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La dea di Parmenide proclama: «l’essere è». Purtroppo il discorso è cifrato. Che vuol dire? Per saperlo, l’eletto deve ascendere sul carro delle figlie del sole fino alla dea che sta sulla porta della luce e delle tenebre. Lì, è sottoposto alla prova conclusiva sull’enigmatica costituzione intima dell’essere. Per trovare la completa soluzione del problema della verità, deve apprendere la ragione per cui anche le mutevoli apparenze appartengono all’essere immutabile. Come in un essere compatto, continuo e omogeneo può darsi il mondo della molteplicità? Come è possibile che l’errore e il non essere abitino nell’essere e nella verità assoluta? Per risolvere l’enigma occorre un salto di stato esistenziale, al modo della procedura iniziatica del mandala che, facendo superare gli sbarramenti oltre i quali si accede al più alto sapere, fa entrare nel tempo stesso nel grado più profondo e del reale e di sé stessi.
Giornale Italiano di Filologia LIII, 2001
Si tratta di una recensione al cap. IX della «Logica» di Rossetti che l'Autore ha avuto la cortesia di comunicarmi in «anteprima». Al di là dei contenuti specifici, ritengo che alcune riflessioni possano essere inserite in un discorso di interesse generale.
Walter Fratticci L'esperienza fondamentale di Parmenide in I. Pozzoni (cur.), Elementi eleatici, Limina Mentis Editore, Villasanta, 2002, pp. 9-39
Di Parmenide sono state date le più varie interpretazioni, dall'antichità ai giorni nostri, ma è sensazione comunemente condivisa da chi le legge, e perfino da chi le propone, che il suo pensiero sia destinato a restare sostanzialmente incomprensibile. Alla fine di tanti dibattiti critici, filosofici e filologici, resta una serie di enigmi disperati: 1) Che senso ha affermare tanto solennemente che l'essere è, il non essere non è? In prospettiva "storicistica", è stato ripetuto più volte che, in rapporto alla cultura del suo tempo, si trattò in realtà di un progresso epocale, della scoperta del principio di non contraddizione, presupposto necessario alla fondazione futura della logica formale. Resta però la sensazione sgradevole di un "truismo", non meritevole nemmeno allora di assere asseverato e riasseverato per centinaia di versi.
Credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell'incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo. (A. Baricco -I Barbari. Saggio sulla mutazione) Indifferente è per me il punto da cui devo prendere le mosse; là, infatti, nuovamente dovrò fare ritorno. (Parmenide -Sulla Natura)
Chôra, 2016
Cet article s'interroge sur la possibilité de dénicher des relations entre le Parménide platonicien et l'oeuvre de Philon d'Alexandrie. Le dialogue platonicien n'est jamais explicitement nommé ni cité par Philon. Il y a une discussion entre chercheurs modernes sur la connaissance que l'Alexandrin peut en avoir eu. D'un coté, Runia pense que le Parménide n'était pas très connu au premier siècle, d'un autre coté, Whittaker considère que, à propos de la transcendance divine, Philon peut avoir fait référence à la première hypothèse du Parménide avec la médiation du Pythagorisme platonisant de son époque. Quant à Dillon, il voit une forte influence du dialogue sur le Platonisme Alexandrin pre-philonien. De mon coté, je pense qu'on trouve chez Philon des argumentations qu'on peut comparer avec les premières deux hypothèses du Parménide. On ne peut probablement pas déterminer s'il s'agit d'une influence directe ou pas, si certains thèmes viennent du texte platonique ou d'autres sources. Ce que je chercherai de voir est si Philon utilise -revus et reformulés dans un langage apte à l'exégèse biblique- des arguments qui rappellent le texte platonicien. Dans ses thèses de théologie négative il y a parfois des allégations qui semblent ne pas s'accorder trop avec le texte biblique. Ils en reprennent caractères et aspects, mais avec des nuances différentes égard à celles du texte originaire. Dans cette perspective, j'essaie de rapprocher des textes de Philon et quelques passages du Parménide. Naturellement, je ne prétends pas de trouver une pleine correspondance entre textes. Il s'agit de suggestions, sans que je m'attends à donner une réponse univoque à une question peut être indécidable. La mienne est une simple hypothèse de lecture.
2018
The author deepens the comparison between Lucr. 1, 21 and Parm. B 12, 3 D.-K., going beyond the two single verses already confronted by some modern critics out of their poetic contexts, and takes into account the whole structure of the two poems On Nature.
Ancora Parmenide e la doxa Ritorno sull'argomento per chiarire meglio le intenzioni del mio scritto e per eliminare qualche imperfezione formale. 1 Riassumerò qui di seguito le questioni sulle quali avrei desiderato conoscere il giudizio (positivo, negativo o indicativo di una terza via) dei miei lettori (e critici). Il quesito fondamentale riguarda la valutazione della doxa (pp. 1-2 e passim), cioè se essa possa e debba considerarsi come autonomo dominio speculativo rispetto alla dottrina dell'ente; e se sussista l'eventualità di un ripensamento con una definitiva sanzione di condanna alla fine del poema (B 19 da confrontare con B 8, 38 ss.).
IV
La fissazione
Per Eraclito la fissazione è d'ostacolo al fluire del cambiamento. Infatti il dio è giorno notte, inverno estate... Il cambiamento garantisce l'unità, il fuoco semprevivente che si accende e si spegne passa attraverso ritmiche e proporzionate metamorfosi e tutto, mare terra soffio ardente astri esalazioni, si tiene in un ciclo continuo.
La fissazione è apparente e illusoria, tipica della prospettiva degli uomini ignoranti, allo stesso modo nella natura e nell'etica (per il dio tutto è bello e giusto, mentre gli uomini vedono cose giuste e cose ingiuste). Perfino la suprema divisione tra immortali e mortali, forse l'unico vero problema di separazione che sta a cuore a Eraclito, deve essere ripensata e il suo schematismo verticalizzante abbattuto.
La tesi inquietante e paradossale di Eraclito è che il cambiamento è necessario all'unità dell'uno. Se le singole tropaí non rappresentassero stati rovesciantesi l'uno nell'altro bensì entità permanentemente identiche a se stesse, il ciclo non potrebbe instaurarsi in quanto sarebbe interrotto e frantumato in gradi separati i quali, in tal caso, a rigore non sarebbero gradi di nulla di sintetico.
Anche in Parmenide la fissazione comporta una frattura e una discontinuità interna all'essere e perciò è illusoria. L'assenza di fissazioni particolaristiche, effettivamente reali, garantisce l'unità dell'essere e, in definitiva, l'essere dell'essere.
Parmenide tuttavia ritiene, al contrario di Eraclito, che le fissazioni siano connesse con il cambiamento e ne rappresentino la base necessaria.
Il cambiamento, essendo interpretato come passaggio che implica un salto di essere, esige a propria base la molteplicità e la fissazione di esseri enti eventi particolari.
In verità, stante che gli esseri particolari non sono, o sono non essere, il passaggio dall'uno all'altro di essi non si dà e semplicemente non è.
In breve, le fissazioni ripugnano in Parmenide all'unità e alla compattezza dell'essere (sferico), in Eraclito al fluire unitario del cosmo.
La differenza tra i due filosofi è questa: per Parmenide l'assenza di fissazioni interne dà per risultato l'assenza di divenire interno; mentre per Eraclito l'assenza di fissazioni dà il fluire.
* Constatiamo da quanto sopra esposto che un'importante e serrata discussione intorno alla natura dell'uno e del continuo si presenta nella forma d'una discussione sulla natura del ciclo.
Insisto su questo concetto. Contrariamente alle interpretazioni convenzionali, l'essere di Parmenide è una versione metafisicamente elaborata dell'idea di ciclo, inteso quale anello che stringendo rende totale il tutto.
L'anello parmenideo, la moira stringente, è la forza e il principio che fa essere totale il totale, intero l'intero, pieno il pieno. Questa lettura è stata, ripeto, messa in risalto soltanto da Heidegger.
L'essere parmenideo è il pensiero che si fa pieno e totale. Il problema di Parmenide sta nella chiarificazione dell'essenza della totalità.
La sua soluzione è la variante mistica.
L'uno s'impone con la catastrofe del mondo e perciò sta «dopo» il mondo. L'uno è la «conclusione» del sapere e coincide con il salto di stato nel quale l'uomo che sa diviene essere.
Il salto di stato nel quale il mortale si fa immortale.
Il passaggio estatico nel quale il pensiero si «esprime» nell'essere: nel quale noeîn e eínai sono il medesimo.
Difficile sottrarsi all'impressione d'avere ascoltato le parole d'uno sciamano pitagorico. * La posizione di Eraclito è la severa ricerca marziale e alchemica di farsi «sole levante» (cf. il mio Eraclito e la forma dell'anima).
Anche Parmenide si fa portare dalle figlie del sole, ma guarda prevalentemente al punto d'arrivo, Eraclito è più interessato al rito del percorso.
La discussione filosofica sull'uno aveva assunto la forma trascendentale d'una ricerca sulla natura del principio del mondo. Questa ricerca a sua volta si è riformulata nella questione del ciclo.
Per Parmenide e Eraclito la fissazione blocca l'unità. Per Eraclito impedisce il ciclo, per Parmenide impedisce il pieno.
Il problema che si pone è: il ciclo e il pieno sono lo stesso?
La risposta è affermativa. Il pieno parmenideo è il ciclo pensato nella sua conclusione di eterno presente. Il ciclo eracliteo è il ciclo dell'eterno ritornante.
Per ambedue è l'eterno ritorno, Parmenide mette l'accento mistico sull'eterno, Eraclito l'accento combattivo sul ritorno.
Sia Eraclito sia Parmenide pensano l'uno e ne studiano la densità e la tensione mediante la quale esprime e realizza la sua totalità. Il punto discusso è la natura di tale tensione interna.
Eraclito rappresenta una forma combattiva e si sofferma sulla ragione per la quale la liquefazione garantisce l'unità del reale. In altre parole, ritengo che egli spieghi «meglio» il ruolo dei molti nell'uno. * Dal canto suo, Parmenide resta bloccato sull'idea delle entità fisse. A bloccarlo è un equivoco insito nel suo concetto di essere.
In fondo, egli non prende per essere unicamente l'essere universale ma anche l'essere particolare, sia pure per negarlo.
Avendo assunto l'essere a criterio assiomatico e a presupposto assoluto d'ogni giudizio, è costretto a giudicare anche l'essere particolare in termini di essere.
Non può parlare d'alcunché senza applicare la suprema categoria di essere con i peculiari caratteri di immutabile, indistruttibile, eccetera.
Ma questa categoria non funziona se applicata al mondo delle cose che devono venire negate. Infatti, se le cose fossero a priori niente, non ci sarebbe bisogno di negarle.
La suprema categoria, applicata al mondo delle cose, produce il duplice effetto d'affermarle e negarle nel tempo stesso. Affermarle, in quanto è mediante essa che vengono pensate; negarle, in quanto riconosciute inadeguate al modello.
La categoria di essere ne riceve un contraccolpo incisivo e pericoloso. Il pensiero di essere si contraddice nell'atto stesso del suo venire pensato. È il contrario di quello che, proprio secondo Parmenide, deve fare il retto pensiero.
Tutto ciò rivela che il vero principio assiomatico dal quale Parmenide prende le mosse non è il concetto di essere bensì quello di «negazione» e di «non essere».
Il concetto parmenideo di essere, in somma, deriva dall'abolizione dell'essere particolare del mondo della molteplicità, esso è il prodotto d'un «non» radicalizzato e deriva dall'abolizione e non la precede.
In Parmenide si ripresenta l'antica idea greca di cháos, già interpretata da Anassimandro con il nome di ápeiron. È interessante notare che stavolta si è messo in risalto il suo paradosso: che il tutto pieno sia in effetti un tutto vuoto.
In questo caso l'idea greca di cháos sembra considerata in un'ottica analoga al Tao e allo zero indiano. * Mentre in Eraclito non si presenta nemmeno l'ombra d'un ragionamento, in Parmenide il terreno è occupato quasi interamente da ragionamenti. In lui, il ragionamento è essenziale, esso distrugge, esso fonda. In un certo senso, l'assetto del mondo non conta e viene dopo, prima c'è la «via» del ragionamento giusto.
Tuttavia non si sale alla verità attraverso l'annichilimento del mondo. Nessuna via del mondo, per quanto impennata verso l'alto, potrebbe scavalcarlo.
Colui che crede di essere arrivato oltre, deve riconoscere che già ci stava da sempre e che già da sempre partecipava del sovramondano. * L'ambiguità e l'equivocità della suprema categoria di essere risiede nel fatto che il concetto di essere è equivalente al concetto di esistere. Il fatto che «è» significhi «c'è» espone l'essere «che è» ad appartenere legittimamente anche alle cose particolari.
Sarà pure vero che gli «esserci» particolari separati vengono alla fin fine «avvicinati» (frammento 4) dal noûs in un unico «essere», ma è contraddittorio che all'inizio d'un essere pieno e reale si presenti un essere vuoto e irreale. È l'errante per antomasia, il mortale a due teste, che vede stretti assieme essere e non essere. Potrà darsi, allora, che il supremo errante sia proprio «l'uomo che sa» qual'è l'essere del non essere?
Il curioso e inquietante non essere, se fosse non essere in sé, non si darebbe mai in nessun modo, non al positivo e nemmeno al negativo. Invece esso è assunto a punto d'avvio d'una conclusione nella quale si rivela che non esisteva.
Ma, dato che nel cerchio inizio e conclusione coincidono, in quale maniera potrà darsi che la conclusione non esiste?
La discussione su questa aporia, è noto, è proseguita a lungo, alimentando Platone e i neo platonici, raggiungendo i nostri tempi con l'idealismo tedesco e Heidegger. * Eppure le cose non stanno così. Si tenga ancora una volta presente che per Parmenide l'uomo del viaggio possiede il sapere prima d'incamminarsi e che egli s'incammina precisamente perché possiede già il sapere.
Egli vede che l'inizio è niente perché è alla conclusione ab aeterno. L'inizio non è un inizio vero perché c'è soltanto la conclusione. Nell'unica conclusione e totalità che è, nell'essere, l'inizio non «c'è» o, se si preferisce, «non è».
Chi vi insiste, chi insiste sulla fissazione, è il mortale il quale, appunto, cade dal versante del «non».
L'essere non può avere inizio. Per avere inizio, dovrebbe venire dal «non essere».
L'uomo che sa vede in se stesso che l'inizio non è: in altre parole, vede che l'essere non ha inizio.
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