di termini: la vecchiezza e la vita) viene compreso e illustrato grazie al foro
(seconda coppia di termini, meglio conosciuta del tema), poiché che tra le due coppie vale la medesima
relazione (R1 = R2= “…essere la fine di…”).
Se poi, data un’analogia di proporzionalità, si attribuisce il terzo termine (B) al primo (A), ovvero si
afferma che “la vecchiezza è la fine della vita”, si ha una metafora9.
Se, infine, in un testo si usa continuamente una certa metafora, ad esempio si parla continuamente della
sera e all’interno del testo vi è un esplicito e coerente riferimento al suo uso metaforico (con “sera” si
intende in realtà “morte”), si ha un’allegoria. L’allegoria è dunque una metafora continuata ed esplicita10.
Si ha invece un elemento allegorico (o allegoria minore11) quando in un testo una certa metafora vale
solo per alcune parti del racconto (cioè non è continuata). Nel testo citato, Tolkien usa proprio queste
distinzioni: nella stanza di apertura, le perle stanno alla caduta sul prato come l’infante sta alla sua
sepoltura (analogia di proporzionalità); quando si parla dell’infante come di una perla (caduta) si ha una
metafora: dunque le perle sono un’allegoria minore dell’infante, e tuttavia l’intero poema non è
un’allegoria perché descrive una visione ultraterrena “realmente” vissuta dall’autore.
7
Si veda ad esempio G. SOMMAVILLA, Peripezie…cit.
8
Ove esistono, ho sempre citato dalle versioni italiane delle opere, indicando in nota ove la mia citazione si discosta dalla
traduzione italiana corrente. Nei casi in cui l’opera non è tradotta in italiano, ho messo direttamente una mia traduzione. Per i
testi di Tommaso d’Aquino, i brani in italiano sono tutte mie versioni dal latino.
9
Aristotele, Poetica, cap. 21 (in cui sia dice che una metafora la si ha pure se si attribuisce il primo termine al terzo); Retorica,
lib. III cap. 10. Cfr. C. PERELMAN E L.OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione, Einaudi, Torino, 1989, p. 392 sgg. e
p. 425. Anche la similitudine si fonda su un’analogia di proporzionalità. Nella similitudine si esprime esplicitamente un
paragone (es. la morte è come la sera della vita”) [ARISTOTELE, Retorica, lib. III, cap. 4, ove si dice che la similitudine è un
tipo di metafora].
Sull’allegoria come metafora continuata cfr.: Quintiliano, Ist. Orat., VIII c. 6 n. 44; AAVV, Enciclopedia Garzanti di
Filosofia, Garzanti, Milano, 1981, la voce “Allegoria”.
10
11
J. R. R. TOLKIEN, Introduzione a Sir Gawain…cit., p. 8.
3
Fatte tali distinzioni, si può meglio capire perché Tolkien rifiuti decisamente ogni interpretazione che
vede il “Signore degli Anelli” un’allegoria del suo tempo o della sua vita:
“Non c’è simbolismo o allegoria cosciente nella mia storia. Allegorie del tipo ‘cinque stregoni
= cinque sensi’ sono del tutto estranee al mio modo di pensare. Ci sono cinque stregoni ed è
solo un aspetto del racconto. Chiedere se gli orchi sono i comunisti per me è come chiedere se
i comunisti sono orchi” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lettera 203, p. 206]12
Le vicende narrate da Tolkien dunque non “rimandano” ad altri eventi; questo però non esclude che
possano avere un significato più ampio e “universale”.
II.2. Simbolo come esemplificazione: l’analogia di attribuzione secundum esse
Infatti, Tolkien distingue esplicitamente l’allegoria (e l’elemento allegorico) dal simbolismo:
“Una chiara distinzione tra ‘allegoria’ e ‘simbolismo’ può essere difficile da mantenere, ma è
corretto, o almeno utile, limitare l’allegoria alla narrativa, ad un resoconto, (per quanto breve)
di eventi; e il simbolismo all’uso di segni visibili o cose per rappresentare altre cose o idee. Le
perle erano un simbolo di purezza che ricorreva specialmente nell’immaginazione del
Medioevo (e particolarmente nel quattordicesimo secolo); ma questo non rende una persona
che indossa delle perle, o persino qualcuno che si chiama Perla, o Margherita, una figura
allegorica. ” [Introduzione a Sir Gawain…cit., p. 7; trad. mia]
Tolkien a tal proposito usa anche la nozione di esemplificazione di un universale:
“Così pure una parte delle riflessioni e dei ‘valori’ del narratore dovranno esservi inseriti [in
una fiaba: N. d. A.]. Non è la stessa cosa dell’allegoria. Noi tutti, come gruppo o come
individui, esemplifichiamo principi generali [“exemplify general principles”]: ma non li
rappresentiamo [“but we do not represent them”]. Gli Hobbit non sono un’ ‘allegoria’ [“
‘allegory’ ”13] più di quanto non lo siano (diciamo) i pigmei delle foreste africane. Gollum è
per me solo un ‘personaggio’ - una persona immaginata [“imagined person”14] che garantiva
che la situazione si sarebbe svolta in un certo modo e sotto diverse sollecitazioni, com’era
probabile che avrebbe fatto (c’è sempre un elemento difficilmente calcolabile in ogni
individuo reale o immaginario: altrimenti lui/lei non sarebbero un individuo ma un ‘tipo’)”
[TOLKIEN, La Realtà…cit.,, Lett. 181 pp. 263-264];15
“Io nego assolutamente ogni valore a questo tipo di interpretazioni [Mordor come allegoria dell’Unione Sovietica; N.d.A.],
che mi fanno arrabbiare. La situazione descritta nel libro è stata pensata molto prima della rivoluzione russa. Un’allegoria di
questo tipo è del tutto estranea al mio modo di pensare” [J. R. R. TOLKIEN, La Realtà in trasparenza, Rusconi, 1990, Lettera
229 p. 346]; “La storia non riguarda affatto JRRT, e non è assolutamente un tentativo di trasformare in allegoria la sua
esperienza di vita. […]” [Tolkien, La Realtà…cit., Lett. 183 p. 270].
12
Nella traduzione italiana spariscono gli apici che nell’inglese racchiudono “ ‘allegory’ ”, ma mettendo gli apici il
precisissimo Tolkien vuol proprio distinguere tra l’uso di allegoria (inteso come metafora continuata, che Tolkien
“cordialmente detesta”), dal nome “allegoria” inteso come “simbolo” o “esemplificazione” di universali, che invece Tolkien
accetta e sviluppa [cfr. sotto]. Altrove Tolkien afferma che “La mia storia non è un’allegoria del potere atomico, ma del Potere
(esercitato attraverso il dominio)” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 186 p. 278]. Anche qui, come nella lettera 109, Tolkien usa
liberamente “allegoria” come sinonimo di “simbolo”: infatti né “Il Signore degli Anelli” è un’allegoria (intesa come proprietà
di un testo, né l’Anello è mai usato come allegoria interna (cfr. i due significati principali di allegoria che Tolkien
esplicitamente distingue.
13
14
Nel testo italiano troviamo “una figura immaginata”.
“Che Rayner non sospetti l’Allegoria. C’è una morale, suppongo, in qualsiasi storia che valga la pena di essere raccontata.
Ma non è la stessa cosa. Persino la battaglia tra oscurità e luce (come lui la chiama, non io) per me è solamente una particolare
4
15
Quindi un’esemplificazione (o un simbolo) di un idea è una persona o un oggetto immaginario dotato di
una sua autonomia (diversamente dall’allegoria) e che contiene e “incarna” l’idea a cui partecipa:
“Infatti il simbolo si distingue per noi dal segno, in quanto non è puramente convenzionale; se
esso possiede un significato e un valore rappresentativo, tale significato e tale valore si hanno
perché sembra che ci sia tra il simbolo e la cosa evocata, un rapporto che, in mancanza di un
termine migliore, chiameremo rapporto di partecipazione” [PERELMAN - TYTIECA,
Trattato…cit., p. 350]16
E’ in fondo l’antica nozione aristotelico-medievale di “esempio” che ritorna, sebbene “rivisitata”, in
Tolkien. Per Aristotele infatti l’esempio e’ un “sillogismo”, che va da un singolare a un singolare, del
tipo:
Serse arrivò in Europa dopo aver preso l’Egitto
e
l’attuale Re di Persia vuol prendere l’Egitto,
dunque l’attuale re di Persia vuol prendere l’Europa17.
In altri termini, si prende un certo caso singolare (Serse e le sue politiche espansionistiche) simile a un
altro caso singolare (la politica dell’attuale re di Persia), e si conclude di quest’ultimo una certa proprietà
goduta anche dal primo. Lo Stagirita distingue tra esempi basati su fatti accaduti (come quello citato) o
inventati (le parabole usate anche nei discorsi socratici, oppure le favole). Nelle favole (ad es. in quelle di
Esopo) si immagina una situazione simile a qualcosa d’altro che si vuole insegnare, ad esempio: come la
volpe non si vuol far togliere dal riccio le sanguisughe ormai piene altrimenti altre ne verrebbero a
succhiarle il sangue, così è meglio non uccidere un dittatore ormai ricco, altrimenti ne arriverà un altro
che vorrà di nuovo arricchirsi18. E’ sostanzialmente su tali nozioni che si basano gli stessi exempla
medievali, i quali si possono intendere o come “brevi narrazioni ‘utili ad illustrare un precetto teologico’
”, o come che come “incarnazione di una certa qualità in un personaggio” reale (es Catone come imago
virtutis ) o immaginario19.
Si può quindi dire che Tolkien riprende l’antica nozione aristotelico-medievale di “esemplificazione” e
la romantica idea di “simbolo”20, enfatizzandone l’aspetto di “personificazione”, nel senso che gli esempi
fase della storia, un esempio [“example”] dei suoi modi, ma non il Modo; e gli attori sono individui: ciascuno di loro,
naturalmente, contiene l’universale, altrimenti non vivrebbero affatto, ma non li rappresentano mai come tali”. [TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 109 p. 139]; “Io pretenderei, […] di avere come obbiettivo quello di dimostrare la verità e di incoraggiare i
buoni principi morali in questo nostro mondo, attraverso l’antico espediente di esemplificarli [“exemplifying”] attraverso
personificazioni [“embodiments”] diverse, che alla fine tendono a farli capire” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 153 p. 220].
Altre definizioni restano indicano la stessa idea: “L’immagine simbolica [diversamente dall’allegoria] è autonoma e ha un
interesse in sé stessa, cioè un interesse che non mutua da un suo riferimento convenzionale da un concetto o da una dottrina”
[N. ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, UTET, Torino, 1987, voce “Allegoria”]; “Nel simbolo si scorge l’universale nel
particolare, che lo incarna totalmente in sé” [AAVV, Enciclopedia Garzanti…cit., voce “Allegoria”]. Sulla distinzione tra
simbolo e allegoria si veda anche T. TODOROV, Teorie del simbolo, Garzanti, Milano, 1991, pp. 254 sgg. .
16
17
ARISTOTELE, Ret. Lib. II cap. 20.
18
Ibid.
19
Cfr. E. R. CURTIUS, Letteratura europea e medioevo latino, La Nuova Italia, Firenze 2002, pp. 69-71.
“Secondo Schelling, ‘l’infinito rappresentato in modo finito è la bellezza’ […]. Come può l’infinito essere portato alla
superficie, apparire? Solo simbolicamente, in immagini e segni […]. Fare poesia (nel senso più largo del poetico che si trova
alla base di tutte le arti) non è nient’altro che un eterno simbolizzare” [A. W. SCHLEGEL, Die Kunstlehere, pp. 81-82, cit. in T.
TODOROV, Teorie…cit., p. 254]. La stessa Divina Commedia (e già la Vita Nova) non sono allegorie, ma sono analogie o
simboli di qualcos’altro. "Il libello dantesco [si parla della Vita Nova, ma il discorso viene esteso anche alla Divina Commedia]
è pieno di simbolismo e di analogia mistica, ma simbolo e analogia non sono allegoria. E' un'allegoria il Roman de la Rose: la
rosa ha un altro significato e c'è una chiave per scoprirlo. Nella Vita Nova invece non c'è nulla del genere [...] Neppure Amore
5
20
o i simboli divengono in Tolkien personaggi o elementi di un racconto con una loro storia e una loro
autonomia ben marcate [cfr. III]21.
E’ interessante vedere come la stessa idea di “esemplificazione” sia usata dal nostro autore quando,
quasi da critico esterno, cerca di spiegare i suoi stessi racconti:
“Ma attraverso gli hobbit […] l’ultima storia [Il Signore degli anelli: nota mia] deve
esemplificare nel modo più chiaro [“to exemplify most clearly”22] un tema ricorrente: il posto
che nelle ‘politiche mondiali’ occupano gli atti di volontà imprevisti e imprevedibili, e le
buone azioni di chi apparentemente è piccolo, poco eroico e dimenticato invece dai saggi e
dai grandi (sia buoni che malvagi)” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 131, pp. 182-183]23.
“Si può fare dell’anello un’allegoria della nostra epoca, volendo: un’allegoria dell’inevitabile
fine a cui vanno incontro tutti i tentativi di sconfiggere il potere del male con un potere
analogo. Ma questo solo perché tutti i poteri magici e tecnici lavorano sempre in questa
direzione. Non si può scrivere una storia su un anello magico apparentemente semplice senza
che la storia si gonfi, se davvero prendi sul serio l’anello, e senza far accadere cose che
accadrebbero, se un anello simile esistesse davvero” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 109 p.
139]
“il primo simbolismo [“symbolism”] [è quello] dell’Anello, cioè il desiderio di potere che
cerca di diventare oggettivo attraverso una forza e un meccanismo fisici e inevitabilmente
anche attraverso le menzogne” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 131, p. 183, corsivi miei]
infatti rappresenta qualcos'altro" [C. SINGLETON, La Poesia nella Divina Commedia, Il Mulino, Bologna, 1978 p. 8; cfr. la
voce “Allegoria” in Enciclopedia Dantesca, Treccani, Roma, 1984]. Lo stesso Auerbach con la sua interpretazione figurale, si
avvicina a questa prospettiva [E. AUERBACH, Studi Danteschi, Feltrinelli, Milano, 1988]. Tuttavia, in Dante il mondo primario
diviene “figura” del mondo della Divina Commedia (e quest’ultimo è inveramento del primario); in Tolkien il mondo primario
è fondamento del secondario, il quale può divenire simbolo di concetti universali validi anche nel primario. In Dante i due
mondi si pongono in un ordine progressivo di maggiore-minore verità, in Tolkien si pongono a differenti livelli , senza
relazioni di progressiva realizzazione.
Tolkien usa le medesime nozioni “interpretando” altre opere medievali: “la difesa del regno [nel Beowulf] potrebbe allora
diventare simbolo [“symbolic”] della condizione umana” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 183 p. 273 nota 2]; “[Nel Beowulf]
Il simbolismo più ampio si trova vicino alla superficie, ma non irrompe, né diviene allegoria. Qualcosa di più significativo di
un eroe standard ci sta dinanzi, un uomo che fronteggia un avversario più malvagio di qualsiasi nemico umano [un drago] della
casata o del reame, e tuttavia un uomo incarnato nel tempo, che percorre la storia eroica e attraversa le terre del Nord nominate
e precise” [J. R. R. TOLKIEN, “Beowulf: mostri e critica”, in Il Medioevo e il Fantastico, Luni Editrice, Milano, 2000, p. 44];
Egli stesso [Galvano] non viene presentato come un’allegoria matematica [“mathematical allegory”; l’edizione italiana traduce
“allegoria estratta”] ], ma come un uomo, un essere veramente specifico” [J. R. R. TOLKIEN, “Galvano e il Cavaliere Verde”, in
Il Medioevo…cit., p. 128; cfr. p. 120].
21
22
La versione italiana è “chiarire del tutto”.
E ancora: “Elfi e uomini sono solamente due diversi aspetti dell’umanità, e rappresentano il problema della morte così come
viene vista da persone finite ma consapevoli e di buona volontà […] Gli elfi rappresentano l’aspetto artistico, estetico e
puramente scientifico della natura umana ad un livello più elevato di quanto non si possa trovare negli uomini” [TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 181, p. 267, corsivi miei]; “Non intendevo farne [di Tom Bombadil] un’allegoria [“allegory”, che in italiano
viene tradotto con “figura allegorica”] - altrimenti non gli avrei dato un nome così particolare, così caratteristico e buffo - ma
l’‘allegoria’ [“ ‘ allegory’ ”: nella traduzione italiana spariscono gli apici che includono “ ‘allegory ’ ”] è l’unico modo per dire
certe cose: lui allora è un’ ‘allegoria’ [“ ‘ allegory’ ”: anche qui nella traduzione italiana spariscono di nuovo gli apici 23], o un
esempio, una particolare incarnazione della pura (reale) scienza naturale [“or an exemplar, a particular embodying of pure
(real) natural science”: la versione italiana è “un esempio, la scienza pura e reale che ha preso corpo”]: lo spirito che desidera
conoscere le altre cose, la loro storia e la loro natura, perché sono ‘diverse’ e totalmente indipendenti dalla mente che indaga,
uno spirito che convive con una mente razionale, e che non si preoccupa affatto di ‘fare’ qualcosa con la conoscenza”
[TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 153 p. 218, corsivi miei]
23
6
Ma qual è la relazione che lega diverse esemplificazioni tra loro e all’universale che tutte simbolizzano?
Anche qui, senza forzare affatto i testi, ritroviamo di nuovo una struttura analogica, che quindi ci aiuta a
comprendere appieno le nozioni tolkieniane di esemplificazione e simbolo, e il legame che attraverso
queste si costituisce tra mondo primario (il nostro) e secondario (quello del racconto). Analizzando il caso
dell’anello riportato negli ultimi due brani (ma tale analisi è facilmente estensibile a tutti i testi sopra
citati), abbiamo infatti:
- due elementi diversi: l’anello (A) e la tecnica (B);
- un ente analogante comune: ad es. il Potere (C = D);
- ambedue gli enti si relazionano al Potere con l’identica relazione di “esemplificazione” (R1=R2);
- e ambedue sono un Potere.
L’anello dunque non “sta per” la tecnica (ovvero non è un’allegoria della tecnica), ma è un ente che
“incarna” concretamente e allo stesso titolo la medesima nozione di “Potere” a cui anche la tecnica (o il
potere atomico cfr. nota 13) partecipa: in altri termini tra l’anello e la tecnica vige un’analogia di
attribuzione secundum esse [cfr. I].
II. 3. Dall’esemplificazione all’interpretazione allegorica e all’applicabilità
Ovviamente, nel testo il simbolismo non è mai esplicito, e tuttavia il lettore può scorgervene uno
ogniqualvolta vede che un certo elemento possiede e “partecipa” a certe caratteristiche universali comuni
anche a altri elementi, con i quali l’elemento del racconto si trova in una relazione analogica secundum
esse. All’interno di un tale tessuto di relazioni, si possono quindi individuare due “movimenti
ermeneutici”:
- uno i che parte dall’elemento del racconto a termina all’universale (ed es. si scorge che l’anello è
simbolo del Potere) e in questo caso Tolkien parla di “interpretazione allegorica” o di “significato”:
“Non mi piace l’Allegoria - l’allegoria usata consapevolmente e intenzionalmente - tuttavia
ogni tentativo di spiegare il significato del mito e della fiaba deve usare un linguaggio
allegorico. E, naturalmente, più una storia [che non è un’allegoria; N. d. A.] ha ‘vita’ più sarà
suscettibile di essere interpretata allegoricamente [“allegorical interpetations”], mentre se
un’allegoria consapevole è ben fatta sarà molto più accettabile come storia” [TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 131 p. 166]
“Non mi piace l’allegoria, (cosiddetta: la maggior parte dei lettori sembra confonderla con il
significato [“significance”] o l’applicabilità [“applicability”24] ” [TOLKIEN, La Realtà…cit.,
Lett. 215 p. 336]
- l’altro che inizia dall’universale e che termina al mondo “primario” nel cui realmente vive il lettore, e
che viene chiamato appunto “applicabilità”:
“Io però detesto cordialmente l’allegoria in tutte le sue manifestazioni, e l’ho sempre detestata
fin da quando sono diventato abbastanza vecchio ed attento da scoprirne la presenza.
Preferisco di gran lunga la storia, vera o finta che sia, con la sua svariata applicabilità al
pensiero ed all’esperienza dei lettori. Penso che molti confondano ‘applicabilità’ con
‘allegoria’; l’una però risiede nella libertà del lettore, e l’altra all’intenzionale imposizione
dello scrittore. Un autore non può naturalmente rimanere del tutto insensibile alla propria
esperienza, ma i modi nei quali il seme di una storia usa il terreno dell’esperienza sono
estremamente complessi, ed i tentativi di definire il processo sono nel migliore dei casi
supposizioni basate su indizi inadeguati ed ambigui” [J. R. R. TOLKIEN, “Prefazione alla
24
“Significato o possibilità interpretativa” nella traduzione italiana.
7
seconda edizione inglese de ‘Il Signore degli Anelli’ ”, in Il Signore degli Anelli, Bompani,
Milano, 2003, p. 19, trad. it. di Lorenzo Gammarelli] 25
In altri termini, l’interpretazione allegorica consiste nel vedere che un certo elemento del racconto ha un
significato universale che egli stesso “incarna”, ovvero “esemplifica” [cfr. supra]. Colta poi questa
dimensione universale il lettore, come si accenna nell’ultimo testo citato, può anche liberamente
“applicare” quell’elemento alla propria storia e alla propria personale esperienza di vita.
Ora, è possibile applicare un certo racconto alla propria esperienza personale e al proprio periodo
storico, proprio in virtù del fatto che sia l’elemento del racconto sia la propria esperienza partecipano al
medesimo universale, rispetto al quale sono analoghi [cfr. II.2]. Sempre per fare un esempio che
ritroviamo in Tolkien, si può dire che Mordor è simbolo del male, ed essendo il male oggi presente anche
nella nostra esperienza seppur in differenti (ma analoghe) realizzazioni, si può dire che “Mordor è in
mezzo a noi”26, o che la mentalità dominante nel nostro mondo tecnologico è il “sarumanismo”27 (sia
Saruman che la tecnica sono partecipazioni analoghe della medesima mentalità produttivistica), o ancora
che “stiamo tentando di conquistare Sauron utilizzando l’anello”28 (detto da Tolkien in riferimento alla
seconda guerra mondiale). Questa però non è un’allegoria, proprio perché, nel primo caso, Mordor non
“sta per” il male contemporaneo, ma è un ente autonomo e distinto che partecipa del Male (è
un’esemplificazione del male) e che, proprio per questo, può venire applicato anche ad elementi malvagi
della nostra esperienza contemporanea29.
“Che non ci sia allegoria, non significa, naturalmente che non ci sia applicabilità [“applicability”: la versione italiana traduce
“che non ci sia allegoria non significa, naturalmente, che non ci sia la possibilità di leggervene una”]. Questa c’è sempre. E
dato che non ho reso la battaglia completamente senza equivoci: pigrizia e stupidità tra gli hobbit, orgoglio e [illeggibile] tra gli
elfi, risentimento e bramosia nel cuore dei nani, e follia e corruzione fra i ‘re degli uomini’, e inganni e brama di potere tra gli
stregoni, penso che esista nella mia storia un’applicabilità ai nostri tempi [“there is I suppose applicability in my story to
present times”: nel testo italiano troviamo “penso che esista nella mia storia un’analogia coi nostri tempi”] [TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 203 p. 296]; “E questo uso iniziale [la perla che cade è il fanciullo che muore] è solo una delle tante
applicazioni del simbolo della perla” [Introduzione a Sir Gawain and the green knight, Pearl, Sir Orfeo, HarperCollins
Publishers, Londra, 1995]
25
26
TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 135, p. 188 e lett. 75 p. 102.
27
TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 154 , p. 223.
28
TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 66, p. 91 (“For we are attempting to conquer Sauron with the Ring”).
29
La differenza tra interpretazione allegorica e applicabilità è assai vicina alla distinzione medievale tra senso letterale ( o
historico: è il significato delle parole di un testo) e senso allegorico (o spirituale, ovvero il significato morale, anagogico o
allegorico in senso stretto che può esser visto nelle cose significate dalle parole di un rcconto) [TOMMASO D’AQUINO, Somma
Teologica, I, q.1 a. 10; cfr. Quodl., VII q. 6 a. 1-2; DANTE ALIGHIERI, Epistola a Cangrande, XIII, nn. 21-22]. Per fare un
celebre esempio dantesco, il salmo 113 parla dell’uscita degli ebrei dall’Egitto verso la terra promessa: il senso letterale è
appunto l’esodo come fatto storico, ma tale fatto può avere un significato molto più ampio, sia morale (è un invito alla
conversione dal male al bene), che allegorico in senso stretto (indica la redenzione dell’anima per mezzo di Cristo), che
anagogico (indica la liberazione dell’anima dalla schiavitù della morte verso la vita eterna) [cfr. DANTE, Epistola a
Cangrande] . In quest’ottica, il senso letterale, sul quale per Tommaso era unicamente lecito argomentare [Summa Teologica I.
q. 1 a. 10 ad 1: “cum omnes sensus fundentur super unum, scilicet literalem; ex quo solo potest trahi argumentum”],
corrisponde al rifiuto di Tolkien di considerare la sua opera come un’allegoria. Si noti anche che per Tommaso il senso
letterale di una metafora è “il figurato e non ciò che figura” [cfr. TOMMASO D’AQUINO, Somma Teologica, I, q.1 a. 10 ad 3; cfr.
S. PARENTI, “Il senso letterale della scrittura secondo S. Tommaso”, in Sacra Doctrina, n. 77/1975, ED. Studio Dominicano,
Bologna, 1975 pp. 69-97]. Il senso spirituale, invece, corrisponde all’interpretazione allegorica di cui parla Tolkien (si associa
a un elemento del racconto a un insegnamento morale, a un problema universale o a una cosa ultima), mentre l’ “applicabilità”
tolkieniana è un particolare esempio di lettura allegorica in senso stretto, con cui si associa un elemento del racconto a un fatto
della propria esperienza tramite il “medium” dell’universale cui entrambi partecipano. Ovviamente, se allegoria e senso
allegorico sono distinti, restano a priori possibili quattro casi:
- allegorie interpretabili allegoricamente: si pensi ai racconti di Fedro o alla boeziana Consolazione della filosofia;
- non allegorie interpretabili allegoricamente: è il caso degli scritti di Tolikien, del citato del Salmo 113, e di molti romanzi
moderni: la Lolita dell’omonimo racconto, ad esempio, non è un’allegoria, ma può esser vista come incarnazione della bellezza
che sfiorisce nel tempo [V. NABOKOV, “A proposito di un libro intitolato Lolita”, in Lolita¸ Milano, Biblioteca del Novecento,
2002, p. 316].
8
Solo tenendo presente queste distinzioni è possibile avvicinarsi nella giusta maniera ai racconti della
Terra di Mezzo: da un lato tali vicende vanno lette e “gustate” in quanto veri e propri racconti “storici”30,
cosicché per comprendere a fondo il loro senso “letterale” [cfr. nota 29] occorre “restare dentro” al
mondo in cui si svolgono, facendo attenzione a tutti i dettagli che vengono riportati. Solo in un secondo
momento il lettore potrà poi vedere nelle vicende dei personaggi immaginari un universale che essi stessi
“personificano”, e quindi potrà vedere un “significato” più generale nelle vicende ivi narrate e notarne la
rilevanza analogica anche per la propria personale esperienza (“applicazione”)31. Tuttavia, per cogliere il
significato profondo dell’opera di Tolkien, manca ancora un elemento fondamentale, riguardante proprio
l’esistenza o meno del suo mondo.
III. La metafisica tolkieniana
III. 1 Esistenza, partecipazione e analogia di attribuzione secundum esse et intentionem
A questo punto, infatti, si tratta di capire qual è lo statuto “ontologico” della Terra di Mezzo, dei suoi
personaggi e delle sue vicende: è questo in realtà il necessario fondamento metafisico alle distinzioni tra
allegoria, simbolo, significato e applicazione sopra esposte. In prima battuta, infatti, si potrebbe ritenere
che, ad esempio, poiché quando Tolkien parla di draghi intende parlare proprio di mostri terribili che
soffiano un fuoco mortale (è questo il senso letterale dell’opera, che non è un’allegoria), allora Tolkien
sta parlando di qualcosa che non esiste. Ma una tale argomentazione, pur essendo logicamente corretta,
ha una conclusione totalmente falsa che oscura completamente il significato più autentico dei racconti
sulla Terra di Mezzo: infatti, per Tolkien i draghi esistono e i mondi “fantastici” sono in qualche modo
reali e veri:
“Il drago non è una fantasia oziosa. Quali che possano essere le sue origini, nella realtà o
nell’invenzione, nella leggenda il drago è una potente creazione dell’immaginazione”
[TOLKIEN, Beowulf…cit., p. 43]
“ Ogni scrittore che crei un mondo secondario, una fantasia, ogni subcreatore […] spera che
l’essenza propria di questo mondo secondario derivi dalla realtà [dipendenza,
priorità/posteriorità] […]. Se riesce ad attingere a una qualità che [è l’] ‘intima consistenza
della realtà’ è difficile capire come [ciò] potrebbe accadere se, in qualche modo [similitudine],
- allegorie non interpretabili allegoricamente: “Alla sera”, ad esempio, è un’allegoria, visto che con “sera” Foscolo vuol parlare
della morte, ma la morte (che è il senso letterale della poesia) a sua volta non sembra significare altre cose, essendo già essa
stessa un tema ultimo.
- non-allegorie che non sono nemmeno passibili di interpretazione allegorica: si pensi alla poetica moderna (ad. es. le poesie di
Benn, che non sono interpretabili allegoricamente in quanto non rimandano a nulla fuori dal testo) o anche all’Apocalisse, il
cui senso letterale riguarda lo stato ultimo di dannazione o gloria, che quindi non può rimandare a qualcosa di ulteriore
[TOMMASO D’AQUINO, Quodl. VII a. 15 ad 5].
Tolkien stesso dice di avere la mentalità dello storico, e nella scrittura delle sue saghe egli “scopre” cosa accade, senza
averlo programmato con precisione (che è come dire che il senso proprio delle sue storie è quello letterale o “historico” e non
spirituale): “Da molto tempo ho smesso di inventare (benché sia i critici favorevoli che quelli sfavorevoli lodino la mia
‘inventiva’) [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 180 p. 261]; “ho sempre avuto la sensazione di registrare qualcosa che c’era già,
da qualche parte: non di inventare” [ibid. Lett. 131 p. 166]; “Io ho la mentalità dello storico” [ibid. Lett. 183, p. 270].
30
31
Troppo spesso, infatti, la critica tolkieniana sia italiana che straniera tende a vedere per prima cosa gli elementi del racconto
come “allegorie” o “simboli” di altro e in tal modo perde completamente di vista la trama e gli intrecci (a volte anche molto
complessi e sempre estremamente significativi) delle storie della Terra di Mezzo. Ecco cosa pensa Tolkien di queste
interpretazioni “Ma sono sconcertato, e a volte irritato, da molte delle domande sulle ‘fonti’ della nomenclatura e dalle teorie o
fantasie che riguardano i significati nascosti. Mi sembrano solamente un divertimento del tutto personale, e in quanto tale io
non ho il diritto né il potere di criticarle, benché siano,, penso, prive di significato per una delucidazione o un’interpretazione
dei miei racconti” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 297 p. 426].
9
l’opera non partecipasse della realtà [dipendenza basta sulla partecipazione]. […] si tratta di
soddisfazione di una risposta alla famosa domanda ‘E’ vero?’. La risposta che ho dato a essa
poc’anzi è stata (e con piena legittimità) ‘Se avete costruito bene il vostro piccolo mondo, sì.
E’ vero in quel mondo’ [differenza] ” [J. R. R. TOLKIEN, Sulle Fiabe, Rusconi, Milano, 1976,
pp. 88-89; corsivi e incisi miei]
Sono brani quasi “sconvolgenti”, che non possono essere adeguatamente compresi se non alla luce
dell’analogia che Tommaso pone tra sostanza e accidenti (analogia di attribuzione secundum esse et
intentionem) [cfr. I]. Nel brano sono infatti evidenziate le relazioni di dipendenza, priorità/posteriorità,
differenza e similitudine, che intercorrono tra mondo primario e secondario. Ebbene, queste relazioni
sono le medesime che Tommaso usa per l’analogia di attribuzione tra sostanza e accidenti, come si evince
dal brano seguente:
“Tale comunanza analogica [similitudine] può essere tale che diverse cose [differenza]
partecipano a una medesima cosa [dipendenza per partecipazione], secondo un prima e un poi
[priorità/posteriorità], come avviene per la sostanza e l’accidente”32 [TOMMASO D’AQUINO,
In I Sent., Prologus, q. 1 art. 2 ad 2.; corsivi e incisi miei]
Le convergenze sono a mio avviso sorprendenti: per spiegare i rapporti tra mondo primario e secondario,
Tolkien usa le stesse nozioni di similitudine, differenza, dipendenza per partecipazione e
priorità/posteriorità usate da Tommaso nell’analogia tra sostanza e accidenti. In entrambi i casi, infatti,
abbiamo:
- due enti diversi A e B (il mondo primario e secondario / la sostanza e gli accidenti);
- i quali sono in relazione a un medesimo ente C (il mondo / l’ente);
- tramite due relazioni R1 e R2 differenti (partecipazione primaria e partecipazione secondaria);
- ed entrambi “sono” elementi dell’analogante (sostanza e accidenti sono enti / mondo primario e
secondario sono mondi);
Vale la pena analizzare in dettaglio le nozioni cardine di questa potente analogia tolkieniana.
1- Coerenza e concretezza del mondo secondario: come gli accidenti sono enti, e quindi sono non
contraddittori, così il mondo di Tolkien per esistere deve essere almeno coerente: la contraddizione è un
limite che nemmeno la creazione (e quindi la sub-creazione) può superare33. Ma per avere un mondo
secondario questo non basta: esso deve avere anche una concretezza che lo renda credibile:
“Costruire un Mondo Secondario dentro il quale il sole verde risulti credibile, imponendo
credenza secondaria, richiederà probabilmente fatica e riflessione, e certamente esigerà una
particolare abilità, una sorta di facoltà magica ” [TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 62] 34
Questa facoltà è appunto la fantasia, ovvero quella “capacità ci conferire l’intima consistenza della realtà
a creazioni ideali”35, la quale ben si distingue sia dalla semplice immaginazione (“la facoltà di plasmare
immagini di oggetti non concretamente presenti”)36 sia dal sogno e dall’illusione, che non hanno appunto
“Talis autem communitas [analogiae] [similitudine] poteste esse […] ex eo quod aliqua [differenza] participat aliquid
[dipendenza per partecipazione] unum secundum prius et posterius [priorità/posteriorità], sicut [..] substatntia et accidens”
32
33
TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 131 p, 230.
34
Tolkien ravvisa la stessa idea di coerenza al racconto fantastico del Beowulf [TOLKIEN, Beowulf, cit. pp. 59-60].
35
TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 59.
35
Ibid.
36
Ibid.
10
la concretezza della sub-creazione37. Grazie a questa facoltà, l’uomo si può qualificare come sub-creatore,
poiché con la fantasia può creare mondi secondari così come Dio ha creato il mondo primario 38. In questo
senso i mondi secondari, essendo prodotti dall’uomo, possono dirsi, per usare un linguaggio tomista, degli
ens rationis, ovvero degli enti che non esisterebbero senza l’attività razionale umana39.
2- Differenza tra mondo primario e secondario. Come gli accidenti sono enti reali e tuttavia distinti dalla
sostanza, così il mondo di Tolkien è un mondo differente dal nostro che esiste realmente. Ecco perché
sono completamente errate le interpretazioni che vogliono vedere nel mondo di Tolkien una trasposizione
di concetti di questo mondo, siano questi religiosi o biologici:
“In nessun punto della storia o della mitologia si verifica l’incarnazione del Creatore […] Ma
benché questo [il ritorno di Gandalf: N. d. A.] possa far venire in mente i Vangeli, non è
proprio la stessa cosa. L’incarnazione di Dio è qualcosa di immenso, infinitamente più grande
di qualsiasi cosa io osassi scrivere” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 181 p. 268]
“Riguardo al Signore degli Anelli […] Non mi sento in obbligo di far combaciare la mia
storia con la teologia cristiana ufficiale, benché in realtà io abbia voluto essere in armonia con
il pensiero e le credenze cristiane” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 269 p. 399]40
La Terra di Mezzo è dunque un mondo con sue proprie razze, divinità e leggi fisiche: a un lettore che
dubitava che gli Elfi potessero, alla luce della nostra biologia, essere davvero immortali, Tolkien
risponde:
“Questa è una legge biologica del mio mondo immaginario” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett.
153 p. 215]
Ed è proprio la “realtà” del mondo di Tolkien, dotato di un suo proprio statuto ontologico concreto e
differente dal nostro, che impedisce di vedervi un’allegoria del mondo primario.
3- Dipendenza per partecipazione del mondo sub-creato dal mondo primario. Come gli accidenti
dipendono dalla sostanza a cui partecipano, così il mondo secondario dipende dal mondo primario in
quanto vi partecipa. In “Sulle Fiabe” si dice appunto che un sub-creatore è tale solo se ha una profonda
comprensione del nostro mondo: infatti, solo quando è realmente ispirato dalla sua conoscenza del mondo
primario (che esiste appunto prima del secondario) inizierà a lievitare una massa che non lascerà spazio
all’ “invenzione” e che si concretizzerà in un mondo secondario41 originato per “partecipazione” al
nostro. Quindi, solo dal riconoscimento oggettivo e profondo dei “fatti” di questo mondo è possibile subcreare un mondo secondario, e proprio per questo la Fantasia presuppone la conoscenza razionale della
realtà primaria:
37
TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 59 e p. 62. Sulla concezione tolkieniana di fantasia, ricordiamo tra gli altri: E. LODIGIANI,
Introduzione a Tolkien, Mursia, Milano, 1982, pp. 38 sgg; C. SEEMAN, “Tolkien e la revisione della traduzione romantica”, in
Endore, 3/2000, p. 4-14.
TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 70. Cfr. TOLKIEN, “Mythopoeia”, in Albero e Foglia, Bompiani, Milano, 2000 e TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 293.
38
Per fare un esempio, mentre un certo albero del mondo primario esiste indipendentemente dall’uomo (è un ens nautrae), il
pensiero dell’albero o la parola “albero” sono prodotti della ragione umana, senza la quale non potrebbero venire all’essere.
39
Cfr. TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 212 p. 323 (in cui Tolkien afferma che nel suo mondo la concezione della caduta è
diversa da quella cristiana, in quanto la caduta degli angeli “infetta” anche il mondo dell’uomo). Tuttavia, anche se l’universo
tolkieniano non è una trasposizione fantastica del discorso cristiano, tuttavia resta che la sua opera “è fondamentalmente
un’opera religiosa e cattolica” TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 142 p 195; cfr. ID., Lettere 399, 195, 466, 419].
40
41
TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 88 nota 40.
11
“La Fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca
offesa all Ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la
percezione. Al contrario, più acuta è la ragione, e migliori Fantasie produrrà. […] La Fantasia
creativa si fonda infatti sull’ardua ammissione che le cose del mondo esistono quali appaiono
sotto il sole; su un riconoscimento dei fatti, non sulla schiavitù a essi” [TOLKIEN, Sulle Fiabe,
cit., p. 69]
Questo vuol dire che i personaggi e le situazioni descritte nei racconti tolkieniani devono in qualche modo
originarsi a partire da fatti e problemi del nostro mondo [cfr. punto 2]. In merito Tolkien parla anche di
“trasformazione dell’esperienza in simboli”:
“Così ho optato per l’ “evasione”: o trasformando le esperienze in altre forme e in simboli con
Morgoth e gli Orchi e l’ Eldalie (che rappresenta la bellezza e la grazia nelle vita e nell’arte)”
[TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 73 p. 99, corsivi miei]
4- Similitudine tra il partecipato (mondo primario) e il partecipante (mondo secondario). Tramite
gli accidenti possiamo conoscere la sostanza da cui dipendono (e a cui sono simili): lo stesso
avviene per le fiabe della Terra di Mezzo. In altri termini, il motivo per cui, ad esempio, si possono
considerare gli Hobbit e gli uomini attuali come esemplificazioni simmetriche e di “pari dignità”
della medesima natura umana [cfr. II.2], risiede proprio nella dipendenza non simmetrica che il
mondo secondario ha nei confronti del primario. La Terra di Mezzo è quindi un mondo consistente,
coerente e concreto, in cui si svolgono storie che solo lì possono accadere, ma i protagonisti delle
storie che qui si svolgono sono simili a noi proprio perché derivano in qualche modo dal nostro
mondo e partecipano a problemi universali a cui anche noi primariamente partecipiamo. E’ in fondo
l’antica nozione di “verosimiglianza” che ritorna, seppur in modo nuovo42, in Tolkien:
“Il Male è quello che dona verosimiglianza [“verisimilitude”] a questo mondo immaginari. Un
paese fatato perfettamente pacifico sarebbe incredibile” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 17 p.
30]
“Sono onorato per l’interesse che molti lettori hanno dimostrato per la nomenclatura del
Signore degli Anelli; e compiaciuto, perché dimostra che questa costruzione, frutto di notevoli
riflessioni e fatiche, ha raggiunto (spero) una verosimiglianza [“verisimilitude”], che
probabilmente aiuta la credibilità letteraria della storia in quanto storica” [TOLKIEN, La
Realtà…cit., Lett. 297 p. 246]43
42
Ed infatti, come già affermava Aristotele, la poetica (arte di comporre miti) è più universale della storia proprio perché,
quando il mito è coerente e credibile, ovvero verosimile, può rappresentare una situazione “universale” che può poi essere
applicata anche al mondo reale: “ufficio del poeta non è descriver cose realmente accadute, bensì quali possono [in date
condizioni] accadere: cioè cose che siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza o della necessità. […]. Perciò la
poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia: la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la
storia il particolare. Dell’universale possiamo dare un’idea in questo modo: a un individuo di tale o tale natura accade di dire o
fare cose di tale o tale natura in corrispondenza alla leggi della verosimiglianza o della necessità: e a ciò appunto mira la
poesia, sebbene ai suoi personaggi dia nomi propri” [ARISTOTELE, Poetica, 1451b 1-10]. “Dunque, anche nella pittura dei
caratteri, come nella composizione dei fatti, bisogna aver sempre di mira ciò che è richiesto dalle leggi del necessario o
verosimile: cosicché, dato, per esempio, un personaggio di questo o quel carattere, ciò che egli dice o fa deve risultare appunto
da cotesto suo carattere, conformemente alle leggi della necessità o della verosimiglianza” [ibid. 1454a 33-38; cfr. 1461b 10
ss.]. La differenza maggiore tra Aristotele e Tolkien consiste nel fatto che dapprima Tolkien “scopre” un personaggio e
secondariamente colloca il medesimo in una trama più generale, mentre per Aristotele deve accadere l’inverso [ARISTOTELE,
Poetica, 1451b 11-18].
“Evidentemente ho reso l’orrore veramente orribile, e questo mi dà grande soddisfazione; perché ogni romanzo che consideri
le cose seriamente deve avere un sottofondo di paura e orrore, se vuole raffigurare, per quanto remotamente o in modo
rappresentativo, la realtà [“to resemble reality”], e non essere pura evasione” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 109 p. 139];
12
43
In sintesi, si può quindi dire che tra le tre analogie usate in questo saggio, è possibile individuare il
seguente ordine “fondativo”, che è inverso rispetto alla nostra esposizione:
- l’analogia di attribuzione secundum esse et intentionem vale tra aspetti del mondo primario e i
diversi mondi secondari. Tale analogia è il fondamento logico-metafisico della dipendenza (e
della conseguente similitudine) del mondo secondario rispetto al nostro primario, e quindi della
stessa operazione poietica di sub-creazione, attraverso la quale a partire da certi elementi del
mondo primario si sub-creano mondi immaginari con propri personaggi, linguaggi e storie;
- l’analogia di attribuzione secundum esse vale tra particolari elementi dei diversi mondi (primari o
secondari) e un universale a cui tutti partecipano con uguale “diritto”. Questa analogia,
considerando di “pari dignità” gli elementi dei due mondi, permette di esprimere l’autonomia del
mondo sub-creato e fonda l’idea di esemplificazione (o simbolo) nonché le conseguenti
operazioni ermeneutiche di interpretazione (che procede da un elemento immaginario
all’universale esemplificato) e di applicazione (che dall’universale esemplificato termina a un
elemento del mondo primario del lettore);
- infine, l’analogia di proporzionalità, essendo “strutturalmente” diversa da quella di attribuzione, è
il fondamento logico-retorico della distinzione tra allegorie (e allegorie interne) e opere non
allegoriche, quali sono le “fiabe” della Terra di Mezzo.
III. 2. Conclusione: le fiabe e la Verità
In questo senso, ben si capisce perché Tolkien riteneva che tutte le fiabe o i miti (ivi incluse le sue
opere), pur non contenendo un messaggio morale esplicito, andassero considerate come uno “specchio” in
cui si riesce a capire meglio anche il “nostro” mondo:
“Io penso che le storie fantastiche abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso
dall’allegoria, o dalla satira (quand’è elevata), o dal ‘realismo’, e per alcuni versi più potente”
[TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 181 p. 263].
“Il mito e la fiaba devono, come tutte le forme artistiche, riflettere e contenere fusi insieme
elementi di verità morale e religiosa (o di errore), ma non esplicitamente, non nella forma
conosciuta nel mondo ‘reale’ primario. […] Dopo tutto io credo che i miti e le leggende siano
in gran parte fatti di ‘verità’, e in realtà presentino aspetti della verità che possono essere
recepiti solamente sotto questa forma; e certe verità furono scoperte molto tempo fa e
ritornano sempre” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 13 pp. 165-169]
Tutto ciò si avvicina notevolmente a quanto già Tommaso d’Aquino affermava dei miti e delle favole:
“Quando infatti vediamo qualche effetto manifesto la cui causa ci è nascosta, allora ne
ammiriamo la causa. E poiché fu la meraviglia la causa che originò la filosofia, si ha che il
filosofo è in qualche modo amante dei miti [“philomythes”44], ovvero delle favole, il che è
proprio dei poeti. E quindi i primi che attraverso le favole trattarono dei principi delle cose,
sono detti poeti teologizzanti, come fu Perseo ed gli altri sette savi. Il motivo per cui il
filosofo è paragonato al poeta sta proprio nel fatto che hanno a che fare con le cose
“penso che per quanto riguarda i ‘mortali’, uomini, hobbit e nani, la situazione sia stata concepita in modo tale da avere una
certa verosimiglianza [“likelihood”]” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 154 p. 222].
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Tolkien usa l’identica espressione nel sottotitolo della poesia “Mythopoeia”.
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meravigliose. Infatti, le favole composte dai poeti sono fatte di cose meravigliose. E i filosofi
sono mossi alla filosofia dalla meraviglia.” [In I Metaph. lez. iii n. 4]45
“prima dei filosofi ci furono alcuni detti poeti teologi, come Orfeo, Esiodo e Omero, i quali
sotto veste di favole trasmettevano agli uomini le cose divine” [In II Metereologicorum, lez. 1
n. 3; cfr. In II De Coelo, lez. 2 n. 4; In III Metaph. lez. 11 n. 3, In I Metaph. lez. 4 n. 15]46
“La favola, secondo il Filosofo, è composta di cosa meravigliose, ed in principio furono
inventate (come dice il Filosofo nella Poetica) per indurre alle virtù ed evitare i vizi. I
semplici, infatti, sono più indotti dalle rappresentazioni che dai ragionamenti. Quindi, nel
meraviglioso ben rappresentato appare il diletto, poiché la ragione si diletta nel collegare [la
rappresentazione al bene rappresentato: N. d. A.]. E com’è dilettevole la rappresentazione nei
fatti, così lo è la rappresentazione nelle parole, e questa è la favola, ovvero un racconto
rappresentante qualcosa, e che rappresentando muove a qualcosa. Gli antichi infatti avevano
alcune favole conformi a qualche verità, poiché nascondevano la verità nelle favole. Nella
favola dunque vi sono due elementi: devono contenere un senso vero e devono rappresentare
qualcosa di utile. Per questo si avvicinano alla verità. Se infatti si proponesse una favola che
non contenesse una qualche verità, sarebbe vuota; ma se non la rappresentasse propriamente,
sarebbe inefficace” [Super ad Thimoteum, cap. 4 l]47
Alla luce di tutto questo, i racconti ambientati in Feeria, ovvero le fiabe, ben lungi da essere racconti per
soli bambini, risultano essere una cosa estremamente seria. Tolkien, in un suo celebre saggio, le
“definisce” in sintesi come racconti fantastici (perché la magia è essenziale a Feeria) e realistici (cfr. la
“concretezza” del mondo secondario), che offrono evasione (intesa come fuga del prigioniero da un
mondo opprimente, e non come vigliaccheria del disertore), ristoro (ovvero il vedere le cose così come
sono, “quali entità separate sa noi stessi”, ovvero senza possesso), e consolazione, in quanto le fiabe
migliori sono essenzialmente a lieto fine. Ed è proprio nel lieto fine inteso come eucatastrofe48 che
Tolkien vede ad un tempo l’essenza profonda delle fiabe e del mito49, ed il loro inveramento da parte del
“Cum enim aliquos manifestos effectus videamus, quorum causa nos latet, eorum tunc causam admiramur. Et ex quo
admiratio fuit causa inducens ad philosophiam, patet quod philosophus est aliqualiter philomythes, idest amator fabulae, quod
proprium est poetarum. Unde primi, qui per modum quemdam fabularem de principiis rerum tractaverunt, dicti sunt poetae
theologizantes, sicut fuit Perseus, et quidam alii, qui fuerunt septem sapientes. Causa autem, quare philosophus comparatur
poetae, est ista, quia uterque circa miranda versatur. Nam fabulae, circa quas versantur poetae, ex quibusdam mirabilibus
constituuntur. Ipsi etiam philosophi ex admiratione moti sunt ad philosophandum”.
45
“Ante tempora philosophorum, fuerunt quidam qui vocabantur poetae theologi, sicut Orpheus, Hesiodus et Homerus: quia
sub tegumento quarundam fabularum, divina hominibus tradiderunt”.
46
“Fabula enim secundum philosophum est composita ex miris, et fuerunt in principio inventae ut dicit philosophus in poetria,
quia intentio hominum erat ut inducerent ad acquirendum virtutes, et vitandum vitia. Simplices autem melius inducuntur
repraesentationibus quam rationibus. Unde in miro bene repraesentato videtur delectatio, quia ratio delectatur in collatione. Et
sicut repraesentatio in factis est delectabilis, ita repraesentatio in verbis: et hoc est fabula, scilicet dictum aliquod
repraesentans, et repraesentando movens ad aliquid. Antiqui enim habebant aliquas fabulas accommodatas aliquibus veris, qui
veritatem occultabant in fabulis. Duo ergo sunt in fabula, quod scilicet contineat verum sensum, et repraesentet aliquid utile.
Item quod conveniat illi veritati. Si ergo proponatur fabula, quae non potest repraesentare aliquam veritatem, est inanis; sed
quae non proprie repraesentat, est inepta, sicut fabulae de thalmuth”.
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Tolkien con “eucatastrofe” intende una “ ‘buona catastrofe’ e improvviso capovolgimento gioioso”[ TOLKIEN, Sulle Fiabe,
cit., p. 86], ovvero “l’improvviso lieto fine di una storia che ti trafigge con una gioia tale da farti venire le lacrime agli occhi”
[TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 89 p. 116].
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Sul rapporto tra mito e Vangelo in Tolkien si vedano: J. CHANCE, Tolkien’s Art, U.P. of Kentuky, 2001 (I d 971); R.
PURTILL, J. R. R. Tolkien: mith, morality and religion, Ignatius Press, San Francisco, 2003; B. J. BRAZER, J.R.R. Tolkien’s
Sanctifying Mith, ISI Books, 2003, E. TAVELLA, Tolkien, Firenze Libri, Firenze, 2002, pp. 25 sgg.; R. HEIN, Christian
Mithmakers, United Graphics, Illinois, 2002; T. SHIPPEY, Tolkien autore del secolo, Simonelli, 2004 (con saggio introduttivo
di F. Manni); E. PASSARO - M. RESPINTI, Paganesimo e Cristianesimo in Tolkien, Il Minotauro, Roma, 2004
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Cristianesimo. Anche il Vangelo, infatti, è un’eucatastrofe, la quale però non accade in Feeria, ma nel
nostro mondo primario.
“I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include
l’intera essenza delle fiabe.” [TOLKIEN, Sulle Fiabe, cit., p. 89]
“Naturalmente non voglio dire che i Vangeli raccontano solo fiabe; ma sostengo con forza che
raccontano una fiaba, la più grande. L’uomo, narratore, deve essere redento in modo consono
alla sua natura: da una storia commovente. Ma dato che il suo autore è l’artista supremo e
l’autore di tutta la realtà, questa storia è stata fatta esistere per essere vera anche al primo
livello” [TOLKIEN, La Realtà…cit., Lett. 89 p. 117]
“La gioia cristiana, la Gloria, è dello stesso genere [del lieto fine delle fiabe], ma è
preminentemente (infinitamente, se la nostra capacità non fosse finita) alta e gioiosa. Solo che
questa vicenda è suprema; ed è vera. L’arte ha avuto la verifica. Dio è il Signore, degli angeli,
degli uomini - e degli elfi. Leggenda e Storia si sono incontrate e fuse” [TOLKIEN, Sulle
Fiabe, cit., p. 91] 50
Così, all’inizio Dio Creatore ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza rendendolo un sub-creatore di
miti e fiabe; alla fine Dio Salvatore santifica definitivamente le fiabe, perché con l’eucatastrofe della
Resurrezione l’essenza delle fiabe (il lieto fine) è stata eternamente racchiusa nella Verità della Lieta
Novella.
Anche in altri luoghi Tolkien afferma l’inveramento di parte dei dei miti pagani da parte del cristianesimo: TOLKIEN,
Beowulf…cit, pp. 51-52 (“I mostri restavano I nemici dell’umanità, la fanteria dell’antica guerra, e divennero inevitabilmente I
nemici dell’unico Dio”); ID., La Realtà…cit., lett. 45 p. 65 (l’ideale germanico del coraggio è stato “presto santificato e
cristianizzato” [cfr. ibid. lett. 77 p. 104]); ID., “Mythopoeia”, cit. e l’immaginaria (ma realistica) conversazione tra Tolkien e
C. S. Lewis ricostruita in H. CARPENTER, Gli Inklings. Tolkien, Lewis, Williams & Co., Jaca Book, Milano, 1985 p. 59.
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