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L'Oratorio del Gonfalone: cronologia e stato degli studi

Com'è ben noto, l'oratorio del Gonfalone a Roma fu decorato immediatamente dopo la conclusione del Concilio di Trento ed è il secondo in ordine cronologico dei tre oratori romani decorati a fresco nel corso del Cinquecento, dopo quello di San Giovanni Decollato della confraternita dei Fiorentini, le cui pitture risalgono agli anni tra il 1537 e il 1553, e quello della confraternita del Santissimo Crocifisso di San Marcello, realizzato a cavallo tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta. Per quanto riguarda l'antichità delle tre associazioni quella di Gonfalone è invece di gran lunga la prima, risalendo al medioevo e precisamente al XIII secolo, mentre l'origine delle altre due ebbe luogo nel primo caso allo scorcio del Quattrocento e nel secondo intorno al 1520.

Antonio Vannugli L’oratorio del Gonfalone: cronologia e stato degli studi Nella pagina a ianco: oratorio del Gonfalone, Roma. Com’è ben noto, l’oratorio del Gonfalone a Roma fu decorato immediatamente dopo la conclusione del Concilio di Trento ed è il secondo in ordine cronologico dei tre oratori romani decorati a fresco nel corso del Cinquecento, dopo quello di San Giovanni Decollato della confraternita dei Fiorentini, le cui pitture risalgono agli anni tra il 1537 e il 1553, e quello della confraternita del Santissimo Crociisso di San Marcello, realizzato a cavallo tra la ine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Per quanto riguarda l’antichità delle tre associazioni quella di Gonfalone è invece di gran lunga la prima, risalendo al medioevo e precisamente al XIII secolo, mentre l’origine delle altre due ebbe luogo nel primo caso allo scorcio del Quattrocento e nel secondo intorno al 1520. Il terminus post quem per la decorazione è certamente il completamento del prezioso sofitto ligneo, per il quale il falegname Antonio Bonazzini fu pagato nel 1568 e poi saldato nel 1569. Poiché i saldi erano sempre o quasi dilazionati nel tempo, si può ritenere che alla progettazione del ciclo della Passione di Cristo si sia cominciato a pensare già nel 1568. Già in precedenza era stata fatta la pala d’altare, che è documentata come opera di Pedro de Rubiales, detto Roviale spagnolo, eseguita a partire dal 1556 ma che a quanto sembra nel 1560 non era stata ancora portata a termine dal pittore iberico ormai defunto: si è quindi pensato, con valide ragioni, che parte delle igure siano state completate da altra mano, come nel caso dei ritratti in basso e anche delle mezze igure di san Bonaventura, e di Biagio e Agnolo, secondo la tradizione i due fondatori della Confraternita negli anni sessanta del Duecento. L’oratorio era stato costruito tra il 1545 e il 1551, per poi andare in buona parte bruciato da un incendio nella notte del 29 giugno 1555 ed essere rapidamente ricostruito. In origine per l’altare era stata prevista, e molto probabilmente 1. Luzio Romano, Progetto per altare, Windsor Castle, Royal Library. addirittura eseguita, un’immagine della Madonna dei Raccomandati iancheggiata dagli apostoli Pietro e Paolo ai quali l’oratorio stesso è dedicato, come mostra un disegno a Windsor di Luzio Romano (ig.1), uno degli artisti che verso la ine del pontiicato di Paolo III Farnese erano stati coinvolti nella decorazione di Castel Sant’Angelo. In evidente ricordo delle sacre rappresentazioni della Passione di Cristo che la compagnia del Gonfalone aveva già da anni cessato di organizzare presso il Colosseo durante la settimana santa, e forse già in vista della successiva decorazione a fresco delle pareti, fu dunque decisiva la sostituzione, subito dopo l’incendio, della tipica e inveterata iconograia confraternale della Madonna della Misericordia come Madonna dei Raccomandati del Gonfalone con una rappresentazione cristologica incentrata sulla Passione qual è la Crociissione di Roviale. Intanto, l’11 ottobre 1551 era stato emanato il decreto conciliare sul Santissimo Sacramento, in cui venivano ribaditi il dogma della transustanziazione e quindi il dovere di adorare il Corpus Christi. Nello stesso periodo e forse negli stessi mesi in cui Roviale veniva incaricato 119 120 della pala, Taddeo Zuccari portava così a compimento in Santa Maria della Consolazione, e proprio per conto di una famiglia di maggiorenti della confraternita quali erano i Mattei, la prima impresa decorativa in una pubblica cappella romana dedicata appunto alla Passione di Cristo nella sua interezza: manifestazioni entrambe, insieme a diverse altre tra cui la Resurrezione di Lazzaro di Girolamo Muziano pubblicata nel 1555 e l’avvio subito dopo della decorazione del duomo di Orvieto, dell’avvento di una nuova temperie nell’arte sacra e nella stessa storia della pietà, con un lustro di anticipo sull’apertura dell’ultima sessione del concilio tridentino. Anche il programma orvietano, promosso e inanziato dal locale Consiglio dell’Opera con la consulenza e l’approvazione del vescovo Girolamo Simoncelli, era infatti incentrato – non senza il dovuto corollario di immagini di contorno includenti profeti e sibille – su cinque pale d’altare dedicate alla Passione affrontate ad altrettante che rafiguravano i principali miracoli del Salvatore. Ma senza soffermarsi più del necessario sui pur interessanti e non di rado complessi aspetti iconograici e religiosi, in questo breve intervento si intende fare il punto su alcuni nodi cronologici e attributivi che sono stati issati nell’esemplare volume dedicato all’Oratorio del Gonfalone a cura di Maria Grazia Bernardini, apparso nel 2002 dopo la conclusione della generale campagna di restauri diretta dalla medesima studiosa tra il 2000 e il 2001, campagna che tra l’altro ha consentito di fare il rilievo delle giornate e stabilire perciò una serie di dati fermi per quel che riguarda l’evoluzione dei lavori (ig. 2). In particolare, ciò su cui bisogna ancora interrogarsi sono le motivazioni che guidarono i responsabili dell’associazione nelle scelte e nelle sostituzioni dei pittori e che li indussero ad agire come fecero nel progressivo avanzare dei lavori, durati circa sette anni. La speciicità dell’Oratorio del Gonfalone, ormai accertata in modo deinitivo, è infatti che la decorazione non seguì l’ordine cronologico delle storie, ma si svolse su entrambi i lati lunghi a cominciare dalla parte dell’altare procedendo verso la facciata. Come attestano i diversi disegni della sua mano che ci sono pervenuti, senza considerare il bozzetto per il primo dei dodici episodi della Passione rimasto in mani far- nesiane e oggi nella Galleria Nazionale di Parma, non vi sono dubbi che il responsabile dell’impianto compositivo generale, nonché il primo a salire sui ponteggi, fu il giovanissimo pittore emiliano Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, pittore del cardinale Alessandro Farnese protettore della confraternita stessa e sicuramente da lui ceduto in prestito per l’occorrenza. Quanto a Lelio Orsi, il suo rapporto con il ciclo della Passione esiste solo da un punto di vista strettamente culturale, dato che è caduta da molti anni la proposta, avanzata da Evelina Borea in un articolo del 1961, di riconoscere la paternità dell’artista di Novellara in un disegno preparatorio per il Gonfalone di identica provenienza farnesiana e oggi custodito a Capodimonte, che secondo la studiosa risalirebbe al suo passaggio per Roma alla metà del sesto decennio e sarebbe quindi rimasto in mano ai confratelli per essere integrato dal Bertoja una quindicina di anni più tardi. Ormai, però, non vi è più alcuno che dubiti che il foglio di Capodimonte spetti interamente al Bertoja, il quale, documentato già a Roma nella primavera del 1568, dovette cominciare a rilettere sulla decorazione tra quell’anno e l’inizio del seguente per mettere mano, con tutta probabilità nella primavera del 1569, al Profeta e alla Sibilla in fondo alla parete destra e, subito sotto, all’Entrata di Cristo in Gerusalemme. La puntuale ricostruzione delle giornate ha permesso di stabilire, grazie alle sovrapposizioni con la colonna tortile e l’inquadratura architettonica sulla destra dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme, che Livio Agresti da Forlì, pittore di iducia del viceprotettore della confraternita cardinale augustano Ottone di Truchsess e reduce dalla cappella Pellucchi in Santa Maria della Consolazione, eseguì l’Ultima cena con i relativi Profeta e Sibilla in contemporanea con il Bertoja e non, come si riteneva dapprima, al tempo della posteriore Salita al Calvario sulla parete opposta, affresco che secondo i termini del contratto stipulato il 6 giugno 1571 con il confratello Claudio Pilati si sarebbe impegnato a terminare entro il successivo giorno di Natale. Ciò dimostra un fatto fondamentale e cioè che la confraternita, una volta stabilito lo schema generale secondo il progetto elaborato dal pittore concesso da Alessandro Farnese e sicuramente appro- 2. Schema delle fasi di esecuzione (da M.G. Bernardini, 2002) vato dallo stesso cardinale protettore, aveva sin dall’inizio chiara l’intenzione di far eseguire il ciclo come opera collettiva di diversi autori a confronto tra loro, approittando delle migliori occasioni che via via si fossero presentate. Pur con le debite differenze, riconducibili soprattutto alla di gran lunga inferiore disponibilità inanziaria, il pensiero corre spontaneo al precedente dell’Oratorio di San Giovanni Decollato, che si rivela paradigmatico anche per la contestuale allogazione nel 1538, in concorrenza a Jacopino del Conte e a Francesco Salviati, dei due primi affreschi del ciclo di storie del Battista: tanto induce infatti a credere l’attenta lettura del relativo passo del Vasari nella vita di Salviati, rimanendo assai meglio spiegabile la fortissima discontinuità stilistica tra il primo e il secondo affresco di Jacopino, datato al 1538 come il primo di Salviati, in base al fatto che nel secondo gli fu intimato di attenersi al celebre disegno preparatorio di Perin del Vaga oggi a Vienna, piuttosto che facendo ricorso all’insigniicante intervallo temporale di un anno o un anno e mezzo. Con il Bertoja e Agresti ci si trova dunque tra la primavera e l’estate del 1569, senza poter andare molto al di là della metà di luglio: fu infatti il 17 di quel mese che Alessandro Farnese ordinò ai confratelli di far tornare immediatamente il giovane artista emiliano a Caprarola afinché riprendesse l’attività nel proprio palazzo. L’improvvisa chiamata del rispettivo protettore e padrone dovette addirittura costringere il pittore a lasciare incompiuta l’Entrata di Cristo in Gerusalemme, come suggeriscono alcune delle igure in primo piano in basso, corrispondenti alle ultime giornate dell’affresco e visibilmente di diversa e più debole fattura, oltre che discostantisi dal bozzetto di Par- ma. A Caprarola, si ricordi, il Bertoja aveva non molto tempo prima sostituito Federico Zuccari, licenziato per varie incompatibilità dopo aver preso il posto del fratello Taddeo, scomparso nel 1566, al servizio del cardinale. Durante lo stesso lasso di tempo – se non addirittura subito prima, come parrebbero indicare le poche tracce di giunzione delle giornate in corrispondenza dell’angolo destro riscontrate nel corso del restauro – venne affrescato anche l’arco trionfale con due coppie di profeti e sibille, alla cui estremità sinistra fu anche riutilizzato almeno uno dei cartoni disegnati dal Bertoja, in particolare quello per la igura allegorica nella nicchia sopra la colonna a sinistra del primo episodio. Non si è ancora potuto identiicare l’autore delle pitture dell’arco trionfale, eseguite su committenza Capodiferro e chiaramente ispirate alle Sibille di Raffaello in Santa Maria della Pace, colpevoli anche le ampie ridipinture operate nel 1825 dal restauratore Paolo Tonsi e nonostante nell’ultima campagna siano stati riportati alla luce ampi brani della stesura originale, che hanno addirittura permesso di identiicare due disegni preparatori. Dallo stile risulta una mano più afine ad Agresti che al Bertoja, con in più qualche vago ricordo di Sebastiano del Piombo e forse reminiscenze perinesche in certi brani di panneggio, ma certo non si tratta neppure di Agresti. I dati tecnici evidenziati nel libro del 2002 non escluderebbero di per sé la possibilità che alla stessa fase di avvio della decorazione, issata come si è detto entro l’estate del 1569, appartengano anche le due campate di fondo della parete sinistra, affrescate contemporaneamente fra loro; e tuttavia più di una considerazione induce a ribadire la certezza che esse siano state allogate in 121 122 un momento, anche se di poco, successivo. La principale è costituita dalle cospicue e vistose modiiche introdotte nell’inquadratura architettonico-prospettica dall’autore dell’ultimo episodio del ciclo con il relativo registro soprastante, sulle quali si tornerà fra breve e che sarebbero ancor più dificili da giustiicare se fossero state realizzate allo stesso tempo delle due prime campate sul muro opposto. In secondo luogo, la decisione di discostarsi nel progressivo ordine di esecuzione degli affreschi dal naturale andamento cronologico degli episodi della Passione sembra più ragionevolmente attribuibile a un imprevisto cambio di programma piuttosto che a una determinazione a priori da parte della Compagnia, analogamente a quanto era avvenuto nell’Oratorio di San Giovanni Decollato per via della nota rivalità sorta tra Salviati e Jacopino dopo il completamento delle prime due storie di san Giovanni Battista. E senza che ci sia bisogno di ipotizzare competizioni di sorta tra i vari arteici, per il Gonfalone la ragione più sensata per cui i confratelli optarono per avviare l’affrescatura del lato di fronte è che avessero deciso di attendere il ritorno da Caprarola del Bertoja, conidando nuovamente nella generosità del cardinale Farnese, per far condurre a lui il prosieguo della decorazione lungo la parete destra dopo l’Ultima cena: lo suggerisce il fatto che quando il Bertoja risalì nel 1572 sui ponteggi non cominciò dal terzo episodio da rafigurarsi sotto la inestra, bensì dal registro superiore della successiva campata con il Profeta e la Sibilla colà ospitati, con l’evidente intenzione di retrocedere alla terza campata dopo aver terminato in alto. Quanto al più anziano, indipendente e sicuramente costoso Agresti, che per la Salita al Calvario avrebbe percepito nel 1571 ben 80 scudi, l’eventualità di una sua nuova collaborazione dovette essere rinviata a tempi futuri. Molto probabilmente la preferenza per il Bertoja fu infatti dovuta, ancor prima che a un maggior gradimento artistico, a questioni economiche: a rilettere sul tono di diktat che trapela dalle riconvocazioni del pittore emiliano comandate da Alessandro Farnese, non ci sarebbe anzi da stupirsi che la sua opera nell’Oratorio fosse prestata senza oneri per la compagnia, con il mero rimborso di pane e companatico secondo la prassi. Inine, la riutilizzazione della me- desima impalcatura larga due campate comportava certo un maggior risparmio rispetto all’uso contemporaneo di due ponteggi: si osservi che da allora in poi, tranne forse che nelle due coppie di settori facenti angolo con la controfacciata, nessun dato fa supporre l’erezione di ponteggi più ampi di un unica campata. Come si vede si sta insistendo molto sulla limitatezza dei fondi destinati alla decorazione. Maria Grazia Bernardini ha convincentemente motivato i rallentamenti e le pause nell’avanzamento della decorazione a fresco con le indubbie dificoltà economiche a cui la confraternita andò incontro nel corso degli anni settanta, provando peraltro a spiegare le irregolarità nell’ordine con cui precedette la realizzazione dei dodici episodi in base a una supposta suddivisione preventiva del inanziamento dei singoli settori tra le famiglie maggiorenti dell’associazione, la cui disponibilità inanziaria, almeno ai livelli comportati da un’impresa del genere, rimane al di sopra di ogni sospetto. Se si considerano tuttavia il ricordato contratto di Agresti e gli stemmi Capodiferro sull’arco trionfale, Ceoli sotto l’Orazione nell’orto, Mattei nella Flagellazione di Federico Zuccari più uno ormai illeggibile in basso nell’Incoronazione di spine di Cesare Nebbia – forse di quel Domenico Atton francese eventuale committente di un «quadro», nel caso da intendersi per riquadro, citato in un pagamento dell’aprile 1576 che è stato riferito altresì alla tela attribuita a Nebbia sopra la porta d’ingresso – e per contro i pagamenti a Marcantonio dal Forno e a Matteo da Lecce emessi direttamente dalla confraternita in qualità di persona giuridica, appare chiaro che gli affreschi principali furono solo in parte eseguiti grazie al mecenatismo individuale, e comunque appare inverosimile una pianiicazione preliminare dell’intera impresa stabilita a tavolino, con relativa suddivisione di competenze e inanziamenti, entro la primavera del 1569 o tutt’al più dopo il completamento delle prime quattro storie. È molto più ragionevole immaginare invece che le scelte venissero di volta in volta deliberate in congregazione non solo per quanto riguarda i pittori ma anche relativamente alle committenze, e che la variabile riguardasse non il settore progressivamente da dipingere ma i inanziatori privati che si sarebbero fatti avanti tra i membri, o in mancanza di questi e portafogli permettendo la confraternita stessa. Ma la fatica con cui si giunse al ine, anche se come si vedrà le pause dovettero sempre essere inferiori all’anno solare, offre il destro per rilettere anche sulla sospetta ritrosia delle famiglie più afluenti e in vista a patrocinare l’impresa: non bisogna infatti dimenticare che l’Oratorio, pur essendo divenuto col passare degli anni una delle più esemplari testimonianze dell’arte sacra romana nei primisimi anni della controriforma, al tempo in cui fu coperto di affreschi era pur sempre uno spazio semiprivato e di importanza rappresentativa decisamente inferiore a quello rivestito da una cappella gentilizia in un pubblico luogo di culto, come dimostra del resto la totale assenza al suo interno di marmi pregiati e rilievi in stucco. La determinazione in ieri di ogni aspetto che andasse oltre l’inquadratura architettonica e il numero e i soggetti delle storie principali coinvolge anche l’iconograia delle dieci coppie di profeti e sibille ospitate nell’ordine superiore e delle igurette allegoriche monocrome inserite nelle nicchie al di sopra delle colonne tortili divisorie, ovvio riferimento simbolico al tempio di Salomone che il Bertoja aveva visto rimessa poc’anzi in circolazione nella villa tiburtina del cardinale Ippolito d’Este. Non è necessario ripercorrere qui le non molte identiicazioni sicure, grazie a tabelle e cartigli, dei primi e delle seconde né quelle non sempre univoche che, sulla scorta della posteriore Iconologia di Cesare Ripa, si è stati in grado di stabilire per le ultime per rendersi conto che tali allegorie non rispettano assolutamente alcun programma teologico o devozionale ordinato in precedenza, e che né tra le frasi sibilline e né tra le profezie bibliche sarebbe mai stato possibile reperire una giustiicata doppia allusione a ciascuno dei dodici episodi della Passione di Cristo. Come si diceva, in attesa di avere di nuovo a disposizione l’opera del Bertoja i confratelli si risolsero a dare inizio ai lavori in fondo alla parete sinistra e a tal ine si indirizzarono verso Marco Pino da Siena, ormai maturo artista appartenente alla medesima generazione di Agresti e la cui formazione aveva parimenti vissuto una svolta decisiva nei cantieri farnesiani degli anni quaranta diretti da Perin del Vaga, nonché verso altri due ignoti pittori che, lavorando accanto a lui sul medesimo doppio ponteggio secondo quanto ha rivelato l’esame delle giornate, affrescassero i due registri del settore contiguo. Pino – che dopo una lunga assenza era tornato da poco e solo temporaneamente a Roma e, impegnato a partire dall’agosto del 1568 nella cappella Capogalli ai Santi Apostoli, aveva dipinto a seguire la tavola per l’altare della cappella Morelli, poi passata ai Mattei, in Santa Maria in Aracoeli, chiese entrambe di primaria importanza per l’aristocrazia romana – eseguì da par suo la Resurrezione con il Profeta e la Sibilla in alto, e però decise, con una follia tutta sua e tenendo ostentatamente in non cale il progetto del tanto più giovane Bertoja, di cambiare in modo radicale tutta l’impostazione dell’ornato architettonico, cioè la forma delle edicole soprastanti le colonne tortili e soprattutto la prospettiva stessa delle colonne, impostandone la veduta dal basso invece che dall’alto. Al colpo di testa del senese non poterono fare a meno di adeguarsi tutti i pittori che proseguirono l’affrescatura della parete sinistra, a cominciare dall’autore della Deposizione e da quello, senz’altro differente, che eseguì il Profeta e la Sibilla soprastanti: la Deposizione è innegabilmente l’episodio più debole dell’intero ciclo e appare in tutto legato alla scuola di Daniele da Volterra, scomparso allora da appena quattro anni; né meglio si può dire del Profeta e della Sibilla, evocanti rispettivamente gli ovvi paradigmi michelangioleschi e sommarie reminiscenze della statuaria classica. Senza dubbio la Deposizione non è di Giacomo Rocca o Rocchetti, al quale è stata in passato attribuita per un pur giustiicato confronto con il Crociisso sull’altare posseduto in Santa Maria degli Angeli dal banchiere Ceoli, membro autorevole peraltro della confraternita del Gonfalone, e si deve ammettere da subito che non si sarà in grado di proporre un nome alternativo. Mentre Marco Pino, per motivi tanto professionali quanto familiari, risulta aver deinitivamente lasciato Roma per Napoli già entro il 1571 non senza aver prodotto una replica su tavola ridotta e variata della Resurrezione, più tardi conluita nella Galleria Borghese, i successivi dati fermi per il Gonfalone sono per la parete sinistra il giugno di quell’anno, epoca del citato contratto di Agresti per la Salita al Calvario, e per la parete 123 124 destra l’estate del 1572, quando per via epistolare si ha la prova che il Bertoja aveva ripreso ormai da qualche tempo la sua attività nell’Oratorio. Il Bertoja, come si è anticipato, ripartì dalla sommità della parete destra immediatamente oltre la inestra che sovrasta il terzo episodio della serie e quest’ultimo, rappresentante l’Orazione nell’orto, è risultato successivo al registro superiore compiuto dall’artista emiliano prima di essere nuovamente costretto ad allontanarsi, stavolta per sempre, da Roma: di conseguenza il quinto affresco del ciclo è la Crociissione sulla parete sinistra, priva del registro soprastante per via della inestra al pari dell’Orazione nell’orto di fronte e collocabile con buona precisione tra il 1570 e la primavera del 1571. Non sappiamo ancora chi ne sia l’autore, ma la Crociissione ha rivelato grazie alla recente e magistrale pulitura, e nonostante l’ampia lacuna che il restauratore Tonsi aveva cercato di risarcire alla peggio, una qualità altissima e una cultura igurativa assai complessa, sì da risultare la maggior scoperta offerta dalla campagna del 2000. Sin da prima della sua restituzione a un’adeguata leggibilità essa è accompagnata una letteratura critica tanto ricca quanto ondivaga, corrente dall’ambiente romano ad ascendenze lombarde, da echi della maniera toscana a elementi che sembrano risalire all’arte d’oltralpe. Forti di tali indizi e di altri di natura contestuale, si conida di poter dipanare la rete d’inlussi e sciogliere le riserve in un prossimo futuro, ma già ora si può dire che la sua paternità andrà cercata del tutto fuori campo e che le ricordate assonanze lombarde, e cremonesi in particolare, vanno considerate una traccia infeconda; la vicenda attributiva dell’affresco promette anzi di dimostrarsi un caso esemplare di storia degli errori e allo stesso tempo di progressivo avvicinamento alla verità. In questa sede è invece giunto il momento di un primo bilancio sulle attribuzioni e di enunciare un criterio di principio che si vorrebbe deinitivo. Se le mani che collaborarono all’intera decorazione a fresco dell’Oratorio, come ha stabilito Maria Grazia Bernardini, sono una quindicina o poco più, gli autori responsabili dei dodici episodi della Passione, senza tener conto del completamento dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme e dell’enigmatico e affascinante gruppo di ritratti nell’Ecce Homo di Cesare Nebbia, sono dieci. Di questi dieci pittori Giovanni Baglione, nato lo stesso anno in cui Federico Zuccari datava la Flagellazione in controfacciata, ne include nelle proprie biograie cinque per un totale complessivo di sette episodi, vale a dire Agresti, Pino, Raffaellino da Reggio, Zuccari e Cesare Nebbia, a parte Matteo da Lecce che distrusse il suo Ecce Homo poi rifatto da Nebbia ma lasciò in essere il suo Salomone e le sue due coppie di profeti e sibille tra la controfacciata e l’inizio della parte sinistra. Gli altri due pittori che si è inora riusciti a individuare con assoluta certezza in relazione alle cinque storie rimanenti, il Bertoja e Marcantonio dal Forno a cui si deve la Cattura di Cristo, sono taciuti dall’informatissimo e qui infallibile Baglione per il semplice motivo che le sue Vite non ne comprendono la biograia, sicché è improduttivo industriarsi a cercare gli autori della Deposizione, della Crociissione e dell’Orazione nell’orto (ig. 3) tra gli artisti ivi inclusi. Ciò è valso nel caso di Giacomo Rocca e deve valere ugualmente per le altre due storie rimaste ancora senza nome, mentre non è detto che debba applicarsi per forza anche alle due coppie di profeti e sibille poste al di sopra della Deposizione e del Cristo davanti a Pilato, i cui autori, non avendo contribuito con alcun affresco narrativo, potrebbero essere più semplicemente rimasti nella penna di Baglione. Compiuta nell’autunno del 1571 la Salita al Calvario da parte di Livio Agresti – il quale, approittando dell’interruzione spaziale offerta dalla inestra, aveva introdotto anche sulla parete sinistra la struttura disegnata dal Bertoja per le edicole sopra le colonne tortili – e trascorso con ogni probabilità l’inverno, si rimontò il ponteggio sul lato destro per il Bertoja, documentato di nuovo a Roma tra il 26 aprile e la metà di luglio del 1572. Il 13 luglio il pittore, che aveva fatto in tempo a compiere solo il Profeta e la Sibilla della campata a destra della inestra con l’architrave sottostante, ricevette però ancora un volta l’ordine da parte del cardinale Farnese di rientrare a Caprarola e fu costretto a interrompere la propria collaborazione senza poter neppure dipingere la colonna tortile che suddivide il terzo e il quarto episodio. Tale colonna, caso unico nell’Oratorio, fu successivamente dipinta in 3. Ignoto, Orazione nel’orto, parete destra, III campata. due delle stesse giornate che servirono per affrescare l’Orazione nell’orto a sinistra. Per ricostruire ora l’ultima fase della decorazione lungo la parete destra, i due successivi punti fermi sono la datazione al 1573 della Flagellazione di Federico Zuccari in controfacciata e il sicuro riferimento documentario alla ine del 1574 per la Cattura di Cristo sotto il Profeta e la Sibilla del Bertoja, opera di Marcantonio dal Forno, le cui giornate si sovrappongono alla colonna a destra dell’Orazione nell’orto. Tra la Cattura di Cristo e la Flagellazione si inserisce, ultimo della parete destra verso l’ingresso dell’Oratorio, l’episodio di Cristo davanti a Pilato – e non a Caifa come sostiene Baglione, giusta la recente precisazione di Rita Randoli – opera del giovanissimo Raffaellino Motta da Reggio. Tutto lascia pensare che i confratelli fossero rimasti ancora una volta in attesa di poter contare di nuovo sull’opera del Bertoja e che solo per tale motivo, senza che ci sia bisogno di addurre una programmazione delle committenze degli episodi a 125 126 seguire, deliberarono di lasciare l’intonaco grezzo in corrispondenza della terza e della quarta campata partendo dall’altare, andando invece avanti con l’affrescatura dei settori contigui. Giusto nel 1572 Raffaellino aveva partecipato, sotto la guida del più maturo Federico, alla decorazione a fresco del presbiterio di Santa Caterina dei Funari ed è facile ricondurre la chiamata al Gonfalone del secondo, e attraverso lui del primo, sia all’iniziativa della famiglia Mattei, che si era offerta di inanziare un episodio se non due e per cui lo scomparso Taddeo Zuccari aveva eseguito quasi venti anni prima i ricordati affreschi nella cappella in Santa Maria della Consolazione, sia alla segnalazione di Livio Agresti, anch’egli attivo poc’anzi nel cantiere di Santa Caterina dei Funari. Sebbene la totale perdita della colonna d’angolo non permetta di accertare i tempi relativi dei contributi di Zuccari e Motta è molto probabile, e se ne è anzi convinti, che i due artisti abbiano lavorato l’uno accanto all’altro sul medesimo ponteggio appositamente eretto a forma di L, con la collaborazione di un terzo sconosciuto collega, di lampante ispirazione michelangiolesca con tanto di cangiantismi alla toscana, che si vide afidati il Profeta e la Sibilla al di sopra della storia assegnata a Raffaellino e la cui diversa identità non era mai stata rilevata ino al 2000. Le scarse conoscenze che si posseggono circa l’evoluzione di Raffaellino nell’arco dell’ottavio decennio ino alla precocissima morte nel 1578 non offrono infatti alcun appiglio concreto che permetta di spostare in avanti il Cristo davanti a Pilato su basi stilistiche, ino a posticiparlo rispetto alla Cattura di Cristo. Peraltro, è del tutto condivisibile la tesi secondo la quale Federico, lasciando al poco più che ventenne Raffaellino l’onere di concludere il ciclo sulla parete destra, volle tenere per sé la Flagellazione non solo per le profonde implicazioni personali acutamente scandagliate da Claudio Strinati ma anche per riservarsi il luogo più prestigioso costituito dalla controfacciata, dove ebbe l’onore di lavorare per primo e quindi la libertà di adottare per le colonne la prospettiva dal basso introdotta da Marco Pino, nonché l’orgoglio di apporre in grande evidenza la data 1573 a numeri romani sopra lo stemma Mattei. Non si può negare che gli affreschi di Raffaellino e Federico risultino 4. Domenico Carnevale, Il Verbo incarnato adorato dagli angeli, Roma, Santa Maria degli Angeli. 5. Domenico Carnevale, Presentazione di Gesù al tempio, Modena, Galleria Estense. tra i più felici del ciclo della Passione, e sia anzi lecito supporre che i due pittori abbiano avuto la facoltà di esprimersi sulla scelta di rappresentare quei due episodi, in quanto indubbiamente congeniali al massimo alle loro intenzioni artistiche, e indirizzare così la committenza verso quel settore della decorazione invece che verso le due simmetriche campate successive alla Salita al Calvario e poi affrescate da Matteo da Lecce e Cesare Nebbia: una decisione per cui altrimenti non si saprebbe far meglio che appellarsi al caso. Dopo che tra la seconda metà del 1572 e il 1573 furono dunque portate a termine l’ultima campata della parete destra e la corrispondente sezione di controfacciata, è probabile che i lavori abbiano conosciuto una pausa di diversi mesi, se non di un anno o quasi. A farli riprendere, a parte ogni condivisibile spiegazione inanziaria, dovette occorrere nel corso del 1574 l’inaspettato evento della morte del Bertoja, alla giovane età di trent’anni o poco più: fu nell’autunno di quell’anno che la confraternita si fece carico della Cattura di Cristo, dopo che i Ceoli ebbero dato il loro contributo promovendo la realizzazione dell’Orazione nell’orto. Non si può avere certezza se l’Orazione nell’orto sia stata dipinta subito dopo che il Bertoja ebbe sospeso la propria partecipazione, e pertanto in immediata precedenza rispetto all’in- tervento di Raffaellino da Reggio e Federico Zuccari, o se la sua esecuzione fece seguito al decesso del pittore parmense al pari della Cattura di Cristo; l’insistenza dell’architrave dipinto da quest’ultimo anche su di essa induce però, contrariamente a quanto si è ritenuto in precedenza, a considerare più verosimile la seconda ipotesi. Ma che risalga all’estate-autunno del 1572 o piuttosto al 1574, l’Orazione nell’orto costituisce il terzo degli enigmi attributivi tuttora sussistenti a proposito delle dodici storie della Passione: insostenibili i tentativi di riferimento a Lelio Orsi e a Giovanni de Vecchi, non ha infatti retto nel tempo neppure l’attribuzione proposta da Claudio Strinati in favore di quel Domenico da Modena il cui nome, in lati- no e a lettere capitali, appare in calce alla pala con l’Adorazione del Verbo incarnato (ig. 4) posta sull’altare di un’altra cappella, quella di Matteo Catalani, nella basilica di Santa Maria degli Angeli e situabile verso la metà degli anni settanta. Allorché si è notata la coincidenza di tale nome con quello di Domenico Carnevale da Modena, restauratore nel 1570 della volta sistina – a lui spetta il rifacimento del celebre dito di Adamo – e artista abbastanza affermato in patria, si è infatti reso evidente che le opere emiliane di Carnevale non appaiono gran che compatibili con l’affresco del Gonfalone, e si è talvolta sostenuto nemmeno con il dipinto di Santa Maria degli Angeli. Ma se si lascia per un momento da parte l’Orazione nell’orto, non si riesce in realtà a scorgere alcun ostacolo a riconoscere in quest’ultima il medesimo autore della Presentazione di Gesù al tempio (ig. 5), con tanto di colonne tortili salomoniche, oggi esposta nella Galleria Estense e irmata nel 1576 da Carnevale in corsivo, con una graia che induce peraltro a considerare la scritta vergata sulla pala romana una mera attestazione di paternità. Più che suficienti sono infatti le coincidenze tra la baluginante atmosfera notturna dell’una e lo squarcio visionario nell’altra, come pure tra i panneggi dalle pieghe taglienti e sottilmente lumeggiate e tra le caratteristiche somatiche del Bambin Gesù e del Verbo incarnato in forma di infante. Sin da quando Emilio Lavagnino, condizionato dalla vicina presenza del Bertoja, l’assegnò a Lelio Orsi, l’Orazione nell’orto è da considerare tuttora vittima di un pregiudizio emiliano, nonostante già Herwarth Röttgen abbia cercato di chiamarla fuori proponendo il nome, comunque inaccettabile, di Giovanni de’ Vecchi. A guardarlo con occhi liberi l’affresco, pur creato tenendo a mente l’identico episodio dipinto da Taddeo Zuccari sulla voltina della cappella Mattei alla Consolazione (ig. 6), trova però il suo modello più prossimo nello splendido Riposo durante la fuga in Egitto (ig. 7) che Girolamo Muziano aveva non molti anni prima eseguito sul primo altare a destra in Santa Caterina della Rota, senza che sia in alcun modo necessario far ricorso al mondo di Niccolò dell’Abate e dei suoi. Così indicano, fatta salva la considerevole discesa di qualità, il ritmo dilatato e solenne della composizione; la 127 6. Taddeo Zuccari, Orazione nell’orto, Roma, Santa Maria della Consolazione 128 concezione espansa, potente e un po’ massiccia delle igure dei tre apostoli dormienti; la dificile resa del notturno nella tecnica a fresco, che il pittore mostra di saper maneggiare con buona perizia; lo squarcio di luce abbagliante inine, che invade di rilessi le foglie e i tronchi degli alberi: sicché alla ine il più indovinato di tutti si dimostra proprio l’antico, sebbene insostenibile, riferimento a Cesare Nebbia. A quel punto rimaneva da completare la parete destra con la Cattura di Cristo, da affrescare al di sotto del Profeta e della Sibilla eseguiti dal Bertoja alla metà del 1572. Che a tale episodio si riferiscano i pagamenti effettuati dal camerlengo della Compagnia il 10 ottobre 1574 e il 12 febbraio 1575 a favore di tale Marcantonio dal Forno, lo ha dimo- 7. Girolamo Muziano, Riposo durante strato in modo deinitivo Claudio Strinati la Fuga in Egitto, Roma, Santa Cateridocumentando come opere del medesimo na della Rota. pittore, alla data del 1580, tre tele nella chiesa della Santissima Annunziata di Zagarolo rafiguranti l’Annunciazione, la Flagellazione e la Resurrezione, la cui identità di mano con la Cattura di Cristo (ig. 8) del Gonfalone è di lampante evidenza; ed è davvero frustrante per la natura scientiica della disciplina storico-artistica rilevare come, negli anni successivi all’agnizione operata da Strinati, non siano mancate un paio di voci discordi. Al di là del poco che si è detto e di alcuni documenti d’archivio che ne attestano la morte nel 1612, su Marcantonio dal Forno si possono formulare solo ipotesi: occorre dunque far parlare il suo stile, che lo presenta come un seguace e forse addirittura un allievo di Girolamo Muziano perfettamente allineato allo «stile orvietano» sul piano compositivo, cromatico ed emozionale. In questa sede, tuttavia, preme in particolare sottolineare che il paesaggio al chiaro di luna con il iume e una città antica sul fondo, come pure il criptoportico in secondo piano da cui arrivano i soldati con le torce, rinviano sì al Giulio Romano della pala Fugger e anche del Martirio di santo Stefano di Genova, come la maggior parte della critica ha posto in evidenza, ma anche alla tradizione del romanismo iammingo degli anni trenta del Cinquecento per un lato e per l’altro al paesaggio alla veneta coniguratosi nella produzione di Tiziano tra il secondo e il ter- 8. Marcantonio dal Forno, Cattura di Cristo, parete destra, II campata. zo decennio del secolo, evolutosi in senso manieristico e anticheggiante per opera del Veronese a Maser e da poco introdotto in area romana attraverso il cantiere della villa tiburtina del cardinale d’Este, ancora una volta con il determinante contributo di Muziano del quale l’affresco offre un’interpretazione complementare a quella, per nulla romanistica e postraffaellesca, dell’Orazione nell’orto. Viene anzi da supporre che il misterioso Marcantonio, il cui nome sembra parimenti evocare un’origine laziale, avesse fatto parte durante gli anni sessanta proprio di una delle nutrite équipes di frescanti impegnate nella decorazione della Villa d’Este. Come si vede, si tratta di fattori di stile tutti perfettamente inquadrabili nell’ambito della cultura igurativa romana, rimanendo ancor più fuorvianti per l’Orazione nell’orto i presunti richiami, che pure sono stati talora evocati, alla cultura paesistica emiliana. In attesa che il risicato corpus pittorico di Marcantonio dal Forno possa ricevere qualche integrazione, merita di essere qui ricordata la versione su tela della Cattura di Cristo (igg. 9-10), variata e alquanto ridotta, custodita nella chiesa di San Domenico a Spoleto e datata 1574. La piccola pala, che attualmente non si trova su un altare, non può essere stata ricavata se non a occhio dal medesimo cartone servito per l’affresco e non è neppure certo che appartenga allo stesso Marcantonio: poiché la sua datazione impedisce di considerarla posteriore e non v’è luogo di pensare che da essa sia derivato il secondo, è giocoforza concludere che si tratta di una singolare riutilizzazione in tempo reale dell’immagine creata per l’Oratorio romano. Prima di passare agli ultimi due artisti coinvolti nella decorazione dell’Oratorio, vale a dire Matteo da Lecce e Cesare Nebbia da Orvieto, si è già in grado di tirare le somme sulle diverse voci e tendenze stilistiche che ebbero modo di esprimersi sulle pareti della sala, tenendo presente peraltro che pochissimi anni prima che Ambrogio Bonazzini realizzasse il sofitto ligneo dell’Oratorio, rendendone possibile l’affrescatura, la morte aveva decimato la ridotta pattuglia dei grandi maestri: Salviati nel 1563, Michelangelo nel 1564, Taddeo Zuccari e Daniele da Volterra nel 1566, mentre Jacopino del Conte aveva pensato bene di dedicarsi alla più facile e redditizia attività di ritrattista. Nel corso degli ultimi anni è apparso sempre più chiaro agli studiosi che non è possibile schematizzare l’intera realizzazione dell’impresa in due fasi distinte, corrispondenti al terzo e al quarto periodo del manierismo secondo la periodizzazione anglosassone uficializzata da Sydney J. Freedberg: la prima afferente cioè alla «tarda Maniera» in quanto evoluzione della «grande Maniera» di metà secolo, con un’intensiicazione delle componenti emiliane e iamminghe che sarebbe sfociata a livello europeo nel cosiddetto manierismo internazionale, alla quale si iscriverebbero i contributi del Bertoja, di Marco Pino e di Raffaellino da Reggio, e la seconda afferente alla ben altrimenti sobria e severa «contromaniera» elaborata tra Roma e Orvieto da Girolamo Muziano, di cui farebbero parte le opere di Federico Zuccari, dell’ignoto a cui si deve l’Orazione nell’orto, di Marcantonio dal Forno e di Cesare Nebbia. Refrattari a tale riduzione rimangono infatti troppi elementi: Livio Agresti da un lato, che pure già nel 1560 aveva mostrato, con la Consegna delle chiavi a san Pietro del duomo di Narni, di risentire delle vicine novità orvietane, e dall’altro Matteo da Lecce, fautore di un michelangiolismo fuori tempo, senza contare poi l’anonimo responsabile della Deposizione. Tutt’al più è quindi lecito parlare di tendenze prevalenti, fatti sempre i dovuti 129 130 distinguo, sicché quella che sembra afiorare è piuttosto una cesura di tipo generazionale da legarsi con ogni probabilità al cambio di pontiicato, nel maggio del 1572, tra Pio V Ghislieri e Gregorio XIII Boncompagni; da tale cesura, e per le ragioni dianzi esposte, rimane comunque escluso il giovane pittore del cardinale Farnese, il Bertoja. Livio Agresti, Marco Pino, l’autore dei Profeti e delle Sibille sull’arco trionfale e si può scommettere anche quello della Deposizione risultano infatti tutte personalità artistiche formatesi o maturate intorno alla grande bottega messa insieme negli anni quaranta, al tempo di papa Paolo III Farnese, da Perin del Vaga tra Castel Sant’Angelo e la Sala Regia, la cui tormentata decorazione si apprestava proprio a cavallo del 1570 a giungere a conclusione. E i cantieri della Sala Regia e delle altre imprese uficiali condotte al crepuscolo del regno di Pio V – ad essi andrà probabilmente ricondotto, se non per età per afiliazione di bottega, anche il pittore della Crociissione – si pongono insieme a Livio Agresti per la convocazione di Federico Zuccari, con il quale avviene il deinitivo passaggio dalla generazione del 1520 a quella del 1540. Del medesimo scaglione generazionale di Federico, che porta con sé l’ancor più giovane Raffaellino Motta e introduce la chiarezza compositiva, la teatralizzazione da palcoscenico, la dimostratività retorica e la concentrazione drammatica manifestatesi a Orvieto, fanno quindi parte Matteo da Lecce, Cesare Nebbia e con ogni probabilità anche l’anonimo dell’Orazione nell’Orto e Marcantonio dal Forno. Si noti inine che, siccome in un modo o nell’altro Matteo da Lecce non lasciò alcuna storia della Passione di sua mano, i postulati che Federico affermò nella Flagellazione non appaiono contraddetti in nessuno dei quattro episodi eseguiti dopo di essa. L’ultima fase della decorazione dell’Oratorio non presenta problemi né cronologici né attributivi, almeno in senso lato, e quindi non riserva particolari osservazioni in questa sede. Ad appena un mese di distanza dall’ultimo pagamento noto in favore di Marcantonio dal Forno si ha il primo acconto a Matteo da Lecce: Matteo da Lecce appunto, nativo del Salento e niente affatto identiicabile con tale Matteo Godi da Leccia nei dintorni di Volterra, pitto- 9. Marcantonio dal Forno, Cattura di Cristo, Spoleto, San Domenico. re locale di scarsi meriti e oscura fortuna, come una dozzina di anni or sono è stato proposto con totale dispregio di fonti e documenti in una spericolata operazione di sensazionalismo pseudoilologico che bisognerà avere un giorno la pazienza di smascherare e che ciononostante ha carpito la iducia di molti, fortunatamente non di tutti, gli storici dell’arte, a cominciare dagli stessi collaboratori al meritorio libro sul Gonfalone curato da Maria Grazia Bernardini. Riferisce dunque Baglione che Matteo eseguì la grande igura di Salomone che incombe, a rendere esplicita la tematica salomonica e sapienziale sottesa per mezzo delle colonne tortili vitinee, in alto al centro della controfacciata, sì dal voler evocare «la terribil maniera del Salviati» – l’allusione, evidentemente, è alla sala dei Fasti Farnesiani – nonché le due coppie di profeti e sibille sull’ultima campata della parete sinistra e il settore sinistro della controfacciata. È ben noto il racconto, confermato e integrato peraltro dai doumenti d’archivio, del testimone oculare Karel van Mander secondo il quale Matteo aveva anche dipinto, essendone pagato, l’episodio dell’Ecce Homo, per danneggiarlo poco dopo irreparabilmente di notte a causa della propria insoddisfazione: ma sebbene le igure del registro superiore gli risultino saldate solo il 7 aprile 1576, si desidera qui rivendicare la sostanziale correttezza di quanto affermato dal canonico Francesco del Sodo in un manoscritto che si data al 1575 e cioè che a quel tempo l’Oratorio del Gonfalone era «tutto dipinto». Se infatti del Sodo visitò la sala dopo la realizzazione dell’affresco con l’Ecce Homo e prima del suo danneggiamento, a conti fatti mancavano solo l’Incoronazione di spine in controfacciata e con tutta probabilità la tela con la Madonna dei Raccomandati con la Santissima Trinità collocata sotto il Salomone al di sopra della porta d’ingresso. Nonostante il silenzio in merito di Baglione, segno forse di opera eseguita in collaborazione, quest’ultima – che non è affatto uno stendardo come si è appurato in occasione del restauro – va assegnata al pari dei due ultimi episodi della Passione, compiuti tra il 1576 e i primi mesi del 1577, all’orvietano Cesare Nebbia. Questi, che come ha puntualizzato Stefano Pierguidi era stato molto probabilmente proposto dai Mattei in quanto l’anno precedente aveva irmato per conto di Muziano il contratto per la loro cappella all’Aracoeli, lasciò tuttavia ad altra, singolare ed eccellente mano – Claudio Strinati ha pensato addirittura a quella del Greco, allora domiciliato a Roma presso la corte del cardinale Farnese – il gruppo dei ritratti dei guardianicommittenti a sinistra nell’Ecce Homo da lui rifatto ex novo e non si peritò di replicare l’Incoronazione di spine su tela da lui messa in opera pressappoco contemporaneamente su uno degli altari del duomo di Orvieto. Ma mentre nel caso dell’importanza relativa tra il Gonfalone e San Domenico a Spoleto la bilancia pendeva sicuramente dalla parte del primo, al momento di chiamare in causa il confronto tra l’Oratorio romano e la cattedrale dell’antica città umbra la questione non poteva e non può che restare aperta. 10. Girolamo Muziano, Cattura di Cristo, Orvieto, Museo del Duomo. 131 Bibliograia essenziale. 132 Per la bibliograia completa sull’Oratorio del Gonfalone e la storia della confraternita si rinvia al più volte citato volume del 2002 a cura di Maria Grazia Bernardini. In questa sede ci si limita a indicare, in ordine cronologico, i principali contributi sull’argomento e gli artisti che lo decorarono pubblicati a partire dal 2003, oltre alle principali fonti e ai testi di data precedente che affrontano le questioni cronologiche, attributive e iconograiche espressamente toccate nel presente contributo. G. Mancini, Considerazioni sulla pittura (ms. 1617-1621), ed. a cura di A. Marucchi e L. 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