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L'enigma di Parmenide

Abstract

La dea di Parmenide proclama: «l’essere è». Purtroppo il discorso è cifrato. Che vuol dire? Per saperlo, l’eletto deve ascendere sul carro delle figlie del sole fino alla dea che sta sulla porta della luce e delle tenebre. Lì, è sottoposto alla prova conclusiva sull’enigmatica costituzione intima dell’essere. Per trovare la completa soluzione del problema della verità, deve apprendere la ragione per cui anche le mutevoli apparenze appartengono all’essere immutabile. Come in un essere compatto, continuo e omogeneo può darsi il mondo della molteplicità? Come è possibile che l’errore e il non essere abitino nell’essere e nella verità assoluta? Per risolvere l’enigma occorre un salto di stato esistenziale, al modo della procedura iniziatica del mandala che, facendo superare gli sbarramenti oltre i quali si accede al più alto sapere, fa entrare nel tempo stesso nel grado più profondo e del reale e di sé stessi.

IV

La fissazione

Per Eraclito la fissazione è d'ostacolo al fluire del cambiamento. Infatti il dio è giorno notte, inverno estate... Il cambiamento garantisce l'unità, il fuoco semprevivente che si accende e si spegne passa attraverso ritmiche e proporzionate metamorfosi e tutto, mare terra soffio ardente astri esalazioni, si tiene in un ciclo continuo.

La fissazione è apparente e illusoria, tipica della prospettiva degli uomini ignoranti, allo stesso modo nella natura e nell'etica (per il dio tutto è bello e giusto, mentre gli uomini vedono cose giuste e cose ingiuste). Perfino la suprema divisione tra immortali e mortali, forse l'unico vero problema di separazione che sta a cuore a Eraclito, deve essere ripensata e il suo schematismo verticalizzante abbattuto.

La tesi inquietante e paradossale di Eraclito è che il cambiamento è necessario all'unità dell'uno. Se le singole tropaí non rappresentassero stati rovesciantesi l'uno nell'altro bensì entità permanentemente identiche a se stesse, il ciclo non potrebbe instaurarsi in quanto sarebbe interrotto e frantumato in gradi separati i quali, in tal caso, a rigore non sarebbero gradi di nulla di sintetico.

Anche in Parmenide la fissazione comporta una frattura e una discontinuità interna all'essere e perciò è illusoria. L'assenza di fissazioni particolaristiche, effettivamente reali, garantisce l'unità dell'essere e, in definitiva, l'essere dell'essere.

Parmenide tuttavia ritiene, al contrario di Eraclito, che le fissazioni siano connesse con il cambiamento e ne rappresentino la base necessaria.

Il cambiamento, essendo interpretato come passaggio che implica un salto di essere, esige a propria base la molteplicità e la fissazione di esseri enti eventi particolari.

In verità, stante che gli esseri particolari non sono, o sono non essere, il passaggio dall'uno all'altro di essi non si dà e semplicemente non è.

In breve, le fissazioni ripugnano in Parmenide all'unità e alla compattezza dell'essere (sferico), in Eraclito al fluire unitario del cosmo.

La differenza tra i due filosofi è questa: per Parmenide l'assenza di fissazioni interne dà per risultato l'assenza di divenire interno; mentre per Eraclito l'assenza di fissazioni dà il fluire.

* Constatiamo da quanto sopra esposto che un'importante e serrata discussione intorno alla natura dell'uno e del continuo si presenta nella forma d'una discussione sulla natura del ciclo.

Insisto su questo concetto. Contrariamente alle interpretazioni convenzionali, l'essere di Parmenide è una versione metafisicamente elaborata dell'idea di ciclo, inteso quale anello che stringendo rende totale il tutto.

L'anello parmenideo, la moira stringente, è la forza e il principio che fa essere totale il totale, intero l'intero, pieno il pieno. Questa lettura è stata, ripeto, messa in risalto soltanto da Heidegger.

L'essere parmenideo è il pensiero che si fa pieno e totale. Il problema di Parmenide sta nella chiarificazione dell'essenza della totalità.

La sua soluzione è la variante mistica.

L'uno s'impone con la catastrofe del mondo e perciò sta «dopo» il mondo. L'uno è la «conclusione» del sapere e coincide con il salto di stato nel quale l'uomo che sa diviene essere.

Il salto di stato nel quale il mortale si fa immortale.

Il passaggio estatico nel quale il pensiero si «esprime» nell'essere: nel quale noeîn e eínai sono il medesimo.

Difficile sottrarsi all'impressione d'avere ascoltato le parole d'uno sciamano pitagorico. * La posizione di Eraclito è la severa ricerca marziale e alchemica di farsi «sole levante» (cf. il mio Eraclito e la forma dell'anima).

Anche Parmenide si fa portare dalle figlie del sole, ma guarda prevalentemente al punto d'arrivo, Eraclito è più interessato al rito del percorso.

La discussione filosofica sull'uno aveva assunto la forma trascendentale d'una ricerca sulla natura del principio del mondo. Questa ricerca a sua volta si è riformulata nella questione del ciclo.

Per Parmenide e Eraclito la fissazione blocca l'unità. Per Eraclito impedisce il ciclo, per Parmenide impedisce il pieno.

Il problema che si pone è: il ciclo e il pieno sono lo stesso?

La risposta è affermativa. Il pieno parmenideo è il ciclo pensato nella sua conclusione di eterno presente. Il ciclo eracliteo è il ciclo dell'eterno ritornante.

Per ambedue è l'eterno ritorno, Parmenide mette l'accento mistico sull'eterno, Eraclito l'accento combattivo sul ritorno.

Sia Eraclito sia Parmenide pensano l'uno e ne studiano la densità e la tensione mediante la quale esprime e realizza la sua totalità. Il punto discusso è la natura di tale tensione interna.

Eraclito rappresenta una forma combattiva e si sofferma sulla ragione per la quale la liquefazione garantisce l'unità del reale. In altre parole, ritengo che egli spieghi «meglio» il ruolo dei molti nell'uno. * Dal canto suo, Parmenide resta bloccato sull'idea delle entità fisse. A bloccarlo è un equivoco insito nel suo concetto di essere.

In fondo, egli non prende per essere unicamente l'essere universale ma anche l'essere particolare, sia pure per negarlo.

Avendo assunto l'essere a criterio assiomatico e a presupposto assoluto d'ogni giudizio, è costretto a giudicare anche l'essere particolare in termini di essere.

Non può parlare d'alcunché senza applicare la suprema categoria di essere con i peculiari caratteri di immutabile, indistruttibile, eccetera.

Ma questa categoria non funziona se applicata al mondo delle cose che devono venire negate. Infatti, se le cose fossero a priori niente, non ci sarebbe bisogno di negarle.

La suprema categoria, applicata al mondo delle cose, produce il duplice effetto d'affermarle e negarle nel tempo stesso. Affermarle, in quanto è mediante essa che vengono pensate; negarle, in quanto riconosciute inadeguate al modello.

La categoria di essere ne riceve un contraccolpo incisivo e pericoloso. Il pensiero di essere si contraddice nell'atto stesso del suo venire pensato. È il contrario di quello che, proprio secondo Parmenide, deve fare il retto pensiero.

Tutto ciò rivela che il vero principio assiomatico dal quale Parmenide prende le mosse non è il concetto di essere bensì quello di «negazione» e di «non essere».

Il concetto parmenideo di essere, in somma, deriva dall'abolizione dell'essere particolare del mondo della molteplicità, esso è il prodotto d'un «non» radicalizzato e deriva dall'abolizione e non la precede.

In Parmenide si ripresenta l'antica idea greca di cháos, già interpretata da Anassimandro con il nome di ápeiron. È interessante notare che stavolta si è messo in risalto il suo paradosso: che il tutto pieno sia in effetti un tutto vuoto.

In questo caso l'idea greca di cháos sembra considerata in un'ottica analoga al Tao e allo zero indiano. * Mentre in Eraclito non si presenta nemmeno l'ombra d'un ragionamento, in Parmenide il terreno è occupato quasi interamente da ragionamenti. In lui, il ragionamento è essenziale, esso distrugge, esso fonda. In un certo senso, l'assetto del mondo non conta e viene dopo, prima c'è la «via» del ragionamento giusto.

Tuttavia non si sale alla verità attraverso l'annichilimento del mondo. Nessuna via del mondo, per quanto impennata verso l'alto, potrebbe scavalcarlo.

Colui che crede di essere arrivato oltre, deve riconoscere che già ci stava da sempre e che già da sempre partecipava del sovramondano. * L'ambiguità e l'equivocità della suprema categoria di essere risiede nel fatto che il concetto di essere è equivalente al concetto di esistere. Il fatto che «è» significhi «c'è» espone l'essere «che è» ad appartenere legittimamente anche alle cose particolari.

Sarà pure vero che gli «esserci» particolari separati vengono alla fin fine «avvicinati» (frammento 4) dal noûs in un unico «essere», ma è contraddittorio che all'inizio d'un essere pieno e reale si presenti un essere vuoto e irreale. È l'errante per antomasia, il mortale a due teste, che vede stretti assieme essere e non essere. Potrà darsi, allora, che il supremo errante sia proprio «l'uomo che sa» qual'è l'essere del non essere?

Il curioso e inquietante non essere, se fosse non essere in sé, non si darebbe mai in nessun modo, non al positivo e nemmeno al negativo. Invece esso è assunto a punto d'avvio d'una conclusione nella quale si rivela che non esisteva.

Ma, dato che nel cerchio inizio e conclusione coincidono, in quale maniera potrà darsi che la conclusione non esiste?

La discussione su questa aporia, è noto, è proseguita a lungo, alimentando Platone e i neo platonici, raggiungendo i nostri tempi con l'idealismo tedesco e Heidegger. * Eppure le cose non stanno così. Si tenga ancora una volta presente che per Parmenide l'uomo del viaggio possiede il sapere prima d'incamminarsi e che egli s'incammina precisamente perché possiede già il sapere.

Egli vede che l'inizio è niente perché è alla conclusione ab aeterno. L'inizio non è un inizio vero perché c'è soltanto la conclusione. Nell'unica conclusione e totalità che è, nell'essere, l'inizio non «c'è» o, se si preferisce, «non è».

Chi vi insiste, chi insiste sulla fissazione, è il mortale il quale, appunto, cade dal versante del «non».

L'essere non può avere inizio. Per avere inizio, dovrebbe venire dal «non essere».

L'uomo che sa vede in se stesso che l'inizio non è: in altre parole, vede che l'essere non ha inizio.

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