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L'enigma di Parmenide

La dea di Parmenide proclama: «l’essere è». Purtroppo il discorso è cifrato. Che vuol dire? Per saperlo, l’eletto deve ascendere sul carro delle figlie del sole fino alla dea che sta sulla porta della luce e delle tenebre. Lì, è sottoposto alla prova conclusiva sull’enigmatica costituzione intima dell’essere. Per trovare la completa soluzione del problema della verità, deve apprendere la ragione per cui anche le mutevoli apparenze appartengono all’essere immutabile. Come in un essere compatto, continuo e omogeneo può darsi il mondo della molteplicità? Come è possibile che l’errore e il non essere abitino nell’essere e nella verità assoluta? Per risolvere l’enigma occorre un salto di stato esistenziale, al modo della procedura iniziatica del mandala che, facendo superare gli sbarramenti oltre i quali si accede al più alto sapere, fa entrare nel tempo stesso nel grado più profondo e del reale e di sé stessi.

ÁTOPOn Rivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose Giuseppe Lampis L’enigma di Parmenide mythos edizioni ÁTOPOn R ! ivista di Psicoantropologia Simbolica e tradizioni religiose ISSN 1126–8530 Direzione: Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele Redazione: Giuseppe Lampis, Maria Pia Rosati, Claudio Rugafiori, Marina Plasmati, Lorenzo Scaramella Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries I edizione elettronica 2014 © «átopon» (Rivista di Psicoantropologia Simbolica) ‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale Via Guareschi 153 – Roma 00143 www.atopon.it – [email protected] INDICE Premessa (abstract) I Identità e contraddizione II La prova dell’uomo che sa III Nomi e mutamento IV La fissazione V Il pieno VI La parola essere VII La via VIII Le vie IX Conclusione: il passaggio di stato è un dovere dire e pensare che l’essente è: infatti l’essere è e il non essere non è (frammento 6) Premessa (abstract) L’idea di essere di Parmenide non indica niente, essa non contiene nessuna informazione. Ciò non dipende tuttavia da un difetto di logica o dall’ingenuità filosofica d’una fase iniziale del pensiero greco. La mia tesi è che l’idea di essere non significa niente in quanto è precisamente il niente del mondo. Essa sorge sulla confutazione del mondo dell’esperienza e per questa ragione non contiene nessun contenuto empirico o mondano. La vuotezza del suo concetto corrisponde allo svuotamento del mondo delle cose. L’idea di essere si presenta a Parmenide al termine d’una strada lontana e superiore rispetto a quella che si percorre nel mondo delle cose. Ritengo molto probabile che l’idea parmenidea di essere rappresenti una riformulazione dell’idea di cháos indeterminato di Anassimandro. E, anche in tale caso, trovo che la mia tesi possa restare confermata. Infatti, lo ápeiron è un tutto che sovrasta e riassorbe gli enti inframondani, destinati a essere travolti dalla regola suprema del tempo. Infine, mi pare opportuno mettere in rilievo che i due concetti contrapposti e tuttavia intrecciati di essere e non essere, in quanto corrispondenti a due vie corrispondono a due opposte collocazioni etico metafisiche: la prima nelle schiere della giustizia e della necessità, la seconda nelle schiere del male e dell’incertezza. In altre parole, o con il Signore sapiente o con il Signore del male. Le due vie parmenidee sono la trascrizione precisa della gnosi religiosa iranica. Ciò spiega il motivo per cui l’essere si presenti all’inizio come un concetto poco comprensibile alla luce della tradizione greca. Esso è la riformulazione d’un’idea religiosa che nasce in un altro contesto e in un’altra ottica, e questa riformulazione è il tentativo di reagire alla crisi di tale idea e pertanto non deve sorprendere che si muova su un terreno minato. A ogni modo, è abbastanza chiaro che la filosofia di Parmenide s’inserisce nella nuova caratteristica fase d’intensificazione monoteistica del pensiero religioso e che ne rappresenta un culmine d’alta maturità. La mia conclusione è che l’enigma di Parmenide, contrariamente alla concezione più diffusa, concerne l’essere. Confermeremo questa conclusione quando arriveremo a renderci conto che il vero enigma non è rappresentato dal non essere. Per adesso, dobbiamo seguire l’andamento apparente del viaggio e partire dalla questione incomprensibile della ragione per la quale l’errore possa avere cittadinanza nell’universo omogeneo e immutabile della piena esclusiva verità. I Identità e contraddizione Partiamo dalla frase «l’essere è». Che vuol dire? A rischio di passare da blasfemi, dobbiamo ammettere che non si capisce. Da un giudizio analitico, se già non conosciamo il contenuto del soggetto, non apprendiamo assolutamente niente. E, purtroppo, il contenuto della parola «essere» sfugge. Proviamo a leggere la frase in un’altra ottica. Forse la frase non ha nessuna intenzione d’informare su un contenuto positivo e vuole invece enunciare una pura forma astratta, una verità intatta che trascende il mondo delle cose molteplici, concrete ma insicure. Forse la frase vuole esprimere il principio puro, la pura forma del principio d’identità? Non credo che le cose stiano così, non credo, in ogni caso, che la frase enunci un principio meramente formale. Nietzsche, che l’ha considerata espressione del principio d’identità, interrogandosi sulla ragione per la quale una mera posizione di logica astratta abbia una forza così originaria e cogente, vi vede la manifestazione della volontà di potenza. A = A, secondo Nietzsche, è l’atto della volontà del superuomo e non un’evidenza vuota generica che si riceva passivamente. La forza originaria dell’equazione esprime precisamente la volontà che vuole l’eterno ritorno e che volendolo lo afferma. Le due A unite dal segno uguale non sono due bensì una sola e identica A che afferma se stessa, la formula pone l’unicità autocreativa dell’unica A, il principio. Sotto il principio logico, ad avviso di Nietzsche, c’è la forza che lo afferma: «l’essere è e il non essere non è» è la manifestazione della volontà che afferma originariamente l’essere. La volontà che vuole se stessa dice «sì» a tutto. Essa, in quanto si pone come il tutto, dicendo sì a tutto dice sì a se stessa, se dicesse «no» si autonegherebbe. Fuori di sé il nulla, essa è tutto, nulla essendoci oltre sé. * La lettura del Nietzsche di Heidegger è un passaggio obbligato nelle interpretazioni della filosofia greca. Se non si decifrano Eraclito e Parmenide, il resto è inutile e, nonostante in tale resto siano coinvolte grandezze abissali quali Platone e Aristotele, senza il deciframento dei primi due non si è sicuri di niente. Dunque, nell’affermazione fondamentale di Parmenide si può riconoscere anche, se non soprattutto, una metafisica dell’affermazione. La verità è l’affermazione, la persuasione, l’inconfutabile, il cuore non tremante. Purtroppo per noi, il discorso è cifrato e enigmatico: dire che la verità è l’affermazione d’un contenuto chiamato essere getta nella perplessità e disorienta perché non sappiamo il significato di essere. L’eguaglianza, certamente evocata e proposta come il volto della verità, è l’eguaglianza d’un principio con se stesso: l’essere è se stesso. Ma che cosa è l’essere? Questo non viene detto. Per saperlo, si dovrà avere il privilegio di percorrere una strada ignota ai mortali sotto l’alta protezione delle figlie del sole. * In effetti, a parte Nietzsche (interpretato da Heidegger nel suddetto modo), la frase pare che esponga il principio d’identità. Comunque, anche per Parmenide o, se si preferisce, già con Parmenide, non si tratta d’un principio formale o esclusivamente formale: quello che emerge è che la suprema legge del pensiero è nel medesimo tempo la suprema legge del reale. La proclamazione dell’oggettività del principio d’identità è così netta che lo stesso Nietzsche ha tentato di riproporla nell’unico modo in cui era possibile dopo la crisi dell’idealismo e della certezza che il reale è razionale e il razionale è reale. L’unico modo di farne una legge del mondo era di riconoscerla quale massima dell’ispirazione dell’artefice che dà un senso al mondo. Sia pure semplicemente soltanto al mondo. Tornando a Parmenide, il principio d’identità è una legge matematica e appartiene alla sfera della speculazione sulla logica dell’unità, del numero uno. Perché l’uno è l’uno? Perché l’uno unisce? Questo ci rinvia alla tradizione pitagorica e ci conferma che Parmenide è un pitagorico. Essendo tale, deve essere anche orfico. Il suo «essere» che «è» è l’uno, e per questa ragione è un astratto nel quale rimane arduo riconoscere un contenuto determinato. L’enigma parmenideo non riguarda se l’essere sia o no l’uno, riguarda piuttosto la natura dell’uno, il tipo di uno che è il suo uno. Che cosa è l’unità dell’uno? È questa la domanda che sottende l’altra: che cosa è l’essere dell’essere? (La distinzione che alcuni vogliono scorgere tra essere e uno è malfondata: l’essere è una forza unificante, il fatto che sia unificante d’un molteplice chiarisce il significato di unificare. Inoltre in Parmenide l’entificazione del molteplice sta contro l’essere. L’essere non potrebbe essere più uno di così!) * Temo, però, che quanto sopra appartenga a un fraintendimento che si è mantenuto nei secoli in forza d’un pregiudizio circa il significato del verbo essere successivamente affermatosi. La frase del frammento 6, «l’essere è e il non essere non è», non espone affatto il principio d’identità. Infatti, perché possa valere in tale senso, avrebbe dovuto dire «l’essere è l’essere e il non essere è il non essere». Però il primo «è» della frase in questione, e correlativamente il secondo «non è», non sono copula e non introducono un predicato nominale eguale al soggetto, come si dovrebbe nel caso della formula dell’identità. Qui noi leggiamo un infinito che fa da soggetto e un presente che esprime uno stato, o lo stato per eccellenza, di quel soggetto. Nessuna eguaglianza e nessuna identità. D’altronde, non era stato rilevato che lo «è» di Parmenide non è una pura copula ma ha valore ontologico fisico reale (cf. Calogero)? * E, allora, che cosa vuole dire la frase? La frase si compone di due parti unite da una congiunzione. La seconda di queste due parti è solo apparentemente il rovescio o l’opposto della prima. In realtà non lo è: «il non essere non è» non è il rovescio de «l’essere è», stante che il rovescio vero dovrebbe suonare «l’essere non è». Essa è piuttosto il rovescio del rovescio: essa nega che l’essere possa non essere e cioè che il non essere possa essere: «il non essere non è». L’affermazione che «l’essere è» si rafforza e coordina con l’affermazione che «il non essere non è». Ma questa affermazione coordinata, il rovescio del suo rovescio, non è semplicemente una derivata della prima o una sua implicazione interna. L’affermazione «il non essere non è» non è l’esplicitazione d’un risvolto sottinteso e implicito della precedente «l’essere è». Che «il non essere non è» non stava dentro «l’essere è», non è una piatta ripetizione, piuttosto è una rivelazione che integra in modo essenziale (se non, addirittura, un presupposto). Parmenide la mette in un unico contesto con la prima e le propone assieme, lui stesso ci indica che la verità che è un dovere pensare consta di due affermazioni strettamente coordinate. * Questo coordinamento contiene più d’un semplice parallelismo. La negazione principale non solo è assiomatica quanto l’affermazione principale alla quale si accompagna, ma guardando più a fondo vediamo che la precede e la giustifica. La negazione (la negazione della negazione) non solo non dipende dall’affermazione ma addirittura ne costituisce il fondamento. L’affermazione è possibile perché è impossibile la negazione. Debbo affermare l’essere perché è contraddittorio e assurdo negare l’essere. Che l’essere sia si fonda sul fatto che è impossibile che non sia. Detto in termini tecnici, il principio d’identità poggia sul principio di contraddizione. La validità del principio d’identità (che una cosa sia se stessa e non un’altra) si conferma nell’evidenza che sarebbe contraddittorio che una cosa sia un’altra mentre è se stessa. Naturalmente, il principio di contraddizione è, al pari d’ogni principio logico, un assioma indimostrabile che viene assunto per pura evidenza. È indimostrabile, ossia non può essere oggetto di prova o dimostrazione, perché è esso a rappresentare il criterio dal quale inizia e discende ogni successiva prova e dimostrazione. La sua evidenza s’impone da sé, all’inizio d’ogni sapere persuasivo e certo. Anche alla base della certezza del valore dell’identità. Nell’universo filosofico e religioso di Parmenide, la priorità del principio di contraddizione rispetto al principio d’identità mostra qualcosa di più d’un mero rapporto logico formale. Che l’affermazione dipenda dall’assurdità della negazione è una verità accecante che appartiene a un nucleo sostanziale e reale. Per Parmenide affermazione e negazione sono due vie e due mondi contrapposti, due sfere della vita e due metafisiche. La via dell’affermazione, «è», balza vittoriosa in alto dalla dissoluzione della via della negazione, «non è». La verità si acquista perché viene debellata la menzogna. Non è difficile riconoscere, nel primato fondamentale del principio di contraddizione, lo sfondo della gnosi iranica. Vediamo rapidamente. * Il principio d’identità A è A poggia sul presupposto che A sia identico a sé e questo a sua volta risale al fatto che A è. «A è» non è ancora il principio d’identità, bensì è la sua base essenziale. Infatti, se A non fosse, non potrebbe essere identico a sé. Affinché A sia A (come viene posto nella formula dell’identità), innanzitutto A deve essere identico a se stesso. E per essere identico a se stesso, innanzitutto deve essere. Se A non è, A non può essere identico ad alcunché. La frase «A è» si mostra dunque con il carattere della priorità presupposta a ogni prosieguo. Ma si tratta proprio d’una priorità assoluta? Se si dà A, in una specie e veste a piacere, ipotesi, evento, errore, fantasia, vanità, un quid qualsiasi, ecco che questo A comunque «è». Se A è, è impossibile che «non è». La fondatezza di «A è» prende forza dall’impossibilità del suo opposto: dall’impossibilità di «A non è» (o, egualmente, di «non A è»). La prima evidenza è l’impossibilità che «A non è»: è dall’evidenza che «non A non è» che rimbalza e emerge che «A è». La proclamazione che A è, non sta perciò all’inizio, bensì è il risultato della fulminante confutazione dell’essere di non A, ovverosia della confutazione del non essere di A. L’assurdità del «non essere dell’essere», l’assurdità del dire che «non è ciò che è», è il vero principio da cui si parte. La verità che «A è» («l’essere è») emerge dalla confutazione per assurdo del mondo del non essere dell’essere, del mondo nel quale si pretende che stiano assieme l’essere e il non essere. In conclusione, Parmenide non parte dalla visione del principio d’identità tout court, la verità dell’identità dell’essere con sé gli viene aperta e consegnata dall’azione confutatoria del principio di contraddizione. La verità incrollabile e certa arriva dopo la dissoluzione dell’apparenza ingannevole del mondo delle cose realizzata da questo principio. * Il mondo delle cose è impensabile e assurdo. Un inganno. Eppure, si era partiti da un dato qualsivoglia dell’empiria. Qualsiasi dato rivelava che il pensiero non può non pensare «che è». Il pensiero non può non pensare altro che «un è» e, pensando «un è», pensa «che è». «Qualunque sia il punto di partenza, sempre lì debbo tornare» (frammento 5). Qualunque sia il dato da cui parto, arrivo sempre necessariamente all’essere. Il punto di partenza umano è il mondo dell’esperienza, questo è il mondo in cui «è» e «non è» sono confusi e messi sullo stesso piano, ma questo mondo si autoconfuta mostrandosi impossibile e in ciò stesso apre la via del vero. «L’uomo che sa» parte per forza di cose da questa via e, quando ha attraversato tutte le città che essa incrocia, l’abbandona per un’altra via che porta al mondo del puro «è». Alla fine l’uomo che sa decifra il mondo dell’esperienza come un mondo assurdo che è il rovescio dell’unico coerente e vero. Una volta raggiunta la verità si accorge, però, che non ci è arrivato semplicemente proseguendo, bensì mediante un salto. La via fausta della verità non è il proseguimento della via infausta dell’errore. L’errore non è un gradino della verità, consustanziale con essa, se così fosse sarebbe anch’esso verità (ma Parmenide non è Hegel). L’errore deve essere mostrato nella sua nullità. La via dell’essere si apre sul nulla della via del non essere. Perché mai, allora, il punto di partenza era indifferente e poteva essere qualsiasi? La ragione sta nel fatto che non c’è errore che non si autoconfuti agli occhi dell’uomo che sa; qualunque sia l’ambito in cui si presenti, esso sarà sempre decifrato come il nulla che sta sotto l’unica dominante verità: che l’essere è. * La vera identità non riguarda l’essere con l’essere, «la vera identità è quella del pensiero e dell’essere» (frammento 3). Il principio di contraddizione da eminentemente logico (il primo principio della logica, per Aristotele) introduce però in una via reale. Il pensiero si estende all’essere, nel pensiero si mostra l’essere. Il pensiero può pensare e esprimersi soltanto nell’essere. Traduce Calogero: «la stessa cosa è il pensare e ciò in funzione del quale esso è pensiero: ché non troverai il pensare senza l’ente, in cui esso è espresso (pephatisménon)» (8, 34). Si noti: «in cui (= nell’ente) esso (= il pensiero) è espresso». Non il pensiero «esprime» l’ente, bensì è l’ente a esprimere il pensiero: è l’ente a permettere al pensiero di pensare, senza l’ente il pensiero non penserebbe niente e dunque non sarebbe pensiero, ovvero non esisterebbe. Al pensiero è necessario di pensare «è». Ma questa verità non è raggiunta lungo la via umana, ad arrivarci non bastano le capacità e i mezzi dell’umanità normale. Essa non appartiene al mondo degli uomini. Essa è rivelata dalla dea a colui che viene portato fuori da quel mondo. Questa è l’illuminazione che trasvaluta. In oriente, è il satori dello zen. La luce del vero non si raggiunge con i percorsi del mondo, il vero non è in continuità con il mondo, al contrario esso s’impone «dopo» di esso, alla sua fine. Per questa ragione, il pensiero dell’essere non ha niente dentro e non significa niente. Esso non ha alcun contenuto informativo, perché è lo svanimento del mondo. Si tratta dello stesso concetto esposto da Eraclito nel frammento 45: i confini dell’anima, andando nelle strade del mondo, anche a percorrerle tutte, non li troverai… II La prova dell’uomo che sa Parmenide, «l’uomo che possiede il sapere» (1, 3), possiede il sapere dall’inizio del viaggio. Anzi, il viaggio è compiuto giusto in forza del fatto che egli già sa. Egli infatti è mosso dal proprio cuore interno, thymós, e dalla sua moira. Il compimento del viaggio e il possesso del sapere sono la stessa cosa. Il sapere è una via. Le espressioni di Parmenide ricalcano quelle con le quali Omero presenta Odisseo all’inizio del poema del grande viaggio, nell’invocazione alla musa (Odissea 1, 3): l’eroe è colui che «vide = seppe (íden) di molti uomini le città (ástea) e ne conobbe la mente (égnon nóon)». Di conseguenza ci si deve porre la seguente domanda: se egli già sa, che cosa deve ancora apprendere dalla dea? Il problema di Parmenide, quello che gli pone la dea, non è rappresentato dalla verità immobile, il problema – e l’enigma – è il mondo (in che modo il mondo delle apparenze erronee possa stare nell’unico mondo che c’è, quello della verità immutabile). 1, 28: «di “tutto (pánta)” devi interrogarti e trovare la risposta (pythésthai).» pythésthai, da pynthánomai, poggia su péitho, e designa l’apprendere caratterizzato dalla persuasione, péitho, il sapere finale che viene dalle molte prove del dubbio. In Parmenide emerge che l’uomo che sa deve perfezionarsi afferrando tutto l’essere, ossia deve raggiungere il punto in cui egli stesso finalmente «è» l’essere. Il viaggio è una prova con la quale si superano molte fortezze e molte cerchie di mura, penetrando via via in strati sempre più alti, al modo dell’arcaico mandala. moira e odós coincidono. * Parmenide 1, 1–4: «il cocchio che mi porta fin dove vuole il mio cuore, anche ora mi conduce via, dopo avermi guidato sulla via molto famosa della divinità, che per ogni città porta l’uomo che possiede il sapere. Là sono condotto…» In proposito, cf. Bruno Snell, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen, 19553, tr. it. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 2002 (19631), 204. Inoltre ibidem, nota 2: «gli imperfetti “2: pémpon; 4: pherómen, phéron; 5: hegemóneuon” accanto ai presenti “1: phérousin; 3: phérei” significano: esse (ed io) lo facevano e continuano a farlo.» 205: «Parmenide, nell’affrontare il suo viaggio, era già un “uomo che possiede il sapere” (1, 3).» * Se l’uomo già «sa», che cos’altro deve apprendere? In che consiste la prova finale? La sua è una moira non cattiva, ma quante moire ci sono? L’uomo che sa è colui che ha attraversato «tutte le città». Il rinvio a Odisseo e al suo viaggio (Odissea 1, 3) è abbastanza esplicito: è sapiente colui che ha visto (eidóta, da id) e conosciuto il mondo: nel sottofondo, un’allusione alla procedura iniziatica del mandala, il cui esercizio consiste nel superare gli sbarramenti che conducono al centro del cosmo (cf. Tucci, 1949). Il sapiente accolto dalla dea deve sottoporsi all’ultima prova. Possiamo notare che anche per Odisseo l’ultima prova non fu la sfida dell’arco e l’uccisione dei pretendenti al trono, bensì l’indovinello proposto da Penelope. Il punto è questo: (1, 28) «chreò dé se pánta pythésthai, tu devi arrivare al sapere persuasivo su ogni cosa.» * Dovrebbe essere naturale e perfino ovvio cercare la chiave di Parmenide nel proemio, il nucleo fondamentale non può non stare in quello che è programmaticamente un preludio e un’anticipazione, sia pure implicita e cifrata. Il proemio deve essere letto con particolare attenzione in quanto tipicamente cosparso di trappole, esso rappresenta la prova che sbarra l’accesso ai profani, una prova introduttiva e iniziatica, chi non la supera dal verso giusto resta sviato per il prosieguo della strada. Le immortali koûrai della dea, le figlie del sole, portano alle soglie della casa che sta al centro un uomo che sa «già» e che sale lì (éntha) precisamente perché lì lo porta il coraggio e la spinta interiore, l’ispirazione e il desiderio e la sua moira. Giunto lì, la dea, avendolo accolto con la stretta tipicamente iranica della destra, gli sottopone l’ultima prova, l’enigma. Quale può essere l’enigma per colui che già sa? Queste sono le parole demoniche: «ora devi trovare la soluzione persuasiva di tutto: come metti assieme la verità immutabile e il sapere umano mutevole.» Dato che la dea parla d’un insieme nominato «tutto», non deve trattarsi soltanto della verità solida e conclusa, questa verità compatta non basta. Se si trattasse di stare soltanto a «l’essere è e il non essere non è», non ci sarebbero problemi ulteriori, ogni problema sarebbe alle spalle, fugato. La prova enigmatica alla quale l’uomo che tutto ha visto viene sottoposto è precisamente questo «tutto», il mondo. La dea, accogliendo l’uomo che sa, così si pronuncia: finora il tuo sapere non ti ha dato la risoluzione del vero enigma: che cosa sono gli uomini? Che significano gli uomini mortali e mutevoli in un contesto nel quale la verità assoluta è l’essere immutabile? Prova a rispondere e afferra la verità finale: (7, 5) «risolvi e decidi (krínai) con il lógos la questione della grande gara (polýderin), la questione molto contrastata e contraddittoria, (déris = lotta, gara), dunque la più importante.» (8, 51–52) «da qui in poi devi apprendere le opinioni mortali (dóxas broteías) ascoltando l’ingannevole (8, 52, apatelón = suggestiva, una trappola) composizione delle mie parole.» L’ordinaria traduzione di apatelón in seducente non aiuta a rendere la circostanza che la dea sta proponendo una prova di sapienza. * L’ultima prova da superare consiste nell’acquisizione della visione che conclude e dà senso a tutto ciò che l’eroe sa già. Nel proemio, Parmenide espone l’esperienza dell’acquisizione della verità totale, questa esperienza è contenuta nel viaggio in atto, nell’apertura della Porta dei sentieri della notte e del giorno, e infine nell’incontro con la dea che pronuncia le parole che descrivono il significato dell’avvenimento. Colui che sa, che sa già, non per questo ha finito di sapere. Colui che tutto ha visto e conosciuto, deve ora apprendere il significato di questo tutto che egli sa. Il sapere conclusivo sta nel cogliere che cosa voglia dire quanto si è appreso. Il passaggio dal sapere al capire e, in conclusione, dal sapere all’essere. La rivelazione di questo sapere conclusivo è sotto gli occhi del viaggiatore rapito sul carro delle figlie del sole, non è nascosto, è aperto. Egli deve semplicemente vedere ciò che è aperto alla sua vista, deve finalmente «sapere (= vedere)» ciò che già «sa (= ha visto)». L’evidenza si presta a essere fraintesa, solamente l’uomo che possiede il sapere ha accesso alla via giusta per capirne il significato. Gli erranti mortali danno nomi ai molti pur non capendo di che si tratti. * Abbiamo visto che la perentorietà dell’affermazione dell’essere deriva dall’autonegazione del non essere. Del resto, senza avere risolto il problema costituito dal mondo del non essere non si potrebbe avere piena coscienza della verità dell’essere. Eppure, in definitiva, l’enigma di Parmenide concerne l’essere. Questa conclusione troverà conferma quando emergerà che il problema del non essere non riguarda il non essere bensì l’essere. Infatti, non potrebbe andare diversamente dato che c’è solo l’essere e, dal canto suo, il non essere non è. Ma per adesso dobbiamo seguire l’andamento apparente del viaggio e partire dalla questione incomprensibile della ragione per la quale l’errore possa avere cittadinanza nell’universo omogeneo e immutabile della piena verità. * Il viaggiatore è condotto dalle koûrai heliádes «dopo avere lasciato le case della notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo». Parmenide, che già sa, viene dalla notte per arrivare al punto in cui la notte e il giorno sono congiunti nella stessa sorgente. Lo sposo delle immortali aurighe (figura iranica, «il carro dei canti» sta nelle Gatha di Zarathustra, oltre che in Omero, Iliade) giunge alla Porta, al centro. Lì sta la dea che pensando (metísato, 13) forma il mondo. Il mondo è una sfera perfetta che si proietta dal centro senza interruzioni e omogenea in ogni direzione. Dalla Porta centrale escono i due sentieri della luce e delle tenebre, del giorno e della notte, luce e notte sono le vie del pensare creativo della dea che sta al centro e tutta la sfera ne risulta formata di luce e notte. Colui che sa, giunto alla dea, apprende la ragione dei molti, il perché i molti sono molti. Questa ragione è la dea che pensa, e pensa con un pensiero che è, insieme e originariamente, luce e notte. * Tuttavia questa spiegazione è un autentico enigma. Si tratta infatti d’una esposizione in forma di «cosmo suggestivo e ingannevole, un autentico tranello» che viene proposto a colui che si affaccia alla Porta e viene accolto dalla dea. La dea afferma che il mutamento non equivale a un’uscita dall’essere o a un’entrata nell’essere, ma dipende dalla commistione di luce e notte: (9, 3–4) «tutto (pân) è pieno (pléon) egualmente di luce e di notte oscura (nyktòs aphántou), / eguali ambedue, poiché con nessuna delle due c’è il nulla.» Eppure ha anche detto che il cangiamento del colore («chroà phanòn ameíben», 8, 41) è erroneo. 8, 36–41: «… nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la moira lo ha vincolato a essere un intero e immobile (oúlon akíneton). Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.» Il motivo fondamentale dell’inganno delle opinioni mortali (dóxas broteías) è che «stabilirono di dare nome a due forme l’unità delle quali per loro non è necessaria… le giudicarono opposte nelle loro strutture e stabilirono segni che le distinguono, separatamente gli uni dagli altri…» (8, 53–56). Dunque, non si dà nessun cambiamento che implichi la rottura dell’interezza e dell’unità dell’essere con la formazione di vuoti e salti interni, i cambiamenti avvengono nell’immobilità e nella continuità dell’essere e dipendono dalla compresenza di luce e notte. E in quale maniera ciò sarà possibile? Questo è per l’appunto l’enigma: in quale maniera può darsi il mondo dei «molti» in un essere compatto, continuo e omogeneo? * Mi chiedo se Eraclito 35, «chrè gàr eu mála pollón ístoras philosóphous ándras eínai», non proponga un’idea simile. Fornisco due interpretazioni. 102 Colli: «gli uomini che amano la sapienza, invero, è necessario che riescano a testimoniare proprio moltissime cose.» 81 Diano: «di molte cose devono acquistare la scienza coloro che dicono di cercare la sapienza.» È molto probabile che l’espressione «philosóphous ándras» (“uomo filosofo”) sia una rielaborazione del testimone (Clemente, Stromata 5, 140, 6). Lo è per Wilamowitz, Reinhardt, Burkert, Wiese, Latte e per 7 Marcovich che così traduce: «men (?) must be acquainted (= avere familiarità) with many things». In ogni caso, lasciando prudentemente in sospeso la questione se la parola filosofo, di cui non v’è traccia prima di Platone, sia un conio eracliteo autentico, l’attenzione va appuntata su ístoras, dalla radice id. Questo indica l’esperienza diretta, il sapere che poggia sulla testimonianza dei sensi, e della vista in particolare. E qui si dice che l’esperienza del sapiente è di molte cose. III Nomi e mutamento Il frammento 8, dopo la potente affermazione dell’immutabilità dell’essere, «… nient’altro o è o sarà all’infuori dell’essere, poiché la moira lo ha vincolato a essere un intero e immobile (oûlon akíneton)», così prosegue: «tôi pánt’ónom(a) éstai, hóssa brotoì katéthento pepoithótes eînai alethê…» (38). Ritrascrivo la traduzione di Reale di quest’ultimo passo: «per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.» * Nel passo viene enunciato un paradosso, viene detto che i nomi fissano il cambiamento. Parmenide stabilisce un rapporto intrinseco tra nome che fissa e oggetto del cambiamento. Ciò è strano ma, in effetti, è proprio questa la contraddizione in cui i nomi incorrono. Stiamo nell’ambito delle illusioni erronee dei mortali: i nomi diventano misure, i mortali danno nomi e fissano con ciò degli eventi staccandoli dall’unità dell’essere. Nell’errore dei mortali, cambiamento e nomi, cambiamento e pensiero della fissazione d’un evento vanno assieme. Al contrario, per l’uomo che sa non c’è nulla di fissabile e consistente che possa venire separato. La separazione o la separabilità d’alcunché presuppone e implica il cambiamento, ma dato che il cambiamento non è possibile altrettanto non è possibile la separazione e la fissazione d’alcunché. Reciprocamente, dato che non è possibile la reale separazione d’alcunché, non è possibile il cambiamento. L’essere è inseparabile da se stesso, nulla è resecabile da esso e in esso perché ciò comporterebbe l’introduzione d’un salto di essere. Dunque, essendo l’essere inseparabile e continuo, nulla può mutare al suo interno. Infatti, «poiché c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro eguale in ogni sua parte...» (8, 42). * Il passo del quale ci stiamo occupando (8, 38) è fondamentale per la dottrina parmenidea dei nomi e di conseguenza per la tesi parmenidea su valore e significato della dóxa dei mortali. La sua traduzione deve prendere le mosse dalla corretta interpretazione filosofica del dativo del pronome tó, «tôi», con il quale si apre. Il pronome si riferisce al precedente «eón», l’essere, l’essente, l’essere essente che la moira ha reso uno e immodificabile. In greco arcaico «esso ha un nome» si dice «un nome è a esso», tíni onoma estí, e «tôi onoma éstai» significa «di esso sarà nome»… Perciò il senso del passo risulta questo: c’è unicamente essere, tutto il molteplice variabile è nome d’un unico essere e gli uomini errano nel credere che il variabile consista a sé e di per sé. Tuttavia c’è da fare una notazione importante per l’intera comprensione del tema. Parmenide non vuole dire che il variabile sia semplicemente un flatus vocis. Non ci sarebbe infatti spazio per questo tipo di errore. Se l’essere è compatto, gli uomini non hanno appigli per inserirvi il vuoto. Le regioni dell’essere alle quali essi danno nomi devono per forza essere compatibili con il pieno. Parmenide vuole dire che il nominare degli uomini riporta comunque necessariamente all’essere. Qualsiasi punto di partenza, qualsiasi variabile, e i mortali necessariamente partono dal variabile, conduce all’unico essere che è essente. Qualunque cosa si pensi e si dica, sempre si dovrà pensare e dire l’essere. Basta che una qualunque cosa esista, basta affermare che una qualunque cosa esista, basta un che di nominabile e di nominato, e ecco che da lì si arriva a affermare che esiste unicamente essere, poiché ogni nome, e cioè ogni cosa, è sempre e soltanto essere. * «tôi pánt’nom(a) éstai, hóssa brotoì katéthento pepoithótes eînai alethê... » Il senso complessivo del passo è il seguente: è in forza di questo (dell’essere) che avrà un nome qualunque cosa del mondo del cambiamento e del molteplice che gli uomini fissino. Qualunque cosa del mondo del cambiamento, che gli uomini pensino con un nome, altro non sarà che un nominabile in termini di essere essente. Vale a dire: ogni molteplice empirico sarà comunque un essere. Concludiamo ritraducendo: «dovrà essere nome di esso (dello eón) ognuna di tutte quante le cose i mortali hanno concepito pensando che fossero reali: nascere e morire, essere e non essere, trasferirsi di posto e cambiare il luminoso colore.» (Notare che anche il non essere è nome dell’essere.) * Ogni cosa sarà per forza un ente e, se c’è qualcosa, c’è dunque l’essere e, allora, il non essere non è. Basta qualcosa da pensare che sùbito si pensa che il pensare può pensare solo ciò che è: solo essere. * È interessante mettere a confronto i nomi dati dall’esperienza umana secondo Parmenide con la tesi espressa nel frammento 67 di Eraclito sullo stesso argomento. Traduce Colli: «il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e si altera nel modo in cui il fuoco – ogni volta che divampi mescolato a spezie – riceve nomi dal piacere di ciascuno.» Stiamo dunque in un’epoca in cui i sapienti stanno discutendo sullo stesso argomento, le loro tesi ancorché abbastanza dissimili e caratteristiche insistono su una base comune, è come se commentassero la stessa verità da due angolazioni. Per Parmenide, la variabilità dei nomi concerne solo il variabile apparente in quanto con essi si può nominare sempre e unicamente l’essere. Per Parmenide, gli eventi del cambiamento fisico sono nomi, però i nomi non potrebbero essere dati se non si riferissero al medesimo che inevitabilmente si deve e si può nominare. Per Eraclito, i nomi variano, e debbono variare, perché il cosmo varia. Ma il variare non è governato dall’uomo che dà i nomi, il variare è dell’uno. Il dio di Eraclito è uno (o l’Uno) e il suo variare si esprime in connessione con la percezione differenziante e differenziata degli uomini. I molti sono un profumo o, più precisamente, sono il modo con il quale gli uomini chiamano i profumi annusandoli; in sintesi, il modo con il quale chiamano i respiri e le emanazioni del cosmo eterno dei quali partecipano. I molti sono respiri, o pensieri equivalenti a respiri. Ciò richiama una dottrina antica pitagorica che assimila il pensare al respirare, e dunque richiama all’anima che pensa l’anima che respira, la vita che pulsa, lo âtman. Sappiamo peraltro che l’anima asciutta e ardente e di fuoco è quella che pensa meglio. IV La fissazione Per Eraclito la fissazione è d’ostacolo al fluire del cambiamento. Infatti il dio è giorno notte, inverno estate... Il cambiamento garantisce l’unità, il fuoco semprevivente che si accende e si spegne passa attraverso ritmiche e proporzionate metamorfosi e tutto, mare terra soffio ardente astri esalazioni, si tiene in un ciclo continuo. La fissazione è apparente e illusoria, tipica della prospettiva degli uomini ignoranti, allo stesso modo nella natura e nell’etica (per il dio tutto è bello e giusto, mentre gli uomini vedono cose giuste e cose ingiuste). Perfino la suprema divisione tra immortali e mortali, forse l’unico vero problema di separazione che sta a cuore a Eraclito, deve essere ripensata e il suo schematismo verticalizzante abbattuto. La tesi inquietante e paradossale di Eraclito è che il cambiamento è necessario all’unità dell’uno. Se le singole tropaí non rappresentassero stati rovesciantesi l’uno nell’altro bensì entità permanentemente identiche a se stesse, il ciclo non potrebbe instaurarsi in quanto sarebbe interrotto e frantumato in gradi separati i quali, in tal caso, a rigore non sarebbero gradi di nulla di sintetico. Anche in Parmenide la fissazione comporta una frattura e una discontinuità interna all’essere e perciò è illusoria. L’assenza di fissazioni particolaristiche, effettivamente reali, garantisce l’unità dell’essere e, in definitiva, l’essere dell’essere. Parmenide tuttavia ritiene, al contrario di Eraclito, che le fissazioni siano connesse con il cambiamento e ne rappresentino la base necessaria. Il cambiamento, essendo interpretato come passaggio che implica un salto di essere, esige a propria base la molteplicità e la fissazione di esseri enti eventi particolari. In verità, stante che gli esseri particolari non sono, o sono non essere, il passaggio dall’uno all’altro di essi non si dà e semplicemente non è. In breve, le fissazioni ripugnano in Parmenide all’unità e alla compattezza dell’essere (sferico), in Eraclito al fluire unitario del cosmo. La differenza tra i due filosofi è questa: per Parmenide l’assenza di fissazioni interne dà per risultato l’assenza di divenire interno; mentre per Eraclito l’assenza di fissazioni dà il fluire. * Constatiamo da quanto sopra esposto che un’importante e serrata discussione intorno alla natura dell’uno e del continuo si presenta nella forma d’una discussione sulla natura del ciclo. Insisto su questo concetto. Contrariamente alle interpretazioni convenzionali, l’essere di Parmenide è una versione metafisicamente elaborata dell’idea di ciclo, inteso quale anello che stringendo rende totale il tutto. L’anello parmenideo, la moira stringente, è la forza e il principio che fa essere totale il totale, intero l’intero, pieno il pieno. Questa lettura è stata, ripeto, messa in risalto soltanto da Heidegger. L’essere parmenideo è il pensiero che si fa pieno e totale. Il problema di Parmenide sta nella chiarificazione dell’essenza della totalità. La sua soluzione è la variante mistica. L’uno s’impone con la catastrofe del mondo e perciò sta «dopo» il mondo. L’uno è la «conclusione» del sapere e coincide con il salto di stato nel quale l’uomo che sa diviene essere. Il salto di stato nel quale il mortale si fa immortale. Il passaggio estatico nel quale il pensiero si «esprime» nell’essere: nel quale noeîn e eínai sono il medesimo. Difficile sottrarsi all’impressione d’avere ascoltato le parole d’uno sciamano pitagorico. * La posizione di Eraclito è la severa ricerca marziale e alchemica di farsi «sole levante» (cf. il mio Eraclito e la forma dell’anima). Anche Parmenide si fa portare dalle figlie del sole, ma guarda prevalentemente al punto d’arrivo, Eraclito è più interessato al rito del percorso. La discussione filosofica sull’uno aveva assunto la forma trascendentale d’una ricerca sulla natura del principio del mondo. Questa ricerca a sua volta si è riformulata nella questione del ciclo. Per Parmenide e Eraclito la fissazione blocca l’unità. Per Eraclito impedisce il ciclo, per Parmenide impedisce il pieno. Il problema che si pone è: il ciclo e il pieno sono lo stesso? La risposta è affermativa. Il pieno parmenideo è il ciclo pensato nella sua conclusione di eterno presente. Il ciclo eracliteo è il ciclo dell’eterno ritornante. Per ambedue è l’eterno ritorno, Parmenide mette l’accento mistico sull’eterno, Eraclito l’accento combattivo sul ritorno. Sia Eraclito sia Parmenide pensano l’uno e ne studiano la densità e la tensione mediante la quale esprime e realizza la sua totalità. Il punto discusso è la natura di tale tensione interna. Eraclito rappresenta una forma combattiva e si sofferma sulla ragione per la quale la liquefazione garantisce l’unità del reale. In altre parole, ritengo che egli spieghi «meglio» il ruolo dei molti nell’uno. * Dal canto suo, Parmenide resta bloccato sull’idea delle entità fisse. A bloccarlo è un equivoco insito nel suo concetto di essere. In fondo, egli non prende per essere unicamente l’essere universale ma anche l’essere particolare, sia pure per negarlo. Avendo assunto l’essere a criterio assiomatico e a presupposto assoluto d’ogni giudizio, è costretto a giudicare anche l’essere particolare in termini di essere. Non può parlare d’alcunché senza applicare la suprema categoria di essere con i peculiari caratteri di immutabile, indistruttibile, eccetera. Ma questa categoria non funziona se applicata al mondo delle cose che devono venire negate. Infatti, se le cose fossero a priori niente, non ci sarebbe bisogno di negarle. La suprema categoria, applicata al mondo delle cose, produce il duplice effetto d’affermarle e negarle nel tempo stesso. Affermarle, in quanto è mediante essa che vengono pensate; negarle, in quanto riconosciute inadeguate al modello. La categoria di essere ne riceve un contraccolpo incisivo e pericoloso. Il pensiero di essere si contraddice nell’atto stesso del suo venire pensato. È il contrario di quello che, proprio secondo Parmenide, deve fare il retto pensiero. Tutto ciò rivela che il vero principio assiomatico dal quale Parmenide prende le mosse non è il concetto di essere bensì quello di «negazione» e di «non essere». Il concetto parmenideo di essere, in somma, deriva dall’abolizione dell’essere particolare del mondo della molteplicità, esso è il prodotto d’un «non» radicalizzato e deriva dall’abolizione e non la precede. In Parmenide si ripresenta l’antica idea greca di cháos, già interpretata da Anassimandro con il nome di ápeiron. È interessante notare che stavolta si è messo in risalto il suo paradosso: che il tutto pieno sia in effetti un tutto vuoto. In questo caso l’idea greca di cháos sembra considerata in un’ottica analoga al Tao e allo zero indiano. * Mentre in Eraclito non si presenta nemmeno l’ombra d’un ragionamento, in Parmenide il terreno è occupato quasi interamente da ragionamenti. In lui, il ragionamento è essenziale, esso distrugge, esso fonda. In un certo senso, l’assetto del mondo non conta e viene dopo, prima c’è la «via» del ragionamento giusto. Tuttavia non si sale alla verità attraverso l’annichilimento del mondo. Nessuna via del mondo, per quanto impennata verso l’alto, potrebbe scavalcarlo. Colui che crede di essere arrivato oltre, deve riconoscere che già ci stava da sempre e che già da sempre partecipava del sovramondano. * L’ambiguità e l’equivocità della suprema categoria di essere risiede nel fatto che il concetto di essere è equivalente al concetto di esistere. Il fatto che «è» significhi «c’è» espone l’essere «che è» ad appartenere legittimamente anche alle cose particolari. Sarà pure vero che gli «esserci» particolari separati vengono alla fin fine «avvicinati» (frammento 4) dal noûs in un unico «essere», ma è contraddittorio che all’inizio d’un essere pieno e reale si presenti un essere vuoto e irreale. È l’errante per antomasia, il mortale a due teste, che vede stretti assieme essere e non essere. Potrà darsi, allora, che il supremo errante sia proprio «l’uomo che sa» qual’è l’essere del non essere? Il curioso e inquietante non essere, se fosse non essere in sé, non si darebbe mai in nessun modo, non al positivo e nemmeno al negativo. Invece esso è assunto a punto d’avvio d’una conclusione nella quale si rivela che non esisteva. Ma, dato che nel cerchio inizio e conclusione coincidono, in quale maniera potrà darsi che la conclusione non esiste? La discussione su questa aporia, è noto, è proseguita a lungo, alimentando Platone e i neo platonici, raggiungendo i nostri tempi con l’idealismo tedesco e Heidegger. * Eppure le cose non stanno così. Si tenga ancora una volta presente che per Parmenide l’uomo del viaggio possiede il sapere prima d’incamminarsi e che egli s’incammina precisamente perché possiede già il sapere. Egli vede che l’inizio è niente perché è alla conclusione ab aeterno. L’inizio non è un inizio vero perché c’è soltanto la conclusione. Nell’unica conclusione e totalità che è, nell’essere, l’inizio non «c’è» o, se si preferisce, «non è». Chi vi insiste, chi insiste sulla fissazione, è il mortale il quale, appunto, cade dal versante del «non». L’essere non può avere inizio. Per avere inizio, dovrebbe venire dal «non essere». L’uomo che sa vede in se stesso che l’inizio non è: in altre parole, vede che l’essere non ha inizio. V Il pieno Gli uomini (i mortali) confondono le vicende della coppia luce notte in termini di essere non essere. Anche Popper dimostra d’appartenere a pieno titolo alla loro categoria in quanto identifica notte e essere (The World of Parmenides: Essay on the Presocratic Enlightenment, London 1998, tr. it. 1998, 112). In verità, luce e notte sono forme dell’identico continuo e pieno. Il mutamento, compreso quello dei colori, deve essere spiegato e compreso all’interno del pieno. Il mutamento non introduce e non può introdurre nessuna discontinuità e nessun vuoto interno. Il nome essere è il nome giusto, contrariamente a quelli usati dai mortali. Il nome essere è l’unico che pertiene giustamente al pieno. * Essere, in questa accezione densa e concreta, ha valore sostanziale e ontologico e non ha niente a che vedere con il valore logico della copula, giusta l’intuizione di Calogero (anche se le conclusioni di questo studioso vanno rovesciate). Equivale, cioè, a quello che i nomi «è», «essente», «essere» significano prima dell’avvento dell’aggettivo astratto con l’articolo determinato (tò eón, cf. Snell cit. 313) ovvero della logica formale basata su soggetti e predicati, a sua volta basata su una fisica di sostanze fisse (i soggetti) e qualità accidentali che non sussistono da sole e che debbono venire attribuite alle predette sostanze (gli aggettivi predicabili). In quella fase arcaica, il verbo «è» non ha valore copulativo del predicato, non funge da congiunzione tra un soggetto e un predicato astratto ma designa una natura che precede la distinzione tra concreto e astratto. In altre parole, «è» vuole dire essere presente, esistere nel senso di «stare» e soprattutto «stare con», «essere con», «stare in un continuo», «stare nel pieno». Più estesamente ancora, vuole dire «essere intrinseco di», «essere di», «appartenere a», e perfino «tenere in sé», «tenersi a», «includersi in». In sintesi, i valori di *es/s sono quelli d’un verbo durativo, un verbo che definisce uno stato presente, il presente per eccellenza. Quando necessario, le altre forme integrative del verbo essere diverse dal presente (il futuro, a esempio) vengono prese da radici affini, aventi il significato di nascere, generare, vivere (latino fui e altre). Effettivamente la copula, il pensiero che unisce, il principio unitario, in Parmenide si trova proprio ontologizzato: lo «è con» (la copula) è preso nel pieno valore ontologico ed è diventato: «lo “esistere con” esiste». Più in chiaro: «ciò che esiste è “esistere con”». * La conseguenza metafisica di questo valore semantico porta a ritenere che, purché ci sia una sola cosa, c’è tutto. Posto che un qualsiasi ente si presenti, da esso il pensiero che giudica giustamente «avvicina» a sé ogni altro ente (frammento 4). Anche le apparenze devono venire decifrate e riconosciute per essere; esse non possono costituire nessuna zona alternativa all’essere perché tutto è esclusivamente essere. Con ogni essente che è si presenta un pieno di essenti. Qualsiasi ente in tanto si dà in quanto si dà in un pieno: in quanto «è», esso «è con», esso «è di». In quanto «è», esso richiama l’intero. Si tratta d’una conclusione necessaria poiché presupposta dal principio. A questa conclusione si perviene sulla base d’un assioma presupposto dall’inizio del ragionamento. L’assioma è il ben noto «l’essere è». La frase «l’essere è» non significa niente se essere vuole dire essere. Sarebbe una mera piatta ripetizione, un’identità banale e ovvia, del tutto inutile. Se vogliamo dare un senso alla rivelazione della dea della Porta, dobbiamo per forza ricorrere a un significato sottostante più profondo. Noi siamo così abituati ad accogliere come assolutamente evidente la formula «l’essere è» da non accorgerci più che essa di per sé non significa niente e che è una vuota ripetizione. L’illusione che significhi alcunché dipende dalla storia successiva del concetto di essere, nonostante si tratti d’uno dei concetti meno chiari e più equivoci dell’intera filosofia. * «L’essere è» significa qualcosa solo a patto di risalire a una base semantica che non dipende dalla storia successiva. Questa base deve trovarsi in ciò che viene esposto da Parmenide. Quando Parmenide enuncia che l’essere è il pieno e il continuo, presenta proprio questo significato primordiale del nome «essere». La sequenza degli attributi composti con l’alfa negativo del frammento 8 (3: ingenerato, indistruttibile, immobile, infinito) non ha il valore d’una dimostrazione bensì discende dall’assioma presupposto. L’equivalenza di essere e pieno, a sua volta, si fonda sull’archetipo del continuo o dell’uno: gli eventi si coappartengono, ogni ente implica gli altri, i molti si connettono senza interruzioni in un continuo. In conclusione, il nome «essere», altrimenti incerto e incomprensibile, significa «coappartenenza», «essere in relazione», «inclusione», «comprensione in sé». Naturalmente, e lo abbiamo visto sopra, si tratta d’un assioma, in quanto tale indimostrato e indimostrabile, e se mai fonte e regola d’ogni possibile successiva dimostrazione. Inoltre, in quanto assioma, esso è meramente intuibile ma, a rigore, intuibile nel senso di ricevibile, ricevibile al modo in cui si riceve un comandamento e un dovere. Parmenide, in questo, è assolutamente netto: «l’uomo che sa (eidóta phóta)» alla fin fine non sa ancora la verità fondamentale fino al momento in cui la dea non gliela espone (nei termini d’un dovere): il sapere è ubbidienza. «L’uomo che sa» sa ciò che sa alla fine d’una strada. Questa strada è una moira «non cattiva». Il «non sapere» (lo stato di ciechi, sordi, a due teste, eccetera) corrisponde a un’altra strada, quella della moira cattiva. Le due verità, le due strade, sono due mondi, due civiltà, due stirpi o razze, due destini, due dèi o dèmoni, assolutamente inconciliabili. «L’uomo che sa» deve apprendere anche questo, che significhi la moira cattiva, affinché il suo sapere corrisponda interamente alla moira buona. Il suo è dunque un sapere combattivo e confutatorio, che s’identifica con una trasformazione eccezionale del proprio essere per riuscire a saltare fuori dalle vie battute dai mortali. * Abbiamo visto che la densità semantica del nome «essere (eínai)» che lo fa valere per «essere in un pieno continuo» si comprende meglio riferendola a una fase filosofico logico linguistica nella quale ancora non è invalso il condizionamento della logica dei soggetti sostanze e degli attributi accidenti; in altre parole, il condizionamento della logica formale della distinzione di soggetto e predicato basata sulla distinzione delle qualità dalle cose. Si tratta di una fase, in breve, nella quale non si è ancora avuto quello sviluppo logico rispetto al quale Calogero poté giudicare primitivo il valore semantico dello «è» parmenideo. Primitivo, giudica Calogero, in quanto non ha ancora appreso a differenziare parola pensiero cosa. Non sapendo distinguere tra linguistica, logica, metafisica e fisica, egli ontologizza lo «è»: prende la particella logica della predicazione o copula, lo «è», e lo assume per esistente in sé, lo ontologizza. Colli obbietta che se questo fosse vero Parmenide non potrebbe formulare i giudizi negativi. * Per Calogero, le contraddizioni di Parmenide dipenderebbero dall’equivocità della non distinzione tra il verbo essere formale, di valore puramente logico, e il verbo essere sostanziale, empiricamente reale. Però non convince che Parmenide sia un ingenuo primitivo, inconsapevole delle conseguenze dell’emancipazione del «nome» rispetto alla «cosa». Infatti è netta la sua avversione contro la deformazione metafisica alla quale i mortali sono condotti proprio dall’avere imposto dei «nomi» ai molti. Parmenide critica non solo l’ontologizzazione della copula ma anche l’ontologizzazione del predicato nominale attratta dall’ontologizzazione della copula (8, 38). Dire che qualcosa è qualcos’altro, per lui non deve condurre a credere che quel qualcosa e che quel qualcos’altro siano essere: non deve condurre a crederlo per la ragione che lo «è» copula non equivale a «essere». Parmenide polemizza con l’errore di ontologizzare i nomi molto prima di Aristotele, e di Calogero. Egli è perfettamente consapevole del problema linguistico ontologico e delle sue implicazioni. Nondimeno le osservazioni di Calogero sono utili e, nonostante provengano da una prospettiva rovesciata, ci aiutano a riconoscere in Parmenide non un primitivo, ma un reazionario. La polemica di Parmenide non concerne infatti l’ontologizzazione in sé, ma si appunta contro l’erroneità dell’uso del nome particolare che impedisce di cogliere il nome assoluto, il nome di nomi. Tutt’altro che inconsapevole, Parmenide vuole precisamente contrastare le conseguenze della distorsione del fraintendimento dello «è» e del dare nomi. Vuole che l’affermazione «questo è la tale cosa» non sia esaustiva e conclusiva poiché la «tale cosa» nominata con lo «è» in tanto è in quanto rientra in un quadro più ampio nel quale tutto («pánta») è senza soluzioni di continuità. La pertinenza d’un nome a ogni differenza e variazione (i molti) non toglie che ognuna di esse, quale che sia, comunque «è». Questo «è» (il dire che ognuna è) è la via che mette in relazione ognuna di esse con il tutto. Tanto lo «è» equivale a «essere di», «essere in relazione», «appartenere», «stare nel pieno», che ogni cosa che è, per questo suo essere, è in relazione. * Dell’evoluzione del verbo essere a valore di copula logica, non si potrebbe essere più chiari delle parole di Snell (cit. 323): «… in origine i rapporti logici “si capiscono da sé”, non dispongono di una propria forma linguistica e non vengono perciò neppure considerati come tali. Soltanto quando si sente il bisogno di rendersi conto di ciò che prima si “capiva da sé”, si rivela la tendenza propria dello spirito a ritornare su se stesso: scoperta dello spirito altro non significa dunque che lo spirito ritrova se stesso. Nella frase “questo è un leone” la relazione logica è espressa dalla parola “è”; per mezzo della copula “essere” il problema logico della relazione del singolo coll’universale diventa per la prima volta parola. Anche ciò non esisteva in origine; nella lingua primitiva questa copula non è necessaria. La frase “hic leo”, “oûtos léon”, è chiara anche senza che vi si aggiunga un “è”. Ma già nell’indogermanico si ha un’evoluzione delle premesse linguistiche, e già in periodo pregreco un verbo che aveva in origine il significato di “essere presente”, “esistere”, viene usato anche come copula. Dunque ciò che in un primo tempo si comprendeva da sé, senza che vi fosse bisogno di esprimerlo, viene poi visto sotto l’aspetto di “esistenza”. È solo allora che si rende possibile l’identificazione parmenidea del reale esistente con quello pensato, grazie al fatto che, nella proposizione del tipo: “questo è un leone”, la copula “è” viene anche intesa nel significato di “esiste”; di qui sorge anche la difficile questione, quale forma di esistenza si debba attribuire al reale pensato, all’universale.» * Sul significato dei parmenidei essere, essente, è (eínai, eón, ésti) da ultimo è interessante leggere che per il semitista Giovanni Semerano (L’infinito: un equivoco millenario, Milano 2001, 68 e 161) le radici greche *es/*s riconducono all’accadico išû(m) dotata del valore semantico di «avere». «Avere» sarebbe pertanto, informa Semerano, il significato originario di «essere». Il passaggio dal significato di «avere» a quello di copula si spiega con il fatto che nel pensiero antico l’affermazione «il fuoco è caldo» corrisponde a un precedente «il fuoco ha o possiede il caldo». Il pensiero antico non conosce qualità distinte dalle sostanze e quando deve pensare quella che in seguito sarà pensata come una qualità pensa una sostanza che possiede intrinsecamente tale qualità: a esempio, non pensa il freddo in astratto, ma l’acqua, non il caldo ma il fuoco, e via elencando. Lo studioso aggiunge che si deve considerare altresì l’interferenza della base accadica aṣû(m) (= nascere, esistere), nonché d’una ulteriore base suppletiva accadica *bu’’û (= produrre, generare) sotto cui è da ricondursi il *bheu (greco éphyun, latino fui). Di modo che, nello eón parmenideo risulterebbe implicito «l’antico valore di “chi può esercitare il dominio” sulla realtà che gli è pertinente è in effetti il possessore di essa». Infine, l’accadico sumero išû(m) avente il significato di «avere possesso» trova ulteriore conferma, a suo avviso, nel sanscrito ise, iste (“is master of”): «ed è perciò che l’Essere è tale perché possiede e abbraccia ogni realtà, esercita un potere, sviluppa la sua valenza dinamica. Il vuoto essere non avrebbe senso alle origini del pensiero logico» (cit. 70– 71, n. 139). Mi pare che, quanto alle conclusioni, non siamo lontani dagli sfondi semantici già riconosciuti dai grecisti. Il punto critico non riguarda differenze d’interpretazione semantica, bensì più in generale la paternità o l’origine della cultura greca. Aggiungerei, per esempio, che è altrettanto evidente l’accostamento della radice sanscrita *sat (= esistere senza dubbio, essere pieno, essere completo, essere totale) al greco *es/*s. Però per Semeraro il greco non discende dal sanscrito, è invece il sanscrito a discendere dal greco. E alla fin fine tutti derivano dall’accadico sumero, eletto a madre d’ogni lingua e cultura. Non c’è che dire, l’annosa discussione sulle direzioni di marcia della cultura non ci risparmia tesi sorprendenti. È comunque interessante che nell’antica culla della mezzaluna fertile ci sia un verbo avente il significato di avere la cui radice è affine a quella greca di essere. Tanto più interessante quanto più si abbia presente che il sumero non è affatto una lingua semita. * Sono molti i sottintesi ideologici del dibattito sulla nascita della filosofia. Le scoperte di Semerano ambiscono a definire il retroterra orientale (vicino orientale) della cultura greca. Per il nostro, l’accadico sta alla base delle più importanti parole greche. Il tema domina gli studi dopo che Nietzsche ha posto nello sfondo della cultura greca (nascita della tragedia e della filosofia) il barbarico principio dionisiaco. Dioniso è un’irruzione dall’indoeuropea Scizia o è un dio protomediterraneo pelasgico semita? (l’opzione di Semerano è per quest’ultimo, cit. 130). Il nome Dioniso è stato riconosciuto nella scrittura lineare B di Creta. Ma che cosa è Creta? La lineare B è indoeuropea, ma lo è anche la più arcaica lineare A? Comunque sia, per il nostro semitista (Il popolo che sconfisse la morte: gli etruschi e la loro lingua, Milano 2003) è il sanscrito a derivare dal greco e non il contrario: «l’indoeuropeo è un miraggio, le Upanishad sono un incoerente pasticcio dall’incerta datazione. L’India non è la patria europea, ma al contrario è il sanscrito a derivare dal greco (la prova è che Seneca, in Consolazione a Elvia, VII, 1, si chiede come mai in India si parli il Macedone) e la cultura dell’Indo è dovuta all’invasione di Alessandro.» Succede che figuri progressista lo screditare l’indoeuropeo ascrivendolo a tradizionalisti reazionari e loro complici; e l’opera si completa indicando di converso nel mondo semita la culla anche del greco. Una radicale reductio ad unum! Per Semerano, a esempio, i greci sarebbero preceduti dai tirreni–pelasgi. Lo proverebbe la famosa iscrizione di Lemno (cit. 5) nella quale si leggono due parole chiave: “tirreni” (dall’accadico turtennu “il più alto dignitario dopo il re”, tursennu, donde tyrsenoi); e “pelasgi” (dall’accadico bêlu ishshaku, “signori colonizzatori”). A coloro che la vedono diversamente la tavola di Lemno pare invece cosa di rimbalzo, non l’origine degli etruschi bensì il segno d’un approdo commerciale successivo. In ogni caso, per dirimere la questione, è ancora più basilare che non sia affatto assodato che tirreni e pelasgi siano la medesima realtà. Per chiarire schematicamente i risvolti ideologici del dibattito, si tenga presente che quella dei pelasgi è la civiltà che viene considerata protomediterranea e matriarcale, legata al culto della terra e della grande dea femminile, antitetica alla cultura indoeuropea del dio maschile del cielo astrale e della luce. Questa civiltà pelasgica tendenzialmente materialistica e terragna si ritiene che continui e si esprima nel mondo pansemita o protosemita. Tuttavia, l’assimilazione dei tirreni ai pelasgi non è innocua e neutra. Infatti, i tirreni lungi dall’essere pelasgici potrebbero essere il popolo aristocratico e niente affatto materialistico dei micenei nuragici, e i nuragici potrebbero essere alla base degli etruschi i quali sono coinvolti nell’origine di Roma. Quand’anche non avessero a che vedere con i nuragici, i tirseni o tirreni pare che abbiano a che vedere con gli etruschi. Dunque, è abbastanza importante decidere se siano semiti o indoeuropei. Quale successo per gli avversari della tesi indoeuropea se provassero che Roma ha origini semite! Naturalmente, occorrerebbe innanzitutto dimostrare che gli etruschi furono i veri fondatori di Roma e non degli estranei usurpatori faticosamente cacciati via. La dimostrazione riuscirebbe più persuasiva se poi fosse sgombrato il campo da dati di un certo peso: la saga di Enea e la grecità di Alba (alle origini della banda di Romolo), nonché la presenza di un’ara dedicata a Herakle nella zona del Velabro in età precedente quella primitiva pavimentazione del Foro Olitorio che documenta l’avvenuta unificazione politica dei villaggi arcaici del Palatino. VI La parola essere Il significato del verbo essere è ambiguo e sfuggente. Possiamo tuttavia partire proprio dall’unico significato certo che abbiamo: il verbo essere, quale che sia il suo retroterra, a un certo punto viene usato come copula logica. Non v’è certezza sul significato del verbo essere prima o in origine, ma a un certo punto ce lo troviamo che è diventato la copula del predicato del soggetto. Essere è diventato copula nello stesso clima nel quale nasce la filosofia. Si può perfino notare che la nascita della copula logica coincide con la nascita della filosofia. Ciò accade in quanto l’esigenza della copula logica va di pari passo con il sorgere dell’aggettivo astratto che fa da predicato universale. (Nonostante ciò, non mi persuade che il movente di Parmenide sia logico.) La copula e il nome con l’articolo determinato sono il segno dell’avvento dell’astrazione. Per essi si rende possibile il ragionamento generale astratto che rappresenta la condizione preliminare per la nascita della filosofia. Possiamo partire da questo approdo storicamente e culturalmente tardo per un lavoro d’archeologia linguistica? Scavando nel passato della copula dovremmo trovare la base che ha abilitato questa evoluzione. Nel passato della copula essere dovrebbe giacere l’orientamento che ha favorito il suo affermarsi in questo senso astratto e generico. Retrocedendo dovremmo trovare il significato che ha preceduto l’evoluzione verso l’astratto e che doveva essere proteso verso la sua possibilità. In effetti, che significa copula? Significa inclusione, coappartenenza, aggiunzione, uguaglianza, relazione. La copula è il segno della funzione inclusiva del predicato nei confronti del soggetto. Il soggetto è seguito da una copula quando viene espressa un’azione d’afferramento e inclusione che lo riguarda. La logica aristotelica è articolata sul giudizio e sulle catene di giudizi (sillogismi) che conducono a certe conseguenze a partire da certe premesse seguendo costantemente il criterio dell’inclusione: Socrate è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque Socrate è… Se si segue costantemente il criterio della corretta inclusione d’un giudizio dentro un sapere precedente, si resterà saldamente nel vero: in tale modo, se la partenza è vera, sarà vero l’arrivo. Posto che la copula è il segno dell’inclusività, il verbo essere nella fase che precorre l’astrazione della copula avrà il significato seguente: stare con, stare in un contesto, essere stretto a, vivere dentro a, trovarsi in un continuo. In somma, il «con» astratto che ora funge da copula era in passato il «con» concreto. Stare insieme in un o nel concreto, questo il senso implicito nel fondo della copula. * Questo arco semantico è la verità di Parmenide. Parmenide mette in luce che il verbo essere divenuto copula logica è ancora il verbo che afferma la pienezza. La copula logica parmenidea in tanto unisce in quanto è sostenuta da una forza unente che la sottende necessariamente. La possibilità d’affermare che qualcosa «è» un qualcosa poggia sul fatto che ambedue i termini sono nel medesimo stare assieme. Poggia sul fatto che si coappartengono da sempre in una relazione complessiva. Le relazioni particolari enunciate dalle frasi «qualcosa è o non è qualcosa» presuppongono tutte necessariamente la base comune d’una relazione totale che le precede e contiene. Le variazioni segnate dalle frasi che indicano relazioni parziali non possono mai indicare né entrate né uscite dalla relazione totale dello stare assieme in un pieno continuo. L’eminente e tipica espressione della copula, con la quale il pensiero unisce qualcosa a qualcosa, è il centro della verità. Il pensiero pensa solo e necessariamente l’unione e il pieno nel quale ogni cosa si coappartiene con l’altra. Il pensiero «stringe» e «avvicina» il lontano e l’assente nel presente dell’essere invalicabile. Il pensiero pensa solo essere. L’essere è l’unica espressione predicabile del pensiero. Il pensiero può esprimere solo essere perché deve pensare solo l’unico e il continuo. * Tutto ciò non vuole dire che Parmenide abbia ontologizzato la copula («è» semplice copula logica assimilata a «è» = esiste) per ingenuità logica, secondo che ritiene Calogero, non avendo egli ancora appreso la differenza tra gli ambiti di grammatica e logica da una parte e di fisica e metafisica dall’altra parte, e in breve non avendo ancora appreso la differenza tra pensiero e realtà. Al contrario, Parmenide conosce benissimo questa differenza, e non ontologizza affatto la copula ché altrimenti, obbietta puntualmente Colli, se fosse costretto a potere dire solamente sì non potrebbe formulare giudizi negativi. Se dire no equivalesse a dire l’impossibile e impensabile non essere, non si potrebbe mai dire. Una rigidità assurda. Il punto vero non è l’irrigidimento che conseguirebbe all’ontologizzazione della copula. È che siamo di fronte al problema dell’errore. In un essere unico, invalicabile e pieno, l’errore non c’è e non ci può essere: questo è l’enigma che caccia nel labirinto. Siamo giunti in questo modo al punto cruciale di Parmenide: anche il no sta dentro la positività universale del pieno. Non vale nemmeno l’opinione di Severino per il quale Parmenide ha messo il non essere fuori dall’essere. Non c’è un fuori, perché tutto ciò che c’è è essere. Il no, se c’è e quando c’è, deve per forza stare dentro e, a causa di questo vincolo, non configurare alcuna alterazione dell’unità fondamentale dell’essere. Naturalmente, la posizione del no all’interno del sì è un enigma da affrontare. Il mondo è un enigma da affrontare. Esso è la prova finale e conclusiva dell’uomo di «luce» che sa e vede (1, 3: eidóta phôta, phôs = luce). * Essere non vuole dire niente perché se volesse dire qualcosa sarebbe paradossalmente un non essere. Non vuole dire niente proprio perché è il niente della cosa. L’universalissimo. Questo è il ragionamento di Hegel e così va il massimo di elaborazione del concetto di essere culminato in Hegel: essere come tutto. Severino si muove sotto questa soluzione e non aggiunge nulla di utile. * Dato che l’essere esprime il pensiero e ne rappresenta l’unica espressione possibile, l’essere è il nome dei nomi del pensiero. L’essere è il predicato per eccellenza in cui si esplicita il soggetto originale (il noeîn). Il predicato originale del soggetto originale non può che predicare la reciproca medesimezza (frammento 3). * Parmenide critica l’uso ontologizzante dei nomi particolari (8, 38). Può farlo in quanto a suo avviso il pensiero è lo stesso che essere. Il pensiero si esprime nell’essere e solo nell’essere. Ne discende che ogni nome non può che essere nome di uno solo: dell’essere che è. * Se c’è qualcosa (un qualsiasi ente, un qualsiasi apparire) e lo penso e lo nomino, c’è comunque essere e, di conseguenza, il non essere non c’è in quanto inconciliabile con l’essere, l’uno esclude l’altro. Basta qualcosa da pensare che sùbito si pensa che il pensare può pensare solo essere, solo ciò che è. VII La via L’essere di Parmenide entra nel dibattito sull’origine aperto dalla filosofia. L’origine è phýsis o arché. Che cosa sono nascita morte, eccetera? In altre parole, che cosa è il mondo? Il mondo è il problema. La posizione di Parmenide è che il cambiamento o phýsis è impensabile, che il cambiamento non è una spiegazione perché il passaggio da una cosa all’altra non può essere pensato in termini di rottura e rovesciamento dall’essere al non essere. Il pensiero non pensa il vuoto e può solo pensare il pieno. * L’affermazione parmenidea vale a patto che valga il principio di contraddizione. E questo principio assiomatico si può solo ricevere. A quel punto, una volta ricevutolo dalla dea della necessità, come si spiega il mondo? Come si può pensarlo? * L’archè è luce notte. Il divenire è rotazione della sfera? Il solido sfera si genera per rotazione del cerchio su se stesso, il cerchio si genera per la rotazione del raggio attorno al centro, il raggio è il centro che si estende sul piano. Il punto è concreto e fisico. Deve occupare spazio. Il punto è un principio che implica la sfera, non c’è punto senza la sfera. Il punto si espande, perché è concreto, pieno. Il punto pieno, che s’intensifica in ogni direzione, è la sfera. Il punto geometrico è l’essere che è presente. Il punto è il concreto pieno che il pensiero pensa necessariamente. Il pensiero si esprime nell’essere, e il concreto pieno che il pensiero pensando deve pensare è il punto. Parmenide rappresenta uno sviluppo geniale della geometria pitagorica, la sua filosofia è un chiarimento delle premesse metafisiche della geometria euclidea. Secondo Giorgio de Santillana (The Origins of the Scientific Thought, Chicago 1961; tr. it. 1966, 103) l’essere parmenideo è il puro spazio geometrico: continuo, omogeneo, isotropico (identico in tutte le direzioni), inalterabile e immobile, sostrato alla rigidità e impassibilità della forma e sostrato della materia come proprietà accidentale e contingente dello spazio occupato. * L’essere è espressione del pensiero. Il pensiero pensa solamente e necessariamente essere. Il pensiero è solamente positivo e creativo. Il pensiero è dèmone, eros, dea. Questo quadro è tipico dell’orfismo pitagorismo. Il pensiero orfico è «contro» il mondo. Il mondo è un enigma. Infatti è niente. Allora, forse, anche il niente è, sia pure in un modo caratteristico? E come potrebbe darsi che il niente è? La risposta è: il niente che è non è il mondo, è il pensiero che il mondo non è. Il mondo è il pensiero della dea che lo pensa nullo. Dunque la dea sta pensando che il nulla esiste «solo» nell’essere. Ma come è possibile ciò? È possibile raggiungendo il punto immobile dal quale origina la rotazione. Dal centro, oltre la Porta. * Il sapere finale e conclusivo consiste nel cogliere il significato di quanto si è appreso. È questo il passaggio dal sapere al capire. Questo passaggio è poi, in ultima analisi, il passaggio dal sapere all’essere. * L’essere di Parmenide, il senza determinazioni, l’onninclusivo, la sfera, il pieno, è l’ultima versione logico matematica del cháos di Anassimandro. Il nome essere traduce rigorosamente ápeiron, ápeiron è il «senza attraversamenti», il «pieno», il «non separato da niente». * I pensatori antichi si sentono rigorosamente tenuti a commentare inter- pretare spiegare l’intuizione tradizionale originale. L’ardimento del pensiero non ha niente a che vedere con l’imperativo della modernità e dell’innovazione. Questo imperativo è una versione degradata e decadente del compito dell’originalità. Per Anassimandro e per Parmenide il pensiero non deve essere originale nel senso della spregiudicatezza, deve invece pensare l’origine, la arché. Parmenide sta dietro a Anassimandro all’interno d’una tradizione importante e dominante. Non si tratta d’una corrente circoscritta a Elea o alla Jonia ma, se guardiamo ai nodi di fondo, d’un movimento molto vasto che ha il suo centro nell’Iran antico e che in Grecia prende il nome di orfismo. Naturalmente, come è stato ampiamente illustrato dagli studiosi, l’orfismo non essendo una chiesa organizzata s’impernia su sapienti individuali itineranti, specie di monaci filosofi e scienziati, di modo che è molto facile che le comuni basi vengano propagandate e interpretate con varianti di rilievo. Tuttavia non bisogna perdere di vista che tali varianti si tengono sempre su un nucleo tematico immutabile e rigorosamente conservato nella linea ininterrotta dai maestri ai discepoli, l’aurea catena. Cf. Walter Burkert, Weisheit und Wissenschaft: Studien zu Pythagoras, Philolaos und Platon, Nürnberg 1962, tr. ingl. Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, Cambridge Mass. 1972, 364, da integrare e correggere con il successivo L’orfismo riscoperto (1996) in Da Omero ai Magi. La tradizione orientale nella cultura greca, Venezia 1999, 72. * L’essere di Parmenide è perfettamente sovrapponibile allo ápeiron di Anassimandro. Se traduciamo il termine ionico con «non definito» o con «non definibile» (non definito poiché non è definibile), vediamo balzare in primo piano il significato di «non limitabile a un determinato», «non limitabile a un ente determinato», «non esauribile in un ente determinato». È questo il medesimo significato dell’essere parmenideo. Mediante esso si rende evidente che l’essere parmenideo è una rigorosa spiegazione dello ápeiron. Ma c’è un’altra decisiva ragione per riconoscere in Parmenide la riproduzione della medesima idea di Anassimandro: in Parmenide l’ontologizzazione della cosa determinata e il suo processo di formazione, il divenire della phýsis attraverso nascite e morti, sono ascritti a una colpa e a un errore della massa degli uomini fallaci e deviati. L’ontologizzazione del determinato appartiene al sapere falso e censurabile dei mortali. In Anassimandro, l’ente determinato sorge all’interno d’un contrasto che lo espone a un’infrazione che deve trovare la sanzione e tutto il divenire del mondo sta sotto una ferrea regola che lo condanna a un’incessante correzione. L’annullamento degli enti inframondani è il risultato della legge eterna. Ad applicarla provvede il tempo che fissa l’ordine del cosmo. * Nel Crono insenescente che fissa l’ordine si può riconoscere l’iranico Zurvan, il «tempo senza limiti». I suoi figli sono il Signore della verità e il Signore della menzogna, entità che inizialmente non hanno consistenza a sé e sono opzioni interne del Tempo indeterminato, pensieri e volizioni che si separano e intrecciano duellando. Da esse si proiettano nel cosmo le due dimensioni del sottile e del grossolano, dello spirituale e del materiale, della luce e della notte. Si tratta d’uno sfondo che è possibile riconoscere dietro i maestosi frammenti del poema di Parmenide. Numerosi e eccellenti studi hanno trovato e mostrato il legame di Anassimandro con la sapienza iranica, nella sua astronomia e nella sua idea etico giuridica dello svolgimento dei cosmi. Se fosse giusto il riferimento di Parmenide a Anassimandro e alla tradizione pitagorica, avremmo un ulteriore elemento di prova della matrice iranica della filosofia greca. * ápeiron è un negativo, e ciò indica che la filosofia greca è già metafisica al suo inizio. Il principio, la arché, è oltre le cose e il determinato, è ápeiron. Lo ápeiron è il metempirico. Questa svalutazione della mondanità è la posizione religiosa orfica. Ma, ci chiediamo, in che modo l’essere parmenideo, che è una sfera finita, potrebbe ripetere lo ápeiron di Anassimandro, se questo è lo sconfinato e il non finito? ápeiron non si deve tradurre con «senza confini» bensì con «senza determinazioni», lo ápeiron è infinito nel senso di indeterminato. Inoltre, nel tradurre e interpretare ápeiron, bisogna tenere presente che il processo della formazione da esso degli infiniti cosmi avviene per distacco. Una spinta rotatoria, una spirale a svastika, provoca il distacco iniziale di un germe, un gónimon, dal quale si staccano via via gli elementi primordiali in opposizione, caldo rado fuoco e freddo denso terra. Se la nascita dei mondi avviene per distacco, lo ápeiron è il «senza distacco», il «senza separazione», lo «aldilà del distacco», il «sopra il distacco». Ora, nell’indeterminato base d’ogni determinazione, si esprime e proietta l’unità originaria d’un pensiero che precede ogni differenza. Anche questa idea del pensiero principio è tipicamente orfica. Nel frammento 13 di Parmenide la daimon «creò mediante il pensiero» Eros primo fra tutti gli dèi. Il termine parmenideo (metísato) corrisponde al testo orfico del papiro di Derveni (mésato, cf. Burkert 1996, 80). Due idee circa il principio, che sia oltre le cose determinate (segnate peraltro da un destino di catastrofe) e che sia pensiero puro creatore, indicano che la filosofia greca nasce nell’orfismo. In analogia con la filosofia indiana, la filosofia greca è la riflessione di cerchie sapienziali esoteriche all’interno della nuova religione. * Lo ápeiron è il non determinato e il senza confini perché è un circolo. È infatti proprio del circolo il movimento rotatorio. Il circolo è senza confini in quanto ha l’inizio e la fine dovunque e non in un solo punto determinato. Ma il circolo che serra in sé il tutto non è altro che la riedizione filosofica di Okéanos, l’anello sconfinato che tiene in sé il cosmo. Questo Okéanos ritorna peraltro nella figura della moira che stringe l’essere di Parmenide impedendogli di non essere se stesso. Solo Heidegger ha centrato la lettura di Parmenide su questa moira. In conclusione, scopriamo che l’essere sferico di Parmenide riformula lo ápeiron di Anassimandro anche perché scopriamo che in esso si ripropone la rilettura della forza sacrale dell’anello che tiene in sé il tutto e lo costringe a essere effettivamente il tutto. * Heidegger, e non da solo, intende lo «è» di Parmenide nel senso di «è presente». Essere equivarrebbe a essere qui, essere presente, manifestazione, disvelamento, alétheia. Ma se quello di essere è il concetto di confuso, essere presente può volere dire soltanto che ciò che c’è è confuso. Questo non è affatto la alétheia. La alétheia non è l’epifania della confusione. Lo «eínai» di Parmenide è un concetto negativo, allo stesso modo di ápeiron. Il concetto di essere serve solo a confutare il reale per abilitare l’accesso a un altro piano. Il mondo è un enigma e, una volta risolto l’enigma, «l’uomo che sa» finalmente «è». C’è un’interrelazione intima tra conoscere, capire ciò che si è conosciuto, essere. Si «è» in quanto si è capito ciò che si è saputo e appreso. Tutti questi passaggi sono connessi e reciprocamente necessari. Lo stato di «eínai» è conseguente al capire il senso di ciò che si è appreso. In altre parole, si accede allo stato imperituro e perfetto solamente «dopo» avere sciolto l’enigma del mondo mortale. Dal che si ha la conferma che avevamo annunciato: che nel suo fondo l’enigma del non essere è l’enigma dell’essere. Allo stesso modo va per l’orfismo originario non ancora popolarizzato e deformato nella dottrina dell’attesa della risurrezione post mortem. La liberazione si realizza necessariamente in vita, dopo è troppo tardi e occorrerà aspettare un altro turno. Il racconto di Er non lascia dubbi. Il problema va risolto finché c’è, non dopo. Il problema da risolvere è la vita, il mondo che «c’è», non un altro. Dopo ci saranno, se mai, altri problemi, non quello. * L’ultimo a proclamare quest’idea eroica e aristocratica fu Dante, mentre montava già l’inondazione genericista e materialista: «per entro i luoghi tristi venni stamani e sono in prima vita ancora che l’altra sì andando acquisti» (Purgatorio VIII, 58). VIII Le vie Nella frase «l’essere è», il primo concetto di essere e il secondo concetto di essere non sono affatto lo stesso. L’essere di «essere» e l’essere di «è» non sono lo stesso. O, per lo meno, non lo sono nel senso della formula dell’identità. La frase «l’essere è» non è un giudizio analitico, con implicita ontologizzazione della copula. Non è sicuro che cosa voglia dire il secondo verbo essere, «è». Ma forse non siamo lontani dal vero quando ipotizziamo che «è» vuole dire «c’è», «è con», «è nel continuo», «è nell’uno». Il primo «essere» è invece divenuto, oramai, più chiaro: esso (eínai) è indubitabilmente quello del frammento 3: «lo stesso del pensare.» L’essere che «è», dunque, è quello che è lo stesso del pensare: l’essere, il medesimo del pensare, «è». «È» o «c’è»? Se «è», «c’è». Questo essere «medesimo del pensare» è un presupposto enigmatico a noi ignoto, il quale viene descritto unicamente mediante negazioni. Sono perciò propenso a ritenere che si tratti del «tutto» indeterminato e immenso, della sfera assoluta, in altre parole dello ápeiron. Il pensiero «deve» pensarlo, «è necessario» che lo pensi. Il tutto, l’assoluto, è il termine inevitabile e necessario del pensiero. Il pensiero pensa necessariamente l’assoluto. Questo è il suo dovere e obbligo. E l’assoluto «è». Dire che «l’essere è» significa dire che il pensiero deve pensare al positivo, necessariamente. Il Signore sapiente (il pensiero) crea mondi al positivo. * «… questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono (eínai mè eónta). Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero (7, 1–2).» «… resta solo un discorso della via: “che è” (8, 1–2).» * Frammento 2: «ti dirò quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che “è” e che non è possibile che non sia… e l’altra che “non è” e che è necessario che non sia (2, 1–2).» La dea vuole che l’iniziato segua la via che porta al pensiero che l’«essere è», questa è la via dell’uno ed è quella del Signore sapiente. Al contrario, egli deve allontanarsi dalla via che porta al pensiero che l’«essere non è (= non essere è)», questa è infatti la via del due ed è quella del dell’ignoranza. Signore della morte e Entrambe le vie ci sono, tanto ci sono che si contrastano. In somma, la via del non essere non è nulla, essa esiste e determina la condizione della maggioranza degli uomini. Questo ci prova che l’espressione «l’essere è» non è affatto un giudizio analitico, bensì significa «l’essere che è pensabile». La dea ordina, cioè, di pensare il solo essere che a suo avviso meriti di essere pensato, l’essere uno e continuo senza vuoti. Reciprocamente, l’espressione «l’essere non è» significa «l’essere che non è pensabile». Infatti secondo la dea non si deve seguire la via per la quale il non essere è, e ciò in quanto tale non essere non è pensabile, e non è pensabile in quanto il non essere è il vuoto e il pensiero non deve pensare il vuoto, il discontinuo, il due metafisico. Tale via deve essere scansata non tanto perché non esista, ma perché è la via della morte. Resta da capire, naturalmente, come sia possibile una via del non essere nel pieno compatto esclusivo di essere. L’enigma si scioglie a partire dalla seguente presa di coscienza: quella via c’è ed è percorsa dagli uomini mortali, ma si tratta d’una via d’inversione che è destinata allo scacco. Il Signore del male è stato intrappolato in un mondo destinato all’annullamento. Al vero annullamento che consiste nel pensiero che esso è impensabile. IX Conclusione: il passaggio di stato Nell’universo compatto di Parmenide, in che modo l’errore può trovare posto? L’errore è una tappa del viaggio, precisamente il punto in cui viene chiarito che esso è, appunto, un errore. In quel punto, però, l’errore non si chiarisce soltanto come un errore ma si presenta altresì come un enigma. L’uomo che sa deve, in quel punto, spiegarsi anche questo enigma. D’altronde, a detta della stessa dea che accoglie l’iniziato, il raggiungimento del sapere totale passa attraverso il superamento di quest’ultima prova. Ma nell’universo compatto di Parmenide lo spostamento o il cambio di luogo è mera illusione e non esiste, e il viaggio non si svolge perché non si può svolgere. L’incontro con la verità è già avvenuto da sempre e il viaggio, stando alla metafora usata, è stato compiuto ab aeterno, nell’immutabile e immobile eterno presente dell’essere. Sia il viaggio sia il cambiamento di luogo sia ogni cambiamento non possono corrispondere a salti di essere all’interno dell’unico essere che è. L’enigma dell’errore si converte, per le suddette ragioni, nell’enigma dell’essere. Colui che compie il viaggio, abbiamo visto con Snell, «già» sa. Né potrebbe essere altrimenti, dato che nell’universo perfetto e immutabile dell’assolutamente pieno e dell’eterno presente non c’è posto per una verità in itinere che si articoli da un grado incompleto alla completezza. E come sarà possibile che taluno sappia e talaltro non sappia dato che ognuno sta e vive nell’essere pieno che è verità senza salti e differenze interne? Come sarà mai possibile che, nel pensiero che è «lo stesso» dell’essere (frammento 3), si trovi anche il non essere, ancorché negato? La domanda è legittima perché la negazione è, in ogni caso, un pensiero. Ipotizzare che la verità sia la negazione della negazione (per confutazione o autoconfutazione) non è troppo hegeliano. Si tratta di un’idea caratteristica della tradizione matematica pitagorica: la prova per assurdo, lo élenchos. In Hegel è il Soggetto che sussume l’errore e lo conserva in sé inverato. In Parmenide l’errore è un’alternativa metafisica, non è un grado interno del vero. L’impossibile (l’errore) è bensì necessario ma nel senso che è necessario che sia impossibile. * In proposito, abbiamo rilevato in precedenza che in Parmenide si propone un tipico tema pitagorico, la natura dell’uno: perché l’uno è uno, perché l’uno unisce? Ora, l’uno pitagorico (idem quello di Parmenide) non è indifferenziato e amorfo, bensì è forza unificante, la quale comporta una tensione vitale interna. Tuttavia, se l’errore rappresenta un piano prospettico interno all’essere, la presenza di questo piano non deve essere spiegata nei termini d’una rottura dell’essere. Ma può l’essere avere dei «piani» interni? Come potrebbe averne, essendo continuo e omogeneo e compatto? L’enigma di Parmenide sta qui, nella natura dell’uno. Ne riassumo i termini. L’uno unisce, ma non unisce qualcosa che, altrimenti, sarebbe niente. L’uno non risulta di tanti niente sommati e accumulati fino a raggiungere l’essere. Nessuna somma di nullità per quanto numerose può mai arrivare a dare l’uno. L’uno unente sa pertanto che ciò che esso unisce è di per sé un niente eppure dentro la sua unità è qualcosa. L’essere è oltre le nullità e «prima» e «dopo», assolutamente indipendente da esse, l’essere ingenerato e immortale è il «non mondo» e lo è ab aeterno, nell’eterno presente. Non è il non essere a riempire l’essere, ma è l’essere a riempirsi di non essere. * Questa sopra riassunta è una posizione mistica che propone una via di rifiuto del mondo con un salto estatico. Con Parmenide rientriamo nel quadro della forte intensificazione monoteistica che si va affermando nel vicino oriente, in Egitto, in Israele. La sua filosofia sembra rispondere a una difficoltà emersa nel quadro religioso dell’Iran antico con l’accelerazione del riformatore Zarathustra. In quale maniera il Signore della verità riesce a dominare su tutto il cosmo e ad acquistare il primato? Ohrmazd, principio della verità, vincerà su scala metafisica e escatologica Ahriman, principio della menzogna e dell’errore, perché lo ha attratto a combattere nel mondo che ha segretamente e astutamente destinato alla catastrofe. Ahriman, nel combattimento senza tempo, è dalla parte del mondo che cade e che cade eternamente. Quindi Ahriman, il non essere, consiste solo dentro il pensiero sovrastante di Ohrmazd in qualità di annullato e dissolto. Tradotto in termini parmenidei, le illusioni e il mondo da esse costituito altro non sono che il rovescio rovesciato dell’essere unico e indivisibile. * Ma che genere di combattimento sarebbe mai quello con un non essere che sia, appunto, tale, cioè un niente? La risposta è che Ahriman è niente soltanto «dopo» il combattimento. La menzogna è tale solo dopo la confutazione. Ma il dopo sta nell’eterno presente e ha un senso unicamente all’interno della tensione dell’essere che si afferma. L’essere di Parmenide è alla fine del mondo da sempre ed è da sempre la fine del mondo. Per essere, la sfera unitaria di Parmenide batte una resistenza e «fa forza», come esplicitamente si dice. La sfera non è una realtà pacifica e banale ma, per riempire di sé il mondo, fa forza e lo sopprime. E l’uomo che sa è l’uomo trasvalutato che, alla fine del viaggio, è saltato di grado, oltre il mondo vano e vuoto. Che, poi, il viaggio sia uno spostamento sui generis, e non un cambio impossibile di luogo, fa parte dell’enigma. Il cuore di questo enigma riguarda l’interrelazione intrinseca di capire e essere. Si «è» quando e in quanto si è capito. È «dopo» avere sciolto l’enigma del mondo mortale che si accede allo stato perfetto e assoluto di «eínai». L’enigma di Parmenide è risolvibile e risolto unicamente da colui che passa di stato, accolto dalla dea sulla porta della luce e delle tenebre, sposo delle immortali figlie del sole.