Da: Dizionario biografico degli Italiani, vol. 60, Roma 2003, pp. 292-301
GUARDI Francesco
[p. 292] GUARDI, FRANCESCO. - Nacque a Venezia il 5 ott. 1712, quinto figlio di Domenico e
Maria Claudia Pichler. Fu battezzato il giorno stesso con il nome di Francesco Lazzaro nella parrocchia
di S. Maria Formosa (Simonson, p. 78). A questa data, infatti, e già da qualche anno, la famiglia del G. si
era trasferita in Barbaria delle Tole, nei pressi della chiesa dell’ospedaletto (Montecuccoli degli Erri, p.
62). Qui il G. trascorse la sua giovinezza e probabilmente continuò a vivere accanto alla madre, forse
fino alla morte di lei nel 1743, quando ormai il nucleo familiare si era sciolto da tempo. Nulla si sa
intorno alla sua vita privata negli anni giovanili e pochissimo purtroppo anche a proposito dei suoi inizi
di pittore, della sua formazione, del suo apprendistato.
Verosimilmente acquisì i più elementari rudimenti molto precocemente, visto che – se non poté
imparare direttamente dal padre pittore, che perdette quando aveva solo quattro anni – ebbe certo in
casa l’esempio del fratello Giovanni Antonio, maggiore di lui di tredici anni e già avviato sulle orme
paterne. Come sempre accade a fronte di una grave penuria di dati certi, molto si è speculato e
dibattuto in merito alla delucidazione delle componenti che dovettero concorrere a formare la
personalità artistica del G., a orientarne le inclinazioni e le scelte. In tal senso il problema si è incrociato
con l’altro relativo all’esistenza di una bottega familiare, già presuntivamente guidata dal padre
Domenico, e ai rapporti in essa vigenti. La forte differenza d’età tra i due fratelli e la considerazione del
peso delle consuetudini tradizionali nella gestione di tali imprese di famiglia hanno indotto a
immaginare che, durante gli anni del suo tirocinio, il giovane G. si trovasse in una posizione
completamente subalterna rispetto al primogenito Giovanni Antonio, tanto per quel che doveva
concernere l’organizzazione materiale del lavoro, quanto anche rispetto agli indirizzi stilistici (Muraro).
Simili considerazioni hanno contribuito a radicare l’immagine di una struttura fortemente gerarchizzata,
in cui il capobottega Giovanni Antonio avrebbe dispoticamente - e persino gelosamente - controllato e
condizionato l’educazione artistica e la prima attività dei fratelli minori, compreso l’ultimogenito
Nicolò, fino alla sua morte, nel 1760. A questa immagine ha dato forza e colore pure la fortuita
testimonianza – segnalata già da Fiocco (1923, p. 17) – di Giacomo Casanova, che nelle Memorie
ricordava come il fratello Francesco, poi non indegno pittore di battaglie, avesse frequentato in
gioventù lo studio di un pittore di nome Guardi e come colà egli si sentisse oppresso [p. 293] dalla
«tirannia» del maestro. Ciò è valso a suggerire anche l’ipotesi, sostenuta per primo appunto da Fiocco,
che la vocazione del G. al vedutismo, che doveva fare la fortuna della sua carriera, poté dispiegarsi e
realizzarsi solo dopo la morte dell’autoritario fratello. Fino al 1760 egli sarebbe stato invece
sostanzialmente un pittore di figura, in linea col carattere delle commissioni assunte dalla bottega di
Giovanni Antonio, e avrebbe dovuto coartare le sue autentiche aspirazioni per dedicarsi a un tipo di
pittura che non gli era congeniale. Gli studi successivi hanno poi in parte ridimensionato la plausibilità
di un tale drastico scenario, sia sulla base di un più attento esame dei fatti stilistici, sia sulle evidenze
documentarie emerse nel frattempo. Non solo molti dei dipinti di figura attribuibili con certezza al G.
possono essere affidabilmente riferiti a datazioni posteriori al quinto decennio, ma non è altresì da
escludere che egli abbia cominciato a esercitarsi nel genere della veduta anche prima della morte del
fratello; senza contare che i risultati delle ricerche più recenti hanno messo seriamente in dubbio
l’ipotesi troppo acriticamente acquisita che Giovanni Antonio disponesse dei mezzi e dello status
necessari ad amministrare una vera e propria bottega, se negli anni Venti non poteva permettersi di
comprare neppure un mantello e almeno dal 1730 figurava tra i dipendenti più miseramente retribuiti
nel personale di casa del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, nelle carte del quale,
peraltro, il nome del G. non compare affatto (Montecuccoli degli Erri). Ciò non significa che si debba
concludere che i due fratelli non abbiano mai lavorato insieme; ma la loro collaborazione dovette essere
probabilmente improntata ad altro tipo di rapporti e forse più occasionale di quanto non si sia ritenuto
finora.
Il passo ben noto del testamento del conte Giovanni Benedetto Giovanelli, che nel 1731 cita un
imprecisato numero di copie «fatte dalli fratelli Guardi» (ibid., p. 65), oltre a costituire il più precoce
riferimento all’attività artistica del G., testimonia che anch’egli, non diversamente dal fratello, esordì
come pittore di copie per i nobili Giovanelli, che già erano stati committenti e protettori del padre, e si
erano presi a cuore le sorti della famiglia dopo la sua prematura scomparsa. Sennonché questa attività in
cui il più giovane certo coadiuvava il fratello maggiore nella realizzazione di copie di modesto valore
non poté protrarsi che per breve tempo, non potendo rimontare troppo indietro rispetto alla data 1731,
ché allora il G. contava appena diciannove anni, né spingersi troppo avanti, dal momento che al più
tardi nel 1730 – e forse già da più di un anno – Giovanni Antonio era passato al servizio di
Schulenburg, e in ogni caso non oltre il 1732 o il 1734, quando morirono prima Giovanni Benedetto
Giovanelli e quindi il fratello Giovanni Paolo. Intorno a questa data il G. potrebbe aver anche
frequentato, o avuto dei contatti, con lo studio di Giambattista Tiepolo (il quale peraltro era divenuto
suo cognato già nel 1719), come farebbero pensare alcuni disegni conservati a Berlino (Gemäldegalerie),
copie evidenti da altrettanti schizzi dello stesso Tiepolo che Knox (1976; 2002) ritiene preliminari agli
affreschi di villa Loschi a Biron del 1734, data intorno alla quale lo studioso sarebbe propenso a fissare
anche la cronologia dei disegni guardeschi.
Un’ulteriore traccia che pure si è ritenuta utile a far luce sul problema delle possibili frequentazioni
del giovane G. ci viene poi dai Notatori del diarista Pietro Gradenigo, il quale menziona il pittore
dicendolo «buon scolaro del rinomato Canaletto» (Livan, p. 106).
Se di un vero e proprio alunnato si sia trattato è difficile dire, e molti lo escludono; ma in ogni caso
questo dovrebbe aver avuto luogo prima della partenza di Giovanni Antonio Canal per l’Inghilterra, nel
1746 – cosa peraltro non troppo difficile dato che il celebre vedutista abitava a S. Maria Formosa, in
Barbaria delle Tole, vicino quindi alla casa del G. – oppure dopo il suo ritorno a Venezia nel 1755
(Byam Shaw), quando però il suo presunto «scolaro» avrebbe avuto già quarantatré anni.
Di un possibile, precoce contatto con Michele Marieschi si sono invece fatti portavoce soprattutto
Morassi (1959), il quale riteneva che tra 1735 e 1744, anno della morte, il vedutista veneziano avesse
frequentato e collaborato con i fratelli Guardi, e L. Rossi Bortolatto, che fa del G. un allievo diretto di
Marieschi. Né è mancato chi, come Rasmo, abbia suggerito l’ipotesi di un periodo di apprendistato
austriaco, ambiente non estraneo ai Guardi, donde il pittore avrebbe riportato stilemi caratteristici poi
rintracciabili nelle sue opere di figura.
Se frutto di congetture non possono che essere purtroppo i tentativi di sceverare i debiti di
formazione del giovane G., altrettanto ipotetici restano per ora i propositi di far luce sugli inizi della sua
carriera di pittore, e più in particolare di chiarire la controversa, spinosa questione del suo approdo al
vedutismo. Problemi tanto più [p. 294] ostici, stante anche la mancanza di documenti che soccorrano
nell’oggettiva difficoltà di mettere ordine cronologico in uno sterminato corpus di opere i cui confini
sono ancora tutt’altro che certi.
Degli 874 numeri schedati col solo riferimento al G. nel monumentale catalogo ragionato dei dipinti
curato da Morassi (1973) – e non per nulla organizzato tematicamente invece che cronologicamente – i
quadri firmati sono meno del 10%, ma quelli datati si contano su una mano. Così la pressoché totale
mancanza di punti fermi per il periodo compreso tra l’inizio degli anni Trenta e la metà del secolo ha
minato la possibilità di pervenire a una scansione ragionevolmente affidabile della produzione giovanile.
A questo primo «momento» – da intendersi in senso lato – vengono ricondotte cose diverse,
variamente ascritte alla mano del pittore, come la lunetta con La visione di s. Francesco d’Assisi posta in
opera nella sagrestia della parrocchiale di Vigo Anaunia entro il 1738, sotto la supervisione di Giovanni
Antonio; le quattro telette con le Storie di Abramo e La pesca di Tobiolo del Museum of Fine Arts di
Cleveland, che riprendono motivi da Gian Battista Piazzetta (Sacrificio di Isacco) e da Domenico Fetti
(Tobiolo); o anche alcune delle «turcherie» che tra il 1741 e il 1743 Schulenburg richiedeva
freneticamente al suo copista di casa, e che Giovanni Antonio potrebbe aver subappaltato al fratello – o
ai fratelli – per accelerare i tempi di consegna e di guadagno.
Tra le opere attribuite con maggior sicurezza al G., il Santo in preghiera con un ostensorio, donato al
Museo nazionale di Trento da G. Fiocco, è tradizionalmente considerato opera della giovinezza
dell’artista, tra 1740 e 1750, benché di recente se ne sia proposta una posticipazione più o meno
sensibile. Il dipinto, firmato per esteso a tergo, proviene da Castel Thun, in Val di Non, e vicinissimo a
Vigo Anaunia, dove i fratelli pittori potevano contare sui buoni uffici del loro parente, don Pietro
Antonio Guardi, e sui contatti già avviati con la famiglia Marcolla, committente di Giovanni Antonio.
Si tratta di un’opera certa, puntello decisivo, indipendentemente da una datazione più precisa, alla
definizione dello stile del G. quale pittore di figura e delle inflessioni della sua maniera, che qui si
denuncia caratteristicamente improntata a un fare più massiccio e faticoso, nelle profilature tormentate
e rattenute da un chiaroscuro compatto, se confrontato con lo sfarfallio delle superfici nei dipinti più
tipici di Giovanni Antonio: una maniera tanto più evidente qui nella trasparenza del modello
piazzettesco del S. Giacinto nella pala di S. Maria del Rosario dei gesuati di Venezia da cui la figura del
G. prende spunto.
Entro la fine del quinto decennio, o poco oltre, dovrebbe infine collocarsi la celeberrima coppia di
pendants del Museo di Ca’ Rezzonico a Venezia: Il ridotto e Il parlatorio delle monache. Le tele, dopo
l’annoso, inevitabile balletto attributivo, sono ora pressoché unanimemente giudicate opera del pittore
veneziano, ispirate alle tipiche scene d’interno che Pietro Longhi dipingeva negli anni Quaranta, come
attestano i puntuali calchi ravvisabili nel Parlatorio (Pedrocco, 2002). Anche lo stile e la tecnica
esecutiva dei grandi quadri di Ca’ Rezzonico sembrano essere condizionati dal fare minuto del modello
longhiano che, forse per necessità di adeguamento a specifiche richieste di committenza, esercitò una
significativa influenza sul G. intorno alla metà del secolo, provata, oltre che dalle varie repliche e
varianti con scenette di interni, anche da derivazioni dirette come la serie dei Sette Sacramenti compiuta
da Longhi per la famiglia Querini e trascritta dal G. nei celebri disegni del Civico Museo Correr. Un
non dissimile gusto analitico e aneddotico sembra caratterizzare pure l’insegna realizzata per l’arte dei
coroneri (Venezia, Ca’ Rezzonico). La tavoletta, spesso attribuita anche a Giovanni Antonio, quando
non alla collaborazione di entrambi i fratelli, reca la data 1750, che ne farebbe – se effettivamente di
opera franceschiana si trattasse – una delle pochissime quanto preziose testimonianze sicuramente
collegabili a una precisa cronologia, nonché l’ulteriore indizio di un’ampia ed eclettica propensione
dell’artista a sfruttare le più diverse occasioni di committenza e saggiare i più vari settori del mercato.
Allo stesso anno 1750 risale infatti un altro documento non poco eloquente sotto questo profilo,
vale a dire il ben conosciuto scambio epistolare tra il pittore e Carlo Cordellina, reso noto a suo tempo
da Simonson (p. 76). Le due lettere del G. indirizzate al celebre avvocato vicentino, che agiva da
intermediario per un altro importante committente, Lorenzo Grimani, [p. 295] testimoniano a un
tempo la piena disponibilità dell’artista ad accaparrarsi un contratto probabilmente prestigioso, anche a
costo di ridimensionare l’onorario pattuito, ma anche la delusione di chi non ottenne risposta alcuna
dopo aver sottoposto al giudizio dell’interessato quegli «sfortunati modelli» che evidentemente non ne
incontrarono il favore. Il pur marginale incidente mostra una volta di più, giusta la lettura di Puppi (p.
136), la scarsa considerazione tributata alla pittura dei Guardi dalla committenza ufficiale e altolocata,
anche se a raccomandare il pittore in questo caso fu verosimilmente un consulente "accreditato" come
Giambattista Tiepolo, che per Cordellina aveva licenziato gli aulici affreschi della villa di Montecchio e
col quale aveva conservato amichevoli rapporti.
Relativamente meno oscuri sono gli anni successivi alla metà del secolo, almeno per quel che
interessa la vita privata dell’artista. Il 16 maggio 1756, a quasi quarantaquattro anni, egli stipulò un
contratto di matrimonio con una tale Marianna Dimurat, figlia di un sarto di origine armena piuttosto
benestante, il quale avrebbe dovuto infatti elargire una dote del valore di 2000 ducati, che certo
sarebbero giunti benvenuti nella congiuntura economica non proprio rosea che doveva assillare il G. in
quel momento. Sennonché il padre della futura sposa fu tutt’altro che sollecito nella presentazione
dell’inventario dei beni da dare in dote richiesto dal notaio, e anzi la dilazionò finché l’accordo si
dovette dichiarare nullo. Che il pittore fosse comunque in cerca di una moglie potrebbe farlo sospettare
il fatto che solo otto mesi più tardi, il 15 febbr. 1757, nella chiesa di S. Michele di Murano, egli convolò
a nozze con l’appena più che trentenne Maria Mattea Pagani, figlia del fu Matteo, pittore, e di Anna
Maria Faggion. Nel processo «di stato libero» celebrato qualche giorno prima delle nozze, l’11 febbraio,
il G. e la futura consorte convocarono in veste di testimoni Nicolò Guardi, fratello dello sposo, don
Domenico Faggion, zio della sposa, e un certo don Domenico Santini. Dalle testimonianze risulta
innanzitutto che a quella data il G. dimorava nella parrocchia dei Ss. Apostoli, ma che con il fratello
Nicolò erano «sempre stati assieme nella casa paterna», né mai il G. era «partito da Venezia»
(Montecuccoli degli Erri, pp. 61 s.). A parte quest’ultima dichiarazione, che si è voluta intendere come
prova di un’ininterrotta permanenza del G. a Venezia (la deposizione potrebbe anche non essere
fededegna, come in fondo non lo era il silenzio a proposito del precedente contratto matrimoniale), si
può notare che la «casa paterna» menzionata da Nicolò, e vicino alla quale dichiarò di aver abitato anche
Domenico Faggion, deve probabilmente identificarsi con l’abitazione in Barbaria delle Tole dove i
Guardi dividevano l’affitto con un Iseppo Faggion almeno dal 1712 e dove videro la luce i due fratelli.
L’ultimogenito si era sposato già nel 1738 e dal 1750 si era trasferito nella contrada dei Ss. Apostoli, in
fondamenta del Squero. È dunque possibile che il G., che nel 1757 risultava anch’egli nella parrocchia
dei Ss. Apostoli, potesse essere ospite del fratello minore. In ogni caso è Nicolò che il G. si scelse come
testimone, invece del maggiore Giovanni Antonio, che pure era a Venezia e viveva nella stessa
contrada, se non addirittura nella stessa casa.
Ma già qualche tempo dopo, al più tardi nel 1760, il G. e la consorte dovevano essersi trasferiti
altrove, dacché nell’agosto di quell’anno venne battezzato il loro primogenito, Vincenzo, nella
parrocchia di S. Maria Formosa, dove evidentemente i coniugi erano andati ad abitare.
Nella medesima parrocchia furono pure battezzati gli altri figli del G.: Giovanni, nel 1762, che
sarebbe morto un mese dopo, Giacomo, nel 1764, che avrebbe seguito la carriera paterna, e Giovan
Battista, nel 1769, che non sopravvisse che qualche giorno, come pure la madre, fiaccata da una «febbre
maligna, sendo già puerpera» (Simonson, p. 81). A proposito della famiglia del G. Simonson (p. 14), che
del pittore fu il primo biografo moderno, riportava, all’inizio del secolo scorso, una notizia basata su sue
personali informazioni, secondo la quale il pittore avrebbe avuto anche una figlia, tale Maddalena, che
sarebbe poi fuggita in giovane età in Inghilterra con un nobile inglese conosciuto a Venezia. Ma di tale
circostanza non è emersa, finora, alcuna traccia documentaria.
Fu probabilmente verso la metà degli anni Cinquanta, forse in un momento non facile della sua
carriera, che il G. cominciò a dedicarsi al genere della veduta. Dopo decenni di proposte difformi, e
spesso contrastanti, che tendevano a collocare gli inizi del vedutismo guardesco in momenti assai
diversi del suo percorso artistico, con ipotesi variabili che andavano dai primi anni Trenta a quelli
successivi al 1760, la critica sembra ormai propensa a ritenere – pur [p. 296] nella molteplicità delle
singole valutazioni di merito – che la sua «svolta» vedutistica non possa farsi risalire troppo oltre la metà
del sesto decennio. Tale posizione pare oggi comprovabile non solo a seguito di un più attento e
puntiglioso esame dei dettagli topografici presenti nelle immagini dipinte (che spesso forniscono utili
indizi di cronologia, almeno come termini a quo), ma anche grazie alla fortunata e per molti versi
decisiva scoperta, segnalata da Succi (1993), di una tela firmata e datata dal G. 1758: La festa del giovedì
grasso in piazzetta, già in collezione Watkins a Londra e passata all’asta presso Sotheby’s di New York nel
1990 (ripr. ibid., fig. 10). Si tratta di un’opera di importanza fondamentale, non solo perché è l’unico
quadro di veduta sicuramente autografo finora noto a essere stato firmato e datato dall’autore, ma
anche perché fornisce un punto di riferimento certo intorno al quale disporre una scansione degli
sviluppi stilistici dell’opera del G. nel genere di pittura che certo più gli fu congeniale e che ne ha
giustamente decretato la fama. Il dipinto manifesta inoltre caratteristiche esecutive e compositive, quale
il probabile uso della camera ottica, che suggeriscono come il pittore dominasse, a quella data, già con
una qualche sicurezza i parametri del canone canalettiano dal quale evidentemente dipende da vicino.
Ciò porterebbe a far pensare che il G. avesse cominciato a dipingere quadri di veduta sul modello del
Canaletto, già da qualche anno addietro, più o meno in coincidenza con il ritorno a Venezia di
quest’ultimo (ipotesi peraltro già avanzata da tempo da vari studiosi: Byam Shaw; Mahon; Binion), forse
spinto dalla difficoltà di inserirsi stabilmente in un circuito di committenze pubbliche o altolocate come
«pittore di storia» senza un credibile pedigree accademico, e magari tentato dalla crescente fortuna che il
genere vedutistico veniva incontrando in quegli anni anche grazie ai favori di un pubblico di turisti e
acquirenti occasionali. Si ha conferma dalle note del senatore Pietro Gradenigo che il 25 apr. 1764 il
pittore espose presso le Procuratie due tele «non piccole» con le vedute di piazza S. Marco e del ponte
di Rialto, realizzate con l’ausilio della camera ottica, a istanza di un innominato «forestiere inglese»,
guadagnandosi per altro l’«universale applauso» degli astanti (Livan, p. 105).
Ma se si conoscono solo parzialmente il contesto, le dinamiche, le singole personalità che animavano
un simile mercato, si può nondimeno immaginare che si trattasse di un mercato sufficientemente
redditizio, non necessariamente di soli stranieri in cerca di souvenirs, e forse piuttosto di professionisti,
mercanti, chierici locali. Un pubblico magari meno esigente e ortodosso in fatto di gusto rispetto ai
cultori del Canaletto, certo più eterogeneo, ma almeno tanto in espansione da giustificare la pletora di
originali, varianti, repliche, copie uscite dalla bottega del G. – e naturalmente non tutte di sua mano –
nel giro di un trentennio. Una situazione di cui è un’eco nella lettera che l’ispettore alle Pubbliche
Pitture di Venezia Pietro Edwards scrisse ad Antonio Canova nel 1804, notando come «le cose del
Guardi» fossero «scorrette quanto mai, ma spiritosissime, e di queste vi è adesso molta ricerca, forse
perché non si trova di meglio» (Haskell, p. 276): testimonianza un po’ tardiva e forse stereotipata, ma
non per questo meno significativa, visto che lo stesso Edwards era stato committente, o intermediario,
dell’artista.
A questa prima fase della stagione vedutistica guardesca, intorno alla tela già Watkins, si possono
assegnare dipinti che prospettano scelte tematiche e iconografiche piuttosto variabili, come La piazzetta
verso S. Giorgio Maggiore del Museo civico L. Bailo di Treviso, esemplata su un’incisione tratta dal
Canaletto; La veduta dell’Arsenale della National Gallery di Londra, una delle poche tele dedicate a questo
soggetto meno turistico; la curiosa panoramica notturna della Piazza S. Marco, conservata all’Ashmolean
Museum di Oxford, forse «memoria» – come è stato suggerito (Succi, 1993) – della solenne cerimonia
religiosa celebrata in occasione dell’elezione al soglio pontificio del veneziano Clemente XIII (Carlo
Rezzonico) il 6 luglio 1758; o ancora la grandangolare infilata delle Procuratie nuove nella tela del Museo
nazionale di Stoccolma.
Entro la metà del settimo decennio il G. si provò anche in un genere particolare di vedute, che
Morassi (1973) definì «lagunari», in ossequio al comune denominatore tematico e tipologico, estraneo
per molti versi ai moduli di più stretta osservanza canalettiana, e che in effetti contrassegna un episodio
relativamente autonomo e circoscritto nel corpus della sua produzione matura, forse scaturito da
personali curiosità sperimentali, forse sollecitato da eventuali opportunità mercantili. In dipinti quali [p.
297] i pendants provenienti dalla collezione del duca di Buccleuch a Edimburgo (La laguna con le
Fondamenta nuove e Il canale della Giudecca con le Zattere, ripr. in Morassi, 1973, figg. 584, 588) o la
suggestiva veduta dell’Isola di San Cristoforo presso Murano, già in collezione Boisvouvray a Ginevra (ibid.,
fig. 606), a dominare non sono i monumenti celebri e le piazze affollate che sarebbero divenuti poi il
repertorio abituale dell’artista, ma la serena, immota distesa d’acqua, i caseggiati lontani, minuscoli sotto
il vasto chiarore del cielo.
Che in questi anni il G. fosse proclive a sondare varie possibilità espressive, tanto più congeniali ove
potesse valersi d’una traccia donde prendere le mosse, starebbe poi a indicarlo anche il capitolo dei
«capricci». Quelle composizioni di fantasia, in cui si mescolavano paesaggio ideale e gusto del
rovinismo, arcadia e pittoresco, certo dovettero sembrare uno sbocco tanto ovvio quanto utile alla vena
di un pittore avvezzo alla citazione, al montaggio, al calco, alla copia. I suoi modelli in questo campo
furono in primo luogo Marco Ricci e Luca Carlevarijs, scomparsi peraltro già da tempo, entrambi nel
1730. Lo si può giudicare, per esempio, considerando il celebre Capriccio architettonico con rovine romane già
presso lo Smithsonian Institute di Washington (ibid., fig. 658), orgogliosamente firmato a grandi lettere
capitali, ma a evidenza copiato dal dipinto riccesco del Museo di Vicenza; oppure i vari capricci di
marina, come la grande composizione del Metropolitan di New York, proveniente insieme con altre
due tele gemelle dal castello di Colloredo, vicino a Udine: Arco in rovina e porto di mare, opera tarda,
databile sulla seconda metà dell’ottavo decennio, ispirata alle pittoresche marine portuali di Carlevarijs.
Ma i motivi cui il pittore liberamente attingeva potevano essere assai diversi per carattere e provenienza.
Il noto Capriccio con rovine romane e figure pastorali, conservato al Museo Heylshof di Worms e reputato
pendant del già citato dipinto di Washington, utilizza per l’immagine dell’imponente rudere classico come ha indicato Succi (1993) – un’invenzione di Gianfranco Costa pubblicata nel 1748 nella sua Suite
des plus célèbres bâtiments des Grecs, servendosi però della trascrizione in controparte trattane dall’incisore
Johann Georg Hertel di Augusta dopo il 1760. Ciò che tra l’altro serve a spostare sensibilmente più
avanti la tradizionale datazione giovanile riferita a questa come a molte altre analoghe composizioni
guardesche, prossima dunque all’altro notevole gruppo di «grandi capricci» della collezione madrilena
del duca di Montellano (Morassi, 1973, figg. 751, 789, 807, 811), riferibili agli anni tra 1766 e 1768,
esempi tra i più significativi nell’arco di un’assai prolifica produzione che conta quasi trecento esemplari
(se ci si attiene al numero accolto nel ponderoso catalogo di Morassi).
Ma l’impegno profuso dal G. nel genere, pur evidentemente redditizio, della veduta, non gli impedì
di accettare, quando se ne fosse presentata l’occasione, incarichi per dipinti di «storia» o di figura. Nel
1763 i domenicani della chiesa di S. Pietro Martire a Murano avevano deciso di eseguire una serie di
interventi di rimaneggiamento e restauro nella cappella di S. Domenico. Al G. venne affidata
l’esecuzione di due delle tele destinate a decorare il nuovo ambiente, che egli portò a compimento di lì a
qualche tempo. Oggi ne sopravvive soltanto una: il cosiddetto Miracolo di s. Gonzalo di Amarante, anche
noto come Miracolo di s. Giacinto, conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Dipinto da
considerarsi importante, indipendentemente dalla qualità certo non eccelsa (sebbene forse non
compiutamente giudicabile per via di un possibile ridimensionamento delle misure originali: Gallo),
poiché testimonia lo stadio d’evoluzione dello stile dell’artista all’altezza della metà del settimo
decennio, nel pieno della sua maturità. Di qualche anno più tarda è un’altra opera religiosa di
destinazione ecclesiastica: la piccola pala della Pietà già in collezione privata a Monaco di Baviera e
quindi a Milano (Morassi, 1973, fig. 205). Concepita sul tradizionalissimo impianto del Vesperbild di
intonazione patetica e lontana ascendenza nordica, la composizione fu graficamente meditata dal pittore
in due fogli conservati al Museo civico di Bassano e al Correr di Venezia, sennonché la trasposizione su
scala più ampia e in un medium meno estemporaneo riesce in un esito severamente penalizzante.
L’esecuzione non denuncia quella padronanza nell’evocazione di valori luministici e nell’uso fine del
pennello che invece rivelano le coeve vedute, forse per intenzionale ossequio [p. 298] al pondus
drammatico chiesto dal soggetto, come farebbe pensare anche la scelta di un più aulico e tradizionale
latino nella firma: «Franc(iscus) De Guardi a Venetiis pinxit». Ma, nonostante le intenzioni, il risultato
non riesce a dissimulare un impaccio, per non dire un’insipienza, che pare evidente addebitare più che a
improbabili, recondite reminiscenze dell’«espressionismo» gotico di un Matthias Grünewald a una
strutturale carenza di formazione accademica, se non di innato talento per la resa della figura umana.
Ben diversi i raggiungimenti del G. vedutista in questo medesimo torno di tempo, nel decennio
compreso tra i primi anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. A questa fase si ascrivono alcuni dei
capolavori assoluti nell’opera del pittore. I soggetti più tipici e ormai «classici» consacrati dalla
vedutistica veneziana: Rialto, palazzo ducale, S. Marco, il Canal Grande, sono i protagonisti di questi
grandi quadri, spesso di dimensioni relativamente notevoli, e comunque i maggiori eseguiti dal Guardi.
Almeno una delle due «non piccole tele ordinate da un forestiere inglese» (Livan) nel 1764, di cui è
menzione nei Notatori di Gradenigo, è stata con qualche incertezza identificata nella veduta del Ponte di
Rialto con il palazzo dei Camerlenghi, già di proprietà di lord Iveagh a Pyrford Court (ibid., fig. 529),
appunto per il formato non comune – 2 m di larghezza – e per l’uso probabile della camera ottica tale
da consentire un angolo visuale inusitatamente ampio.
Ma il dipinto presenta anche gli altri caratteri tipici di questo momento della produzione guardesca:
nitidezza di contrasto e risoluzione, tonalità più calde e profonde, ampie zone d’ombra, blocchi che si
stagliano in controluce sullo sfondo di cieli intensi e corruschi, un uso più criticamente consapevole del
referente canalettiano, che trova ispirazione nella lezione meno algida e più «affettiva» del grande
maestro. Questi stessi motivi pervadono la coppia di tele del duca di Buccleuch a Edimburgo: il Ponte di
Rialto con il palazzo dei Camerlenghi e il Canal Grande con le Fabbriche nuove (ibid., figg. 523, 535) come pure i
bellissimi pendants della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera: ancora una Veduta di Rialto e il Canal
Grande a S. Geremia.
Ancora più ambiziosi per dimensioni sono gli imponenti teleri già di proprietà del barone di
Rothschild e custoditi a Waddesdon Manor. Raffigurano il Palazzo ducale visto dal mare, con una selva di
vele e sartie che ondeggiano in primo piano, e il Bacino di S. Marco con S. Giorgio Maggiore, entrambi
databili dopo il 1766, per la presenza di specifici dettagli topografici. Intorno a questi stessi anni si
collocano altri dipinti celebri come la Piazza S. Marco con la basilica della National Gallery di Londra; il
Campo dei Ss. Giovanni e Paolo del Louvre di Parigi, ispirato a un prototipo canalettiano per il tramite
dell’incisione di Antonio Visentini; o ancora, appena più tardi, le due vedute del Canal Grande oggi
nella milanese Pinacoteca di Brera, che già mostrano però un trattamento delle superfici meno incisivo,
un’atmosfera caliginosa che attenua i contrasti, una pennellata più vivace e meno analitica.
Dopo il matrimonio, e durante gli anni Sessanta, il G. dovette poter contare probabilmente su un
minimo di sicurezza economica e cominciare a guadagnarsi una qualche notorietà come pittore di
vedute, nonché una certa reputazione anche presso una platea più esperta ed esigente. A parte la
menzione di Gradenigo, lo farebbe pensare una serie di indizi, a cominciare dal fatto che egli si fosse
trasferito in un’abitazione propria insieme con la moglie per mettere su famiglia. Inoltre, almeno dal
1761 al 1763, il G. risulta iscritto alla fraglia dei pittori, segno che poteva permettersi di pagare la
«tansa». Anche i caratteri della sua produzione pittorica di questi anni sembrerebbero rivelatori: quadri
più grandi, quindi più costosi, spesso dipinti in coppie o persino in gruppi di pendants, quindi su
ordinazione. Dopo la scomparsa del Canaletto, nel 1768, il G. se ne poteva forse considerare il vero
erede a Venezia.
Nel decennio successivo il pittore continuò comunque a dipingere occasionalmente quadri di figura,
che rivelano le solite non veniali deficienze, ove più, come nelle due Virtù del Ringling Museum di
Sarasota, Florida, ove meno, come nella dignitosa pala coi Ss. Pietro e Paolo della parrocchiale di
Roncegno in Valsugana, databile a ridosso del 1775, anno di completamento dell’altare. Ma soprattutto
il G. si affermò, oltre che come puro pittore di vedute, anche come «cronista» per immagini di quegli
eventi festivi, cerimonie e celebrazioni solenni, in cui per secolare tradizione uno spettacolare rituale
civico coinvolgeva come un sol protagonista i Veneziani e la loro città.
[p. 299] Intorno alla metà degli anni Settanta al pittore venne commissionata, non si sa da chi, una
serie di dodici tele che illustrasse le cosiddette Solennità dogali, i fasti celebrati nel 1763 in occasione
dell’elezione del doge Alvise (IV) Mocenigo. Il G. si servì a tal fine delle incisioni che Giovan Battista
Brustolon aveva ricavato da composizioni originali di Giovanni Antonio Canal e che erano state
pubblicate e messe in vendita a Venezia dall’editore Lodovico Furlanetto tra 1766 e 1770.
I quadri guardeschi – oggi conservati in parte al Louvre, in parte ai Musées royaux d’art et d’histoire
di Bruxelles, al Musée de Grenoble e al Musée des beaux arts di Nantes – raffigurano le tappe salienti
del rituale di insediamento del doge neoeletto, dalla presentazione al popolo nella basilica ducale al
ringraziamento nella sala del Maggior Consiglio, nonché le solennità civico-religiose che prevedevano la
partecipazione delle massime autorità del governo e della Chiesa della Serenissima, dallo «Sposalizio del
mare» alla processione del Corpus Domini.
Nell’ottobre del 1778 il G. fu in Trentino, per interessi legati alle proprietà di famiglia colà ereditate
dal fratello maggiore; e così di nuovo probabilmente nel 1782, quando fece dono di due suoi capricci al
suo ospite, il dottor Felice Manfroni di Caldes. Intanto a Venezia la commissione della serie – piuttosto
ampia - delle Solennità dogali doveva aver prodotto un minimo di risonanza intorno al nome del G.,
segnalatosi come una sorta di specialista in materia di eventi cittadini spettacolari. E fu probabilmente
in questa veste che nel 1782 il pittore venne incaricato di immortalare in sei quadri i momenti salienti
delle sfarzose accoglienze riservate dal governo della Repubblica al principe ereditario russo Paolo
Petrovič e sua moglie Maria Teodorovna, col nome di «Conti del Nord».
Anche per questa serie – purtroppo solo parzialmente conservata (Monaco, Alte Pinakothek;
Venezia, Collezione Cini) – non si conosce il nome del committente; ma non è da escludersi che il
ruolo di intermediario sia stato svolto dall’ispettore Pietro Edwards, che infatti il 21 maggio dello stesso
anno sottoponeva al G., per conto dello Stato, un dettagliato contratto per un analogo ciclo di quattro
tele, dedicate, questa volta, alle cerimonie svoltesi qualche giorno prima durante il soggiorno a Venezia
del papa Pio VI, reduce da Vienna. I dipinti furono pagati da Edwards stesso nel dicembre del 1782; e il
pittore ricevette un modesto compenso di 40 zecchini, con una mancia di altri 8 elargiti «per
soprappiù», dietro impegno, però, di «eseguire le piccole ulteriori alterazioni desiderate da esso Sig(no)r
Edwards» (Simonson, p. 82).
Queste opere sono tipica espressione dello stile tardo della pittura del G., cui mettono capo
coerentemente gli sviluppi della sua maniera postcanalettiana: dalla suite di vedute della Fondazione
Calouste Gulbenkian di Lisbona ai «ritratti» di ville e giardini dipinti per il console britannico John
Strange (Morassi, 1973, figg. 635-640), dalle tele londinesi della Wallace Collection al dittico del Musée
Nissim de Camondo di Parigi.
Gli accordi cromatici si schiariscono, soffuse tonalità atmosferiche tingono le forme in una resa
«d’effetto» più che in una restituzione analitica, una tremula ragnatela di tocchi fa brillare le superfici e
come in punta di penna profila le ombre così che l’insieme si ricompone a distanza in un’immagine
instabile e fluttuante.
La ricerca dell’intensità della vibrazione luminosa è un motivo ricorrente nella produzione più tarda
dell’artista. Egli la persegue sistematicamente nella continua variazione di una moltitudine di figurine e
macchiette che studia nei disegni e inserisce nei suoi quadri, specie laddove il soggetto appena lo
consenta, come nelle brulicanti versioni della Benedizione di Pio VI a S. Zanipolo (valga per tutte quella
dell’Ashmolean Museum di Oxford), nella Mongolfiera (Berlino, Gemäldegalerie), dipinta in occasione
della spettacolare esperienza ascensionale del 1784, nell’Incendio a S. Marcuola (Monaco, Alte Pinakothek)
del 1789, nelle numerose tele sul tema delle regate (per esempio, la versione di Amsterdam, Museo
nazionale). Ma è la stessa luce in movimento che nei tardi, minuti capricci guardeschi inonda chiostri e
colonnati, scalee patrizie e umili cortili domestici, e balugina infine nelle ultime, incandescenti visioni di
una laguna e di una città perennemente solatie. Questi gli esiti estremi della parabola artistica del pittore,
esiti figurativi per problemi figurativi, che poco hanno a che fare con quei misteriosi presagi spesso
evocati a proposito dell’imminente destino della Serenissima Repubblica, ché di là dalla contingenza
cronologica e la suggestione retorica non si vede quale sia il nesso reale tra le due cose.
[p. 300] L’ultimo incarico affidato all’artista fu la realizzazione di una serie di scene commemorative
del matrimonio del duca di Polignac con la baronessa di Neukirchen, celebrato il 6 sett. 1790 nella villa
dei Gradenigo a Carpenedo. Di tal lavoro restano tre disegni e uno schizzo a penna (Venezia, Civico
Museo Correr). Al G. in vecchiaia non mancò, sia pur tardiva, qualche piccola gratificazione
istituzionale, come l’elezione, nel 1784, nel Collegio dell’Accademia, in qualità di «pittore prospettico»:
forse un riconoscimento per la sua prima, e ultima, commissione ufficiale. Riconoscimento comunque
di fatto solo formale, visto che il pittore presenziò a una sola seduta, nel 1789. Se la reputazione di cui
godette in vita non fu grande, il suo nome non fu però del tutto oscuro, anzi, «celebre» è detto nel
decreto ducale con cui Alvise Mocenigo concedeva all’editore Marchiò di mettere in stampa le sue
vedute (Simonson, p. 83).
Il G. trascorse gli ultimi dieci anni della sua vita, e forse più, in casa del figlio Vincenzo, sacerdote,
prima in contrada di S. Giustina, quindi in campo della Madonna a S. Canciano, dove tenne bottega e
dove morì il 1° genn. 1793.
GIACOMO, figlio del G. e di Maria Mattea Pagani, nacque a Venezia il 13 apr. 1764. Sotto la guida del
padre si svolse la sua educazione, non solo artistica dal momento che la madre venne a mancare quando
egli contava appena cinque anni. Di lui e dei suoi fratelli, anch’essi minori, si occupò forse anche la zia
Maria Cecilia, moglie di Giambattista Tiepolo, allora sessantasettenne. Egli esordì verosimilmente come
collaboratore e assistente del padre quando questi era ormai avviato da tempo alla carriera di vedutista.
Fu infatti come pittore di vedute e di capricci che Giacomo fece il suo apprendistato e a questa
specializzazione rimase esclusivamente legato per tutta la vita.
Nell’arco della sua carriera non si discostò mai dai modi del suo assai più dotato genitore; e anzi ne
ripropose stancamente i modelli fino al secolo successivo, senza apportarvi novità né dal punto di vista
stilistico, né da quello tematico o iconografico, se si prescinde dall’inevitabile aggiornamento delle fogge
dei costumi alla moda delle figure che popolano le sue stereotipate scene veneziane. Giacomo è noto
per una cospicua produzione di immagini di Venezia, di formato assai ridotto, che probabilmente si
vendevano per pochi spiccioli come souvenirs o moderne cartoline. Se la maggior parte delle sue opere
firmate – alle quali egli spesso aggiungeva persino l’indirizzo della bottega, in calle del Parruchier al n.
5245 – non destano particolari problemi attributivi, più difficile è stato per i critici distinguere la sua
mano nei dipinti di presunta collaborazione con il padre, o, tanto più, in quelli da lui spacciati come
lavori del G., magari falsificandone la firma o le iniziali. Anche in ragione di tali difficoltà sono stati
condotti vari tentativi di ridimensionamento e snellimento del catalogo critico ascritto al G., con
risultati che non hanno mancato di suscitare discussioni.
Recentemente si sono volute riconoscere come lavori di Giacomo opere tradizionalmente ritenute
autografe del padre, come i dipinti per la regata dei principi del 1791 (Bologna, collezione Modiano;
Lisbona, Fondazione Calouste Gulbenkian), o addirittura reputate quali capolavori della maniera tarda,
come il celebre Incendio di S. Marcuola delle Gallerie dell’Accademia di Venezia (Succi). Molti sono pure i
disegni lasciati da Giacomo: un gruppo cospicuo, comprendente anche numerosi originali ereditati dal
padre per uso di bottega e sui quali egli fece esercizi di copiato, passarono al conte Teodoro Correr e
quindi alle collezioni dell’attuale omonimo museo veneziano.
Giacomo morì a Venezia il 3 nov. 1835.
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M. DI MONTE