Antonio Vannugli
L’oratorio del Gonfalone: cronologia e stato degli studi
Nella pagina a ianco: oratorio del
Gonfalone, Roma.
Com’è ben noto, l’oratorio del Gonfalone a Roma fu decorato immediatamente
dopo la conclusione del Concilio di Trento
ed è il secondo in ordine cronologico dei tre
oratori romani decorati a fresco nel corso
del Cinquecento, dopo quello di San Giovanni Decollato della confraternita dei Fiorentini, le cui pitture risalgono agli anni tra
il 1537 e il 1553, e quello della confraternita
del Santissimo Crociisso di San Marcello,
realizzato a cavallo tra la ine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Per quanto riguarda l’antichità delle tre associazioni
quella di Gonfalone è invece di gran lunga
la prima, risalendo al medioevo e precisamente al XIII secolo, mentre l’origine delle altre due ebbe luogo nel primo caso allo
scorcio del Quattrocento e nel secondo intorno al 1520.
Il terminus post quem per la decorazione è
certamente il completamento del prezioso sofitto ligneo, per il quale il falegname
Antonio Bonazzini fu pagato nel 1568 e
poi saldato nel 1569. Poiché i saldi erano
sempre o quasi dilazionati nel tempo, si
può ritenere che alla progettazione del ciclo della Passione di Cristo si sia cominciato
a pensare già nel 1568. Già in precedenza
era stata fatta la pala d’altare, che è documentata come opera di Pedro de Rubiales,
detto Roviale spagnolo, eseguita a partire
dal 1556 ma che a quanto sembra nel 1560
non era stata ancora portata a termine dal
pittore iberico ormai defunto: si è quindi
pensato, con valide ragioni, che parte delle
igure siano state completate da altra mano,
come nel caso dei ritratti in basso e anche
delle mezze igure di san Bonaventura, e
di Biagio e Agnolo, secondo la tradizione i
due fondatori della Confraternita negli anni
sessanta del Duecento. L’oratorio era stato
costruito tra il 1545 e il 1551, per poi andare in buona parte bruciato da un incendio
nella notte del 29 giugno 1555 ed essere rapidamente ricostruito. In origine per l’altare
era stata prevista, e molto probabilmente
1. Luzio Romano, Progetto per altare,
Windsor Castle, Royal Library.
addirittura eseguita, un’immagine della Madonna dei Raccomandati iancheggiata dagli apostoli Pietro e Paolo ai quali l’oratorio
stesso è dedicato, come mostra un disegno
a Windsor di Luzio Romano (ig.1), uno degli artisti che verso la ine del pontiicato di
Paolo III Farnese erano stati coinvolti nella
decorazione di Castel Sant’Angelo. In evidente ricordo delle sacre rappresentazioni
della Passione di Cristo che la compagnia
del Gonfalone aveva già da anni cessato
di organizzare presso il Colosseo durante
la settimana santa, e forse già in vista della
successiva decorazione a fresco delle pareti, fu dunque decisiva la sostituzione, subito
dopo l’incendio, della tipica e inveterata iconograia confraternale della Madonna della
Misericordia come Madonna dei Raccomandati del Gonfalone con una rappresentazione cristologica incentrata sulla Passione
qual è la Crociissione di Roviale. Intanto, l’11
ottobre 1551 era stato emanato il decreto
conciliare sul Santissimo Sacramento, in cui
venivano ribaditi il dogma della transustanziazione e quindi il dovere di adorare il Corpus Christi. Nello stesso periodo e forse negli
stessi mesi in cui Roviale veniva incaricato
119
120
della pala, Taddeo Zuccari portava così a
compimento in Santa Maria della Consolazione, e proprio per conto di una famiglia di
maggiorenti della confraternita quali erano
i Mattei, la prima impresa decorativa in una
pubblica cappella romana dedicata appunto
alla Passione di Cristo nella sua interezza:
manifestazioni entrambe, insieme a diverse
altre tra cui la Resurrezione di Lazzaro di Girolamo Muziano pubblicata nel 1555 e l’avvio
subito dopo della decorazione del duomo
di Orvieto, dell’avvento di una nuova temperie nell’arte sacra e nella stessa storia della
pietà, con un lustro di anticipo sull’apertura
dell’ultima sessione del concilio tridentino.
Anche il programma orvietano, promosso
e inanziato dal locale Consiglio dell’Opera
con la consulenza e l’approvazione del vescovo Girolamo Simoncelli, era infatti incentrato – non senza il dovuto corollario di
immagini di contorno includenti profeti e
sibille – su cinque pale d’altare dedicate alla
Passione affrontate ad altrettante che rafiguravano i principali miracoli del Salvatore.
Ma senza soffermarsi più del necessario
sui pur interessanti e non di rado complessi
aspetti iconograici e religiosi, in questo breve intervento si intende fare il punto su alcuni nodi cronologici e attributivi che sono
stati issati nell’esemplare volume dedicato
all’Oratorio del Gonfalone a cura di Maria
Grazia Bernardini, apparso nel 2002 dopo
la conclusione della generale campagna di
restauri diretta dalla medesima studiosa tra
il 2000 e il 2001, campagna che tra l’altro ha
consentito di fare il rilievo delle giornate e
stabilire perciò una serie di dati fermi per
quel che riguarda l’evoluzione dei lavori (ig.
2). In particolare, ciò su cui bisogna ancora
interrogarsi sono le motivazioni che guidarono i responsabili dell’associazione nelle
scelte e nelle sostituzioni dei pittori e che li
indussero ad agire come fecero nel progressivo avanzare dei lavori, durati circa sette
anni. La speciicità dell’Oratorio del Gonfalone, ormai accertata in modo deinitivo, è
infatti che la decorazione non seguì l’ordine
cronologico delle storie, ma si svolse su entrambi i lati lunghi a cominciare dalla parte
dell’altare procedendo verso la facciata.
Come attestano i diversi disegni della sua
mano che ci sono pervenuti, senza considerare il bozzetto per il primo dei dodici
episodi della Passione rimasto in mani far-
nesiane e oggi nella Galleria Nazionale di
Parma, non vi sono dubbi che il responsabile dell’impianto compositivo generale,
nonché il primo a salire sui ponteggi, fu il
giovanissimo pittore emiliano Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, pittore del cardinale
Alessandro Farnese protettore della confraternita stessa e sicuramente da lui ceduto in
prestito per l’occorrenza. Quanto a Lelio
Orsi, il suo rapporto con il ciclo della Passione esiste solo da un punto di vista strettamente culturale, dato che è caduta da molti
anni la proposta, avanzata da Evelina Borea
in un articolo del 1961, di riconoscere la paternità dell’artista di Novellara in un disegno preparatorio per il Gonfalone di identica provenienza farnesiana e oggi custodito a
Capodimonte, che secondo la studiosa risalirebbe al suo passaggio per Roma alla metà
del sesto decennio e sarebbe quindi rimasto
in mano ai confratelli per essere integrato
dal Bertoja una quindicina di anni più tardi.
Ormai, però, non vi è più alcuno che dubiti
che il foglio di Capodimonte spetti interamente al Bertoja, il quale, documentato già
a Roma nella primavera del 1568, dovette
cominciare a rilettere sulla decorazione tra
quell’anno e l’inizio del seguente per mettere mano, con tutta probabilità nella primavera del 1569, al Profeta e alla Sibilla in fondo
alla parete destra e, subito sotto, all’Entrata
di Cristo in Gerusalemme.
La puntuale ricostruzione delle giornate
ha permesso di stabilire, grazie alle sovrapposizioni con la colonna tortile e l’inquadratura architettonica sulla destra dell’Entrata di
Cristo in Gerusalemme, che Livio Agresti da
Forlì, pittore di iducia del viceprotettore
della confraternita cardinale augustano Ottone di Truchsess e reduce dalla cappella
Pellucchi in Santa Maria della Consolazione, eseguì l’Ultima cena con i relativi Profeta
e Sibilla in contemporanea con il Bertoja e
non, come si riteneva dapprima, al tempo
della posteriore Salita al Calvario sulla parete opposta, affresco che secondo i termini del contratto stipulato il 6 giugno 1571
con il confratello Claudio Pilati si sarebbe
impegnato a terminare entro il successivo
giorno di Natale. Ciò dimostra un fatto fondamentale e cioè che la confraternita, una
volta stabilito lo schema generale secondo il
progetto elaborato dal pittore concesso da
Alessandro Farnese e sicuramente appro-
2. Schema delle fasi di esecuzione (da
M.G. Bernardini, 2002)
vato dallo stesso cardinale protettore, aveva
sin dall’inizio chiara l’intenzione di far eseguire il ciclo come opera collettiva di diversi
autori a confronto tra loro, approittando
delle migliori occasioni che via via si fossero
presentate. Pur con le debite differenze, riconducibili soprattutto alla di gran lunga inferiore disponibilità inanziaria, il pensiero
corre spontaneo al precedente dell’Oratorio
di San Giovanni Decollato, che si rivela paradigmatico anche per la contestuale allogazione nel 1538, in concorrenza a Jacopino
del Conte e a Francesco Salviati, dei due primi affreschi del ciclo di storie del Battista:
tanto induce infatti a credere l’attenta lettura del relativo passo del Vasari nella vita di
Salviati, rimanendo assai meglio spiegabile
la fortissima discontinuità stilistica tra il primo e il secondo affresco di Jacopino, datato al 1538 come il primo di Salviati, in base
al fatto che nel secondo gli fu intimato di
attenersi al celebre disegno preparatorio di
Perin del Vaga oggi a Vienna, piuttosto che
facendo ricorso all’insigniicante intervallo
temporale di un anno o un anno e mezzo.
Con il Bertoja e Agresti ci si trova dunque tra la primavera e l’estate del 1569, senza poter andare molto al di là della metà di
luglio: fu infatti il 17 di quel mese che Alessandro Farnese ordinò ai confratelli di far
tornare immediatamente il giovane artista
emiliano a Caprarola afinché riprendesse
l’attività nel proprio palazzo. L’improvvisa
chiamata del rispettivo protettore e padrone
dovette addirittura costringere il pittore a
lasciare incompiuta l’Entrata di Cristo in Gerusalemme, come suggeriscono alcune delle
igure in primo piano in basso, corrispondenti alle ultime giornate dell’affresco e visibilmente di diversa e più debole fattura,
oltre che discostantisi dal bozzetto di Par-
ma. A Caprarola, si ricordi, il Bertoja aveva
non molto tempo prima sostituito Federico
Zuccari, licenziato per varie incompatibilità
dopo aver preso il posto del fratello Taddeo,
scomparso nel 1566, al servizio del cardinale. Durante lo stesso lasso di tempo – se
non addirittura subito prima, come parrebbero indicare le poche tracce di giunzione
delle giornate in corrispondenza dell’angolo
destro riscontrate nel corso del restauro –
venne affrescato anche l’arco trionfale con
due coppie di profeti e sibille, alla cui estremità sinistra fu anche riutilizzato almeno
uno dei cartoni disegnati dal Bertoja, in particolare quello per la igura allegorica nella
nicchia sopra la colonna a sinistra del primo
episodio. Non si è ancora potuto identiicare l’autore delle pitture dell’arco trionfale, eseguite su committenza Capodiferro e
chiaramente ispirate alle Sibille di Raffaello
in Santa Maria della Pace, colpevoli anche
le ampie ridipinture operate nel 1825 dal restauratore Paolo Tonsi e nonostante nell’ultima campagna siano stati riportati alla luce
ampi brani della stesura originale, che hanno addirittura permesso di identiicare due
disegni preparatori. Dallo stile risulta una
mano più afine ad Agresti che al Bertoja,
con in più qualche vago ricordo di Sebastiano del Piombo e forse reminiscenze perinesche in certi brani di panneggio, ma certo
non si tratta neppure di Agresti.
I dati tecnici evidenziati nel libro del 2002
non escluderebbero di per sé la possibilità
che alla stessa fase di avvio della decorazione, issata come si è detto entro l’estate del
1569, appartengano anche le due campate di fondo della parete sinistra, affrescate
contemporaneamente fra loro; e tuttavia
più di una considerazione induce a ribadire
la certezza che esse siano state allogate in
121
122
un momento, anche se di poco, successivo.
La principale è costituita dalle cospicue e vistose modiiche introdotte nell’inquadratura
architettonico-prospettica dall’autore dell’ultimo episodio del ciclo con il relativo registro
soprastante, sulle quali si tornerà fra breve
e che sarebbero ancor più dificili da giustiicare se fossero state realizzate allo stesso
tempo delle due prime campate sul muro
opposto. In secondo luogo, la decisione di
discostarsi nel progressivo ordine di esecuzione degli affreschi dal naturale andamento cronologico degli episodi della Passione
sembra più ragionevolmente attribuibile a un
imprevisto cambio di programma piuttosto
che a una determinazione a priori da parte
della Compagnia, analogamente a quanto
era avvenuto nell’Oratorio di San Giovanni
Decollato per via della nota rivalità sorta tra
Salviati e Jacopino dopo il completamento
delle prime due storie di san Giovanni Battista. E senza che ci sia bisogno di ipotizzare
competizioni di sorta tra i vari arteici, per
il Gonfalone la ragione più sensata per cui
i confratelli optarono per avviare l’affrescatura del lato di fronte è che avessero deciso
di attendere il ritorno da Caprarola del Bertoja, conidando nuovamente nella generosità del cardinale Farnese, per far condurre
a lui il prosieguo della decorazione lungo la
parete destra dopo l’Ultima cena: lo suggerisce il fatto che quando il Bertoja risalì nel
1572 sui ponteggi non cominciò dal terzo
episodio da rafigurarsi sotto la inestra,
bensì dal registro superiore della successiva
campata con il Profeta e la Sibilla colà ospitati, con l’evidente intenzione di retrocedere
alla terza campata dopo aver terminato in
alto. Quanto al più anziano, indipendente e
sicuramente costoso Agresti, che per la Salita al Calvario avrebbe percepito nel 1571 ben
80 scudi, l’eventualità di una sua nuova collaborazione dovette essere rinviata a tempi
futuri. Molto probabilmente la preferenza
per il Bertoja fu infatti dovuta, ancor prima che a un maggior gradimento artistico,
a questioni economiche: a rilettere sul tono
di diktat che trapela dalle riconvocazioni del
pittore emiliano comandate da Alessandro
Farnese, non ci sarebbe anzi da stupirsi che
la sua opera nell’Oratorio fosse prestata
senza oneri per la compagnia, con il mero
rimborso di pane e companatico secondo
la prassi. Inine, la riutilizzazione della me-
desima impalcatura larga due campate comportava certo un maggior risparmio rispetto
all’uso contemporaneo di due ponteggi: si
osservi che da allora in poi, tranne forse che
nelle due coppie di settori facenti angolo
con la controfacciata, nessun dato fa supporre l’erezione di ponteggi più ampi di un
unica campata.
Come si vede si sta insistendo molto sulla
limitatezza dei fondi destinati alla decorazione. Maria Grazia Bernardini ha convincentemente motivato i rallentamenti e le
pause nell’avanzamento della decorazione a
fresco con le indubbie dificoltà economiche a cui la confraternita andò incontro nel
corso degli anni settanta, provando peraltro
a spiegare le irregolarità nell’ordine con cui
precedette la realizzazione dei dodici episodi in base a una supposta suddivisione preventiva del inanziamento dei singoli settori
tra le famiglie maggiorenti dell’associazione,
la cui disponibilità inanziaria, almeno ai livelli comportati da un’impresa del genere,
rimane al di sopra di ogni sospetto. Se si
considerano tuttavia il ricordato contratto
di Agresti e gli stemmi Capodiferro sull’arco trionfale, Ceoli sotto l’Orazione nell’orto,
Mattei nella Flagellazione di Federico Zuccari
più uno ormai illeggibile in basso nell’Incoronazione di spine di Cesare Nebbia – forse
di quel Domenico Atton francese eventuale committente di un «quadro», nel caso da
intendersi per riquadro, citato in un pagamento dell’aprile 1576 che è stato riferito
altresì alla tela attribuita a Nebbia sopra la
porta d’ingresso – e per contro i pagamenti a Marcantonio dal Forno e a Matteo da
Lecce emessi direttamente dalla confraternita in qualità di persona giuridica, appare
chiaro che gli affreschi principali furono
solo in parte eseguiti grazie al mecenatismo
individuale, e comunque appare inverosimile una pianiicazione preliminare dell’intera impresa stabilita a tavolino, con relativa
suddivisione di competenze e inanziamenti, entro la primavera del 1569 o tutt’al più
dopo il completamento delle prime quattro
storie. È molto più ragionevole immaginare invece che le scelte venissero di volta in
volta deliberate in congregazione non solo
per quanto riguarda i pittori ma anche relativamente alle committenze, e che la variabile
riguardasse non il settore progressivamente da dipingere ma i inanziatori privati che
si sarebbero fatti avanti tra i membri, o in
mancanza di questi e portafogli permettendo la confraternita stessa. Ma la fatica con
cui si giunse al ine, anche se come si vedrà
le pause dovettero sempre essere inferiori
all’anno solare, offre il destro per rilettere
anche sulla sospetta ritrosia delle famiglie
più afluenti e in vista a patrocinare l’impresa: non bisogna infatti dimenticare che
l’Oratorio, pur essendo divenuto col passare
degli anni una delle più esemplari testimonianze dell’arte sacra romana nei primisimi
anni della controriforma, al tempo in cui fu
coperto di affreschi era pur sempre uno spazio semiprivato e di importanza rappresentativa decisamente inferiore a quello rivestito da una cappella gentilizia in un pubblico
luogo di culto, come dimostra del resto la
totale assenza al suo interno di marmi pregiati e rilievi in stucco. La determinazione
in ieri di ogni aspetto che andasse oltre
l’inquadratura architettonica e il numero e i
soggetti delle storie principali coinvolge anche l’iconograia delle dieci coppie di profeti e sibille ospitate nell’ordine superiore e
delle igurette allegoriche monocrome inserite nelle nicchie al di sopra delle colonne
tortili divisorie, ovvio riferimento simbolico
al tempio di Salomone che il Bertoja aveva
visto rimessa poc’anzi in circolazione nella
villa tiburtina del cardinale Ippolito d’Este.
Non è necessario ripercorrere qui le non
molte identiicazioni sicure, grazie a tabelle
e cartigli, dei primi e delle seconde né quelle
non sempre univoche che, sulla scorta della
posteriore Iconologia di Cesare Ripa, si è stati
in grado di stabilire per le ultime per rendersi conto che tali allegorie non rispettano
assolutamente alcun programma teologico
o devozionale ordinato in precedenza, e che
né tra le frasi sibilline e né tra le profezie
bibliche sarebbe mai stato possibile reperire
una giustiicata doppia allusione a ciascuno
dei dodici episodi della Passione di Cristo.
Come si diceva, in attesa di avere di nuovo a disposizione l’opera del Bertoja i confratelli si risolsero a dare inizio ai lavori in
fondo alla parete sinistra e a tal ine si indirizzarono verso Marco Pino da Siena, ormai
maturo artista appartenente alla medesima
generazione di Agresti e la cui formazione
aveva parimenti vissuto una svolta decisiva
nei cantieri farnesiani degli anni quaranta
diretti da Perin del Vaga, nonché verso altri
due ignoti pittori che, lavorando accanto a
lui sul medesimo doppio ponteggio secondo quanto ha rivelato l’esame delle giornate,
affrescassero i due registri del settore contiguo. Pino – che dopo una lunga assenza era
tornato da poco e solo temporaneamente
a Roma e, impegnato a partire dall’agosto
del 1568 nella cappella Capogalli ai Santi
Apostoli, aveva dipinto a seguire la tavola
per l’altare della cappella Morelli, poi passata ai Mattei, in Santa Maria in Aracoeli,
chiese entrambe di primaria importanza per
l’aristocrazia romana – eseguì da par suo la
Resurrezione con il Profeta e la Sibilla in alto, e
però decise, con una follia tutta sua e tenendo ostentatamente in non cale il progetto
del tanto più giovane Bertoja, di cambiare in
modo radicale tutta l’impostazione dell’ornato architettonico, cioè la forma delle edicole
soprastanti le colonne tortili e soprattutto la
prospettiva stessa delle colonne, impostandone la veduta dal basso invece che dall’alto.
Al colpo di testa del senese non poterono
fare a meno di adeguarsi tutti i pittori che
proseguirono l’affrescatura della parete sinistra, a cominciare dall’autore della Deposizione e da quello, senz’altro differente, che
eseguì il Profeta e la Sibilla soprastanti: la Deposizione è innegabilmente l’episodio più debole dell’intero ciclo e appare in tutto legato
alla scuola di Daniele da Volterra, scomparso allora da appena quattro anni; né meglio
si può dire del Profeta e della Sibilla, evocanti
rispettivamente gli ovvi paradigmi michelangioleschi e sommarie reminiscenze della
statuaria classica. Senza dubbio la Deposizione non è di Giacomo Rocca o Rocchetti, al
quale è stata in passato attribuita per un pur
giustiicato confronto con il Crociisso sull’altare posseduto in Santa Maria degli Angeli
dal banchiere Ceoli, membro autorevole peraltro della confraternita del Gonfalone, e si
deve ammettere da subito che non si sarà in
grado di proporre un nome alternativo.
Mentre Marco Pino, per motivi tanto
professionali quanto familiari, risulta aver
deinitivamente lasciato Roma per Napoli
già entro il 1571 non senza aver prodotto
una replica su tavola ridotta e variata della
Resurrezione, più tardi conluita nella Galleria
Borghese, i successivi dati fermi per il Gonfalone sono per la parete sinistra il giugno
di quell’anno, epoca del citato contratto di
Agresti per la Salita al Calvario, e per la parete
123
124
destra l’estate del 1572, quando per via epistolare si ha la prova che il Bertoja aveva ripreso ormai da qualche tempo la sua attività
nell’Oratorio. Il Bertoja, come si è anticipato,
ripartì dalla sommità della parete destra immediatamente oltre la inestra che sovrasta
il terzo episodio della serie e quest’ultimo,
rappresentante l’Orazione nell’orto, è risultato
successivo al registro superiore compiuto
dall’artista emiliano prima di essere nuovamente costretto ad allontanarsi, stavolta per
sempre, da Roma: di conseguenza il quinto
affresco del ciclo è la Crociissione sulla parete sinistra, priva del registro soprastante per
via della inestra al pari dell’Orazione nell’orto
di fronte e collocabile con buona precisione tra il 1570 e la primavera del 1571. Non
sappiamo ancora chi ne sia l’autore, ma la
Crociissione ha rivelato grazie alla recente e
magistrale pulitura, e nonostante l’ampia lacuna che il restauratore Tonsi aveva cercato
di risarcire alla peggio, una qualità altissima
e una cultura igurativa assai complessa, sì
da risultare la maggior scoperta offerta dalla
campagna del 2000. Sin da prima della sua
restituzione a un’adeguata leggibilità essa è
accompagnata una letteratura critica tanto
ricca quanto ondivaga, corrente dall’ambiente romano ad ascendenze lombarde, da
echi della maniera toscana a elementi che
sembrano risalire all’arte d’oltralpe. Forti di
tali indizi e di altri di natura contestuale, si
conida di poter dipanare la rete d’inlussi e
sciogliere le riserve in un prossimo futuro,
ma già ora si può dire che la sua paternità
andrà cercata del tutto fuori campo e che le
ricordate assonanze lombarde, e cremonesi
in particolare, vanno considerate una traccia infeconda; la vicenda attributiva dell’affresco promette anzi di dimostrarsi un caso
esemplare di storia degli errori e allo stesso
tempo di progressivo avvicinamento alla
verità.
In questa sede è invece giunto il momento di un primo bilancio sulle attribuzioni
e di enunciare un criterio di principio che
si vorrebbe deinitivo. Se le mani che collaborarono all’intera decorazione a fresco
dell’Oratorio, come ha stabilito Maria Grazia Bernardini, sono una quindicina o poco
più, gli autori responsabili dei dodici episodi
della Passione, senza tener conto del completamento dell’Entrata di Cristo in Gerusalemme e dell’enigmatico e affascinante gruppo
di ritratti nell’Ecce Homo di Cesare Nebbia,
sono dieci. Di questi dieci pittori Giovanni
Baglione, nato lo stesso anno in cui Federico Zuccari datava la Flagellazione in controfacciata, ne include nelle proprie biograie
cinque per un totale complessivo di sette
episodi, vale a dire Agresti, Pino, Raffaellino da Reggio, Zuccari e Cesare Nebbia, a
parte Matteo da Lecce che distrusse il suo
Ecce Homo poi rifatto da Nebbia ma lasciò in
essere il suo Salomone e le sue due coppie di
profeti e sibille tra la controfacciata e l’inizio
della parte sinistra. Gli altri due pittori che
si è inora riusciti a individuare con assoluta
certezza in relazione alle cinque storie rimanenti, il Bertoja e Marcantonio dal Forno a
cui si deve la Cattura di Cristo, sono taciuti
dall’informatissimo e qui infallibile Baglione per il semplice motivo che le sue Vite
non ne comprendono la biograia, sicché è
improduttivo industriarsi a cercare gli autori
della Deposizione, della Crociissione e dell’Orazione nell’orto (ig. 3) tra gli artisti ivi inclusi.
Ciò è valso nel caso di Giacomo Rocca e
deve valere ugualmente per le altre due storie rimaste ancora senza nome, mentre non
è detto che debba applicarsi per forza anche
alle due coppie di profeti e sibille poste al di
sopra della Deposizione e del Cristo davanti a
Pilato, i cui autori, non avendo contribuito
con alcun affresco narrativo, potrebbero essere più semplicemente rimasti nella penna
di Baglione.
Compiuta nell’autunno del 1571 la Salita
al Calvario da parte di Livio Agresti – il quale, approittando dell’interruzione spaziale
offerta dalla inestra, aveva introdotto anche sulla parete sinistra la struttura disegnata dal Bertoja per le edicole sopra le colonne tortili – e trascorso con ogni probabilità
l’inverno, si rimontò il ponteggio sul lato
destro per il Bertoja, documentato di nuovo
a Roma tra il 26 aprile e la metà di luglio
del 1572. Il 13 luglio il pittore, che aveva
fatto in tempo a compiere solo il Profeta e
la Sibilla della campata a destra della inestra con l’architrave sottostante, ricevette
però ancora un volta l’ordine da parte del
cardinale Farnese di rientrare a Caprarola e
fu costretto a interrompere la propria collaborazione senza poter neppure dipingere
la colonna tortile che suddivide il terzo e il
quarto episodio. Tale colonna, caso unico
nell’Oratorio, fu successivamente dipinta in
3. Ignoto, Orazione nel’orto, parete destra, III campata.
due delle stesse giornate che servirono per
affrescare l’Orazione nell’orto a sinistra.
Per ricostruire ora l’ultima fase della decorazione lungo la parete destra, i due
successivi punti fermi sono la datazione al
1573 della Flagellazione di Federico Zuccari in controfacciata e il sicuro riferimento
documentario alla ine del 1574 per la Cattura di Cristo sotto il Profeta e la Sibilla del
Bertoja, opera di Marcantonio dal Forno, le
cui giornate si sovrappongono alla colonna
a destra dell’Orazione nell’orto. Tra la Cattura
di Cristo e la Flagellazione si inserisce, ultimo
della parete destra verso l’ingresso dell’Oratorio, l’episodio di Cristo davanti a Pilato – e
non a Caifa come sostiene Baglione, giusta
la recente precisazione di Rita Randoli –
opera del giovanissimo Raffaellino Motta
da Reggio. Tutto lascia pensare che i confratelli fossero rimasti ancora una volta in
attesa di poter contare di nuovo sull’opera
del Bertoja e che solo per tale motivo, senza
che ci sia bisogno di addurre una programmazione delle committenze degli episodi a
125
126
seguire, deliberarono di lasciare l’intonaco
grezzo in corrispondenza della terza e della
quarta campata partendo dall’altare, andando invece avanti con l’affrescatura dei settori contigui. Giusto nel 1572 Raffaellino
aveva partecipato, sotto la guida del più maturo Federico, alla decorazione a fresco del
presbiterio di Santa Caterina dei Funari ed
è facile ricondurre la chiamata al Gonfalone
del secondo, e attraverso lui del primo, sia
all’iniziativa della famiglia Mattei, che si era
offerta di inanziare un episodio se non due
e per cui lo scomparso Taddeo Zuccari aveva eseguito quasi venti anni prima i ricordati affreschi nella cappella in Santa Maria
della Consolazione, sia alla segnalazione di
Livio Agresti, anch’egli attivo poc’anzi nel
cantiere di Santa Caterina dei Funari. Sebbene la totale perdita della colonna d’angolo non permetta di accertare i tempi relativi
dei contributi di Zuccari e Motta è molto
probabile, e se ne è anzi convinti, che i due
artisti abbiano lavorato l’uno accanto all’altro sul medesimo ponteggio appositamente
eretto a forma di L, con la collaborazione
di un terzo sconosciuto collega, di lampante ispirazione michelangiolesca con tanto di
cangiantismi alla toscana, che si vide afidati
il Profeta e la Sibilla al di sopra della storia assegnata a Raffaellino e la cui diversa identità
non era mai stata rilevata ino al 2000. Le
scarse conoscenze che si posseggono circa
l’evoluzione di Raffaellino nell’arco dell’ottavio decennio ino alla precocissima morte
nel 1578 non offrono infatti alcun appiglio
concreto che permetta di spostare in avanti il Cristo davanti a Pilato su basi stilistiche,
ino a posticiparlo rispetto alla Cattura di
Cristo. Peraltro, è del tutto condivisibile la
tesi secondo la quale Federico, lasciando al
poco più che ventenne Raffaellino l’onere
di concludere il ciclo sulla parete destra,
volle tenere per sé la Flagellazione non solo
per le profonde implicazioni personali acutamente scandagliate da Claudio Strinati ma
anche per riservarsi il luogo più prestigioso
costituito dalla controfacciata, dove ebbe
l’onore di lavorare per primo e quindi la libertà di adottare per le colonne la prospettiva dal basso introdotta da Marco Pino,
nonché l’orgoglio di apporre in grande evidenza la data 1573 a numeri romani sopra
lo stemma Mattei. Non si può negare che gli
affreschi di Raffaellino e Federico risultino
4. Domenico Carnevale, Il Verbo incarnato adorato dagli angeli, Roma, Santa Maria degli Angeli.
5. Domenico Carnevale, Presentazione
di Gesù al tempio, Modena, Galleria
Estense.
tra i più felici del ciclo della Passione, e sia
anzi lecito supporre che i due pittori abbiano avuto la facoltà di esprimersi sulla scelta
di rappresentare quei due episodi, in quanto
indubbiamente congeniali al massimo alle
loro intenzioni artistiche, e indirizzare così
la committenza verso quel settore della decorazione invece che verso le due simmetriche campate successive alla Salita al Calvario
e poi affrescate da Matteo da Lecce e Cesare Nebbia: una decisione per cui altrimenti
non si saprebbe far meglio che appellarsi al
caso.
Dopo che tra la seconda metà del 1572
e il 1573 furono dunque portate a termine l’ultima campata della parete destra e la
corrispondente sezione di controfacciata,
è probabile che i lavori abbiano conosciuto una pausa di diversi mesi, se non di un
anno o quasi. A farli riprendere, a parte ogni
condivisibile spiegazione inanziaria, dovette occorrere nel corso del 1574 l’inaspettato
evento della morte del Bertoja, alla giovane
età di trent’anni o poco più: fu nell’autunno
di quell’anno che la confraternita si fece carico della Cattura di Cristo, dopo che i Ceoli
ebbero dato il loro contributo promovendo
la realizzazione dell’Orazione nell’orto. Non si
può avere certezza se l’Orazione nell’orto sia
stata dipinta subito dopo che il Bertoja ebbe
sospeso la propria partecipazione, e pertanto in immediata precedenza rispetto all’in-
tervento di Raffaellino da Reggio e Federico
Zuccari, o se la sua esecuzione fece seguito
al decesso del pittore parmense al pari della Cattura di Cristo; l’insistenza dell’architrave dipinto da quest’ultimo anche su di essa
induce però, contrariamente a quanto si è
ritenuto in precedenza, a considerare più
verosimile la seconda ipotesi. Ma che risalga all’estate-autunno del 1572 o piuttosto al
1574, l’Orazione nell’orto costituisce il terzo
degli enigmi attributivi tuttora sussistenti a
proposito delle dodici storie della Passione:
insostenibili i tentativi di riferimento a Lelio
Orsi e a Giovanni de Vecchi, non ha infatti
retto nel tempo neppure l’attribuzione proposta da Claudio Strinati in favore di quel
Domenico da Modena il cui nome, in lati-
no e a lettere capitali, appare in calce alla
pala con l’Adorazione del Verbo incarnato (ig.
4) posta sull’altare di un’altra cappella, quella di Matteo Catalani, nella basilica di Santa
Maria degli Angeli e situabile verso la metà
degli anni settanta. Allorché si è notata la
coincidenza di tale nome con quello di Domenico Carnevale da Modena, restauratore
nel 1570 della volta sistina – a lui spetta il
rifacimento del celebre dito di Adamo – e
artista abbastanza affermato in patria, si è
infatti reso evidente che le opere emiliane
di Carnevale non appaiono gran che compatibili con l’affresco del Gonfalone, e si è
talvolta sostenuto nemmeno con il dipinto
di Santa Maria degli Angeli. Ma se si lascia
per un momento da parte l’Orazione nell’orto,
non si riesce in realtà a scorgere alcun ostacolo a riconoscere in quest’ultima il medesimo autore della Presentazione di Gesù al tempio
(ig. 5), con tanto di colonne tortili salomoniche, oggi esposta nella Galleria Estense
e irmata nel 1576 da Carnevale in corsivo,
con una graia che induce peraltro a considerare la scritta vergata sulla pala romana
una mera attestazione di paternità. Più che
suficienti sono infatti le coincidenze tra la
baluginante atmosfera notturna dell’una e
lo squarcio visionario nell’altra, come pure
tra i panneggi dalle pieghe taglienti e sottilmente lumeggiate e tra le caratteristiche
somatiche del Bambin Gesù e del Verbo incarnato in forma di infante.
Sin da quando Emilio Lavagnino, condizionato dalla vicina presenza del Bertoja,
l’assegnò a Lelio Orsi, l’Orazione nell’orto è da
considerare tuttora vittima di un pregiudizio emiliano, nonostante già Herwarth Röttgen abbia cercato di chiamarla fuori proponendo il nome, comunque inaccettabile, di
Giovanni de’ Vecchi. A guardarlo con occhi
liberi l’affresco, pur creato tenendo a mente
l’identico episodio dipinto da Taddeo Zuccari sulla voltina della cappella Mattei alla
Consolazione (ig. 6), trova però il suo modello più prossimo nello splendido Riposo
durante la fuga in Egitto (ig. 7) che Girolamo
Muziano aveva non molti anni prima eseguito sul primo altare a destra in Santa Caterina della Rota, senza che sia in alcun modo
necessario far ricorso al mondo di Niccolò
dell’Abate e dei suoi. Così indicano, fatta salva la considerevole discesa di qualità, il ritmo dilatato e solenne della composizione; la
127
6. Taddeo Zuccari, Orazione nell’orto,
Roma, Santa Maria della Consolazione
128
concezione espansa, potente e un po’ massiccia delle igure dei tre apostoli dormienti;
la dificile resa del notturno nella tecnica a
fresco, che il pittore mostra di saper maneggiare con buona perizia; lo squarcio di luce
abbagliante inine, che invade di rilessi le
foglie e i tronchi degli alberi: sicché alla ine
il più indovinato di tutti si dimostra proprio
l’antico, sebbene insostenibile, riferimento a
Cesare Nebbia.
A quel punto rimaneva da completare la
parete destra con la Cattura di Cristo, da affrescare al di sotto del Profeta e della Sibilla
eseguiti dal Bertoja alla metà del 1572. Che a
tale episodio si riferiscano i pagamenti effettuati dal camerlengo della Compagnia il 10
ottobre 1574 e il 12 febbraio 1575 a favore
di tale Marcantonio dal Forno, lo ha dimo- 7. Girolamo Muziano, Riposo durante
strato in modo deinitivo Claudio Strinati la Fuga in Egitto, Roma, Santa Cateridocumentando come opere del medesimo na della Rota.
pittore, alla data del 1580, tre tele nella chiesa della Santissima Annunziata di Zagarolo
rafiguranti l’Annunciazione, la Flagellazione e
la Resurrezione, la cui identità di mano con la
Cattura di Cristo (ig. 8) del Gonfalone è di
lampante evidenza; ed è davvero frustrante per la natura scientiica della disciplina
storico-artistica rilevare come, negli anni
successivi all’agnizione operata da Strinati,
non siano mancate un paio di voci discordi.
Al di là del poco che si è detto e di alcuni documenti d’archivio che ne attestano la
morte nel 1612, su Marcantonio dal Forno
si possono formulare solo ipotesi: occorre
dunque far parlare il suo stile, che lo presenta come un seguace e forse addirittura un
allievo di Girolamo Muziano perfettamente allineato allo «stile orvietano» sul piano
compositivo, cromatico ed emozionale. In
questa sede, tuttavia, preme in particolare
sottolineare che il paesaggio al chiaro di luna
con il iume e una città antica sul fondo,
come pure il criptoportico in secondo piano
da cui arrivano i soldati con le torce, rinviano sì al Giulio Romano della pala Fugger e
anche del Martirio di santo Stefano di Genova, come la maggior parte della critica ha
posto in evidenza, ma anche alla tradizione
del romanismo iammingo degli anni trenta del Cinquecento per un lato e per l’altro
al paesaggio alla veneta coniguratosi nella
produzione di Tiziano tra il secondo e il ter-
8. Marcantonio dal Forno, Cattura di
Cristo, parete destra, II campata.
zo decennio del secolo, evolutosi in senso
manieristico e anticheggiante per opera del
Veronese a Maser e da poco introdotto in
area romana attraverso il cantiere della villa tiburtina del cardinale d’Este, ancora una
volta con il determinante contributo di Muziano del quale l’affresco offre un’interpretazione complementare a quella, per nulla
romanistica e postraffaellesca, dell’Orazione
nell’orto. Viene anzi da supporre che il misterioso Marcantonio, il cui nome sembra
parimenti evocare un’origine laziale, avesse
fatto parte durante gli anni sessanta proprio
di una delle nutrite équipes di frescanti impegnate nella decorazione della Villa d’Este.
Come si vede, si tratta di fattori di stile tutti perfettamente inquadrabili nell’ambito
della cultura igurativa romana, rimanendo
ancor più fuorvianti per l’Orazione nell’orto i
presunti richiami, che pure sono stati talora
evocati, alla cultura paesistica emiliana.
In attesa che il risicato corpus pittorico
di Marcantonio dal Forno possa ricevere
qualche integrazione, merita di essere qui
ricordata la versione su tela della Cattura di
Cristo (igg. 9-10), variata e alquanto ridotta, custodita nella chiesa di San Domenico
a Spoleto e datata 1574. La piccola pala, che
attualmente non si trova su un altare, non
può essere stata ricavata se non a occhio
dal medesimo cartone servito per l’affresco
e non è neppure certo che appartenga allo
stesso Marcantonio: poiché la sua datazione
impedisce di considerarla posteriore e non
v’è luogo di pensare che da essa sia derivato
il secondo, è giocoforza concludere che si
tratta di una singolare riutilizzazione in tempo reale dell’immagine creata per l’Oratorio
romano.
Prima di passare agli ultimi due artisti coinvolti nella decorazione dell’Oratorio, vale a
dire Matteo da Lecce e Cesare Nebbia da
Orvieto, si è già in grado di tirare le somme sulle diverse voci e tendenze stilistiche
che ebbero modo di esprimersi sulle pareti
della sala, tenendo presente peraltro che pochissimi anni prima che Ambrogio Bonazzini realizzasse il sofitto ligneo dell’Oratorio, rendendone possibile l’affrescatura, la
morte aveva decimato la ridotta pattuglia
dei grandi maestri: Salviati nel 1563, Michelangelo nel 1564, Taddeo Zuccari e Daniele da Volterra nel 1566, mentre Jacopino
del Conte aveva pensato bene di dedicarsi
alla più facile e redditizia attività di ritrattista. Nel corso degli ultimi anni è apparso
sempre più chiaro agli studiosi che non è
possibile schematizzare l’intera realizzazione
dell’impresa in due fasi distinte, corrispondenti al terzo e al quarto periodo del manierismo secondo la periodizzazione anglosassone uficializzata da Sydney J. Freedberg: la
prima afferente cioè alla «tarda Maniera» in
quanto evoluzione della «grande Maniera»
di metà secolo, con un’intensiicazione delle componenti emiliane e iamminghe che
sarebbe sfociata a livello europeo nel cosiddetto manierismo internazionale, alla quale
si iscriverebbero i contributi del Bertoja, di
Marco Pino e di Raffaellino da Reggio, e la
seconda afferente alla ben altrimenti sobria e
severa «contromaniera» elaborata tra Roma
e Orvieto da Girolamo Muziano, di cui farebbero parte le opere di Federico Zuccari,
dell’ignoto a cui si deve l’Orazione nell’orto, di
Marcantonio dal Forno e di Cesare Nebbia.
Refrattari a tale riduzione rimangono infatti troppi elementi: Livio Agresti da un lato,
che pure già nel 1560 aveva mostrato, con la
Consegna delle chiavi a san Pietro del duomo di
Narni, di risentire delle vicine novità orvietane, e dall’altro Matteo da Lecce, fautore
di un michelangiolismo fuori tempo, senza
contare poi l’anonimo responsabile della
Deposizione. Tutt’al più è quindi lecito parlare
di tendenze prevalenti, fatti sempre i dovuti
129
130
distinguo, sicché quella che sembra afiorare
è piuttosto una cesura di tipo generazionale
da legarsi con ogni probabilità al cambio di
pontiicato, nel maggio del 1572, tra Pio V
Ghislieri e Gregorio XIII Boncompagni; da
tale cesura, e per le ragioni dianzi esposte,
rimane comunque escluso il giovane pittore
del cardinale Farnese, il Bertoja.
Livio Agresti, Marco Pino, l’autore dei
Profeti e delle Sibille sull’arco trionfale e si
può scommettere anche quello della Deposizione risultano infatti tutte personalità artistiche formatesi o maturate intorno alla
grande bottega messa insieme negli anni
quaranta, al tempo di papa Paolo III Farnese, da Perin del Vaga tra Castel Sant’Angelo
e la Sala Regia, la cui tormentata decorazione si apprestava proprio a cavallo del 1570
a giungere a conclusione. E i cantieri della
Sala Regia e delle altre imprese uficiali condotte al crepuscolo del regno di Pio V – ad
essi andrà probabilmente ricondotto, se non
per età per afiliazione di bottega, anche il
pittore della Crociissione – si pongono insieme a Livio Agresti per la convocazione
di Federico Zuccari, con il quale avviene il
deinitivo passaggio dalla generazione del
1520 a quella del 1540. Del medesimo scaglione generazionale di Federico, che porta
con sé l’ancor più giovane Raffaellino Motta
e introduce la chiarezza compositiva, la teatralizzazione da palcoscenico, la dimostratività retorica e la concentrazione drammatica
manifestatesi a Orvieto, fanno quindi parte Matteo da Lecce, Cesare Nebbia e con
ogni probabilità anche l’anonimo dell’Orazione nell’Orto e Marcantonio dal Forno. Si noti
inine che, siccome in un modo o nell’altro
Matteo da Lecce non lasciò alcuna storia
della Passione di sua mano, i postulati che
Federico affermò nella Flagellazione non appaiono contraddetti in nessuno dei quattro
episodi eseguiti dopo di essa.
L’ultima fase della decorazione dell’Oratorio non presenta problemi né cronologici né attributivi, almeno in senso lato, e
quindi non riserva particolari osservazioni
in questa sede. Ad appena un mese di distanza dall’ultimo pagamento noto in favore di Marcantonio dal Forno si ha il primo acconto a Matteo da Lecce: Matteo da
Lecce appunto, nativo del Salento e niente
affatto identiicabile con tale Matteo Godi
da Leccia nei dintorni di Volterra, pitto-
9. Marcantonio dal Forno, Cattura di
Cristo, Spoleto, San Domenico.
re locale di scarsi meriti e oscura fortuna,
come una dozzina di anni or sono è stato
proposto con totale dispregio di fonti e documenti in una spericolata operazione di
sensazionalismo pseudoilologico che bisognerà avere un giorno la pazienza di smascherare e che ciononostante ha carpito la
iducia di molti, fortunatamente non di tutti,
gli storici dell’arte, a cominciare dagli stessi
collaboratori al meritorio libro sul Gonfalone curato da Maria Grazia Bernardini. Riferisce dunque Baglione che Matteo eseguì
la grande igura di Salomone che incombe,
a rendere esplicita la tematica salomonica
e sapienziale sottesa per mezzo delle colonne tortili vitinee, in alto al centro della
controfacciata, sì dal voler evocare «la terribil maniera del Salviati» – l’allusione, evidentemente, è alla sala dei Fasti Farnesiani
– nonché le due coppie di profeti e sibille
sull’ultima campata della parete sinistra e il
settore sinistro della controfacciata. È ben
noto il racconto, confermato e integrato
peraltro dai doumenti d’archivio, del testimone oculare Karel van Mander secondo
il quale Matteo aveva anche dipinto, essendone pagato, l’episodio dell’Ecce Homo, per
danneggiarlo poco dopo irreparabilmente di
notte a causa della propria insoddisfazione:
ma sebbene le igure del registro superiore
gli risultino saldate solo il 7 aprile 1576, si
desidera qui rivendicare la sostanziale correttezza di quanto affermato dal canonico
Francesco del Sodo in un manoscritto che si
data al 1575 e cioè che a quel tempo l’Oratorio del Gonfalone era «tutto dipinto». Se
infatti del Sodo visitò la sala dopo la realizzazione dell’affresco con l’Ecce Homo e
prima del suo danneggiamento, a conti fatti mancavano solo l’Incoronazione di spine in
controfacciata e con tutta probabilità la tela
con la Madonna dei Raccomandati con la Santissima Trinità collocata sotto il Salomone al di
sopra della porta d’ingresso. Nonostante il
silenzio in merito di Baglione, segno forse di
opera eseguita in collaborazione, quest’ultima – che non è affatto uno stendardo come
si è appurato in occasione del restauro – va
assegnata al pari dei due ultimi episodi della Passione, compiuti tra il 1576 e i primi
mesi del 1577, all’orvietano Cesare Nebbia.
Questi, che come ha puntualizzato Stefano Pierguidi era stato molto probabilmente
proposto dai Mattei in quanto l’anno precedente aveva irmato per conto di Muziano
il contratto per la loro cappella all’Aracoeli,
lasciò tuttavia ad altra, singolare ed eccellente mano – Claudio Strinati ha pensato
addirittura a quella del Greco, allora domiciliato a Roma presso la corte del cardinale
Farnese – il gruppo dei ritratti dei guardianicommittenti a sinistra nell’Ecce Homo da lui
rifatto ex novo e non si peritò di replicare
l’Incoronazione di spine su tela da lui messa in
opera pressappoco contemporaneamente su
uno degli altari del duomo di Orvieto. Ma
mentre nel caso dell’importanza relativa tra
il Gonfalone e San Domenico a Spoleto la
bilancia pendeva sicuramente dalla parte del
primo, al momento di chiamare in causa il
confronto tra l’Oratorio romano e la cattedrale dell’antica città umbra la questione
non poteva e non può che restare aperta.
10. Girolamo Muziano, Cattura di
Cristo, Orvieto, Museo del Duomo.
131
Bibliograia essenziale.
132
Per la bibliograia completa sull’Oratorio del
Gonfalone e la storia della confraternita si rinvia
al più volte citato volume del 2002 a cura di Maria Grazia Bernardini. In questa sede ci si limita a
indicare, in ordine cronologico, i principali contributi sull’argomento e gli artisti che lo decorarono
pubblicati a partire dal 2003, oltre alle principali
fonti e ai testi di data precedente che affrontano
le questioni cronologiche, attributive e iconograiche espressamente toccate nel presente contributo.
G. Mancini, Considerazioni sulla pittura (ms.
1617-1621), ed. a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma 1956-1957.
G. BaGLione, Le vite de’ pittori scultori et architetti.
Dal Pontiicato di Gregorio XIII. del 1572. In ino a’
tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642., Roma 1642,
ed. a cura di J. Hess e H. Röttgen, Città del Vaticano 1995.
f. titi, Studio di pittura, scoltura, et architettura nelle
chiese di Roma (Roma 1674-1763), ed. comparata
a cura di B. Contardi e S. Romano, Firenze 1987.
r. Venuti, Accurata e succinta descrizione topograica ed istorica di Roma moderna, Roma 1766.
a. ronchini, Jacopo Bertoja, in «Atti e Memorie
delle R.R. Deputazioni di Storia Patria per le provincie modenesi e parmensi», 1, 1863, pp. 329335.
M. VaeS, Appunti di Karel van Mander su vari pittori italiani suoi contemporanei, in «Roma», 9, 1931, pp.
193-208 e 341-356.
f. Zeri, Pittura e Controriforma. L’«arte senza tempo» di Scipione da Gaeta, Torino 1957.
K. oBerhuBer, Jacopo Bertoja im Oratorium von S.
Lucia del Gonfalone, in «Römische Historische Mitteilungen», 3, 1958/1960, pp. 239-254.
e. Borea, Lelio Orsi, il Bertoja e l’Oratorio del Gonfalone, in «Paragone», 141, 1961, pp. 37-40.
G. BriGanti, La maniera italiana, Roma 1961.
e. LaVaGnino, La chiesa di Santo Spirito in Sassia
e il mutamento del gusto al tempo del Concilio di Trento,
Roma 1962.
B. toScano, Spoleto in pietre, Spoleto 1963.
G. Matteocci, L’Oratorio del Gonfalone, Roma
1964.
a. MoLfino, L’Oratorio del Gonfalone, Roma
1964.
h. röttGen, Notes on the Oratorio del Gonfalone
in Rome, in «The Burlington Magazine», 110, 1968,
pp. 141-142.
S.J. freedBerG, Painting in Italy 1500-1600, Harmondsworth 1971.
f. SPaZZoLi, Livio Agresti. Attualità di un piccolo
maestro, in «Studi Romagnoli», 23, 1972, pp. 63-96.
L. SaLerno, L.SPeZZaferro, M. tafuri, Via
Giulia. Un’utopia urbanistica del ‘500, Roma 1973.
c. Strinati, Gli anni dificili di Federico Zuccari, in
«Storia dell’arte», 21, 1974, pp. 85-117.
c. Strinati, Marcantonio del Forno nell’Oratorio del
Gonfalone a Roma, in «Antichità Viva», 15, 1976, pp.
14-22.
c. Strinati, La tavola Pellucchi di Livio Agresti, in
«Prospettiva», 9, 1977, pp. 69-72.
c. Strinati, Roma nell’anno 1600. Studio di pittura, in «Ricerche di Storia dell’arte», 10, 1980, pp.
15-48.
f. aLiBerti, e. GaudioSo, Gli affreschi di Paolo
III a Castel Sant’Angelo 1543-’48. Progetto ed esecuzione, catalogo della mostra, Roma 1981.
a. cocuZZa, Marco Pino da Siena nell’Oratorio del
Gonfalone a Roma, in «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna dell’Università
di Messina», 5/6, 1981/1982, pp. 29-32.
a. VannuGLi, c. tiLiacoS, c. MaStrantonio,
Oratorio del Gonfalone, in Oltre Raffaello. Aspetti della
cultura igurativa del Cinquecento romano, Roma 1984,
pp. 143-171.
B. WoLLeSen-WiSch, The Arciconfraternita del
Gonfalone and its Oratory in Rome. Art and CounterReformation Spiritual Values, Ph.D. Diss. University
of California, Ann Arbor 1985.
V. BücKen, Deux lamands dans l’atelier de Jacob
Bertoja: Joos van Winghe et Batholomäus Spranger, in
Lelio Orsi e la cultura del suo tempo, atti del convegno
internazionale di studi (Reggio Emilia e Novellara, 28-29 gennaio 1988) a cura di J. Bentini, Bologna 1990, pp. 49-60.
n. dacoS, La tappa emiliana dei pittori iamminghi
e qualche inedito di Josse van Winghe, in Lelio Orsi e
la cultura del suo tempo, atti del convegno internazionale di studi (Reggio Emilia e Novellara, 28-29
gennaio 1988) a cura di J. Bentini, Bologna 1990,
pp. 33-41.
c. Strinati, Un’ipotesi sulla formazione di Giovanni
Guerra, in Lelio Orsi e la cultura del suo tempo, atti del
convegno internazionale di studi (Reggio Emilia e
Novellara, 28-29 gennaio 1988) a cura di J. Bentini, Bologna 1990, pp. 151-160.
d. de GraZia, Bertoja, Mirola and the Farnese
Court, Bologna 1991.
f. d’aMico, La pittura a Roma nella seconda metà
del Cinquecento, in L’Arte a Roma nel secolo XVI. La
pittura e la scultura, Bologna 1992, pp. 161-298.
c. roBertSon, ‘Il Gran Cardinale’ Alessandro Farnese, Patron of the Arts, New Haven and London
1992.
c. Strinati, L’Oratorio del Gonfalone, in Conversazioni sotto la volta. La nuova volta della Cappella Sistina
e il Manierismo romano ino al 1550, a cura di A. Aletta, Roma 1992, pp. 77-85.
a. Zuccari, I pittori di Sisto V, Roma 1992.
d. eStiViLL, Profeti e Sibille nell’Oratorio del Gonfalone a Roma, in «Arte Cristiana», 758, 1993, pp.
357-366.
h. VoSS, La pittura del tardo Rinascimento a Roma
e a Firenze (Berlin 1920), Roma 1994.
c. Strinati, Oratorio del Gonfalone, in Oratorio del
Gonfalone. Coro Polifonico Romano «Gastone Tosato».
Programma generale, Roma 1996.
G. Mancini, Domenico Carnevali e la pittura a Modena nella seconda metà del Cinquecento, in Pittura a
Modena e Reggio Emilia tra Cinque e Seicento. Studi e
Ricerche, Modena 1998, pp. 13-40.
a. Zuccari, La pittura a Roma attorno ai Giubilei
del 1550 e del 1575, in La storia dei Giubilei, II. 14501575, a cura di M. Fagiolo e M.L. Madonna, Roma
1998, pp. 262-281.
c. acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari,
fratelli pittori del Cinquecento, Milano 1998-1999.
S. Macioce, Considerazioni sull’Oratorio del Gonfalone, in Le Confraternite romane. Arte Storia Committenza, a cura di C. Crescentini e A. Martini, Roma
1999, pp. 172-195.
c. Strinati, 1570-1575. La situazione della pittura
a Roma, in El Greco. Identità e trasformazione, catalogo della mostra (Madrid, Roma e Atene) a cura di
J. Álvarez Lopera, Milano 1999, pp. 115-129.
r. VentureLLi, La corte farnesiana di Parma (15601570). Programma artistico e identità culturale, Roma
1999.
M. haLL, After Raphael. Painting in Central Italy in
the Sixteenth Century, Cambridge 1999.
a. PaLeSati, n. LePri, Matteo da Leccia. La vita e
le opere, Pomarance 1999.
r. randoLfi, Oratorio del Gonfalone, Roma 1999.
P. toSini, Girolamo Muziano e la nascita del paesaggio alla veneta nella Villa d’Este a Tivoli, in «Rivista
dell’Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte», 54,
1999, pp. 189-232.
B. WiSch, New Themes for New Rituals. The Cruciixion Altarpiece of Roviale Spagnuolo for the Oratory of
the Gonfalone in Rome, in Confraternities and the Visual
Arts in Renaissance Italy, a cura di B. Wisch e D. Ahl,
New York and Cambridge 2000, pp. 203-234.
S. ProSPeri VaLenti rodinò, Addenda a Luzio
Luzi disegnatore, in «Bollettino d’Arte», 116, 2001,
pp. 39-78.
L’Oratorio del Gonfalone a Roma. Il ciclo cinquecentesco della Passione di Cristo, a cura di M.G. Bernardini,
Milano 2002.
M.G. Bernardini, Roma 1570: presenze emiliane nel ciclo della Passione dell’oratorio del Gonfalone, in
Parmigianino e il manierismo europeo, atti del convegno internazionale di studi (Parma, 13-15 giugno
2002) a cura di L. Fornari Schianchi, Milano 2002,
pp. 375-384.
P. GiannattaSio, Raffaellino da Reggio tra Parmigianino e Perin del Vaga: premesse e sviluppi del manierismo internazionale, in Parmigianino e il manierismo
europeo, atti del convegno internazionale di studi
(Parma, 13-15 giugno 2002) a cura di L. Fornari
Schianchi, Milano 2002, pp. 333-341.
a. ZeZZa, Marco Pino. L’opera completa, Napoli
2002.
M.G. Bernardini, Il ciclo dell’Oratorio del Gonfalone a Roma: storia di una passione, in «Art e Dossier»,
189, 2003, pp. 28-33.
n. neWBiGin, recensione a L’Oratorio del Gon-
falone a Roma. Il ciclo cinquecentesco della Passione di
Cristo, ed. Maria Grazia Bernardini, in «Confraternitas», 14, 2003, pp. 19-20.
c. Strinati, Un’Annunciazione di Domenico Carnevali nel convento di Santa Sabina e Roma, in “Annali
della Pontiicia Insigne Accademia di Belle Arti
e Lettere dei Virtuosi al Pantheon”, 3, 2003, pp.
243-248.
M. GuiLLauMe, Un dessin de Matteo Pérez d’Alesio?, in Arte collezionismo conservazione: scritti in onore
di Marco Chiarini, a cura di M.L. Chappell, M. Di
Giampaolo e S. Padovani, Firenze 2004, pp. 239242.
J. KLieMann, M. rohLMann, Wandmalerei in Italien: die Zeit der Hochrenaissance und des Manierismus,
1510-1600, München 2004.
M.B. haLL, Rome, Cambridge 2005.
S. Macioce, L’Ultima cena’ di Livio Agresti e Gaspare Loarte: ideazione e diffusione d un tema iconograico,
in «Bollettino d’Arte», 132, 2005, pp. 59-72.
S. PierGuidi, Avvicendamento d’artisti e direzione di
cantiere nella decorazione dei tre oratori romani, in «Bollettino d’Arte», 132, 2005, pp. 23-34.
c. Strinati, Ritratti esemplari in un affresco di Cesare Nebbia, in «Bollettino d’Arte», 132, 2005, pp.
35-42.
P. toSini, Presenze e compresenze tra Villa d’Este e
il Gonfalone, in «Bollettino d’Arte», 132, 2005, pp.
43-58.
J. Marciari, Raffaellino da Reggio in the Vatican, in
«The Burlington Magazine», 148, 2006, pp. 187191.
M. MeLani, f. ratti, L’Oratorio della Confraternita del Gonfalone a Roma, in «Ricerche di Storia
dell’arte», 91/92, 2007, pp. 83-92.
G. redìn MichauS, Pedro Rubiales, Gaspar Becerra y los pintores españoles en Roma, 1527-1600, Madrid
2007.
a. BiGi iotti, G. ZaVatta, Raffaellino da Reggio (1550-1578): tracce di una biograia artistica. Per le
nozze Bigi Zavatta, 31 maggio 2008, Reggio Emilia
2008.
P. toSini, Girolamo Muziano 1532-1592 dalla
Maniera alla Natura, Roma 2008.
r. eiteL-Porter, Der Zeichner und Maler Cesare
Nebbia: 1536-1614, München 2009.
M.S. BoLZoni, Tre nuovi disegni di Livio Agresti
per Santa Caterina dei Funari, in «Paragone», 92/93
(725/727), 2010, pp. 40-49.
r. randoLfi, Raffaellino Motta all’Oratorio del
Gonfalone: Cristo si trova davanti a Caifa o a Pilato?, in
«Lazio ieri e oggi», 46, 2010, pp. 38-340.
r. randoLfi, L’Oratorio del Gonfalone, Roma
2010.
M. SPaGnoLo, Barn-owl painters in St Peter’s in the
Vatican, 1604: three mocking poens for Roncalli., Vanni
and Passignano (and a note on the breeches-maker), in
«Journal of the Courtauld and Warburg Institutes», 73, 2010, pp. 257-296.
133