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Centro Militare di Studi Strategici - Roma
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Opinione pubblica, sicurezza
e difesa europea
a cura di Maria Luisa Maniscalco
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Sommario
Introduzione
(di Maria Luisa Maniscalco)
p. 7
Capitolo primo
Legittimazione funzionale e coscienza cosmopolita: l’Europa e la comune politica di sicurezza e difesa
(di Francesco Antonelli)
L’Europa e le appartenenze politico culturali – p. 21 – Il senso di appartenenza e l’orgoglio di essere italiano – p. 22 – Il senso di appartenenza e la patria – p. 24 – Il senso
di appartenenza all’Europa – p. 30 – La questione della doppia cittadinanza – p. 31 –
Un grappolo di identità – p. 33 – Presenti o assenti? Istituzioni italiane ed europee a
confronto – p. 33 – Impatto percepito delle istituzioni italiane – p. 34 – Impatto percepito delle istituzioni europee – p. 35 – Il futuro ruolo politico dell’Europa: un alto profilo? – p. 38 – Le priorità politiche dell’Europa – p. 41 – Il ruolo futuro dell’U.E. – p.
41 – Le politiche istituzionali p. 41 – Le decisioni relative alla politica di sicurezza e difesa – p. 44 – Le decisioni sull’invio delle truppe europee all’estero – p. 45 – Decisioni
e visioni istituzionali – p. 47 – Le metafore dell’Europa: l’emergere del cosmopolitismo
– p. 48 – Legittimazione funzionale e coscienza cosmopolita: l’Europa e la comune politica di sicurezza e difesa. – p. 52 –.
Capitolo secondo
Società del rischio, pace e sicurezza
(di Alessia Zaretti)
La società del rischio – p. 55 – Minacce e rischi per la sicurezza: le opinioni rilevate –
p. 56 – Genere, età, appartenenza politica e percezione del rischio – p. 61 – Una possibile tipologia dei rischi – p. 63 – La ‘sindrome’ delle minacce e i livelli operativi per fronteggiarle – p. 65 – Tipologia dei rischi, produttori di sicurezza e genere – p. 70 – Tipologia dei rischi, produttori di sicurezza ed appartenenze politiche – p. 70 – Strategie e
strumenti per la pace e la stabilità – p. 72 – Genere, appartenenze politiche e strumenti per la pace e la stabilità – p. 75 – Dissuasione versus deterrenza – p. 76 – Appartenenza politica, deterrenza e cooperazione allo sviluppo – p. 78 – Genere, età e ancora ap© Rubbettino
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partenenza politica – p. 79 – L’immagine della pace – p. 80 – La metafora delle stagioni – p. 84 – Corpi civili e sicurezza – p. 85 – Corpi civili disarmati e Forza Armata europea – p. 87 – Nuovi scenari di rischio ed equilibri per la pace – p. 89 –.
Capitolo terzo
Forze Armate Italiane, Forze Armate Europee
(di Maria Luisa Maniscalco)
Nuovi scenari internazionali e ruolo delle Forze Armate – p. 95 – I compiti delle Forze
Armate italiane: opinioni e valutazioni – p. 98 – Immagini delle Forze Armate secondo
le aree politiche – p. 101 – ‘Nuovi’ e ‘vecchi’ compiti per le Forze Armate – p. 102 – La
Forza di Reazione Rapida europea – p. 105 – La Forza di Reazione Rapida europea: l’area del consenso – p. 107 – Forza di Reazione Rapida europea e NATO – p. 108 – Cooperazione o integrazione? Modelli a confronto – p. 112 – Nuove forme di cooperazione militare – p. 113 – L’Europa con un’unica Forza Armata – p. 116 – Le Forze Armate europee: immagini a confronto – p. 117 – Forze Armate italiane e Forze Armate europee: alcune considerazioni conclusive – p. 121 –.
Capitolo quarto
La Difesa Comune Europea: informazione e opinione pubblica
(di Giulia Aubry)
Informazione e conoscenza: la costruzione sociale della realtà – p. 125 – I mezzi di informazione italiani e la Difesa Comune Europea – p. 126 – Mezzi di comunicazione di massa e issues politiche italiane ed europee – p. 129 – L’informazione sulla costituzione di
una Forza Armata europea – p. 131 – Il dibattito su tematiche europee e politica di difesa europea – p. 131 – Accesso e fruizione a quotidiani e telegiornali – p. 132 – Conclusioni – p. 134 –.
Riferimenti bibliografici
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Introduzione
Maria Luisa Maniscalco
Le tematiche affrontate in questa ricerca sociologica riguardano diversi
aspetti dell’integrazione europea, con particolare riguardo alla politica comune nei settori della sicurezza e della difesa; queste tematiche, sulle quali da
tempo si sono sviluppati riflessioni, studi e accesi dibattiti, risultano non ancora sufficientemente approfondite nel versante soggettivo delle percezioni,
opinioni e aspettative, dimensioni sulle quali si è invece concentrata la ricerca. Infatti se è vero che gli individui e le culture elaborano cognitivamente ed
emotivamente in maniera diversa il binomio sicurezza/insicurezza – anche
perché le relative componenti sono molteplici e variamente connesse su scala
locale, nazionale, regionale e internazionale – è fondamentale analizzare, a differenti livelli e con un approccio comparativo, le relative percezioni, le immagini in cui queste vengono sintetizzate, gli atteggiamenti conseguenti e le relative spiegazioni che le persone e i gruppi sociali forniscono al riguardo.
Rischi e minacce, sicurezza e difesa non sono solo risultati di eventi ‘oggettivi’, esterni, e meri effetti di decisioni politiche e di procedure specialistiche, ma anche dati di rappresentazioni collettive; l’emergere e l’escalation delle crisi, i rischi, la loro trasformazione e la loro gestione, le radici dell’instabilità e delle minacce, le strategie e le politiche per contenerle interagiscono
profondamente con la difesa e la sicurezza anche nella loro dimensione di beni simbolici collettivamente elaborati (ma anche prodotti e sostenuti) e soggettivamente fruiti.
Un tipo di analisi che parta dalle percezioni, dagli atteggiamenti, dalle
opinioni e dalle immagini che i soggetti si formano al riguardo è quindi di fondamentale supporto per la comprensione delle complesse dinamiche che attraversano questo aspetto oggi più che mai centrale per la civile e pacifica convivenza; rappresenta inoltre un punto di partenza irrinunciabile per la costruzione di un linguaggio comune tra istituzioni e cittadini, cioè per una comunicazione politica ed istituzionale priva di equivoci e di fraintendimenti, a sua
volta indispensabile elemento per ogni elaborazione progettuale che impegni
la responsabilità reciproca nel quadro di comuni regole condivise.
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La profonda trasformazione subita dal quadro dei rischi ha prodotto un
mutamento di tipo qualitativo; non si tratta semplicemente dell’intensificarsi
dei pericoli di natura ‘tradizionale’, ma di una nuova configurazione della ‘minaccia’, per fronteggiare la quale si richiedono strumenti di diversa natura e il
coinvolgimento di settori che fino ad oggi sono restati marginali o estranei alle problematiche della sicurezza e della difesa. Le politiche internazionali di
sicurezza sono oggi politiche di crescente complessità, con una forte correlazione tra azioni socioeconomiche di riequilibrio, strumenti giuridici rinnovati, ricerca di soluzioni negoziali e dialogiche a diversi livelli; ad esse si accompagnano interventi militari che devono essere efficienti ed efficaci nei confronti degli obiettivi che si pongono.
Il tempo dell’irrilevanza delle insicurezze parziali è definitivamente tramontato; divenuto globale il nostro mondo si presenta come un reticolo di interconnessioni strettamente interdipendenti per cui la défaillance di un solo
elemento – fosse anche molto piccolo – può compromettere la ‘tenuta’ dell’insieme. Ma non solo; i rischi sono oggi globalizzati, nel senso che si declinano
su scala planetaria. Soprattutto i problemi ecologici, il terrorismo internazionale, i collassi economici che destabilizzano intere regioni, la proliferazione
delle armi batteriologiche, chimiche e nucleari, ponendo in evidenza la permeabilità delle frontiere, hanno messo in crisi la dimensione esclusivamente
statuale (politico-diplomatica e militare) della sicurezza e della difesa.
La sicurezza, di conseguenza, è oggi un concetto complesso, polisemico;
se in termini generali e piuttosto tradizionali può essere definita una sorta di
‘protezione dell’identità’, in termini specifici interessa dimensioni articolate su
più livelli tra loro interconnessi che possono partire dalla sicurezza interna, ma
interessano quella nazionale, quella collettiva di area e giungono fino all’ambito globale e viceversa.
La trasversalità dei rischi e delle minacce necessita di un approfondito ripensamento della tutela delle popolazioni secondo linee del tutto nuove che
vanno al di là delle tradizionali impostazioni geostrategiche e giuridiche. È stata superata la visione tipica del periodo della guerra fredda che riduceva il concetto di sicurezza ai suoi aspetti militari e strategici (la sicurezza nazionale e di
area); quel security complex che sanciva l’interdipendenza tra due alleanze che
condividevano, pur nella reciproca ostilità, interessi comuni in termini di sicurezza ha ceduto il passo all’emergere di nuove nozioni: la sicurezza è divenuta
multidimensionale e multifunzionale. Nell’accezione della human security (che
pone una forte enfasi sulla difesa dei diritti dell’uomo, delle minoranze e soprattutto dei soggetti vulnerabili, sulla condanna dei crimini contro l’umanità,
ma riguarda anche un ventaglio molto ampio di aspetti tra cui non ultimi l’eco8
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nomia e la difesa della salute e dell’ambiente) rappresenta uno dei principi fondamentali a cui si ispira la politica degli Stati. L’affermarsi della human security
nell’accezione ampia di freedom from want e non solo di freedom from fear e
della cosiddetta responsability to protect ha operato il passaggio per le pubbliche istituzioni da una sovranità di controllo ad una di responsabilità.
Tutte queste trasformazioni pongono al cuore del problema alcune domande fondamentali sull’esistenza, la natura e la costruzione sociale della minaccia e sui modi in cui la sicurezza viene praticata; ci si muove da una nuova
considerazione del degrado ambientale, dei rischi alimentari e delle epidemie,
della crescita demografica differenziale e delle conseguenti migrazioni incontrollate, della criminalità, del terrorismo internazionale, delle guerre ‘domestiche’ e non. Vengono meno le classiche distinzioni tra sicurezza interna ed
esterna, nazionale e internazionale.
Le Forze Armate nei nuovi scenari internazionali
In questo contesto anche il ruolo del ‘militare’ va profondamente riconsiderato; le Forze Armate rappresentano l’istituzione massima per la sicurezza e
l’indipendenza delle collettività in un sistema di Stati nazione concepiti essenzialmente come potenziali belligeranti. Cosa succede a questo strumento quando alla minaccia esterna, compatta e chiaramente individuabile, si sostituiscono altre minacce, minacce diffuse, pervasive, ‘senza frontiere‘? Quali sfide devono oggi fronteggiare le istituzioni politiche e le Forze Armate nell’accompagnare la trasformazione dello Stato nazione e le sue nuove priorità? Come tutelare la sicurezza senza che le sue esigenze ledano le espressioni della democrazia e della libertà? Come elaborare una linea di difesa e di sicurezza che sia
in grado di assumere la complessità dei rischi e di coniugarla coerentemente
con dimensioni transnazionali e sovranazionali? Quali modelli di sicurezza e di
difesa sono culturalmente e socialmente sostenibili per una data società?
Lungo quest’ultima direzione si è mossa la politica europea; lo sforzo compiuto dal trattato di Maastricht è stato di spostare l’idea di sicurezza da una precedente dimensione nazionale ad un nuovo piano sopranazionale e di articolarla in maniera più complessa; la cultura della pace e della sicurezza di dimensione europea si è andata così sviluppando a partire da una nuova concezione della sicurezza in cui i cittadini, singolarmente intesi, si sostituiscono allo Stato, come titolari di diritti di sicurezza nazionale e internazionale. Non si tratta più soltanto di una difesa comune nei confronti di un nemico esterno, ma della moltiplicazione delle dimensioni della sicurezza (legate allo sviluppo dei diritti umani
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fino alle loro ultime generazioni) all’interno della quale la difesa militare viene a
collocarsi, acquistando una centralità diversa, meno scontata e più negoziata.
Issue considerata di fondamentale rilevanza fin dalle prime tappe della
realizzazione dell’integrazione europea, la costruzione di una comune politica di sicurezza e difesa – e di uno strumento militare in grado di supportare
adeguatamente le scelte europee in politica estera – ha incontrato molteplici
ostacoli e ripetuti fallimenti. Ciononostante la questione si ripropone periodicamente, ed oggi con urgenza crescente, data la necessità di affrontare, in maniera decisa e unitaria, sfide globali.
Molti fattori operano a favore dello sviluppo di una policy di sicurezza e difesa comuni; già da qualche anno le costanti trasformazioni della situazione geostrategica internazionale hanno sicuramente rappresentato, a livello europeo, un
potente stimolo in tale direzione. L’evento iniziale più rilevante è stato rappresentato dai conflitti nei Balcani che hanno profondamente segnato l’Europa, accelerando la ricerca di una più coerente politica estera e di sicurezza. La crisi del
Kosovo, dopo quella bosniaca, ha costituito un preoccupante segnale nel far registrare la perdurante inadeguatezza dei sistemi di sicurezza comuni nel gestire,
soprattutto in termini di tempestività, complesse situazioni di crisi, con una conflittualità diffusa, elevata e radicata. Fino ad allora, concetti come quelli di ‘prevenzione attiva dei conflitti’ e di ‘gestione remota della conflittualità’ – tesi ad
evitare che problemi locali si amplificassero fino ad innescare conflitti regionali potenzialmente capaci di mettere a rischio la stabilità dei singoli Stati e della
Comunità nel suo insieme – non avevano ancora trovato una piena risposta organizzativa e procedurale e tanto meno in una dimensione regionale europea.
L’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 e, più recentemente la guerra in
Iraq, hanno nuovamente testimoniato la tendenza dei singoli Stati a muoversi
del tutto autonomamente rispetto all’Europa e quindi l’urgenza di delineare politiche comuni, pena un indebolimento e una marginalità a livello geopolitico internazionale. Solo con la ricerca concorde e collettiva di un ruolo più responsabile l’Unione Europea potrebbe operare in modo da far superare lo squilibrio
tra il suo essere da una parte un protagonista dell’economia, ma dall’altra un soggetto di scarsa rilevanza nella politica internazionale.
L’Europa e i problemi della sicurezza collettiva
A fronte delle molteplici sfide vecchie e nuove, pur con molti problemi, contrariamente a quanto è avvenuto nel passato, la difesa europea è divenuta un tema centrale e concreto nel dibattito sul futuro dell’Unione in quanto logico pro10
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seguimento lungo il percorso di affermazione e di riconoscimento della propria
identità e sovranità; in vista di ciò il pensiero strategico e l’impostazione tattica in
materia di difesa di molti Stati membri sono stati profondamente rinnovati.
Nuove responsabilità sembrano attendere l’Europa che dovrà accettarle, pena vedere il totale azzeramento della sua influenza. Da più parti si è auspicato di
improntare lo sviluppo della difesa e della sicurezza europee secondo il tipico percorso di integrazione indicato da Jean Monnet, per il quale prima si stabilisce una
solidarietà di fatto – in questo caso in rapporto alle nuove istituzioni di sicurezza
e difesa e alla nuova Forza di Reazione Rapida varata ad Helsinki nel 1999 per
svolgere le cosiddette missioni di Petersberg già stabilite nel 1992, ma di fatto pressoché inattuate per la mancata acquisizione delle capacità necessarie – e solo successivamente si affronta la questione della finalità strategica di tutto il progetto. Da
ciò deriva il convincimento secondo cui sarà proprio lo sviluppo della dimensione della difesa e della sicurezza comuni a favorire l’emergere, nel medio o nel lungo periodo, di una più concreta identità politica europea, che consentirà all’Unione di svolgere pienamente il ruolo che le compete sulla scena internazionale.
Come per l’euro si è proceduto gradualmente attraverso varie fasi di integrazione economica, coronata dall’introduzione della moneta unica, anche
per la sicurezza e la difesa è necessario procedere attraverso passaggi intermedi, attendere che si consolidino per poi avanzare verso livelli di maggiore integrazione. D’altra parte proprio il mutamento del concetto di sicurezza, il suo
assumere dimensioni più orizzontali e democratiche dovrebbe facilitare la
fuoriuscita da un ambito strettamente nazionalistico verso un livello identitario più ampio, legato essenzialmente alla percezione di un destino comune, ad
un’uguaglianza che si declina in termini di nuove vulnerabilità e di nuove solidarietà di fronte a rischi dagli incommensurabili effetti
La questione sta divenendo ogni giorno più urgente; essa è ormai presente non solo nell’agenda dei politici e all’interno delle istituzione militari dei
paesi membri, ma anche nei dibattiti sui mass media, vivacizzati da interventi
di intellettuali prestigiosi e presso l’opinione pubblica; una politica estera comune di difesa e di sicurezza è considerata una meta importante, anche se le
posizioni al riguardo sono piuttosto differenziate e rimane ancora basso l’interesse per Forze Armate europee.
Gli Italiani e la comune difesa europea
Sullo sfondo di questo contesto piuttosto contraddittorio, la ricerca di cui
qui vengono presentati i risultati ha inteso approfondire la complessa archi© Rubbettino
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tettura delle immagini collettive, delle opinioni, dei timori, delle speranze, delle valutazioni e delle aspettative di un campione rappresentativo dell’opinione pubblica italiana su un ampio spettro di tematiche con a fulcro la sicurezza e la difesa in ambito nazionale ed europeo e il conseguente ruolo delle Forze Armate.
Gli Italiani da sempre, come è noto, sono in maggioranza favorevoli al
processo di integrazione europea e alle istituzioni europee; il sostegno alla devoluzione di attribuzioni anche in aree, come la difesa e la politica estera, di
competenza tipica degli Stati – e che ne sono state parte integrante e caratterizzante fin dal sorgere dello stato moderno – rappresenta senza dubbio un’ulteriore conferma di europeismo convinto. Si pensa infatti di sottrarre allo Stato quelle che sono le sue funzioni più peculiari e per le quali c’è stata e ancora permane la maggiore resistenza a gestirle in una dimensione comune, come
ha ampiamente testimoniato la lunga impasse in materia durante tutti questi
anni.
A fronte di un favore indiscusso da parte dell’opinione pubblica italiana,
come attestano molti sondaggi, la questione però potrebbe, al momento della
sua concreta realizzazione, essere meno semplice; la carenza generale di informazioni sull’Unione Europea, sulle sue istituzioni e sui processi che ne hanno
fino ad oggi caratterizzato la storia, diventa vera e propria totale disinformazione per quegli argomenti, come la difesa, tradizionalmente poco conosciuti
e poco seguiti nel nostro Paese. Manca per esempio ai nostri cittadini la conoscenza dell’imprescindibile nesso tra creazione di Forze Armate europee, perseguimento dell’armonizzazione e dell’interoperabilità tra le diverse componenti nazionali e relative risorse di bilancio.
In effetti, come e più di quanto è successo per altri processi dell’Unione europea, la gran massa dei cittadini è rimasta finora al margine di questa lenta ma
progressiva trasformazione; non sufficientemente informati, né sufficientemente coinvolti, solo distratti spettatori. Hanno giocato in questo ultimo caso la difficoltà tecnica dell’argomento, noto solo agli addetti ai lavori, la scarsa attenzione dei mass media, la cautela dei vertici politici dei paesi membri e, infine, l’abituale disinteresse degli Italiani per i problemi della difesa e della sicurezza militari. Come per il più generale europeismo degli Italiani, sorge spontaneo l’interrogativo sul valore di un’eventuale massiccia adesione a questa dimensione
dell’integrazione che appare però basata su una scarsa conoscenza dei vantaggi
e degli svantaggi concreti e non supportata da forti sentimenti di appartenenzaidentità verso l’Europa che, ovviamente, sono ancora tutti da sviluppare.
Rimane profonda l’esigenza di trovare una maggiore legittimazione pubblica e democratica al progetto della comune difesa europea, una legittimazio-
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ne che non sia quella di massima attribuita dagli Italiani ad ogni tipo di processo integrativo nell’Unione. La questione è rilevante onde evitare esiti incerti e una continua rimessa in discussione del problema, sia in ordine al carattere fortemente impopolare degli aumenti del bilancio nel settore degli armamenti, sia in rapporto ai meccanismi prettamente intergovernativi della PEDS
che escludono dal processo decisionale le assemblee parlamentari. Se occorre
raggiungere parametri di convergenza anche per la difesa e la sicurezza e se
questo obiettivo rappresenta un onere per la spesa pubblica è giusto che i cittadini siano adeguatamente informati e in grado di valutare alla luce di un dibattito democratico costi e benefici.
Questo anche perché, a loro volta, le Forze Armate dei paesi europei per
operare unitariamente ed efficacemente non devono solo saper sviluppare
sentimenti di fiducia reciproca, ma hanno anche l’esigenza di poter contare
sull’appoggio delle popolazioni che riconoscano inequivocabilmente in esse i
produttori di una stabilità democratica condivisa. Oggi le Forze Armate sono
chiamate da una parte a rispondere positivamente in termini di efficacia e di
efficienza ai mutati contesti strategici, dall’altra a non distaccarsi dai valori di
‘fraternità umanitaria’ diffusamente presenti nella società civile. Mentre è
cambiato il quadro di riferimento esterno, con l’affermarsi di nuove e diverse
minacce, si sono anche trasformati i valori e i bisogni della società civile; l’organizzazione militare deve così essere in grado di fronteggiare la fluidità della
nuova situazione – un ambiente internazionale non più definibile attraverso le
tradizionali dicotomie guerra/pace, amico/nemico – senza perdere però il
consenso dei contesti sociali nazionali e internazionali, dal momento che il
rapporto tra Forze Armate e società civile si va configurando come sempre più
intrecciato. L’ampliamento dello spettro degli interventi con il relativo nuovo
ruolo per il militare (che non è più soltanto colui che fa la guerra, ma anche
colui che agisce per salvaguardare o per riportare la pace o anche per contribuire al suo consolidamento) necessita di processi di legittimazione particolarmente complessi in cui confluiscono valutazioni politiche, giudizi da parte
dell’opinione pubblica e test di controllo dell’efficienza/efficacia delle professionalità messe in campo.
Le dimensioni della sicurezza e della difesa comuni si presentano, come
e forse più di altre sfide, dagli esiti ambivalenti: da una parte possono rappresentare per le Forze Armate italiane una preziosa aggiuntiva occasione per intrecciare ancora più saldamente i legami con la popolazione, dall’altra rischiano invece di allontanarle, qualora venissero avvertite come segmento
specialistico di una struttura percepita distante e non ‘governabile’ da parte
dei cittadini.
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Caratteristiche, obiettivi e limiti della ricerca
La ricerca, con le riflessioni che l’accompagnano, offre un primo contributo orientativo in tal senso. A partire dall’ascolto e dalla ricostruzione delle
rappresentazioni collettive, ha inteso individuare tendenze di lungo periodo
che foggiano le visioni della realtà e che permangono al di là degli effetti ‘congiunturali’ prodotti da avvenimenti ed eventi che agitano la coscienza collettiva solo momentaneamente.
La forza di questo lavoro non risiede nell’essere una ‘fotografia’ dell’opinione pubblica italiana nell’estate 2002, ma nel proporsi come primo passo verso l’individuazione delle ‘immagini’ che sottostanno alle opinioni e che operano da polo di riferimento di tendenze e di comportamenti. L’immagine dell’Europa, del suo ruolo in un mondo turbolento e globalizzato, quella delle sue istituzioni – e in particolar modo quelle militari – e delle funzioni che dovrebbero svolgere si configurano come sintesi del reale in cui si compongono, con
frammenti di esperienza elaborati riflessivamente, proiezioni, aspettative, valori. Le immagini infatti oscillano tra ideale e reale, tra comprensione/rappresentazione dei fenomeni e relativa valutazione, anche in base a prefigurazioni, stereotipi, costrutti ideologici. Esse operano come riduttori di complessità, facilitando l’orientamento all’azione e, pur mantenendo una certa stabilità e consistenza nel tempo, possono modificarsi. Le immagini della realtà, infine, contribuiscono a loro volta a crearla, secondo il noto processo della profezia che si
autoavvera. Compito dell’analisi sociologica è indagare l’origine di questi schemi e le eventuali condizioni di esperienza che tendono a modificarli, producendo una dissonanza cognitiva tra immagini e realtà.
La ricerca presentata in questo volume si presta ad una duplice lettura: da
una parte ha il valore di un sondaggio in quanto registra le opinioni e le valutazioni su un ventaglio di questioni rilevanti sul tema, dall’altra è un’analisi sociologica che ha cercato di sistematizzare in configurazioni dotate di senso i
dati quantitativi emersi dalle interviste condotte sulla base di un questionario,
combinandoli con i risultati dei focus group e delle interviste in profondità.
Le opinioni, le valutazioni e più in generale le immagini delle Forze Armate italiane e europee vengono analizzate sullo sfondo di un contesto definito in continua correlazione con altre importanti dimensioni; le opzioni a favore di una integrazione nel settore della sicurezza e della difesa acquistano il loro significato sullo sfondo del più generale europeismo degli Italiani, delle rappresentazioni della società del rischio, con i timori che suscitano negli Italiani
le minacce nuove e quelle di sempre, dell’immagine della pace e delle strategie considerate ottimali nel perseguirla.
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Un po’ di storia di questa ricerca può facilitare la comprensione degli
obiettivi e dei limiti che si è posta; l’indagine è nata dall’esigenza di condurre
un’analisi comparata approfondita delle opinioni dei Francesi, degli Italiani e
dei Tedeschi sulle tematiche della sicurezza e della difesa. Per far fronte a questa esigenza il gruppo di ricerca del Cemiss da me diretto ha lavorato con gli
altri due gruppi di ricerca (rispettivamente facenti capo al Centre d’Etudes en
Sciences Sociales de la Defence di Parigi e al Sozialwissenschaftliches Institut der
Bundeswehr di Berlino) in diversi incontri, prima a Roma e poi a Parigi, durante la primavera del 2002 per mettere a punto un questionario in comune
per le rispettive rilevazioni. I risultati delle indagini sono stati discussi insieme
in diversi incontri durante il 2003 e sono raccolti in una pubblicazione collettanea in lingua inglese.
Il gruppo di ricerca italiano ha però ritenuto opportuno utilizzare questa
opportunità per condurre uno studio ancora più approfondito; infatti sulle
opinioni, le valutazioni, gli atteggiamenti degli Italiani nei confronti del nuovo modello di politica di sicurezza e difesa comuni non esistono ricerche sociologiche vere e proprie, ma esclusivamente dati di sondaggi che, come è noto, necessitano di essere supportati da indagini condotte con altre metodologie se si vuole superare un livello meramente informativo dotato di poca significatività sociologica. Ciò che manca infatti non sono certo i dati, ma è invece
il riferimento teorico e il dato adeguato al riferimento teorico; ingenti quantità di informazioni restano infatti al di fuori dei modelli interpretativi elaborati alla luce della teoria generale e, in quanto tali, vedono ridotta la loro funzione euristica.
La ricerca, non potendo contare su lavori empirici precedenti sull’argomento, ha inteso inaugurare una sociologia sull’Europa basata sull’ascolto delle opinioni dei cittadini e sulla ricostruzione dei modelli e delle immagini che le orientano. Dopo un accurato studio preliminare sui profondi mutamenti dello scenario internazionale, si è proceduto ad integrare il gruppo degli item comuni con
le indagini francese e tedesca attraverso altre domande, sia ampliando le tematiche investigate (aggiungendo, per esempio, una sezione del questionario dedicata alla pace e alla difesa civile non armata e un’altra rivolta all’informazione
sulle tematiche della sicurezza e della difesa europea, con particolare riferimento ai mass media) sia inserendo ‘domande aperte’, sia infine ricorrendo all’uso
di alcune metafore. Attraverso queste integrazioni, si è cercato anche di ‘stemperare’, il carattere fortemente tecnico di molte domande, cercando di formulare i quesiti in maniera che fossero il più possibile vicini all’esperienza di vita
dei soggetti. La realizzazione di alcuni focus group precedentemente alla stesura
del questionario si è rivelata di notevole importanza in tal senso.
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La rilevazione dei dati inoltre non è stata affidata a nessuna società di sondaggi (che solitamente opera attraverso l’intervista telefonica) ma curata dal
gruppo di ricerca stesso che ha impiegato venticinque intervistatori di alta
professionalità debitamente istruiti attraverso una serie di briefing e successivamente riascoltati alla consegna dei relativi questionari. Il processo della raccolta dei dati era infatti molto delicato: da una parte ha richiesto agli intervistatori un ruolo particolarmente attivo – anche nel fornire qualche indicazione su aspetti tecnici delle problematiche che risultavano meno note agli intervistati – e una spiccata abilità nel ricondurre la conversazione nel linguaggio
quotidiano, riproducendo l’ambiente naturale in cui nascono e si strutturano
le opinioni e le immagini, dall’altra una particolare cura nel cercare di rendere minimo l’effetto intervistato/intervistatore.
Per la ricerca è stato utilizzato un campione ragionato per quote di 1600
persone; il numero degli intervistati è cospicuo, ma non così ampio rispetto alla popolazione italiana da consigliare l’adozione di soluzioni campionarie di
tipo probabilistico che in questo caso avrebbero rischiato di creare distorsioni, conducendo a generalizzazioni errate. Al contrario si è ritenuto che un
campione ragionato – riproducente in proporzione le caratteristiche della popolazione italiana supposte rilevanti per l’indagine (sesso, età, livello di istruzione, localizzazione territoriale) – fosse più in linea con l’approccio metodologico scelto e con gli scopi complessivi dell’indagine.
Gli intervistatori hanno condotto le interviste (che hanno avuta una durata dai 45 minuti alle 2 ore circa a secondo del livello di cultura, ma anche
della personalità dell’intervistato) sulla base del questionario, ma lasciando
anche spazio alla discussione e annotando ulteriori informazioni, nonché le loro impressioni sull’intervista in un documento a parte successivamente unito
al questionario compilato. Questi protocolli aggiuntivi hanno testimoniato lo
spiccato interesse da parte della maggioranza degli intervistati per le tematiche investigate. Un cospicuo gruppo di interviste sono state svolte personalmente dagli autori dei saggi che seguono.
La rilevazione dei dati – che ha interessato tutta l’Italia – dati i vincoli degli incontri con gli altri partners europei non è potuta iniziare prima del 15
giugno 2002; inoltre ha richiesto un periodo più lungo del previsto terminando agli inizi di settembre.
I risultati della ricerca: alcune considerazioni
Sui risultati conseguiti, che sono oggetto di analisi nei saggi che seguono,
mi sembra utile avanzare alcune considerazioni.
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Ad oltre dieci anni dal dissolvimento dell’impero sovietico gli Italiani hanno sicuramente elaborato una nuova visione delle relazioni internazionali; appare evidente che dopo la caduta del muro di Berlino la minaccia si sia dislocata: non viene più dall’Est, ma presenta nuovi fronti più articolati e complessi. Ai pericoli bellici di tipo tradizionale – percepiti come piuttosto residuali,
ma non del tutto insignificanti – si aggiungono nuovi rischi, la cui diversa polisemica natura lascia un certo margine di varianza nell’interpretazione soggettiva. La differenziazione in proposito riscontrata all’interno del campione si
compone però nella diffusa percezione di una elevata vulnerabilità sistemica,
in una piena consapevolezza di vivere nella ‘società del rischio’.
Questa sentita consapevolezza non conduce però verso ‘sindromi securitarie’, in direzione del cosiddetto paradosso del ‘fondamentalismo della sicurezza’, processo per cui le stesse misure a tutela di una tranquilla vita collettiva nella loro enfasi applicativa sarebbero in grado di ledere le tradizionali libertà delle società democratiche. Appare chiaro agli intervistati che le politiche della sicurezza sono politiche complesse che vanno oltre l’emergenza; necessitano di interventi che legano aspetti giuridici, economici, sociali, culturali e presuppongono oggi un ripensamento delle relazioni internazionali nella
direzione anche di una maggiore sensibilità etica.
Nell’insieme del nostro campione appare ampiamente diffuso quello che
potremmo definire, con Urlich Beck, un ‘cosmopolitismo globale’, cioè un
complesso di valori per i quali l’inclusione di identità diverse non solo può essere possibile, ma è anche auspicabile e la sicurezza viene ricercata attraverso
il negoziato e il dialogo.
Per quanto riguarda la concezione dell’Europa merita di essere segnalato
un atteggiamento di ambivalenza: se da una parte appare ancora molto distante dalla vita quotidiana dei cittadini, dall’altra si presenta, più dell’Italia, come luogo di protezione e come mezzo per rafforzare la sicurezza collettiva; il
diffuso favore per una maggiore integrazione nel campo delle politiche istituzionali di sicurezza e difesa si fonda quindi anche sulla convinzione di una fragilità nazionale, unitamente all’idea che la globalizzazione delle sfide e dei rischi necessita di risposte che superino le singole capacità di paesi come l’Italia. Nella sua dimensione di progetto collettivo auspicabile l’Unione invece assume presso molti intervistati una precisa identità fortemente caratterizzata in
una dimensione di ‘cura’: politiche di welfare all’interno e di cooperazione e
pacificazione all’esterno, in una logica alternativa alla tradizionale politica di
potenza. In questa visione complessiva del ‘progetto Europa’ è contenuta anche un’affiorante consapevolezza dei differenti interessi geostrategici e culturali nei confronti degli Stati Uniti, consapevolezza che a volte, ma soltanto a
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volte, si tinge di sfumature di anti-atlantismo. Possiamo così iniziare a considerare il buon livello di consenso alla cooperazione militare europea registrato come articolabile a diversi livelli; è sostenuto sia dall’esigenza di far fronte
alle fragilità istituzionali nazionali, sia dalla convinzione che l’Unione Europea, come ‘potenza’ pacifica, possa giocare – se più forte – un importante ruolo stabilizzatore delle relazioni internazionali, sia infine dall’intento di una
maggiore autonomia dagli Stati Uniti.
Nel suo complesso la dimensione dell’integrazione europea appare ampiamente ‘metabolizzata’ in molti suoi aspetti (a cui oggi si va unendo anche
quello politico-militare) come percorso scelto e perseguito in base a ragionevoli motivazioni e su considerazioni ritenute ‘oggettive’. Proprio questo atteggiamento in un certo senso privo di dimensioni affettive – tranne che, come si
diceva, per la futura Europa ‘immaginata’ dove il contenuto valoriale è forte
e coinvolgente – dà conto della tenuta nel tempo dell’europeismo degli Italiani, ma dovrebbe far riflettere sul fatto che se una diversa definizione della situazione – per esempio la caduta della percezione della funzionalità dell’Europa o una sua diversa connotazione valoriale – dovesse radicarsi nella coscienza collettiva potrebbero affiorare richieste di riappropriazione della sovranità nazionale.
Nei riguardi delle Forze Armate va segnalato che alcuni compiti godono
di una stabilizzata, condivisa legittimazione sociale e di un consenso diffuso.
Soprattutto il peacekeeping, oltre ai più tradizionali impieghi di sostegno umanitario in caso di disastro e di rimpatrio dei cittadini da zone di conflitto, appare di consolidata accettazione. Il suo multilateralismo, la frequente legittimazione da parte delle Nazioni Unite rassicurano la gran parte degli Italiani
circa un impiego della Forza Armata non aggressivo e non contrario alle istanze pacifiche, quando non pacifiste, che sono presenti in larga parte dell’opinione pubblica del nostro Paese. Sembra che gli Italiani condividano le scelte
politiche che negli ultimi anni hanno configurato l’Italia come un significativo punto di riferimento per le missioni internazionali di pace, ma non abbandonino mai una spiccata sensibilità nei confronti di ogni evoluzione nel corso
delle singole missioni e della situazione internazionale nel suo complesso.
Per il resto, esistono diverse ‘anime’ all’interno dell’opinione pubblica italiana con differenti atteggiamenti nei confronti delle Forze Armate. Alcuni nutrono profonda fiducia nello strumento militare e considerano le Forze Armate importanti istituzioni e indispensabili strumenti per la stabilità internazionale. Per altri invece l’istituzione militare è vissuta come una sorta di argomento tabuizzato, poco conosciuto e affrontabile solo attraverso idee precostituite. La ricerca ha messo in luce che le opinioni politiche hanno un certo peso
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in proposito e che certi tipi di cultura politica influenzano sensibilmente le
opinioni e le valutazioni. Ma, al di là delle specifiche differenziazioni emerse,
permangono presso l’opinione pubblica italiana sia una difficoltà culturale
piuttosto diffusa nel confrontarsi con le tematiche legate all’idea di un conflitto armato, sia una ricorrente perplessità sulle dimensioni del ‘militare’.
In sintesi la ricerca ha permesso di mettere in chiaro – e i saggi che seguono lo testimoniano ampiamente – importanti dimensioni che sottostanno alle
opinioni espresse dal campione, dimensioni di cui occorrerebbe tener conto
in un dibattito che si spera possa realmente e approfonditamente svolgersi a
livello nazionale. Infatti è necessario un pieno, maturo coinvolgimento delle
popolazioni in questa nuova emergente dimensione dell’integrazione europea
per conoscerne le modalità e soprattutto – è questo un punto di notevole rilevanza – condividere le nuove sfide che attendono le Forze Armate; solo a queste condizioni l’Europa della difesa e della sicurezza sarà un’ulteriore occasione per far crescere l’Europa della democrazia.
Roma, maggio 2003
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Capitolo primo
Legittimazione funzionale e coscienza cosmopolita:
l’Europa e la comune politica di sicurezza e difesa
Francesco Antonelli
L’Europa e le appartenenze politico-culturali
La società complessa è caratterizzata da una condizione singolare in cui
si trova l’individuo: da una parte egli sembra sempre più ‘sradicato’ dalle comunità e dai grandi gruppi sociali (classe, nazione ecc.) a cui nella prima modernità apparteneva, dall’altro alcune forme identitarie localiste, forti e totalizzanti, sembrano affacciarsi – o riaffacciarsi – sulla scena della Storia.
Nel tentativo di razionalizzare e comprendere la crescente complessità sociale, la sociologia più recente e attenta, ha posto l’accento sul concetto di individualizzazione; con questo concetto si fa riferimento a quel processo mediante il quale, a più livelli sociali (politico, economico, familiare ecc.), l’individuo si slega sempre più dai condizionamenti, dalle costrizione, ma anche –
come contraltare – dalla sicurezza dei grandi legami sociali, divenendo autonomo arbitro e artefice del suo destino, della sua biografia e delle sue scelte di
vita. Questo è un processo duplice: da un lato, a livello microsociale, è di tipo
prevalentemente cognitivo, per cui l’individuo tende a credere – o è ideologicamente indotto a farlo – che le conseguenze della proprie azioni risiedano
nelle sue sole scelte (responsabilizzazione individuale); dall’altro, a livello macrosociale, si afferma e viene continuamente rafforzata una tendenza generale alla de-responsabilizzazione delle istituzioni sociali e politiche: il compito di
chi governa, e degli apparati istituzionali e organizzativi, si afferma, è semplicemente ‘minimale’ e ‘residuale’, cioè volto a garantire un contesto formale
corretto (diritti di libertà, sicurezza, difesa) nel quale gli individui possano
esprimere la propria autonomia liberi da vincoli ma anche, sempre più, dalle
garanzie sociali; così nelle parole di Beck, l’individualizzazione ‘è la soluzione
individuale a contraddizioni sistemiche’, il risultato della fine della società di
classe con caratteristiche cetuali.
Se ciascuno è estraneo in un mondo di estranei, arbitro ed artefice di se
stesso, anche l’identità diviene un fatto prevalentemente ‘elettivo’: essa allora
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dovrebbe essere definita come ‘auto-identità’ ed ‘auto-definizione del Sé’. In
questo senso la nostra società individualizzata è anche una società multiculturale, in un accezione del termine che va ben al di la del suo essere sinonimo di multietnicità.
Le identità politiche non sfuggono alle logiche sopra descritte, in quanto parte integrante della categoria delle identità sociali. Molteplici indizi infatti, sembrano suggerire che i percorsi della individualizzazione delle appartenenze e delle identità politiche conducano non tanto o non solo alla frammentazione dell’asse destra/sinistra, quanto alla sovrapposizione, scissione e
ricostruzione dei grandi referenti socio-politici, in primis lo Stato, all’interno
di percorsi nuovi e fortemente individuali.
Un senso di appartenenza ad una comunità costituisce uno degli elementi più importanti di ogni identità politica; ora, quello riferito alle grandi comunità politiche era caratterizzato prevalentemente in senso esclusivo. Questo era vero sia se per grandi comunità politiche si intendono gli Stati-nazione, sia se si intendono le grandi religioni politiche del ventesimo secolo: il senso del Noi esclude automaticamente l’appartenenza contemporanea a comunità diverse che si collochino al medesimo livello – chi è francese non può anche essere italiano – e spesso anche a livelli diversi – in uno Stato, il centro
deve prevalere sulla periferia –; ma la destrutturazione dello Stato ed il tramonto delle tradizionali religioni politiche, pongono fine a queste drammatiche alternative: il formarsi di sensi di appartenenza e di identità politiche
sovrapposte e spesso ambigue divengono una realtà largamente diffusa. Anche il senso di appartenenza allora si declina al plurale e viene sostituito dai
sensi di appartenenza (Bauman 2002; Beck 2000; Giddens 1994; Melucci,
2000).
Un’indagine sull’Europa non può che partire proprio da questi elementi, che costituisco il quadro complessivo all’interno del quale situare ogni dato e considerazione sulla costruzione di una comune politica di sicurezza e
difesa. Nello specifico, la nostra analisi sulle identità non può non incominciare dal senso di appartenenza all’Italia.
Il senso di appartenenza e l’orgoglio di essere italiano
Nella ricerca, la domanda ‘Quanto si sente orgoglioso di essere italiano?’, costituiva un indicatore della componente affettiva del senso di appartenenza all’Italia, di cui l’orgoglio rappresenta la manifestazione più evidente
ed intelligibile.
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I risultati hanno evidenziato una prevalenza della modalità ‘molto’ (49%),
seguito da ‘abbastanza’ (35%) e dalla modalità ‘poco’ (10, 3%); quasi irrisorio il dato relativo al valore ‘per niente’ (1, 4%) [fig.1]:
Fig. 1: quanto si sente orgoglioso di essere italiano?
50
40
30
20
10
0
Molto
Abbastanza
Poco
Per niente
Sebbene, come è evidente, i risultati ci spingono ad affermare che il sentimento d’orgoglio sia ampiamente diffuso presso gli intervistati, la composizione dell’opinione in base all’area politica consente di giungere a conclusioni più articolate:
1. La modalità ‘molto’ risulta formata in netta prevalenza da intervistati di destra (42%), seguiti da quelli di sinistra (28,6%), mentre quasi eguali sono i valori relativi al centro (13,9%) e a nessuna appartenenza politica (15,5%);
2. Per la modalità ‘abbastanza’, i risultati si dimostrano simmetrici rispetto ai
precedenti, con una prevalenza degli intervistati di sinistra (45,7%), seguiti da quelli di destra (26,6%); ancora una volta, molto simili appaiono i valori relativi al centro (11,5%) e a nessuna appartenenza politica (16,2%);
3. Nettissima è la composizione politica delle modalità ‘poco’ e ‘per niente’.
La prima risulta essere composta in grandissima maggioranza da intervistati di sinistra (64,2%), seguiti a molte lunghezze di distanza da intervistati di
destra e con ‘nessuna appartenenza politica’ (entrambi al 16%), mentre sono quasi assenti gli intervistati di centro (3,7%);
4. In una direzione ancora più chiara si muove la composizione per area politica della modalità ‘per niente’, con l’esclusiva presenza di intervistati di sinistra (63,6%) e che non si riconoscono in alcuna area politica (36,4%).
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In generale dunque, il senso di appartenenza all’Italia appare diffuso e radicato nella coscienza degli intervistati: la collettività nazionale quindi, come
gruppo di appartenenza e di riferimento positivo, sembra tenere.
I fattori politici, tuttavia, sembrano agire ‘da filtro’ e ‘matrice’ nella costruzione sociale di questo sentimento, generando modi ‘politicamente tipici’
di viverlo; è questo un fatto, di estremo rilievo: infatti, ciò potrebbe indicare
una persistenza dell’ideologizzazione e del crinale destra-sinistra all’interno
della società italiana; in particolare – stando a questi primissimi risultati – sembrerebbe che:
• la sinistra presenti una gamma più ampia di posizioni, che ricoprono tutto
lo spettro della scala, risultando perciò, più ‘lacerata’ al suo interno; il sentimento di orgoglio che prevale è più misurato e (forse) contrastato rispetto a quello tipico della destra. Come si vedrà, queste caratteristiche aprono
la strada, alla possibilità di appartenenze multiple e maggiormente universaliste.
• La destra invece, risulta ampiamente soprarappresentata nelle prime due
modalità, finendo per sembrare più compatta sul terreno dell’affettività nazionale; il sentimento di orgoglio che prevale allora, sembra più intenso e
(forse) ‘acritico’ rispetto a quello tipico della sinistra.
Il senso di appartenenza e la patria
Tramite il quesito ‘Quale considera la sua patria?’ avevamo invece intenzione di individuare quale fosse la principale collettività politico-culturale di
riferimento degli intervistati.
I risultati hanno evidenziato una netta prevalenza della modalità ‘Italia’,
considerata la propria patria dal 64,6% degli intervistati; segue poi, in maniera da noi del tutto inaspettata, il ‘mondo’, con un sorprendente ‘15,4%; di sicuro rilievo anche il risultato conseguito dalla ‘città dove sono nato-a o vivo’
con ben 11,1%; una sorpresa assoluta è stato poi il risultato della modalità
‘Europa’, con solo il 4,9%; infine, estremamente basso il risultato relativo ‘alla regione dove sono nato\a o vivo’ con solo il 2% [fig. 2]:
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Fig. 2: quale considera la sua patria?
Fig.2: "quale considera la sua patria?"
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10
0
Città
Regione
Italia
Europa
Mondo
Questi risultati sembrano suggerire che Il senso di appartenenza – pur essendo nella maggior parte delle persone radicato nella propria patria di nascita (l’Italia) – risulti oggi più complesso e sfumato, in grado di manifestarsi verso collettività diverse, non necessariamente inconciliabili fra loro; in altre parole, il processo d’identificazione si frammenta in percorsi diversi, il cui centro e trait d’union risulta essere l’attore sociale con la sua possibilità di scelta
e di aggregazione di frammenti identitari diversi: un senso di appartenenza
aperto e in continuo farsi ne diventa la manifestazione più evidente. Quest’elemento, che ribadisce la tendenza alla individualizzazione dell’identità politico-sociale comporta, come conseguenza, la diffusione di sensi di appartenenza tipicamente postmoderni, che si rivolgono verso collettività di prossimità
(la città) o lontane e per molti versi puramente ideazionali (il mondo).
In questo contesto, l’Italia si conferma il ‘paese delle cento città’, con un
localismo che si esprime prevalentemente su base comunale e cittadina, a svantaggio di connotazioni regionaliste; ciò è per molti versi il risultato di una lunga sedimentazione storica: mentre le città sono percepite come comunità dotate di una lunga tradizione e di una propria identità, di cui volentieri si fa parte,
le regioni risultano essere mere ‘entità amministrative’, create artificialmente e
solo da poco entrate a far parte della nostra vita. All’autenticità della dimensione cittadina dunque, sembra contrapporsi l’inautenticità della dimensione regionale, che non appare sostenuta da alcun radicato senso di appartenenza.
Sulla base di queste considerazioni saranno analizzate qui di seguito le
quattro modalità principali – ‘la città dove sono nato-a o vivo’, ‘l’Italia’, ‘l’Eu© Rubbettino
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ropa’ ed il ‘mondo’, mentre la modalità ‘la regione dove sono nato/a o vivo’
sarà tenuta presente solo in sede di analisi conclusiva – con lo scopo di comprendere quali dimensioni socio-politiche siano sottese a ciascuna di esse.
A) La città dove sono nato/a o vivo
La ‘città’, presenta un’interessante composizione dal punto di vista dell’area politica e del sesso. Iniziando l’analisi dalla prima dimensione, in prevalenza risultano gli intervistati di destra (34,1%), seguiti dalla sinistra (28,4%)
e dall’area ‘nessuna appartenenza politica’ (23,9%); più limitato il dato relativo al centro (13,6%) [fig.3]:
Fig. 3: composizione per area politica della modalità “Città”
Fig.3: composizione per area politica della modalità "Città"
Sinistra
Centro
Destra
Nessuna
appartenenza
appartenenza
0
5
10
15
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25
30
Come risulta da una pur superficiale interpretazione dei dati, la composizione politica dell’opinione, è dispersa, con una leggera prevalenza della destra.
Altro dato molto interessante – come detto – è quello relativo al sesso: le
donne, infatti, risultano presenti al 60,2% ed i maschi solo al 39,7%.
Combinando questo dato con la composizione politica precedentemente
vista, risulta che:
• la prevalenza della destra è assicurata da una maggior quota di maschi
(13,6%) rispetto a quella della sinistra (8%), essendo perfettamente identi26
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ci i dati relativi alle donne di destra e di sinistra (20,5%); per quanto riguarda l’area ‘nessuna appartenenza politica’, essa risulta composta in leggera
maggioranza dai maschi (13,6% contro il 10,2% delle femmine).
Sulla base di questi risultati, è quindi possibile affermare che in linea di
tendenza:
• le donne più degli uomini – indipendentemente dall’area politica – sembrano essere localiste (localismo di genere);
• La forte incidenza dell’area ‘nessuna appartenenza politica’, indica probabilmente la presenza di un tipo di localismo non politico (localismo apolitico).
Uno dei risultati più importanti che emerge da questi dati allora, è rappresentato dalla possibilità – tutta concettuale – di costruire due tipi (o modelli) di localismo (tabella 1), che con buona approssimazione sembrano presenti in Italia.
Il primo tipo di localismo, può essere definito – in modo forse un po’ improprio – di genere; esso sembra basarsi essenzialmente su dati culturali e risulta trasversale alle aree politiche. In questo ambito, sembra dominare la cultura dell’attaccamento alla propria terra, alle sue tradizioni e alla sua cultura.
Diverso è il caso del localismo apolitico; Quest’ultimo, per la sua connotazione ‘politica post-politica’, sembra inscriversi su una tipica matrice culturale da
‘trionfo del privato sul pubblico’, della prossimità sulla distanza, della chiusura sull’apertura; in questo contesto allora, la città come patria, viene vissuta o
come un ‘mondo locale’ (Cotesta, 2000; Geertz, 1999) dotato di un’intrinseca
positività che si oppone alle minacce esterne e all’ordine politico dominante;
oppure come una identità tipicamente postmoderna, rilevante e significativa
perché fornisce un’appartenenza forte e vicina, che consente all’individuo di
non sentirsi sradicato ed estraneo; come tale, essa non è necessariamente in
contrapposizione con altre fonti d’identità e collettività.
Tab. 1: tipi emergenti di localismo
Tipi emergenti di localismo
Localismo apolitico
Localismo di genere
Nell’era della globalizzazione, la forza del localismo – comunque lo si voglia interpretare – sembra confermare che la diversità ed il senso della comunità, lungi dal venir meno e si rafforzino e quasi si nutrano della spinta all’o-
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mogeneizzazione e alla mondializzazione della sfera economico-strumentale
(Touraine 1998; Antonelli 2002a).
B) L’Italia
La terza modalità della domanda presenta un interessante composizione
dal punto di vista dell’area politica, mentre, è privo di interesse il dato relativo al sesso.
In particolare, questa modalità risulta scelta in prevalenza da intervistati
di destra (39,1%), seguiti da quelli di sinistra (33,1%). Questa composizione
della modalità in questione, suggerisce, a conferma del risultato emerso a proposito della domanda 6.2 che:
• Gli intervistati di destra, si identificano più di quelli di sinistra con l’Italia,
intesa quale patria e collettività politico-culturale di riferimento.
C) L’Europa
Questa modalità, assume senz’altro un rilievo particolare per la presente
ricerca; essa presenta, ancora una volta, un’interessante composizione dal
punto di vista dell’area politica, con una netta prevalenza della sinistra (50%),
seguita dall’area ‘nessuna appartenenza politica’ (31,3%); i dati relativi alla
destra (12,5%) e al centro (12,5%) sono invece molto esigui.
La composizione della modalità in questione, appare di grande interesse:
da una parte, infatti, gli intervistati di sinistra risultano essere quelli che maggiormente si identificano con l’Europa come collettività politico-culturale di
riferimento; dall’altra, sono massicciamente presenti anche quelli che non si
identificano con nessuna area politica; questo potrebbe indicare l’emergere di
due modi diversi di sentire l’Europa come referente della propria identità: il
primo, appare ancorato ad una matrice politica specifica che ne costituisce la
connotazione distintiva (europeismo politico forte) e ne fa quasi un segno specifico di essa; il secondo modo, più ‘leggero’, indica l’emergere di un sentirsi
europeo al di fuori di ogni schema politico; così, se anche in questo caso si può
parlare di segno distintivo, lo si deve fare sottolineando che l’Europa come patria sembra essere, per questa categoria d’intervistati, una collettività differenziata dalle logiche politiche ed ideologiche dello Stato-Nazione, una collettività post-nazionale e più universale.
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D) Il mondo
In quest’ultima modalità, la composizione per area politica, risulta totalmente sbilanciata a favore della sinistra (67,5%), seguita a grande distanza dall’area ‘nessuna appartenenza politica’ (17,1%); molto bassi, infine, i valori relativi alla destra (10,6%) e al centro (4,9%).
Per quanto riguarda la composizione per sesso, questa non risulta tanto
rilevante in sé, quanto combinata con i dati relativi all’area politica precedentemente visti; attraverso quest’incrocio ulteriore, infatti, preponderante risulta la presenza delle donne di sinistra (37,4%) rispetto ai maschi della stessa
area (30,1%), e di quelle rispetto alle donne degli altri schieramenti politici
[fig.4]:
Fig. 4: composizione per sesso ed area politica della modalità “Mondo”
Fig.4 : composizione per sesso ed area politica della modalità "Mondo"
40
35
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Sinistra
Centro
Maschi
Destra
Nessuna
appartenenza
Femmine
Pur essendo, in generale, gli intervistati di sinistra quelli che maggiormente considerano il ‘mondo’ come loro principale patria (universalismo), all’interno di quest’area, significativa è la differenza tra donne e uomini, con la conseguenza che ‘l’appartenenza universalista’ assume una connotazione duplice:
di genere e politica. In alcuni segmenti della società allora, si può ipotizzare
l’affermarsi una sorta di senso di ‘responsabilità globale’, un sentirsi parte dell’umanità, che trascende i confini – ideologici e fisici – dello Stato-nazione. In
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particolare, l’enfasi sul ‘mondo’ come patria elettiva, indica quanto il discorso sulla società globale – al di là del semplice globalismo economico – si vada
radicando nella nostra cultura politica trasportando, su un piano sociale generalizzato, quella coscienza cosmopolita che in passato era stata caratteristica
di ristrette élite culturali. Ciò riflette probabilmente i cambiamenti politici ed
economici verificatisi negli ultimi venti anni che mettono profondamente in
crisi l’idea dello Stato-nazione quale centro del potere ed aprono la strada a
tendenze volte al suo superamento.
Il senso di appartenenza all’Europa
Con la domanda ‘Si sente europeo?’ siamo entrati in modo diretto nel
cuore della ‘questione’ europea; in sostanza, qui si voleva indagare il modo e
la dimensione del senso di appartenenza all’Europa come tale.
I risultati hanno evidenziato una certa dispersione fra le prime tre modalità, rispettivamente con valori pari al 19,1% per ‘molto europeo’, 32,6% per
‘piuttosto europeo’ e 35,4 per ‘un po’ europeo’, che risulta la modalità più
scelta; la modalità ‘per niente europeo’ presentava invece un valore relativamente basso pari al 7,9% [fig. 5]:
Fig."quanto
5: quantosisisente
sente europeo?
Fig.5:
europeo?"
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35
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25
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5
0
Molto europeo
Piuttosto europeo
Un po' europeo
Per niente europeo
Quindi, mentre molti sondaggi rappresentano l’Italia come paese europeista per eccellenza, la realtà emersa dalla nostra ricerca si dimostra molto
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più complessa e sfumata; in particolare, al di là di affermazioni superficiali, ciò
che emerge è un senso di appartenenza all’Europa molto meno diffuso di quello che si crede e assai più contrastato.
Anche in questo caso, per una migliore comprensione del problema, sembra fondamentale la discriminante destra/sinistra, con la netta prevalenza di
quest’ultima (52,9%) nella prima modalità (‘molto europeo’) e della destra
(44,3%) nell’ultima (‘per niente europeo’).
Tale distribuzione in particolare, ci consente di affermare che:
• Il senso di appartenenza all’Europa è più presente nella sinistra che nella
destra; dunque, volendo generalizzare, tanto più ci si muove nello spazio politico (italiano) da destra verso sinistra, tanto più cresce il senso di appartenenza all’Europa.
D’altra parte, questi risultati arricchiscono quanto precedentemente
emerso a proposito del senso di appartenenza ad una patria specifica; l’Europa, infatti, non sembra caratterizzarsi come un identità forte e radicata, ma superficiale e debole, schiacciata da altre identità più consolidate e soprattutto
emotivamente più vicine. In questo contesto, il dichiararsi – più che il sentirsi – europeo acquista una connotazione marcatamente ideologica: chi è di sinistra, sembra fare dell’europeismo una specie di segno esteriore della propria
appartenenza politica, mentre chi è di destra assume un comportamento in
parte opposto. Quanto questo sia il risultato delle vicende politiche che hanno caratterizzato l’ingresso dell’Italia nell’euro è difficile a dirsi; certo, appare
incontrovertibile il totale ribaltamento del significato politico-ideologico che
l’Europa ha subito nel contesto italiano; mentre infatti, per quasi tutta la storia della sua integrazione, l’Europa è stata contestata nel suo modo di realizzarsi dalla sinistra, oggi appare proprio quest’area politica quella maggiormente favorevole ad essa.
La questione della doppia cittadinanza
In questo contesto di ambiguità e complessità del modo di essere degli attori sociali rispetto alle appartenenze, la ‘questione della doppia cittadinanza’
e della doppia appartenenza all’Italia e all’Europa assumono una fondamentale importanza. La domanda ‘Secondo lei, è possibile sentirsi contemporaneamente cittadini italiani ed europei?’ è stato l’indicatore mediante il quale
questo problema è stato indagato.
I risultati hanno evidenziato la prevalenza delle prime due modalità, rispettivamente il 48,4% per la prima (‘si, naturalmente’) e il 35,5% per la se-
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conda (‘si, ma non è la stessa cosa’), mentre la terza (‘penso sia difficile’) si è attestata al 10,1% e la quarta (‘no, non è possibile’) solo al 2%.
Ancora una volta si dimostra interessante la composizione politica delle modalità, che ci aiuta a comprendere meglio questi risultati; in particolare, verrà presa in considerazione la composizione delle prime tre, considerata la limitatezza
del dato relativo alla quarta; così:
• La prima modalità (‘si, naturalmente’) risulta composta in prevalenza da intervistati di sinistra (47,8%), seguiti a grande distanza da quelli di destra (25,3%),
di centro (13,3%) e che non si riconoscono in alcuna area politica (13,6%).
• Opposta invece, è la composizione per area politica della seconda modalità (‘si,
ma non è la stessa cosa’), con la prevalenza della destra (39,6%), seguita dalla
sinistra (29,7%), dall’area ‘nessuna appartenenza politica’ (17,7%) e dal centro (13,1%).
• Meno netta, infine, la composizione della terza modalità (‘penso sia difficile’),
pur nella prevalenza della destra (38%), seguita a breve distanza dalla sinistra
(32,9%), dall’area ‘nessuna appartenenza politica’ (24,1%) e dal centro
(5,1%).
L’idea della doppia cittadinanza, pur nelle diverse sfumature, è allora accettata dalla grande maggioranza degli intervistati: la sinistra, però, si dimostra più
entusiasta della destra.
In particolare, confrontando i risultati con quelli relativi alle precedenti domande, emerge l’apparente contraddizione tra una contrastata – se non rifiutata
– idea dell’Europa come patria esclusiva e la contemporanea accettazione dell’idea della doppia cittadinanza. Tuttavia, questo dilemma è solo apparentemente
tale; esso, infatti, si risolve se si pone mente da una parte al progressivo svincolarsi – anche per opera dello stesso processo di costruzione dell’Europa – dell’idea di cittadinanza da quella di nazione; e dall’altro, se ci si riferisce alla divisione del lavoro politico fra livelli diversi di governo. La doppia cittadinanza allora,
diviene un quid aggiuntivo – e non alternativo – di diritti, un estensione desiderata delle proprie garanzie ed opportunità: l’Europa cioè, riacquista una valenza
positiva se intesa in senso funzionale e strumentale ai propri interessi.
Il doppio cittadino quindi è sostanzialmente un avente diritto (Burdeau,
1979), uno che più che aderire al progetto politico ideale dell’Europa, ne coglie
solo i possibili vantaggi. Non a caso, la stragrande maggioranza del nostro campione indica come valore prioritario (domanda 6.1) ‘la tutela della libertà e dei
diritti umani’ (41,4%) e come valore secondario l’azione volta a ‘rendere la società un luogo libero dove ognuno possa esprimere la sua personalità’ (17,4%) e
tra gli ultimi ‘dare alle persone maggior potere decisionale nel lavoro e nella comunità’: una chiara indicazione di come si verifichi una frattura generalizzata fra
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una richiesta di diritti sempre più ampi e la partecipazione, tra l’adesione morale ed emotiva ad una comunità ed il fruire dei suoi vantaggi. In questo contesto
quindi, non può e non deve stupire l’idea di una doppia cittadinanza non sostenuta da un senso forte dell’appartenenza all’Europa.
Un grappolo d’identità
A conclusione di queste prime analisi, è possibile affermare che mentre da
una parte la ‘tradizionale’ identità italiana tiene, dall’altra, il campo culturale delle appartenenze si allarga sempre più, includendo gradualmente identità che si
strutturano secondo percorsi diversi rispetto a quelli della prima modernità.
Queste ‘nuove’ identità sembrano costruite su un complicato intreccio di elementi eterogenei, come le aree politiche, le culture di genere, i sensi d’insoddisfazione e i desideri di superamento dell’esistente.
L’italiano, infatti, nel costruire la sua gamma d’identità, sembra più un mediatore che cerca un trait d’union fra vecchio e nuovo, fra identità ascritte per nascita e tipiche della prima modernità (l’Italia), ed identità che seguono percorsi
diversi (la città, il mondo). In questo quadro, l’Europa esce ‘sconfitta’ se la consideriamo come patria, ma probabilmente vincente se la consideriamo come entità strumentale ai bisogni dell’individuo: così, essa sembra legittimarsi più sulla
base della sua funzionalità che di un autonomo sostrato ideologico e culturale.
Questo fatto è fondamentale per comprendere quali sono gli spazi di legittimazione su cui presumibilmente l’Europa può contare – al di là delle contingenti questioni del consenso – anche per le sue politiche di sicurezza e difesa. Per
controllare quest’ipotesi occorre però prendere in considerazione altre tre dimensioni fondamentali: l’impatto percepito delle istituzioni europee sulla vita dei
cittadini – comparato con quello delle istituzioni italiane – le aspettative ed il ruolo che i nostri intervistati attribuiscono all’Europa nel futuro – soprattutto nel
campo della sicurezza e difesa – ed infine, i meccanismi decisionali ritenuti più
idonei per porre in essere queste politiche.
Presenti o assenti? istituzioni italiane ed europee a confronto
Mediante il quesito ‘Rispetto alle seguenti istituzioni può indicarci il livello di impatto che ritiene abbiano sulla sua vita?’ volevamo individuare il livello
d’impatto che una serie di istituzioni europee ed italiane hanno sulla vita della gente. In particolare, lo scopo della domanda consisteva nel comprendere
© Rubbettino
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la percezione che gli italiani hanno delle istituzioni politiche (europee ed italiane), colte nella dimensione dell’incidenza – o influenza – della loro azione
sulla vita quotidiana. L’assunto di base è che le istituzioni siano anche elementi cognitivi di cui gli attori sociali tengono conto nell’orientare i propri comportamenti e atteggiamenti; così:
• più cresce l’impatto percepito di un’istituzione sulla vita della gente, più
quest’istituzione diventa, nelle società complesse, responsabile per il buono o – più spesso – cattivo andamento degli affari sociali, politici ed economici; il consenso verso di essa allora, deve essere continuamente rinegoziato e la sua attività diventa bersaglio usuale di critica.
L’analisi e la comparazione dei dati relativi all’impatto percepito, consente di costruire una sorta di mappa delle istituzioni. Nel nostro specifico caso,
questa mappa ci consente di valutare il grado in cui le istituzioni europee sono entrate nella coscienza della gente e se e quanto ne sono uscite quelle italiane. In sostanza, con tale strumento, si è inteso ancora una volta valutare –
dal punto di vista istituzionale – l’interazione fra la dimensione europea e quella italiana.
I risultati hanno evidenziato una forte differenza fra la percezione delle
istituzioni italiane ed europee; le prime, infatti, vengono giudicate – con la significativa eccezione delle FF.AA. – come molto rilevanti nel loro impatto, sulla vita quotidiana; al contrario, le istituzioni europee – con la significativa eccezione della Banca Centrale Europea – sono considerate a medio/basso impatto.
Impatto percepito delle istituzioni italiane
L’analisi dei dati relativi al gruppo italiano, evidenziano una netta polarizzazione in direzione del valore ‘alto impatto’ per tutte le istituzioni proposte.
Fra queste, un ruolo assolutamente preminente, lo occupa il ‘Governo’,
considerata dal 75,2% degli intervistati l’istituzione a più alto impatto sulla vita; segue poi il ‘Parlamento’ con il 71,4%, il ‘Sistema di Giustizia’ con il 62,7%
e la ‘Banca d’Italia’ con il 55,4%; infine, troviamo le ‘Forze Armate’ con solo
il 27,2% degli intervistati che le attribuiscono un alto impatto.
Il sistema di governo parlamentare allora, risulta essere largamente assimilato nella coscienza degli italiani come principale sistema della vita pubblica; non di meno, i dati segnalano che gli italiani accordano al suo interno una
preminenza al governo, giudicato come l’istituzione cardine di tutto il sistema,
il principale responsabile ‘dell’andamento delle cose in Italia’; d’altronde,
questa percezione risulta coerente con l’evoluzione istituzionale in corso.
34
© Rubbettino
Vistosa è invece la perdita d’importanza della Banca d’Italia, come conseguenza, probabilmente, dell’introduzione dell’euro.
Infine, il dato relativo alle FF.AA., per essere compreso, richiede un maggior approfondimento circa la composizione per area politica delle tre modalità aggregate. In particolare, mentre gli intervistati di destra si sono divisi fra
le modalità ‘alto’ e ‘medio’, quelli di sinistra si sono invece concentrati in gran
numero nella modalità ‘basso’.
Impatto percepito delle istituzioni europee
L’analisi del dato relativo al gruppo europeo invece, evidenzia una marcata polarizzazione in direzione del ‘basso impatto’ per tutte le istituzioni proposte, senza che vi sia una significativa differenza fra di esse; l’unica, rilevante eccezione, è quella della Banca Centrale Europea [Fig.6].
L’anomalia – rispetto alle caratteristiche generali del campo istituzionale
considerato – della ‘Banca Centrale Europea’, letta assieme al dato relativo alle altre istituzioni, sottolinea come l’euro, se ha contribuito a diffondere presso la gente l’idea dell’importanza della B.C.E., non è però servito a rafforzare
l’idea dell’Europa come entità politica che incide direttamente sulla vita quotidiana; la moneta unica dunque, ha veicolato il messaggio che la sovranità
economica è stata ceduta, in parte, ad un’entità sovranazionale, ma non ha
rappresentato il segno di una complessiva maggior integrazione in un’entità
sovranazionale: limitate sono state le ricadute positive della moneta a favore
di una maggior legittimazione delle altre istituzioni europee.
Fig. 6: livello d’impatto percepito delle istituzioni europee
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
Consiglio
d'Europa
Parlamento
Europeo
Commissione
Europea
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Corte di giustizia
Europea
Banca Centrale
Europea
35
Istituzioni europee ed italiane a confronto
Confrontando i risultati relativi ai due gruppi, o campi istituzionali, si può
dire che:
• Le istituzioni italiane mantengono la loro centralità nella percezione della gente; le istituzioni europee invece, complessivamente intese, risultano più distanti dalla quotidianità. Questo fatto è coerente con quanto detto a proposito del
senso di appartenenza degli italiani, per cui l’Europa, non risulta essere elevata nella coscienza collettiva al rango di ‘patria’; al contrario, pur tra molte difficoltà, l’Italia mantiene il suo ruolo di ‘patria di riferimento’ per la gran maggioranza degli italiani.
Coerentemente con questa visione complessiva, gli italiani percepiscono il
governo ed il parlamento italiano come sedi del potere politico e delle decisioni,
mentre, così come risulta dalla comparazione dei dati relativi alla Banca d’Italia
e alla B.C.E., si sta affermando l’idea che la sede del potere economico sia altrove, e cioè in Europa.
In questo senso, la natura marcatamente economicista dell’U.E., sembra
aprire la strada a due scenari alternativi.
Il primo, più positivo, comporta la riacquisizione cognitiva del referente economico da parte della gente comune (l’Europa), con una conseguente riappropiazione di quella parte della realtà sociale – l’economia – che sembra, sotto la
spinta della globalizzazione, divenuta del tutto autoreferente ed incontrollabile,
accomunabile al destino o al caso.
Il secondo, fortemente negativo, comporta un assimilazione fra la distanza
che gli individui avvertono nei confronti delle altre grandi forze economiche della globalizzazione e l’Europa; la moneta unica rischierebbe in questo caso, di accentuare la scissione – anche cognitiva – fra sfera economica e sfera sociale tipica di questa fase storica, anziché ridurla. Così, in prospettiva, si potrebbe giungere ad un pericoloso gap percettivo fra la iper-responsabilizzazione del governo
e della politica italiana da una parte, e la de-responsabilizzazione dell’economia
e della finanza dall’altra. La conseguenza di questo può essere duplice: l’accentuarsi della ‘crisi di governabilità’ del nostro paese da una parte, e la conseguente richiesta – probabilmente anche caratterizzata da un alto grado di violenza –
di riappropiazione della sovranità economica dall’altra.
Il futuro ruolo politico dell’Europa: un alto profilo?
Proprio a fronte di questo medio-basso impatto percepito delle istituzioni
europee, è importante verificare le aspettative verso l’Europa ed il ruolo complessivo che ne deriva; questi aspetti sono stati indagati in tre dimensioni:
36
© Rubbettino
• La prima è la dimensione concernente le aspettative sulle policy che in futuro
l’Unione è chiamata a porre in essere.
• La seconda concerne le aspettative complessive sul ruolo politico dell’U.E.
• La terza, infine, è la dimensione riguardante nello specifico la costruzione delle politiche istituzionali della sicurezza e difesa.
Le priorità politiche dell’Europa
La domanda di apertura del questionario è stata: ‘Secondo lei, dopo la
moneta unica, l’Unione Europea che tipo di priorità dovrebbe dare alle seguenti questioni?’; con questa domanda, intendevamo misurare il grado d’importanza che gli intervistati assegnavano a ciascuna delle dodici policy presenti nel questionario.
I risultati, hanno evidenziato la generale polarizzazione dell’opinione per
tutte le iusses in direzione dei valori ‘molto alta’ ed ‘alta’, (tabella 2):
Tab. 2: priorità politiche dell’Europa
Molto alta
Alta
39,8
40,3
59
32,6
Politica sociale
30,3
42,6
Protezione dell’ambiente
51,8
34,9
Difesa
22,9
30,4
Sicurezza pubblica
38,5
37
Sanità
57,5
29,5
Cultura ed educazione
38,3
38,8
Politica estera
21
42,1
Ricerca scientifica
35
41,3
20,1
32,5
Sicurezza alimentare
Occupazione
Politica agricola comune
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La forte polarizzazione, sembra indicare un alto livello di preoccupazione per l’attuale momento sociale, politico ed economico, che si traduce in una
domanda generalizzata di attenzione per tutte le problematiche: il quadro
quindi, è quello tipico della società del rischio, ove l’orizzonte di aspettative
dei cittadini è fortemente influenzato dal senso dell’insicurezza. (Su questo
punto, si veda il saggio di Zaretti).
Come conseguenza, aumenta la richiesta d’intervento delle istituzioni politiche nella società, specie in quegli ambiti di assoluta centralità per il benessere individuale; infatti, le policy maggiormente prioritarie – considerando i
valori relativi alla modalità ‘molto alta’ – appaino essere, nell’ordine, ‘l’occupazione’, ‘la sanità’ e ‘la protezione dell’ambiente’.
Questi risultati, a mio giudizio, vanno letti unitamente a quelli relativi alle istituzioni europee: essi si spiegano a vicenda.
Ciò che gli intervistati sembrano voler dire con le loro risposte, i loro commenti, è che l’Unione Europea risulta essere, così com’è, distante dalla vita
quotidiana (dimensione dell’essere) ma che ha tutte le carte in regola per intervenirvi in modo più incisivo (dimensione del dover essere), specie in quegli ambiti che più direttamente hanno un influenza sul benessere e la qualità
della vita degli individui; il quadro – ancora una volta – sembra proprio quello dell’avente diritto (Burdeau, 1978), rispetto al quale l’Europa – a fronte di
un basso grado d’identificazione – appare un mero strumento d’azione, sebbene ritenuto particolarmente efficace.
Inoltre, questa domanda di un maggior intervento nella società, sembra
una specie di richiesta a rivitalizzare lo Stato sociale, collocato però, in una
cornice sovranazionale; questa non costituisce un problema; anzi proprio per
la sua caratteristica di distanza, di terzietà rispetto agli Stati, l’Europa sembra
più adatta e più efficace nel perseguire quei compiti che lo Stato-nazione non
assolve più. Insomma, a prevalere è la richiesta di una sorta d’intervento dall’esterno a favore dell’integrazione sociale e della sicurezza, in un quadro però
di rigenerazione delle istituzioni comunitarie.
Il ruolo futuro dell’U.E
La domanda ‘In futuro lei auspicherebbe per l’Unione Europea:’ è stata
considerato un indicatore sulle aspettative degli italiani nei riguardi del futuro ruolo politico dell’Unione Europea. I risultati hanno evidenziato una polarizzazione dell’opinione verso i valori ‘totalmente d’accordo’ e ‘parzialmente
d’accordo’ per tutti gli items (tabella 3):
38
© Rubbettino
Tab.3: aspettative sul futuro ruolo politico dell’U.E
Totalmente
d’accordo
Parzialmente d’accordo
Un aumento di potere politico ed economico
53, 6
31, 3
Una maggiore attenzione al livello di vita
delle sue popolazioni
77, 9
17, 8
Una leadership politica ed economica
mondiale
39
31
Un ruolo più incisivo di mediazione dei
conflitti internazionali
63, 9
24, 9
Una leadership nei processi di pacificazione mondiale
61, 8
26, 1
Una maggiore autonomia dagli Usa
60, 3
21, 3
Una maggiore attenzione ai problemi
della propria sicurezza
65, 6
23, 5
Questa polarizzazione sembra indicare l’elevato carico di aspettative che
gli italiani ripongono nell’U.E. e l’auspicio diffuso che questa, in futuro, possa affermare in modo più incisivo il proprio ruolo.
Tale auspicio è senz’altro ancora vago e confuso, magmatico ed ambiguo;
in altre parole, sebbene il bisogno di un alto profilo dell’Europa – tanto nel
mondo quanto al suo interno – appaia esteso, le sue forme concrete, le sue missions, la sua stessa identità, stentano ancora ad affermarsi in modo chiaro.
Per esprimere un giudizio più articolato su questo aspetto, occorre costruire una graduatoria dei diversi items che ci consenta di individuare le
aspettative maggiormente sentite dagli intervistati; il grafico seguente – ricavato attraverso l’aggregazione delle prime due modalità – ci consente una prima analisi in questo senso [fig.7]:
© Rubbettino
39
Fig. 7: graduatoria delle aspettative sul futuro ruolo politico dell'U.E.
Una leadership politica ed economica mondiale
Una maggiore autonomia dagli Usa
Un aumento di potere politico ed economico
Una leadership nei processi di pacificazione
mondiale
Un ruolo più incisivo di mediazione dei conflitti
internazionali
Una maggiore attenzione ai problemi della propria
sicurezza
Una maggiore attenzione al livello di vita delle sue
popolazioni
0
10
20
30
40
50
60
70
80
90 100
Dal grafico, appare evidente che le due aspettative più interessanti sono
la prima (‘una maggiore attenzione al livello di vita delle sue popolazioni’) e
l’ultima (‘una leadership politica ed economica mondiale’); infatti, mentre il
consenso espresso nei confronti di una caratterizzazione dell’Unione in senso
marcatamente ‘welfarista’ è quasi unanime – come c’era da attendersi – esso
scende in modo (relativamente) forte nei riguardi di quell’item che più rimanda ad un ruolo internazionale di tipo ‘realista’.
Questo conferma ciò che era emerso in precedenza: la scelta netta degli intervistati a favore di un ruolo ‘forte’ dell’Europa nella promozione del benessere individuale e sociale; di fronte a questa, qualunque altra esigenza è messa
in secondo piano, compresa quella di dare all’Unione un ruolo più incisivo nell’arena internazionale. Tuttavia, se messe di fronte ad una scelta in merito, le
persone sembrano optare per una caratterizzazione ideale e pacifista dell’Europa e molto meno per un ‘profilo da potenza’. Anzi, si può affermare che il
ruolo (interno) welfarista sia simmetrico a quest’ultimo ruolo esterno. L’idea
che ne deriva, è quella di un’Europa impegnata su due fronti strettamente legati, portatrice di pace e benessere sia al suo interno che all’esterno, quasi che
la distanza percepita nei confronti delle sue istituzioni le attribuiscano una sorta di carisma particolare. In sostanza, in uno sforzo di sintesi teorica, è possibile affermare che a fronte di una situazione quale quella della società italiana per40
© Rubbettino
corsa da molteplici tensioni ed insicurezze l’intervento dall’esterno, dall’alto,
venga non solo percepito con grande favore ma addirittura auspicato come necessario; una tale situazione sembra perfettamente in linea con una cultura politica fortemente statalista ed interventista, nel cui ambito la realizzazione della propria soggettività, non sembra essere una condizione da difendere in opposizione allo Stato, ma da realizzare grazie ad esso. In questo quadro, il senso
della distanza e dalla lontananza delle istituzioni europee, anziché chiudere gli
spazi dell’intervento e dell’ampliamento dei loro poteri li apre, nell’auspicio
che un nuovo Stato sociale, più forte perché esterno e transnazionale, possa essere realizzato; in questo senso allora, l’Europa sembra legittimarsi proprio sulla base della sua funzionalità e strumentalità.
Le politiche istituzionali
Se le analisi precedenti ci hanno permesso di ricostruire l’orizzonte di
aspettative degli intervistati sulle policy che l’Unione è chiamata a porre in essere e sul suo ruolo politico futuro, quella sulle politiche istituzionali ci consente di ricostruire le specifiche aspettative sul processo di integrazione europeo nel campo della sicurezza interna ed esterna.
L’opinione sulle politiche istituzionali è stata quindi rilevata attraverso il
quesito: ‘rispetto alle seguenti affermazioni può indicarci quanto si trova d’accordo?’; seguiva poi una lista di quattro politiche istituzionali. Mentre le prime
tre (‘L’U.E. dovrebbe avere una politica estera comune’, ‘L’U.E. dovrebbe avere una politica comune di sicurezza e difesa’, ‘L’U.E. dovrebbe avere una sola
Forza Armata’) costituiscono il secondo pilastro di Maastricht – relativo alla
cooperazione nel campo della sicurezza esterna – la quarta (‘L’U.E. dovrebbe
avere una politica comune di sicurezza interna e giustizia’) concerne il terzo pilastro, relativo alla cooperazione nel campo della giustizia e sicurezza pubblica.
Per la prima e la seconda politica istituzionale (‘L’U.E. dovrebbe avere
una politica estera comune’ e ‘L’U.E. dovrebbe avere una politica comune di
sicurezza e difesa’) si è verificata una netta polarizzazione verso il valore ‘totalmente d’accordo’, rispettivamente pari al 55% e al 60,1%; questo sembra
indicare con chiarezza che l’esigenza d’integrazione nel campo della sicurezza e difesa, nonché in quello della politica estera, è ampio e diffuso. Da ciò deriva che nell’opinione degli italiani e con una forte trasversalità politica, di genere e d’età, esiste uno stretto legame fra integrazione nel campo della sicurezza e in quello della difesa: l’una sembra sostenere e rafforzare l’altra, coerentemente con la grossa insicurezza che domina nella società italiana.
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41
Per la terza politica (‘L’U.E. dovrebbe avere una sola Forza Armata’) invece, la polarizzazione è stata meno netta; infatti, pur nella prevalenza dei valori
‘totalmente d’accordo’ (30,8%) e ‘parzialmente d’accordo’ (29,9%) – valori che
esprimono un giudizio positivo dell’intervistato rispetto all’item proposto – relativamente alta è stata la percentuale dei rispondenti ‘indifferente’ (13,6%),
‘parzialmente in disaccordo’ (12,6%) e ‘totalmente in disaccordo’ (12,6%); questo risultato assume un significato particolare se letto alla luce della composizione per area politica dell’opinione, l’unico fattore che sembra di una qualche rilevanza nella spiegazione del dato relativo a questa domanda. Considerando le
modalità aggregate, infatti, è possibile individuare una relativa differenza fra destra e sinistra: mentre le modalità ‘d’accordo’ ed ‘indifferente’ sono formate in
prevalenza da intervistati di sinistra – rispettivamente, 39,9% della sinistra contro il 28,7% della destra e 50% della sinistra contro solo il 27,7% della destra –
la modalità ‘in disaccordo’ è formata in prevalenza da intervistati di destra –
40% della destra contro il 30% della sinistra – [fig. 8]:
Fig. 8: composizione per area politica (destra/sinistra) delle modalità aggregate
50
40
30
Sinistra
Destra
20
10
0
D'accordo
Indifferente
In disaccordo
Da questi dati, tenendo conto dei pesi specifici di ogni modalità, si ricava che pur essendoci un ‘accordo’ politicamente trasversale fra destra e sinistra sulla necessità di avere un’unica FF.AA., sono presenti all’interno di ciascuna area, delle minoranze d’opinione che problematizzano questa politica
istituzionale.
42
© Rubbettino
Nella sinistra, il gruppo di minoranza risulta essere composto in prevalenza da intervistati che si dichiarano indifferenti rispetto alla costruzione di
un’unica FF.AA.; nella destra invece, tale gruppo è composto in larga prevalenza da intervistati che si dichiarano in disaccordo.
Questi risultati possono essere spiegati se si fa riferimento al più alto ‘rango ideologico’ – cioè come segno della propria identità politica – che la sinistra attribuisce alla costruzione europea e alla maggiore diffidenza della destra
in materia. Di conseguenza, anche quando si verifica da parte di specifici gruppi interni alle due aree la problematizzazione di una politica di rafforzamento
dell’integrazione europea, questa viene mediata dal corrispondete quadro di
riferimento: il giudizio anche critico della sinistra allora, tende ad essere in generale più benevolo di quello della destra.
Un altro importante elemento da tenere presente è la maggior diffidenza
che la sinistra, rispetto alla destra, sembra nutrire nei confronti delle FF.AA.
italiane; questo fatto, come dimostrano anche altri risultati, ha un grande peso
sulla strutturazione dell’opinione in merito alla costruzione della FF.AA. europea: i significati negativi che la sinistra tende ad attribuire più della destra al
mondo militare italiano, vengono completamente ribaltati in una dimensione
europea; al contrario, per la destra, più nazionalista (lato sensu) e tradizionalista della sinistra, la costruzione di una FF.AA. europea, sembra comportare la
perdita di un’indispensabile pezzo di sovranità nazionale.
Se poi si fa riferimento ai commenti degli intervistati, questa visione risulta arricchita di significato: per la sinistra, infatti, lo strumento militare europeo viene spesso interpretato come un passo indispensabile per realizzare una
sorta d’affrancamento della tutela americana, sebbene raramente una tale posizione scivoli in un anti-atlantismo radicale ed estremo; per la destra invece,
abbastanza ampia si dimostra la fascia di intervistati che concepiscono lo strumento militare europeo come semplice mezzo per rafforzare la sicurezza italiana.
Infine, passiamo ad analizzare la quarta politica (‘L’U.E. dovrebbe avere
una politica comune di sicurezza interna e giustizia’); qui la polarizzazione è stata meno netta rispetto ai dati relativi alle prime due; infatti, pur nella prevalenza dei valori ‘totalmente d’accordo’, con il 39%, e ‘parzialmente d’accordo’, con
il 36,9%, relativamente più alto appare il valore della modalità ‘parzialmente in
disaccordo’ con il 9,9% [fig. 32]. Se confrontiamo questi dati con quelli relativi alla seconda politica (‘L’U.E. dovrebbe avere una politica comune di sicurezza e difesa’) risulta che, in generale, mentre l’integrazione fra sicurezza e difesa
viene concepita come logica e conseguente, entro certi limiti, maggiore sembra
la problematizzazione del legame fra integrazione nel campo della sicurezza ed
in quello della giustizia: ciò indica che la domanda specifica dei cittadini si rivol© Rubbettino
43
ge verso un completamento parallelo nell’integrazione delle politiche di sicurezza piuttosto che su un loro arricchimento mediante l’integrazione nel campo della giustizia. L’enfasi, quindi, sta prevalentemente sul momento esecutivo, a discapito della ‘chiusura istituzionale’ del sistema.
Alla luce di questi dati, appare fondamentale prendere in considerazione
gli aspetti decisionali relativi alle politiche di sicurezza e difesa.
Le decisioni relative alla politica di sicurezza e difesa
Con la domanda ‘Secondo lei, le decisioni riguardo la politica di sicurezza e difesa Europea dovrebbero essere prese da’ volevamo individuare il meccanismo che nell’opinione degli italiani dovrebbe essere adottato nella presa
delle decisioni concernenti la sicurezza e difesa europea.
Ogni meccanismo decisionale proposto, sottende una diversa visione istituzionale:
• il primo (‘un voto a maggioranza degli stati membri dell’U.E.’) veicola una
visione confederale, dato che l’enfasi è qui sui singoli Stati, mentre le istituzioni europee sono sullo sfondo;
• Il secondo (‘un voto a maggioranza del consiglio dell’U.E.’) veicola una visione federale, dato che l’enfasi è qui su una istituzione comunitaria, mentre gli Stati sono sullo sfondo;
• Il terzo (‘NATO’) veicola una visione atlantista, che esclude alcuna possibilità per l’Europa di intraprendere un’autonoma politica di sicurezza e difesa al di fuori del consolidato quadro del patto atlantico;
• Il quarto (‘Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite’) veicola una visione
‘universalista’, che sottende l’auspicio che le questioni di sicurezza e difesa
vengano affrontate al livello di ONU; questa alternativa ‘roosveltiana’ sottende una forte carica utopica, e cioè che attraverso il coinvolgimento di tutti – in particolare delle maggiori potenze – si possa realizzare una sorta di
kantiana ‘pace perpetua’.
I risultati hanno evidenziato la prevalenza del primo meccanismo (‘un voto a maggioranza degli stati membri dell’U.E.’) con il 51,5% delle risposte, seguito dal secondo (‘un voto a maggioranza del Consiglio dell’U.E.’) con il
26,4% e, dal quarto (‘Consiglio di sicurezza dell’O.N.U.’) con ben il 10,6%;
ultima la ‘NATO’, con solo il 2,9%.
La visione confederale allora, sembra prevalere sulle altre, sebbene non
in maniera netta; estremamente interessanti sono poi i dati relativi alla visione
‘atlantista’ – inaspettatamente basso – e a quella ‘universalista’ – inaspettatamente alto.
44
© Rubbettino
In generale, risulta affermata la coscienza di un’Europa che deve seguire
da sé ed in piena autonomia, la propria politica di sicurezza e difesa, sebbene le
concrete modalità mediante le quali questo debba avvenire, non sono condivise
da tutti; in particolare, attualmente, risulta maggioritaria l’opzione ‘confederale’.
La soluzione ‘atlantista’ invece – nonostante la presenza ultra decennale
della NATO – risulta dotata di uno scarsissimo consenso. Ciò, probabilmente, indica un diffuso bisogno di superamento degli attuali meccanismi di gestione della sicurezza in Europa. Così, l’unica alternativa ad una gestione autonoma della politica di sicurezza e difesa da parte dell’Europa, sembra essere quella ‘universalista’, con il ricorso al consiglio di sicurezza dell’ONU.
Questi dati, risultano arricchiti nel loro significato, dall’analisi della composizione per sesso delle tre modalità più scelte, in un quadro ove le differenziazioni politiche sono poco significative; mentre, infatti, le visioni ‘confederale’ e ‘federale’ risultano scelte quasi equamente dagli uomini e dalle donne, la
visione ‘universalista’ risulta scelta in ampia misura (60%) dalle donne [fig. 9]:
Fig. 9: composizione per sesso
Consiglio di sicurezza
ONU
Un voto a maggioranza
del consiglio
Femmine
Maschi
Un voto a maggioranza
delgi Stati
degli
0
10
20
30
40
50
60
70
Questo dato ci consente di dire che le donne risultano portatrici di una
cultura più universalista nel modo di affrontare le questioni della sicurezza e
difesa; questo dato, peraltro, risulta perfettamente coerente con il senso di appartenenza al ‘mondo’ che assume proprio connotazioni di genere.
Le decisioni sull’invio delle truppe europee all’estero
Tramite la domanda ‘Secondo lei, le decisioni sull’invio delle truppe europee all’estero dovrebbero essere prese da’ – simile dalla precedente nella
formulazione, ma diversa nell’oggetto – volevamo individuare il meccanismo
che nell’opinione degli italiani dovrebbe essere adottato per l’invio fuori area
delle truppe europee.
© Rubbettino
45
Ciascuna delle tre modalità proposte, prevede un diverso grado e tipo di
istituzionalizzazione e rinuncia ad una piena sovranità statale:
a) La prima modalità (‘i governi nazionali secondo le loro leggi’) sottende un
grado molto basso di istituzionalizzazione ed un alta quota di sovranità nazionale, e si potrebbe definire “pre-istituzionale”; in questo assetto, la responsabilità della politica in questione è tutta dei governi nazionali, che agiscono ciascuno secondo il proprio interesse e al di fuori di qualunque visione condivisa. Ogni collaborazione quindi, è affidata alla volontà delle
parti ed è contingente.
b) La seconda modalità (‘gli Stati membri europei con voto unanime’) sottende invece un grado intermedio di istituzionalizzazazione e si potrebbe definire “istituzionale debole”; in questo assetto, i governi nazionali debbono confrontarsi fra loro per prendere una decisione nell’ambito di un consesso stabile. Tuttavia, il diritto di veto di cui ciascuno dispone fa sì che gli
Stati in quanto tali, giochino sempre un ruolo fondamentale: l’istituzione
allora, è un semplice “contesto obbligato” nel quale le decisioni debbono
essere prese, ma le parti continuano a prevalere sul tutto.
c) La terza modalità (‘gli Stati membri europei con voto a maggioranza’) sottende invece un alto grado di istituzionalizzazione e si potrebbe definire
“istituzionale forte”; come nel meccanismo precedente, le decisioni debbono essere prese in un consesso stabile, ma in questo caso, tutti si impegnano a rispettare le decisioni della maggioranza. L’istituzione allora, non
è solo contesto ma fonte stessa della legittimazione della decisione: il tutto
in questo caso, prevale sulle singole parti, così come avviene nell’ambito
dei moderni parlamenti democratici.
I risultati, hanno evidenziato una certa dispersione degli intervistati nelle
tre modalità proposte; il terzo meccanismo (‘gli Stati membri europei con voto a maggioranza’) ha ottenuto la maggioranza relativa con il 46%, seguito dal
secondo (‘gli Stati membri europei con voto unanime’) con il 33,3% e dal primo (‘i governi nazionali secondo le loro leggi’) con il 12,8%.
Come deve essere interpretato questo risultato? Sebbene quella che abbiamo definito visione istituzionale forte prevalga, la somma delle altre due
alternative dà un risultato esattamente eguale (46,1%) a questa; ne consegue
che sulla tematica dell’invio delle truppe europee in missioni all’estero – che
implica il rischio di perdere vite umane e comporta precise scelte nel perseguimento degli interessi nazionali ed europei – l’opinione sembra spaccata
fra chi è favorevole ad un multilateralismo istituzionale compiuto e chi è contrario, sebbene per diversi motivi. Mentre non significativi appaiono i dati
relativi all’età ed all’area politica, estremamente interessante risulta quello
relativo al sesso; decisa, infatti, è la ‘femminilizzazione’ della dimensione
46
© Rubbettino
pre-istituzionale (‘i governi nazionali secondo le loro leggi’) con il 60% di
donne ed il 40% di uomini, e una più contenuta ‘maschilizzazione’ di quella istituzionale forte (‘gli Stati membri europei con voto a maggioranza’) con
il 53% di uomini ed il 47% di donne; l’andamento generale allora, indica un
aumento (tendenziale) della quota di donne in ciascuna modalità mano a mano che ci si sposta dalla soluzione ‘istituzionale forte’ a quella ‘pre istituzionale’, ed un andamento contrario per gli uomini [fig. 10]:
Fig. 10: composizione per sesso
Voto a maggioranza degli
Stati UE
Voto unanime degli stati
UE
Governi nazionali secondo
le loro leggi
0
10
20
30
40
Maschi
50
60
70
80
90
100
Femmine
Questo risultato, in parte stridente con quelle relativo alla precedente domanda, può essere spiegato se si fa riferimento anche ai risultati dell’analisi
qualitativa sui commenti degli intervistati; in particolare, su un tema quale
quello dell’invio di truppe in missioni all’estero – che può comportare la perdita di vite umane – le donne sembrano assegnare un maggior peso agli Stati
nazionali o comunque alle istituzioni più vicine e controllabili, in virtù di una
sorta di ruolo tradizionale rispetto al mondo militare, che ha visto la donna,
madre, moglie o figlia in attesa del ritorno ‘dell’uomo dal fronte’.
Decisioni e visioni istituzionali
Da un punto di vista più generale, i risultati relativi a queste due domande, sembrano abbastanza coerenti con quanto emerso precedentemente; in
particolare, se viene ribadita l’esigenza per l’Europa di dotarsi di autonomi
organi di gestione delle politiche di sicurezza e difesa, il ruolo degli Stati
© Rubbettino
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continua ad essere considerato importante; così, quando le decisioni riguardano l’impiego di soldati, si tende ad accentuare il peso e l’autonomia del
singolo Stato nazionale nel processo decisionale: in quest’ottica di maggiore responsabilizzazione e controllo, si muove in particolare l’opinione delle
donne.
Tutto ciò sembra aprire la strada a soluzioni istituzionali di tipo ‘confederali’, ispirate a criteri di mediazione fra la dimensione nazionale e quella sovranazionale. In questo quadro, la vera alternativa all’integrazione europea nel
campo della sicurezza e difesa, viene considerata l’ONU piuttosto che la NATO; le donne, ancora una volta, sembrano portatrici di questa alternativa ‘universalista’.
Le metafore dell’Europa: l’emergere del cosmopolitismo
La metafora è una costrutto olistico che in sé, contiene la rappresentazione di un certo oggetto colto al livello immediato, totale ed emozionale. Nella
metafora, gli attori sociali proiettano i propri desideri e le proprie aspettative
ad un livello pre-razionale e inconscio, combinando elementi percettivi ed immaginativi. In quanto dotate di queste caratteristiche, le metafore sembrano
costituire un valido punto di sintesi sul modo in cui l’Europa, complessivamente intesa, viene vissuta. Il quesito ‘Se pensa all’Unione Europea quale delle seguenti immagini userebbe per raffigurarla?’ intendeva rilevare proprio
quest’aspetto.
Da un punto di vista metodologico, le metafore proposte agli intervistati
sono state individuate attraverso dei focus group effettuati in sede di preparazione del questionario, mentre il loro significato specifico è risultato dall’analisi svolta sulle risposte fornite alla domanda (aperta) sul perché gli intervistati avessero scelto proprio quell’immagine.
Facendo riferimento a tali dati, le metafore risultano dividersi in due categorie: le immagini che rimandano alla pluralità e alla molteplicità (immagini a struttura plurale) e le immagini che rimandano all’unicità e all’unitarietà
(immagini a struttura unitaria).
Fanno parte della prima categoria tre metafore: ‘la città caotica e trafficata’, ‘la piazza dove i cittadini si incontrano e discutono’ e ‘la sfera di mille colori’; fanno invece parte della seconda le restanti tre: ‘un castello misterioso’,
‘un computer potente e rapido’ e ‘una torre su una collina’.
Cominciando dal primo gruppo, si può dire che l’immagine relativa alla
‘città’, sia portatrice di un senso di disordine e di affollamento. L’accento è sulla pluralità dei soggetti, intesi come indistinti e forse minacciosi.
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L’immagine della ‘piazza’, invece, veicola significati partecipativi, con un
evidente accento sull’incontro ed il confronto fra una pluralità di soggetti diversi; in questa immagine l’enfasi è sul dialogo come tale e non sul suo risultato, evidentemente aperto e non scontato.
L’immagine, della ‘sfera’, infine, veicola un senso della differenza culturale ricomposta nell’unità; ancora una volta, l’accento cade sulla pluralità, intesa però come diversità delle persone e delle culture.
Per quanto riguarda la seconda categoria, si può dire che l’immagine relativa al ‘castello’ sia portatrice di un senso di chiusura e di inquietudine di fronte a
qualcosa che si può osservare solo superficialmente. Il castello misterioso quindi, rimanda all’idea dell’oggetto che incuriosisce e affascina, respinge e attira.
L’immagine del ‘computer’ invece, veicola l’idea dell’efficienza, della rapidità e dell’ordine, ma anche della fredda distanza che una macchina, per
quanto perfetta, sempre ispira.
Infine, l’immagine della ‘torre’ rimanda al senso della distanza e della lontananza fine a se stessa, cioè che non attira ma respinge.
I risultati hanno evidenziato una certa dispersione delle risposte, pur con
la prevalenza della quinta metafora (‘una piazza dove i cittadini si incontrano
e discutono’) con il 35,6% delle preferenze; seguono poi, la seconda (‘una città
caotica e trafficata’) e la sesta metafora (‘una sfera di mille colori’), rispettivamente al 19% e 17,3%; molto più bassi i valori relativi alla prima (‘un castello misterioso’) e alla quarta metafora (‘un computer potente e rapido’), rispettivamente al 8,8% e al 7% [fig. 11]:
Fig. 11: metafora dell’Europa
Torre
Computer
Castello
Sfera
Piazza
Città
0
5
10
15
20
25
30
35
40
Sulla base di questi dati, è allora possibile affermare che:
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• nessuna singola metafora predomina sulle altre; in questo panorama comunque, il gruppo delle immagini plurali risulta maggioritario. Ciò indica
una diffusa percezione dell’U.E. come un ‘crogiolo di differenze’ che interagiscono fra loro senza però confondersi (mantenimento della propria
identità); un tale modo di vedere l’Europa ribadisce la maggiore importanza che gli intervistati danno ad altre collettività come gruppi di riferimento
e di appartenenza politico-culturali (patrie), primo fra tutti l’Italia.
Per meglio comprendere ed interpretare questi risultati occorre metterli
in relazione con i fattori socio-politici; il più rilevante in questo caso, è l’area
politica – da cui cominceremo l’analisi – anche se il sesso e la classe d’età, risultano particolarmente importanti per alcune specifiche immagini.
Cominciando dalla composizione per principali aree politiche (sinistra,
destra, nessuna appartenenza politica) delle immagini plurali, si può affermare che nella ‘sfera’ e nella ‘città’ predominante sia la presenza della sinistra –
con, rispettivamente, il 47,7% ed il 45,2%; notevole è nella composizione per
area politica della ‘sfera’, anche la presenza della area ‘nessuna appartenenza
politica’, con il 20%. Nel caso della ‘città’, invece, la presenza della destra tende a salire notevolmente e ad attestarsi su valori vicini a quelli della sinistra
(35,1% della destra contro il 37,7% della sinistra).
Passando ad analizzare le immagini unitarie, in queste, al contrario di
quelle appena viste, notevole è la presenza della destra; così, nel caso della ‘torre’, abbiamo una presenza della destra che si attesta al 44,4% e nel caso del
‘computer’ al 43,9%; più equa la composizione nel caso del ‘castello’, ove la
presenza della destra, comunque maggioritaria, è al 36,2%, quella della sinistra al 26,1% e quella relativa a ‘nessuna area politica’ a ben il 21,7%.
Riflettendo sui risultati relativi all’analisi della composizione politica delle immagini, si può affermare che:
• due fra le immagini plurali, risultano ‘dominate’ dalla sinistra: ‘la piazza’ e
‘la sfera’; questo rimanda ai significati sottesi a queste immagini: la sinistra
tende cioè a vedere nell’Europa un mezzo per comporre positivamente le
differenze culturali e storiche, ma anche un modo per allargare la cittadinanza. La terza immagine plurale invece (‘la città’), risulta composta quasi
equamente, dalla destra e dalla sinistra; questo fatto ci induce a pensare che
un certo scetticismo verso l’Europa sia diffuso trasversalmente nella società;
la sinistra allora risulta divisa fra una componente largamente maggioritaria di individui che guardano all’Europa in termini positivi ed una parte, minoritaria, che è insoddisfatta.
• La destra è largamente maggioritaria nelle immagini unitarie; in esse l’enfasi è sul tutto piuttosto che sulle singole parti. I significati veicolati da que-
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ste immagini sono molteplici, ma tutti esprimono un senso di distanza e di
disagio verso l’Europa.
Questo risultato riguardante l’area politica, è arricchito nel suo significato
dalle indicazioni che provengono dall’analisi dei dati riguardanti la composizione per sesso ed età delle immagini proposte; in particolare è soprattutto nell’area politica della sinistra che sembrano intervenire significativamente questi fattori.
Per quanto concerne il sesso infatti, mentre in quasi tutte le immagini vi è
un certo equilibrio fra uomini e donne, preponderante appare la presenza di
quest’ultime nella ‘sfera’ (63%).
Un tale dato, indica con chiarezza che la visione dell’U.E. come crogiolo
delle differenze e delle identità – veicolata dall’immagine della ‘sfera’ – è appannaggio quasi esclusivo delle donne – in particolare di sinistra –, le quali assegnano quindi, una maggiore importanza degli uomini alla diversità, all’identità riconoscibile delle parti, alla pluralità delle culture e delle tradizioni che però si
ricompongono.
L’analisi delle immagini per classi d’età, indica che nel caso della ‘piazza’ e,
ancora una volta, della ‘sfera’ – che si ricordi sono immagini prevalentemente di
sinistra –, si ha una composizione ‘complementare’: mentre la prima risulta composta per il 55% da intervistati al di sotto dei 40 anni, la seconda è scelta per il
60% da gente sopra i 40 anni; in tutte le altre immagini, è presente invece una
composizione abbastanza equilibrata.
Questo fatto, indica che la metafora politica e dialogica (‘la piazza’) colpisce molto più l’immaginario di quella generazione vissuta e socializzata negli anni del trionfo della politica partecipativa cioè gli anni sessanta e settanta; al contrario, le generazioni più giovani – vissute e cresciute in un mondo ove la politica e la partecipazione hanno molto meno valore – prediligono una metafora più
‘culturale’ e ‘sociale’ come quella della ‘sfera’; ad una metafora dell’uomo come
‘animale politico’ allora, sembra contrapporsi l’immagine di un uomo ‘animale
culturale’. Allo stesso tempo, la contrapposta caratterizzazione ‘anagrafica’ della ‘sfera’ e della ‘piazza’, sembrano ribadire l’incidenza dell’ideologia e della cultura politica nello strutturare le rappresentazioni dell’Europa.
A conclusione di questo paragrafo, si può affermare che il senso della distanza e dell’estraneità – più rilevante nella destra – e quello della differenza e
del dialogo – più rilevante nella sinistra – sembrano essere i due elementi dominanti dell’immaginario sull’Europa. Volendo estremizzare in uno sforzo di riflessione teorica, è possibile formulare alcune considerazioni.
In particolare, il senso della distanza, sembra rimandare ad un’Europa i cui
significati politico-ideali sono ancora da ‘scoprire’. In questo senso, la destra
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più che la sinistra – come già emerso – sembra trovare difficoltà ad attribuire
una valenza progettuale di largo respiro alla costruzione europea; così, la tendenza è quella ad appiattirsi quasi totalmente sulla funzionalità e sulla strumentalità, senza altro orizzonte.
Anche la sinistra, come visto nel corso di questo capitolo, condivide una
tale visione; ma il porre anche l’accento sugli aspetti di un cosmopolitismo
‘aperto’ – inteso come incontro e dialogo fra le diversità – le conferisce un orizzonte politico-ideale di più ampio respiro. In questo ambito – tenendo in considerazione anche quanto emerso nel paragrafo dedicato alle identità – sembra riscontrarsi il nucleo di quello che Appiah ha definito ‘patriottismo cosmopolita’ cioè un “cosmopolitismo con radici, legato alla sua patria, con le
sue particolarità culturali, ma contento della presenza di persone diverse da
sé” (cit. in Kaldor, 1999:101). Quanto questi elementi siano frutto del processo di costruzione europeo, degli specifici avvenimenti politici che hanno condotto all’ingresso dell’Italia nell’euro oppure delle caratteristiche delle specifiche culture politiche, è difficile dirlo; certamente, è presumibile che ognuno
di questi elementi abbia avuto un peso specifico sulla formazione di questi modi di sentire l’Europa. Ciò che è certo comunque – come sembrano indicare i
dati – è che essi non sono affatto consolidati e tipici di un’unica casa politica,
né di un unico genere o classe d’età; al contrario, essi risultano alquanto dispersi fra le varie classi e categorie sociali, cosa che induce a pensare che avvenimenti futuri ed orientamenti specifici delle classi di governo e delle élite
culturali, possano modificarli.
Legittimazione funzionale e coscienza cosmopolita: l’Europa e la politica comune di sicurezza e difesa
A conclusione di questo capitolo, si può affermare che due sono i fattori
fondamentali attorno ai quali tendono a strutturarsi la percezione dell’Europa e la possibilità-necessità di costruire una politica comune di sicurezza e difesa: la visione funzionale e una coscienza politica cosmopolita; i due fattori
sono strettamente legati fra loro e rimandano entrambi all’identità europea degli italiani.
In particolare, il primo fattore rinvia alla fondazione stessa dell’azione politica europea, che trova la sua legittimità, il suo prestigio, la sua stessa ragion
d’essere nell’utilità direttamente apportata al benessere degli individui; il quadro è quello dell’avente diritto (Burdeau, 1978) che, nell’ambito di una società
percorsa da molteplici tensione cerca un quid aggiunto di garanzie e benefici;
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egli sembra volere recuperare, in un quadro europeo, ciò che ha perso al livello nazionale, trasportando desideri, inclinazioni e anche specifici retroterra
culturali, su base transnazionale: a prevalere nella legittimazione dell’Europa
e nella costruzione della sua visione, è dunque una sorta di ‘logica dello specchio’, in cui la situazione italiana viene riflessa in ambito europeo. A queste
domande ed esigenze tuttavia, non sembra corrispondere un’eguale richiesta
di maggior partecipazione, né un coinvolgimento emotivo verso l’Europa come se questa fosse una ‘nuova patria’: ciò che conta è semplicemente la funzionalità e l’efficacia della sua azione. In quanto strumento allora, l’Europa
conta se messa al servizio di valori (etici o politici) ed ideali ‘esterni’ ad essa
(pace mondiale), ma non sembra dotata di un valore di per sé: essa si giustifica solo come un mezzo al servizio di finalità ‘eterodirette’ o di collettività più
radicate ed emotivamente ‘calde’. Tutto ciò ha notevoli conseguenze per il perseguimento di un’autonoma politica di sicurezza e difesa; infatti, una tale politica sembra possa essere costruita dall’Europa solo in base a riferimenti esterni: come mezzo per meglio garantire la sicurezza (dell’Italia) o per realizzare
qualche valore ideale ‘universalistico’.
Questa visione sembra coinvolgere un po’ tutti i segmenti, le categorie e
le classi sociali. Tuttavia, vi è una differenza fondamentale – e probabilmente
peculiare del caso italiano – che passa per il crinale destra/sinistra: mentre nell’ambito della prima, la visione dell’Europa si ferma tendenzialmente a questo
ruolo puramente strumentale, nella seconda si intravede anche il nucleo di una
tensione ideale all’Europa, sotto forma di una sorta di cosmopolitismo ‘aperto e dall’alto’ (Kaldor, 1999). Questo secondo fattore porta a concepire l’Europa non come una patria in costruzione, ma come uno spazio di differenze
culturali in dialogo ed interazione fra loro, una sorta di apertura positiva all’Altro, senza dimenticare la propria specificità. Questa visione tende a sovrapporsi a quella strumentale, dotando l’Europa di un significato – culturale prima che politico – in linea con il modo in cui l’attore sociale individualizzato costruisce e sceglie il proprio grappolo d’identità; in un simile quadro,
l’Europa trova posto soprattutto come un’arena di confronto, ove quest’ultimo è giudicato pieno di valore e significato.
Tutto ciò ha notevoli conseguenze per il perseguimento di una comune
politica di sicurezza e difesa, aprendo lo spazio a soluzioni incrementaliste; infatti, una tale politica sembra potersi costruire solo in base a riferimenti esterni: come mezzo per meglio garantire la sicurezza (dell’Italia) o per realizzare
qualche valore ideale ‘universalistico’, ma senza pretendere un’autonoma fondazione. Un interesse europeo da difendere anche con la forza e una politica
di sicurezza ‘completa’ e completamente istituzionalizzata non sembra al mo-
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mento desiderata, mentre è probabilmente auspicato l’intervento dell’Europa
a favore della pace, dello sviluppo e della tutela dei diritti umani nel mondo.
Anzi, è questo il ruolo internazionale che le persone sembrano maggiormente
auspicare; come tale, esso si caratterizza per le alte finalità politiche e le soluzioni istituzionali e collaborative di ‘mezzo’, tese a coprire solo un settore del
complesso ambito della sicurezza; la Forza di Reazione Rapida, concepita proprio per realizzare queste missioni, sembra una di tali soluzioni. Così, specchi
quasi fedeli delle evoluzioni in corso e della società italiana, le visioni, le aspettative e le percezioni dell’Europa, sembrano riprodurre al livello di opinione
pubblica le soluzioni incrementaliste sin qui adottate nella costruzione dell’Europa.
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Capitolo secondo
Società del rischio, pace e sicurezza
Alessia Zaretti
La società del rischio
La riflessione sociologica (per es. Bauman, 1999; Beck, 2000; Giddens
1994) ha da tempo individuato il rischio tra gli elementi che in maniera più significativa delineano la fisionomia della società contemporanea. Le nuove minacce, scaturite da profondi cambiamenti a livello internazionale e generate
da un complesso di fattori politici, economici, tecnologici, sociali e ambientali non sono più riconducibili ad un solo ‘grande nemico’, ma si dispiegano in
maniera diffusa, pervasiva, orizzontale, alterando la percezione stessa del futuro e influenzando sensibilmente le strategie di azione.
Ormai è da più parti riconosciuto che gli Stati e i loro cittadini si devono
confrontare con un ventaglio molto ampio di pericoli: l’inquinamento ambientale, l’esaurimento delle risorse naturali, le epidemie, l’alterazione nel ciclo di produzione degli alimenti rappresentano rischi globali al pari dei conflitti armati, del terrorismo e della criminalità internazionali, della proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche, della precarietà economica e delle migrazioni incontrollate.
Gli anni che hanno seguito la ‘caduta del muro’ hanno rivelato che le
aspettative di un lungo periodo di pace e di stabilità sono state totalmente disattese; infatti la rottura degli equilibri che hanno caratterizzato l’arco di tempo che va dal secondo dopoguerra al ‘crollo’ dell’impero sovietico ha dato seguito a molteplici turbolenze, a rivendicazioni di natura diversa, a crisi dai
molteplici aspetti. Alla cesura storica rappresentata dal crollo dell’ordine bipolare se ne è poi sommata un’ulteriore – costituita dagli eventi che hanno seguito l’11 settembre – che ha incrementato le condizioni di incertezza e di ambiguità nel sistema internazionale e in quello interno. In risposta a turbolenze
di dimensioni globali, oggi ci si sta muovendo da un tipo di difesa statico, incentrato su alleanze militari in vista di una minaccia esterna facilmente individuabile e ‘misurabile’, verso un sistema più dinamico fondato sul principio
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della sicurezza collettiva. Al momento il disegno della sicurezza internazionale è assai complesso e risente di molteplici repentini mutamenti alcuni già avvenuti altri ancora in fieri.
La ‘minaccia asimmetrica’ – che è tipica dei nostri giorni – è quella che
non può essere valutata solo in base ai reali danni che potrebbe produrre, ma
considerando anche l’impatto, cioè la risonanza, che può avere sulle valutazioni e sulle percezioni riguardo la sicurezza, la stabilità e il benessere delle popolazioni. Infatti la percezione della sicurezza, dal momento in cui tende a tradursi in rappresentazioni, non si risolve in un mero riflesso soggettivo di una
realtà esterna, ma risulta ‘costruita’ socialmente in un contesto che vede le
informazioni e la comunicazioni svolgere ai vari livelli un ruolo fondamentale. La leadership politica innanzitutto tende a definire che cosa significhi esattamente essere sicuri, ponendo l’accento sulle diverse issues interne e internazionali – per esempio la lotta alla criminalità, la difesa del territorio, la riduzione della disoccupazione, la lotta al terrorismo; i mass media a loro volta
contribuiscono alla definizione dell’ ‘agenda dei rischi’ sia per la popolazione,
sia nei riguardi del sistema politico; infine le informazioni che i cittadini ricevono – e che ricercano – trovano nelle comunicazioni interpersonali il luogo
in cui le percezioni, le opinioni e le valutazioni si assestano, si definiscono e si
compongono in rappresentazioni ed immagini coerenti. Il processo ovviamente non è lineare, né unidirezionale, ma presenta un andamento circolare o ciclico; è soggetto a pause, interruzioni, rapidi sovvertimenti, accelerazioni, crisi. La dimensione mediatica delle minacce e delle politiche per contrastarle assume, a sua volta, un rilievo di notevole importanza.
Minacce e rischi per la sicurezza: le opinioni rilevate
Nel disegno della ricerca la percezione delle minacce, e del loro livello di
pericolosità, è stata considerata un importante elemento in quanto contribuisce alla definizione della situazione di vita delle popolazioni in termini di stabilità, rischi, benessere; la sua rilevazione e la sua adeguata analisi costituiscono, a loro volta, un presupposto indispensabile per la comprensione delle diverse opinioni rispetto alle strategie utilizzate o utilizzabili per contrastarle e
ai mezzi (compresi, ovviamente, quelli militari) da impiegare a tal fine. Le idee
che gli individui si fanno dei rischi e delle minacce che caratterizzano la loro
vita quotidiana rappresentano inoltre una componente fondamentale del sistema di orientamento e di azione. Giddens (1994), per esempio, individua
quattro atteggiamenti di base come risposta individuale ai rischi che sfuggo-
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no non solo al controllo dei singoli, ma anche a quello degli Stati e delle organizzazioni internazionali: l’accettazione pragmatica (cioè la concentrazione dell’attenzione sui problemi e sugli impegni quotidiani, in una sorta di rimozione dell’ansia), l’ottimismo sostenuto (cioè la perdurante fede nelle capacità della ragione e della scienza di offrire risorse di sicurezza), il pessimismo cinico
(cioè un modo di affrontare le ansie basato sull’umorismo, unito ad un atteggiamento da carpe diem, o al tedio della vita) e l’impegno radicale (cioè una mobilitazione di protesta contro le fonti dei pericoli). Si tratta ovviamente di
quattro strategie che nella realtà si possono presentare non in maniera antagonistica, nel senso che a seconda delle contingenze, delle tipologie dei rischi e
della situazione personale, l’individuo può attivare o l’una o l’altra.
Nella nostra ricerca la rilevazione della percezione/valutazione delle minacce alla sicurezza è stata affidata alla domanda ‘Rispetto alle seguenti minacce alla sicurezza può indicarci la sua opinione riguardo il loro livello di pericolo?’ costruita su uno spettro assai ampio e articolato di pericoli, individuati
sulla base delle più recenti indicazioni in argomento dei documenti internazionali e della letteratura scientifica. La rilevazione ha riguardato le tradizionali dimensioni dei pericoli bellici provenienti da nemici esterni e quelle più recenti
attribuibili al terrorismo e alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, ai problemi legati alla criminalità e alle migrazioni incontrollate, ma anche
ai rischi ecologici, a quelli alimentari, alle epidemie, agli incidenti ‘nucleari’, alle crisi economiche e così via. Il fine era quello di ottenere una ‘mappa’ delle
preoccupazioni degli Italiani, con la relativa intensità e gravità attribuite. Solo
con un’attenzione al loro insieme è possibile rilevare da una parte la percezione collettiva del livello di sicurezza e dall’altra, attraverso l’indicazione dei livelli di rischio dei diversi pericoli, individuare i più temuti. Questa prima analisi rappresenta un punto di partenza irrinunciabile per la comprensione delle
opinioni e degli atteggiamenti nei riguardi delle politiche di sicurezza e difesa
e delle relazioni fiduciarie verso le istituzioni relative.
La domanda è stata costruita in modo da ottenere un’indicazione del grado di pericolosità attribuita ai diversi rischi e minacce, prevedendo una misurazione scalare basata sulla richiesta di posizionarsi lungo una scala di cinque
livelli articolata dal ‘molto alto’ al ‘molto basso’.
Le risposte nel loro complesso hanno innanzitutto evidenziato un profondo e diffuso senso di pericolo: solo per quanto riguarda la possibilità di una
guerra convenzionale in Europa l’opinione che il rischio sia ‘molto alto’ è sceso sotto il 10% (precisamente l’8%) per raggiungere però il 30% cumulando
le indicazioni ‘alto’ e ‘molto alto’. La risposta in un certo senso potrebbe stupire se si pensa alla diffusa e persistente conflittualità nei Balcani. È probabi-
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le però che gli intervistati nel dare questa risposta, si siano indirizzati prevalentemente ad una idea di Europa come Comunità e non l’abbiano intesa in
senso geografico, oppure che non abbiano considerato – e a ragione – i conflitti interni agli Stati della ex Jugoslavia guerre in senso tradizionale.
Venendo ai rischi che gli Italiani temono di più, al primo posto troviamo
la ‘minaccia asimmetrica’ per eccellenza, l’attacco terroristico. Questo rischio
è considerato ‘molto alto’ per il 60,1% e ‘alto’ per il 27,5%, mentre l’eventualità che nel nostro paese si verifichi un simile evento è ritenuto bassa solo per
il 2,5% e molto bassa dallo 0,3%. Il terrorismo internazionale e transnazionale, nelle sue più recenti espressioni, preoccupa per l’assoluta novità della minaccia – che ne rende difficile la comprensione all’interno degli schemi usuali di riferimento anche per una popolazione che per decenni si è confrontata
con problemi interni di eversione terroristica – e per la vertigine che produce
il suo senso profondo di ‘guerra’ di individui contro individui.
Le indicazioni di questo item sono fortemente indicative di come l’idea
dell’incombenza di un pericolo venga socialmente costruita in un processo
complesso in cui paradossalmente le stesse misure di prevenzione, come per
esempio quelle contro il terrorismo o le esercitazioni per contrastare le armi
di distruzione di massa, e gli eventuali successi delle forze dell’ordine (si pensi allo smantellamento di una rete terroristica) entrando nel circuito amplificativo dei media diventano indicatori di rischi. Infatti, secondo il noto paradosso dell’assicurazione-eccitazione (Otway e Wynne 1989), si genera abitualmente una contraddizione tra la necessità di comunicare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di sicurezza e il messaggio che richiama l’attenzione e rende palese il rischio. Quanto più le contromisure appaiono rilevanti, tanto più il rischio è percepito elevato dalla collettività.
Il terrorismo si conferma come minaccia asimmetrica per eccellenza nella misura in cui nella relativa percezione di pericolosità entrano componenti
legate alla spettacolarità dell’evento e alla relativa divulgazione mediatica, in
un processo in cui il timore ha un effetto moltiplicatore sulla valutazione delle probabilità di accadimento del fatto. L’asimmetricità entra anche nella definizione del rischio, in cui elementi proiettivi di timori ne possono alterare
una valutazione più realistica.
Continuando nell’analisi dei dati, nella graduatoria della pericolosità dei
rischi, seguono la proliferazione di armi nucleari, batteriologiche e chimiche
(49,8% di livello di pericolo ‘molto alto’, 34,3% ‘alto’) e i disastri ambientali
(49,4% e 35,9%). Si tratta di una tipologia di rischi molto diversi tra loro, ma
accomunabili per la caratteristica di apparire subdoli, difficili da individuare
preventivamente e assolutamente incontrollabili da parte dei singoli cittadini.
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Essi hanno conosciuto nell’ultimo decennio un incremento di pericolosità. La
prima minaccia si è notevolmente intensificata sia per la divisione dell’arsenale strategico termonucleare dell’ex Unione Sovietica, sia per lo sviluppo tecnologico che facilita l’accesso alla produzione e al possesso di armi batteriologiche e chimiche anche a piccoli gruppi criminali; valga per tutti il caso della
setta giapponese Aum Shinrikyo (Maniscalco, 1998). I disastri ambientali,
frutto di conseguenze devastanti dell’industrializzazione e della modernizzazione, minacciano e degradano le basi naturali della vita; secondo gli intervistati essi accadono con sempre maggiore frequenza e stanno rendendo il mondo un posto sempre meno sicuro. Entrambi i tipi di rischio si presentano legati alla conoscenza scientifica e alla relativa razionalità, ne sono ‘effetti collaterali’; sono quindi molto ansiogeni dal momento che mettono in discussione
uno dei pilastri della modernità: la fiducia nella scienza. È probabile che questa loro caratteristica abbia influenzato negli intervistati, come già nel caso del
terrorismo, la relativa percezione di elevatezza nel rischio.
Al contrario la tipologia delle minacce militari tradizionali, rappresentate da tre tipi di conflitti armati che direttamente o indirettamente potrebbero
interessare il nostro paese, hanno fatto registrare indicazioni di livelli di rischiosità più bassi. Di una guerra convenzionale in Europa si è già detto, mentre le risposte relative ad una guerra mondiale hanno fatto registrare il 22% di
possibilità molto alte e il 15,9% alte; il conflitto nucleare fa crescere le preoccupazioni: il 39,8% ritiene il rischio relativo ‘molto alto’ e il 20,1% ‘alto’. Il
fantasma dell’olocausto nucleare aleggia ancora nell’immaginario collettivo
della maggioranza degli Italiani; è più presente nelle fasce di età più avanzate,
ma è comunque rilevante anche per i più giovani. Rispetto agli incidenti, le
centrali nucleari sono considerate più a rischio delle armi; infatti per il lancio
accidentale di un missile nucleare il 21,3% degli intervistati ritiene ‘molto alto’ il livello di rischio e il 19,9% ‘alto’, a fronte di rispettivamente 26,6% e
29,4% per gli incidenti in centrali nucleari. Il ricordo di Chernobyl ha lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva.
Nel dopo ‘guerra fredda’ la minaccia militare nel suo complesso è divenuta quindi meno diretta e più vaga, mentre pericoli diversi si sono affacciati
all’orizzonte. La democrazia non appare più sfidata dal socialismo reale, ma
messa invece alla prova da una serie di rischi complessi e destabilizzanti a più
livelli. I nuovi conflitti intrastatali, per esempio, indirizzano la violenza contro
le popolazioni civili con il fine di un loro sradicamento dal territorio; ne derivano flussi migratori internazionali in grado di destabilizzare intere regioni. La
coscienza collettiva sembra registrare puntualmente questo cambiamento nelle dinamiche mondiali: infatti le migrazioni non controllate sono considerate
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un pericolo ‘molto alto’ per il 33,4% e ‘alto’ per 33,6%; si teme che possano
alterare il tessuto socioeconomico e produrre un ‘collasso’ nei servizi. A sua
volta anche il crimine organizzato preoccupa notevolmente gli intervistati: il
43,6% lo considera un pericolo ‘molto alto’ e il 41,6% ‘alto’. Frequentemente l’aumento della criminalità viene collegato anche – ma non esclusivamente
– a flussi migratori non controllati. È risultata elevata anche la percezione dei
rischi alimentari (30,6% ‘molto alto’ e 36,1% ‘alto’) e dei pericoli di epidemie
per il 23,8% e il 30,3%; quest’ultimo dato è interessante se si considera la data di svolgimento dell’indagine, cioè l’estate del 2002. Queste ultime tipologie
di rischi coinvolgono emotivamente poiché insidiano il cittadino nel suo stesso mondo vitale, mettendo a repentaglio lo svolgersi ordinato della vita sociale e alterandone la qualità. Infine la crisi economica, un pericolo vecchio e
nuovo allo stesso tempo, continua a preoccupare gli Italiani, facendo registrare il 25,5% di indicazioni ‘molto alto’ e il 37% di ‘alto’.
La figura n. 1 rappresenta sinteticamente la percezione del rischio cumulando le percentuali delle due prime indicazioni.
Fig. 1: I timori degli italiani
I TIMORI DEGLI ITALIANI
Terrorismo
Disastri Amb.
Criminalità
100
90
Prolif. Armi
80
70
60
50
40
30
20
Rischio Alim.
Migrazioni
Crisi Econom.
Conflitto Nucl.
Inc.Centr.Nucl.
Epidemie
Lancio Missile
10
0
60
Guerra Mondiale
Guerra Europea
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Riassumendo quindi, la guerra (mondiale e in Europa) e il lancio accidentale di un missile sono considerati con minore frequenza rischi elevati (con meno del 40% degli intervistati che assegna valori ‘molto alto’ e ‘alto’); seguono
la guerra nucleare, le epidemie, le migrazioni, il rischio alimentare e la crisi
economica (con circa il 60% che assegna ad essi valore ‘alto’ o ‘molto alto’);
infine la proliferazione di armi di distruzione di massa, l’attacco terroristico,
il crimine organizzato e il disastro ambientale hanno ricevuto valori ‘molto alto’ o ‘alto’ da oltre l’ 80% degli intervistati.
In altri termini, la società mondiale del rischio (Beck, 2000) è ben presente nella rappresentazione della realtà degli intervistati che hanno più
volte sottolineato nei commenti alle domande del questionario e nei focus
group che pressoché tutti i rischi oggi si presentano globali, sia nel senso
della loro intensità, tale da minacciare la sopravvivenza stessa del pianeta,
sia per la loro ampiezza che tende a coinvolgere un numero sempre maggiore di persone.
Genere, età, appartenenza politica e percezione del rischio
Se consideriamo la percezione dei rischi e delle minacce rispetto alla dimensione del genere, si rileva che le donne hanno manifestato una percezione più diffusa di pericolosità rispetto a tutto lo spettro dei rischi prospettato, con una maggiore incidenza per le minacce belliche: l’oscillazione rilevata rispetto alla componente maschile del campione è di circa 10 o 15 punti
percentuali, come, per esempio, per rispettivamente ‘conflitto nucleare’ (F.
64,7%; M. 54,9%) e ‘guerra mondiale’ (F. 45,5%; M. 30,6%). Le donne
quindi sembrano continuare a manifestare – come nel passato – una tendenziale maggiore estraneità nei confronti dello strumento bellico e, forse per
questo motivo, a temerne con più frequenza la minaccia. Per i rimanenti rischi, solo l’indicazione ‘disastri ambientali’ presenta un’inversione di tendenza, ma di livello minimo (M. 86,7%; F. 85,3%).
Anche la differenziazione in classi di età (suddivisa con a spartiacque i
40 anni) ha fatto registrare qualche significativo scostamento; quanti sono
più avanti negli anni si sono manifestati tendenzialmente più sensibili ai rischi che sono in un certo senso più vicini alla vita quotidiana; in special modo sono più frequentemente preoccupati per le epidemie e i rischi alimentari, con rispettivamente il 62,4% e il 74% contro il 49% e il 64,5% dei più
giovani. Anche le migrazioni non controllate sono temute maggiormente da
chi è avanti negli anni (71%) rispetto ai più giovani (64,5%) forse più socia-
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lizzati alla società multietnica. Infine il ‘nucleare’ in ogni suo aspetto (conflitto o incidenti di vario tipo) preoccupa con più frequenza le classi di età
più avanzate, con un chiaro effetto di ‘memoria storica’ del nucleare come
la ‘minaccia’ per eccellenza.
I giovani appaiono percentualmente più ottimisti, tranne che in alcuni casi. Così nella percezione dei rischi di attentati terroristici e della proliferazione delle armi di distruzione di massa, item nei quali superano invece di circa
un punto percentuale gli ‘over 40’; inoltre la differenza nelle frequenze aumenta percentualmente quanto più giovane è l’età. Anche rispetto alla percezioni
di un più elevato grado di rischio per una guerra in Europa le frequenze dei
più giovani superano quelle dei più anziani; in questo caso la differenza è imputabile alla convergenza di più elementi: la diversa valutazione dei conflitti
nei Balcani (da alcuni da considerare conflitti europei e da altri no) e la memoria della seconda guerra mondiale che ha agito quale sorta di rimozione nelle fasce di età più avanzate.
Rispetto all’area politica è stato rilevato un pessimismo leggermente più
diffuso negli intervistati che non si sono riconosciuti in nessuna area e in modo specifico per quei tipi di rischi nettamente imputabili alle disfunzioni istituzionali quali crisi economica, rischio alimentare, epidemie, incidente in una
centrale nucleare. La distanza dal mondo politico espressamente dichiarata da
questi intervistati appare così collegabile alla sfiducia verso le istituzioni, presumibilmente ritenute espressione di un sistema politico-amministrativo non
in grado di rispondere ai bisogni reali dei cittadini.
Ancora per le differenze in base all’area politica va segnalato un notevole scarto percentuale tra ‘destra’ e ‘sinistra’ su due importanti dimensioni:
quella ‘dell’attacco terroristico’ che vede gli appartenenti alla sinistra percentualmente meno preoccupati, anzi i meno preoccupati in assoluto (comunque
con una percentuale rilevante, pari all’81,3%), mentre nella destra l’indicazione sale al 93,6% e quella delle ‘migrazioni non controllate’. In questo caso la
differenza è più marcata con il 56,9% della sinistra a fronte del 78,1% della
destra. I disastri ambientali sono invece indicati con più frequenza dagli appartenenti all’area di sinistra (89,7% contro l’81,5% per la destra). La criminalità organizzata fa riscontrare percentuali pressoché identiche (86% per la
destra e 85,7% per la sinistra). Comunque, al di là delle differenze segnalate,
è emersa una fascia notevole di opinione pubblica omogenea, trasversale ai vari schieramenti politici e segnata da una rilevante preoccupazione per la molteplicità e la pericolosità dei rischi che minacciano la società italiana. I risultati ottenuti ci consentono innanzitutto di confermare l’ipotesi di partenza circa la ‘costruzione sociale’ del rischio, il cui profilo si definisce attraverso un
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complesso processo all’interno del quale confluiscono memorie e nuove conoscenze, esperienze, informazioni, valori, visioni del mondo e appartenenze
politiche; tutti questi elementi si combinano a loro volta con componenti quali l’età e il genere per i chiari effetti dei percorsi di socializzazione differenziati. Inoltre è possibile sottolineare che all’interno del campione esistono degli
orientamenti per cui:
a) le donne sono percentualmente più pessimiste e più degli uomini temono le minacce belliche, anche le più tradizionali;
b) i più giovani sono più sensibili alle minacce asimmetriche (terrorismo
internazionale e armi di distruzione di massa) forse anche perché più mediatizzate, più ‘nuove’ e perché, in un certo senso, presuppongono una capacità
di concepire con facilità le interdipendenze di una realtà globale;
c) i più anziani restano ancorati maggiormente ai contesti di vita quotidiana, al loro habitat più circoscritto; sono più attenti alla qualità della vita e
ai rischi che la minacciano; temono inoltre più frequentemente i rischi – bellici e non – legati al nucleare;
d) per la destra la società del rischio è più connotata attraverso la minaccia del terrorismo e delle migrazioni non controllate, mentre la sinistra mette
i disastri ambientali al primo posto. Entrambe considerano la criminalità organizzata una grave minaccia per lo svolgersi di una serena vita quotidiana per
la società italiana.
Una possibile tipologia dei rischi
A voler tentare una riflessione di approfondimento, va subito detto che la
rappresentazione sociale dei rischi che ne emerge è forte e dinamica; essa ci
offre un profilo di una società vulnerabile, con una relativa percezione della
propria sicurezza come precaria dal momento che si sente permeabile ad una
molteplicità di minacce endogene ed esogene, delle quali molte si dispiegano
a livello internazionale, come d’altronde è internazionale la società del rischio.
Gli Italiani oggi non temono molto i rischi bellici tradizionali (compresi gli incidenti), ma non per questo ritengono il loro habitat sicuro; forte appare la
preoccupazione rispetto alle nuove e più subdole minacce socio-politico-culturali ed ambientali – quali il terrorismo, il crimine organizzato, le migrazioni
non controllate e i disastri ecologici – che destabilizzano e, portandolo al collasso, possono disintegrare il sistema sociale; subito dopo sono impauriti dagli effetti degenerativi del sistema stesso quali le crisi economiche, gli incidenti ad una centrale nucleare, i rischi alimentari.
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La società del rischio elaborata dagli intervistati si organizza intorno a tre
tipologie di minacce: i rischi militari di natura più o meno tradizionale, caratterizzati dal nemico visibile e dichiarato, dall’eccezionalità della situazione (la
guerra) e dalla sua facile individuazione e due tipici rischi postmoderni, cioè
presenti nella quotidianità, inattesi, subdoli, invisibili perché mescolati con il
‘familiare’. Essi operano sia per ‘decomposizione’ o implosione del sistema, sia
per aggressioni da parte di forze esterne. I primi – quelli di natura militare tradizionale – fanno meno paura, appaiono più noti e meno probabili e forse più
controllabili da parte dei cittadini e delle istituzioni. L’elevata rischiosità attribuita agli altri testimonia, oltre che una sfiducia nelle capacità di prevenzione
e di controllo istituzionali, anche la proiezione di quell’immaginario catastrofico serpeggiante nel cuore dell’Occidente, da cui non sono immuni nemmeno i cittadini italiani.
Fig. 2: tipologia dei rischi
Tipologia dei
rischi
Rischi bellici
Rischi sistemico degenerativi
Rischi sistemico disintegrativi
Nell’immagine di questa ‘società del rischio’ convergono elementi di
esperienza diretta – o quasi –, ma soprattutto proiezioni, timori, immagini della realtà veicolate dai media e definizioni dei rischi prodotte dalla comunicazione pubblica ed istituzionale in un mix difficilmente quantificabile. D’altronde il campione degli intervistati è apparso fortemente esposto ai media –
con il 66% circa che vede più di un telegiornale al giorno e con il 24% circa
che ne vede uno al giorno – che da una parte contribuiscono fortemente alla
costruzione sociale della realtà e dall’altra sono uno dei principali veicoli della comunicazione politica e pubblica.
Dai risultati ottenuti il campione mostra un profilo decisamente pessimistico, in un coacervo di preoccupazioni concrete e di ansie enfatizzate da una
visione talvolta catastrofica della realtà. Questi risultati rappresentano la dimensione speculare di un grande bisogno di sicurezza personale e sociale.
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La ‘sindrome’ delle minacce e i livelli operativi per fronteggiarle
A fronte di un siffatto cupo scenario è particolarmente interessante riflettere sui risultati della domanda ‘Rispetto a ciascuno dei seguenti rischi, quale livello operativo considera più importante?’ che per ogni tipologia di rischio/minaccia ha operato un confronto di utilità/efficacia tra l’Italia, l’Europa, la NATO e l’ONU e ha richiesto risposte mutuamente esclusive. Lo scopo evidente è stato rappresentato dall’individuazione del grado di fiducia/affidabilità rispetto alle diverse istanze istituzionali e delle relative tendenze nazionalistiche, regionalistiche (differenziate tra europeiste ed ‘atlantiste’) e universalistiche. A questo è possibile accostare un secondo fine, quello cioè di risalire alle caratteristiche che vengono attribuite al campo istituzionale di riferimento per ogni tipologia di rischio. Secondo Luhmann (1989), la fiducia va
messa in relazione con il rischio, e l’attribuzione relativa presuppone una scelta tra possibili alternative; applicata al nostro caso la scelta significa contemplare modalità di intervento differenziato e valutare alcune più efficaci di altre: si tratta quindi di capire il perché della scelta e dell’attribuzione preferenziale di fiducia.
La tabella n. 1 illustra i risultati ottenuti, dai quali emergono alcune significative indicazioni. Va preliminarmente sottolineato che, a differenza dell’andamento complessivo registrato in tutte le domande del questionario, questo
item ha visto una discreta scelta per l’indicazione ‘nessuna opinione’, con una
percentuale oscillate tra circa il 6% e l’8% con due punte massime di 14,5%
e di 13,6% per rispettivamente ‘lancio accidentale di un missile nucleare’ e ‘incidente in una centrale nucleare’. Queste scelte sono sicuramente imputabili
alla difficoltà oggettiva di individuare con chiarezza il referente istituzionale
per la protezione da certi tipi di rischi.
Analizzando i risultati della domanda emerge innanzitutto lo scarso rilievo dato alle capacità del ‘sistema Italia’ di fronteggiare i rischi che minacciano la popolazione; le indicazioni per il livello operativo italiano risultano sempre di gran lunga inferiori a quelle per l’Europa e solo nel caso del crimine organizzato si presentano lievemente maggiori delle preferenze date all’ONU.
Superano invece le indicazioni per la NATO per quanto riguarda il crimine
organizzato, le migrazioni non controllate, i disastri ambientali, i rischi alimentari e la crisi economica.
Il dato – che sottostima la funzione dell’Italia di assicurare con efficacia
la sicurezza dei propri cittadini – conferma la bassa autostima che gli Italiani
hanno mostrato in tante rilevazioni; per esempio i dati di Eurobarometro n.
55 del 2001 collocano l’Italia nel livello più basso di fiducia verso le proprie
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istituzioni e strutture politiche e amministrative, con solo il 25% che si esprime positivamente verso di esse.
Tab. 1: rischi e livelli operativi ritenuti più efficaci
Italia
Europa
NATO
Nazioni
Unite
Conflitto nucleare %
1,4
7,0
41,6
41,8
Guerra in Europa %
2,3
42,1
26,6
20,6
Guerra mondiale %
1,1
4,5
36,4
50,0
Lancio di missile nucleare %
2,8
9,0
34,8
36,4
Proliferazione di armi %
1,6
10,8
31,6
46,8
Epidemie %
5,0
24,4
11,9
48,3
Attacco terroristico %
6,8
19,9
28,9
36,1
Crimine organizzato %
22,9
36,9
8,8
20,6
Incidente centrale nucleare %
5,3
30,5
15,4
32,4
Migrazioni non controllate %
17,6
44,5
5,3
22,4
Disastri ambientali %
13,8
31,4
7,6
37,6
Rischio alimentare %
11,6
38,9
6,6
34,4
Crisi economica %
9,3
44,9
6,4
29,0
Considerando insieme l’elevato e diffuso senso della minaccia riscontrato e la percezione di scarse capacità del ‘sistema Italia’ di fronteggiarla, va sottolineato che ci troviamo di fronte ad una rappresentazione della sicurezza e
della difesa connotate da timori e sfiducia; di questa rappresentazione occorre tener conto nel valutare gli altri risultati della ricerca.
Inoltre se si considerano congiuntamente i dati delle due domande si può
avanzare l’ipotesi che la rappresentazione amplificata del rischio sia pure da
collegare ad una percezione di estrema vulnerabilità a sua volta imputabile all’idea di una carenza assoluta di protezione istituzionale, dovuta all’inefficien-
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za del nostro sistema di difesa e di sicurezza inteso in senso lato; da questa angolazione l’attrazione verso l’Europa potrebbe apparire più come una ‘fuga’
emotiva dal vuoto istituzionale e amministrativo nazionale – con l’aspettativa
e la speranza che le istituzioni europee possano svolgere quelle funzioni di cui
è ritenuta incapace l’amministrazione italiana – che una scelta ponderata in
base a considerazioni di utilità o a valori.
Ovviamente sorge pure l’interrogativo circa la coerenza di questo dato
con l’elevata percentuale degli Italiani che si sentono ‘molto’ (49%) o ‘abbastanza’ (35%) orgogliosi di essere italiani. L’interpretazione più attendibile è
presumibilmente quella che fa operare una distinzione tra, per utilizzare un’espressione anglosassone, we the people e le istituzioni. L’orgoglio di essere italiano appare allora radicato in altre più profonde dimensioni: la storia, la cultura, le opere d’arte, il riconoscersi italiano inteso come categoria antropologica, dimensione etnica. Questo permette di considerare le istituzioni attuali
come meri epifenomeni temporanei rispetto al lungo corso della storia e della cultura e di gestire così l’ambivalenza.
La tabella permette la formulazione di ulteriori importanti osservazioni:
a) innanzitutto l’elevata considerazione per l’ONU, vissuta come livello
supremo, massimo consesso internazionale, la cui immagine risulta costruita
in base a valutazioni ideali, di principio, e a istanze proiettive più che a valutazioni oggettive. L’ONU infatti ha mostrato spesso notevoli limiti istituzionali (Consiglio di Sicurezza) e operativi (strumento civile-militare). Ritorna in
questo caso la sovrapposizione tra immagine ideale e realtà già segnalata precedentemente (vedi saggio di Antonelli), sovrapposizione che porta ad affidare la sicurezza non all’efficienza/efficacia delle misure oggettivamente attivabili, ma al coinvolgimento di quanti più attori possibili su un terreno comune.
Una certa vena utopica a volte affiora negli atteggiamenti e nelle opinioni di
una parte non insignificante del campione.
b) Per l’Unione Europea e per la NATO le risposte sembrano orientarsi
in base ad immagini maggiormente orientate ad un principio di realtà: la prima risulta indicata con più frequenza per i rischi della vita quotidiana nei territori dell’Unione (con particolare riguardo alla crisi economica e con un chiaro effetto generato dall’introduzione dell’euro) e per la guerra convenzionale
in Europa, la seconda viene chiamata in causa per specifici pericoli militari
(con il punteggio più alto per il conflitto nucleare).
Nel complesso la domanda 1. ha fatto risaltare come nell’orientare le risposte e le valutazioni convergono esperienze (ovviamente per lo più mediate), conoscenze, proiezioni, aspettative, prefigurazioni; ne deriva che le immagini delle sedi di ‘produzione’ della sicurezza vengono elaborate attraverso
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processi complessi e differenziati, in cui le conoscenze sugli eventi e sui processi in corso e la riflessività relativa si mescolano a proiezioni di valori ideali
e di paure, a definizioni politicamente orientate degli attori che operano nello scenario internazionale, mentre la ‘costruzione’-definizione dei rischi costituisce una sorta di struttura sottostante.
Innanzitutto si nota un processo di attrazione verso la dimensione più ampia e in un certo senso considerata ‘sovraordinata’ con un andamento che considera l’Europa più importante dell’Italia, ma a sua volta meno importante
dell’ONU. Che la configurazione non sia del tutto ideologica, ma costituisca
un mix di proiezioni di desideri e di valutazioni realistiche emerge chiaramente, oltre che dalle indicazioni provenienti dai dati qualitativi della ricerca, anche da alcuni confronti interni agli stessi risultati dell’item in questione; mentre la devoluzione verso il livello europeo presenta un andamento costante, secondo la nota attrazione per l’Unione manifestata dagli Italiani, nei confronti
dell’ONU è possibile registrare alcune indicazioni contrarie, frutto di un’appropriata riflessione. Come si è già detto, per la ‘guerra convenzionale in Europa’ viene privilegiato il livello europeo, mentre per il ‘crimine organizzato’
Italia ed Europa sono considerate più adatte delle Nazioni Unite.
Per l’Alleanza Atlantica valgono altre considerazioni; innanzitutto va evidenziato come il campione abbia manifestato una piena consapevolezza della
natura militare dell’organizzazione – la cui mission oggi appare però meno chiara con la fine dell’ordine bipolare e il suo allargamento –, e della leadership statunitense. Non a caso, come si vedrà, il 17% degli intervistati che vorrebbe la
Forza di Reazione Rapida Europea considerata più importante della NATO è
formato per oltre la metà (51%) da quanti si autodefiniscono appartenenti all’estrema sinistra o alla sinistra, intervistati che si sono connotati per un certo anti-atlantismo. Questo risultato si collega al più generale problema del rapporto
tra europeismo e appartenenza politica; oggi, con un ribaltamento rispetto agli
anni cinquanta e sessanta quando il maggiore europeismo si collocava nel centro e nel centrodestra, perché l’Europa era in gran parte una scelta filo -occidentale, emerge un europeismo di sinistra, talvolta nutrito di antiamericanismo, che
fa apparire come più euroscettici coloro che si collocano nel centrodestra.
A prescindere da queste considerazioni più generali, alla NATO vengono
demandati i compiti esclusivamente militari, con una maggiore concentrazione, come si è detto, sul conflitto nucleare, mentre l’attrazione per l’ONU è
probabilmente imputabile sia al suo preponderante pacifismo, sia al suo universalismo, elementi su cui poggia la sua legittimazione. D’altronde però, va
anche valutato il fatto che non esiste a livello planetario un’alternativa universale comparabile.
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In sintesi nel rapporto tra le minacce e la relativa tutela operano nei confronti delle istanze sopra analizzate due tipologie di immagini: la prima (che
riguarda l’Italia e le Nazioni Unite) risulta costruita in base ad elementi prevalentemente emotivi-proiettivi, anche se di segno contrario (nel senso di un
eccesso di ottimismo per l’ONU e di pessimismo per l’Italia), la seconda (per
L’Europa e la NATO) su contenuti più riflessivo-cognitivi. Ovviamente non
mancano nell’immagine dell’Europa e della NATO dimensioni emotiveproiettive e viceversa elementi riflessivi-cognitivi in quelle dell’Italia e dell’ONU, ma il problema non è quello di definire con estrema accuratezza il peso
dei relativi elementi; è semmai importante verificare se questa linea di tendenza emerge anche riguardo ad altre dimensioni dell’indagine.
Fig. 3: tipologie di immagini dei produttori di sicurezza
Immagini a prevalente contenuto emotivoproiettivo
Italia
ONU
Immagini a prevalente contenuto cognitivoriflessivo
Europa
NATO
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Tipologia dei rischi, produttori di sicurezza e genere
Una differenziazione secondo il genere fa risaltare alcune specificità e
conferma elementi già in parte registrati: innanzitutto le donne appaiono più
disorientate degli uomini nell’individuare il livello operativo adeguato per la
sicurezza (sono maggiori le indicazioni per ‘nessuna opinione’) e più pessimiste nei confronti del sistema italiano. Mentre per i rischi che abbiamo definito degenerativi non appaiono significative differenze rispetto al genere, per
quelli disintegrativi (e tra i quali è ricompreso l’attacco terroristico) si nota per
da parte delle intervistate una minore indicazione percentuale a favore della
NATO e dell’Italia; la prima è imputabili alle maggiori aspirazioni pacifiste da
parte delle donne, la seconda alla sfiducia verso le istituzioni italiane e all’augurio che la responsabilità di fronteggiare minacce così rilevanti sia assunta al
livello più ampio possibile.
Per i rischi bellici veri e propri l’atteggiamento maschile resta improntato ad un maggiore realismo, mentre la componente femminile si riconferma
sostenitrice di una cultura più universalista e pacifista nell’affrontare qualunque questione riguardante i problemi della sicurezza e della difesa. Le intervistate, più timorose per quanto riguarda i pericoli di una guerra, e più frequentemente portatrici di sensi di appartenenza universalisti, sembrano esorcizzare le loro paure attraverso la scelta per le Nazioni Unite. Certo sarebbe interessante verificare con quale peso i timori dei pericoli e la percezione della fragilità del sistema Italia operino su questo pacifismo di genere e quanto invece
sia una proiezione di valori.
Tipologia dei rischi, produttori di sicurezza e appartenenza politica
Anche l’incrocio con l’appartenenza politica offre lo spunto per osservazioni significative. In linea generale:
a) viene riconfermato il ruolo che ancora oggi l’orientamento politico di
base svolge nella formazione delle opinioni – anche quelle che apparentemente sembrerebbero più tecniche – e nell’offrire una sorta di bussola per considerazioni generali – e meno – circa il quadro geostrategico internazionale,
operando quale dispositivo semplificatore. Questo ruolo appare evidente nell’indirizzo espresso dalle diverse scelte operate dagli intervistati di sinistra e di
destra (decisamente più filo-ONU i primi e più filo-NATO i secondi), mentre
si potrebbe attribuire proprio alla relativa carenza la maggiore incapacità di
esprimere la propria opinione registrata negli intervistati che non si sono riconosciuti in nessuna area politica;
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b) all’interno dell’asse sinistra/destra risulta ribadito il maggiore europeismo della sinistra; l’opzione europeista è indicata infatti con maggiore frequenza nella sinistra in tutte le tipologie di rischi, anche se con incidenza diversa;
c) le preferenze per il livello italiano si presentano alternativamente con
più indicazioni nelle diverse aree; va segnalata la maggiore fiducia nel sistema
difesa italiano da parte degli intervistati che si sono autocollocati al centro;
d) per i pericoli bellici appare forte l’indicazione NATO da parte della destra e del centro, mentre per l’ONU le maggiori indicazioni sono della sinistra
e di coloro che non si sono riconosciuti in nessuna area.
Un’altra osservazione che offre un’ulteriore, sia pure parziale, conferma
della linea interpretativa suddetta può essere avanzata a proposito delle indicazioni sui rischi di un attacco terroristico e sul livello operativo più adeguato per fronteggiarli. Disaggregati per area di appartenenza politica fanno risaltare una differenza di rilievo: mentre 4 intervistati su 10 di quelli che si sono
autocollocati a destra indica la NATO, questo succede solo per 2 su 10 di appartenenti alla sinistra; per l’ONU la situazione è in parte speculare e in parte diversa: in questo caso sono 4 su 10 degli appartenenti alla sinistra a dare
questa indicazione, ma per la destra sono più di 3 su 10. Questo risultato, unito anche ad altri dati emersi dalla ricerca, meriterebbe un approfondimento:
infatti l’asse destra/sinistra polarizza solo parzialmente le posizioni. All’interno della sinistra, come della destra, il campione presenta una parte, a volte cospicua a volte meno, di opinioni e di immagini trasversali. In altri termini, l’appartenenza politica orienta e definisce solo una frazione degli intervistati.
Nel complesso potremmo sintetizzare, affermando brevemente che dai risultati di questa domanda l’Italia appare con un ruolo di produttore di sicurezza e di difesa molto ridimensionato. Se si considerano unitamente questa
opinione (molto e trasversalmente diffusa nel campione) con l’altra (altrettanto diffusa) dell’alto impatto attribuito alle istituzioni italiane sulla vita quotidiana si comprendono le radici di una certa disaffezione e la criticità verso
un’architettura politica e decisionale che sembra pesare molto sui cittadini, ma
che è valutata non in grado di tutelare un sereno svolgersi della vita civile. Tutto il pessimismo e la bassa autostima degli Italiani, già rilevati in altre indagini, sembrano condensarsi in questa dimensione; il dato attesta che l’Italia non
ha ancora superato quel deficit storico di identificazione con le istituzioni statuali che fa del caso italiano un’anomalia all’interno del contesto europeo.
Non c’è da stupirsi che le Forze Armate – che per essere obiettivamente considerate devono potersi inserire in un senso adeguato di cittadinanza e in un
contesto di stima e sostegno per il Paese – si imbattano in una ricorrente vi-
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schiosità che impedisce una valutazione del loro ruolo formulata in base ad un
principio di realtà e al di fuori di stereotipi positivi o negativi.
L’Europa a sua volta si afferma, con un chiaro effetto prodotto dall’introduzione dell’euro, come sede del potere economico, cioè essenzialmente come potenza economica e finanziaria pacifica. All’Unione Europea si indirizzano le aspettative di tutela dalle crisi economiche di poco meno della metà del
campione.
L’ ONU e la NATO rispondono con prevalenza rispettivamente ad istanze universalistiche e ad esigenze di efficacia/efficienza, spesso influenzate da
orientamenti politici che a loro volta entrano, come si è visto, quale struttura
latente sottostante anche nello stesso processo di definizione dei rischi.
Strategie e strumenti per la pace e la stabilità
Per far fronte alle molteplici sfide alla pace e alla stabilità a livello mondiale, cioè per una governance globale, la comunità internazionale ha a disposizione una pluralità di strategie da implementare, in base alle scelte politiche,
con diversi mezzi, con protagonisti diversificati, secondo differenti regole e
con specifiche modalità di realizzazione; fondamentalmente si tratta di azioni
diplomatiche di vertice, di misure militari che prevedono anche l’uso coercitivo della forza armata, di interventi strutturali a sostegno dello sviluppo e di
misure ‘altre’ che si potrebbero etichettare ‘politico-dialogiche’. A livello decisionale, nelle organizzazioni internazionali, regionali ecc., nella scelta valgono criteri essenzialmente di natura politica, anche se oggi non è più concepibile nelle società democratiche non tenere in debito conto l’opinione pubblica. A livello della gente comune la preferenza per alcune misure in luogo di altre riflette le maniere differenti di concepire e definire i problemi internazionali e le diverse valutazioni circa le strategie per la loro risoluzione; costituisce, quindi, un buon indicatore sulle opinioni e sulle loro ‘visioni della realtà’.
Il disegno della ricerca prevedeva una serie di domande interessate alla rilevazione delle opinioni e delle valutazioni degli intervistati sulle strategie e gli
strumenti per la stabilità e la pace internazionali. Fondamentalmente si tratta di
nove domande; le prime due erano dirette rispettivamente alla valutazione dell’efficacia dei diversi strumenti e alla individuazione dei processi ‘stabilizzatori’
delle relazioni internazionali ritenuti ottimali, le seconde due hanno interessato
i corpi civili di pace e le ultime, infine, suggerivano di definire la pace, scegliendo tra diverse metafore, con lo scopo approfondire i relativi atteggiamenti e le
immagini al riguardo. Come precedentemente per i rischi, anche le domande
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sulla pace e la stabilità internazionali hanno mirato a costruire una mappa coerente delle opinioni del campione, nell’intento di far emergere diverse concezioni della sicurezza nazionale e globale. Nell’insieme hanno rappresentato uno
scenario senza il quale è difficile orientarsi adeguatamente all’interno delle risposte alle singole domande.
Iniziamo con la domanda ‘Pace e stabilità sono messe a repentaglio da
diversi rischi e minacce. Rispetto a questa situazione come valuta i seguenti
strumenti politici e militari?’ che ha chiesto agli intervistati di dare la loro personale valutazione sull’efficacia di diversi strumenti nel far fronte alle minacce; il quesito è stato costruito in modo di non permettere agli intervistati di assumere una posizione intermedia, ma di esprimersi chiaramente in proposito,
posizionandosi lungo una scala di valutazioni dall’indispensabile al dannoso.
Le risposte ottenute sono illustrate nella tabella 2, che non presenta le indicazioni ‘nessuna opinione’.
Tab. 2: valutazione di efficacia degli strumenti nel mantenere pace e stabilità
Indispensabile
Utile
Inutile
Dannoso
Misure militari coercitive per tutela diritti umani %
16,8
40,3
27,0
12,8
Azioni diplomatiche %
48,6
39,4
9,3
0,4
Supporto ai processi di democratizzazione %
40,4
44,3
11,3
0,4
Peacekeeping militare %
25,3
52,8
13,5
2,3
Controllo dell’immigrazione ai confini %
27,1
36,3
29,9
3,9
Maggiori aiuti ai paesi meno sviluppati %
48,3
37,6
11,5
1,1
Deterrenza di potenziali aggressori
%
21,4
44,0
23,2
3,1
Guerra per ragioni legittime %
11,1
23,0
35,1
25,0
Lotta al terrorismo con mezzi militari %
23,0
31,9
27,7
13,3
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La tabella così strutturata permette una lettura di sintesi, se si confrontano cumulate le due prime indicazioni (positive) con le seconde due (negative).
Questo procedimento ci consente innanzitutto di dire che:
a) la diplomazia (ritenuta indispensabile da circa la metà del campione e utile da circa 4 intervistati su 10) e il sostegno economico (indispensabile per
circa la metà del campione e utile per più di 3 su 10 intervistati) vengono
indicati come gli strumenti principali per il perseguimento della pace e della stabilità da una parte decisamente cospicua del campione, con rispettivamente l’88% e l’85,9% delle risposte; segue nelle indicazioni il supporto ai processi di democratizzazione con l’84,7%;
b) se si cumulano quindi le indicazioni ‘indispensabile’ e ‘utile’, possiamo affermare che la capacità di mediazione a livello di vertice, la lotta alla povertà e la democrazia sono considerate le migliori misure per assicurare
una governance globale efficace da circa, quando non oltre, l’85% degli intervistati.
Presumibilmente, anche a loro insaputa, gli intervistati sembrano condividere quella che è stata definita l’egocentrica illusione, cioè la convinzione tutta occidentale di pensare che i propri modelli di organizzazione politico-sociale possano essere ovunque validi e che sviluppo economico e democrazia,
in presenza di un atteggiamento dialogico da parte dei paesi più ricchi, rappresentino un valido ostacolo alla bellicosità. Soprattutto sono da notare le
pressoché inesistenti posizioni critiche nei confronti delle indicazioni per la
diplomazia e per il sostegno ai processi di democratizzazione.
Continuando nell’analisi dei risultati, segue un altro gruppo di misure che
si muove, sempre cumulando le indicazioni ‘indispensabile’ e ‘utile’ da un consenso di circa il 78% (è il caso del peacekeeping militare) ad uno di circa 65%
(per la deterrenza aggressori) e ancora del 63% (per il controllo delle migrazioni ai confini). Si tratta di strategie che prevedono in ogni caso un uso della
forza molto limitato, si potrebbe dire quasi meramente ‘simbolico’.
È questo il tipo di uso del militare preferito dal campione degli intervistati, come si vedrà anche da altre domande. Infatti con il passaggio ad attività che prevedono un impiego tradizionale dell’uso della forza armata il consenso continua a decrescere: circa il 58% nel caso delle misure coercitive per
la protezione dei diritti umani (il dato è veramente interessante se si considera che i diritti umani e la tutela della libertà sono stati i valori più ricorrentemente indicati dagli intervistati, con circa il 41% che li ha scelti al primo posto) e scende ulteriormente al 55% circa per la lotta al terrorismo con mezzi
militari.
74
© Rubbettino
Cade poi a picco nel caso della ‘guerra per ragioni legittime’; in questa risposta anzi si registra un ribaltamento delle posizioni con circa il 60% che reputa questa misura inutile e dannosa. Il dato in un certo senso potrebbe sorprendere, trattandosi di ‘ragioni legittime’, ma non è certo una novità per il
nostro paese. Infatti diversi sondaggi effettuati in sede europea a partire dagli
anni ottanta hanno visto l’Italia collocarsi tra i paesi con meno giovani sensibili alla difesa della patria, distanziandosi in maniera decisa da altri grandi paesi europei (Cartocci e Parisi, 1997). Questa tendenza a partire dagli anni novanta è cambiata, ma non in maniera tale, almeno da quanto risulta dai dati
della nostra ricerca, da giungere ad accettare una guerra che non sia puramente di difesa del territorio nazionale. La concezione sulle questioni della difesa
e della sicurezza e le valutazioni circa l’istituzione militare si collegano quindi
a movimenti di profondità poco sensibili ad effetti congiunturali e mostrano
tutta la complessità e l’intreccio dei fattori che condizionano le rappresentazioni collettive. Di questi elementi occorre tenere conto per comprendere il
senso di molti altri risultati della ricerca.
Genere, appartenenze politiche e strumenti per la pace e la stabilità
Se analizziamo le preferenze in base al genere, considerando accorpate le
modalità ‘indispensabile’ e ‘utile’ e cumulando da una parte le indicazioni ottenute per tutte le misure politico-dialogiche e dall’altra per quelle coercitivomilitari e da solo il peacekeeping militare, emerge una maggiore propensione
femminile per le misure politico-dialogiche e maschile per quelle coercitivomilitari, mentre il peacekeeping militare incontra pressoché lo stesso favore. Se
però andiamo ad analizzare la composizione interna di questo risultato, di
nuovo emergono differenze che vanno nel senso sopra indicato: il peacekeeping militare è ritenuto indispensabile dal 28% degli intervistati contro il 24%
delle donne, mentre viceversa è ‘utile’ per il 56,1% dei maschi contro il 52,2%
delle femmine. Nel complesso però i risultati sottolineano il buon ‘posizionamento’ del peacekeeping nell’opinione pubblica che ha imparato a conoscere
questo nuovo utilizzo dello strumento militare e sembra apprezzarlo; ma soprattutto, e il dato è rilevante, va osservato che è in grado di distinguerlo da
altri tipi di intervento delle Forze Armate più coercitivi per i quali il consenso è meno diffuso nel campione.
Decisamente più incisive appaiono le differenze tra gli intervistati se analizziamo le risposte disaggregandole in base all’appartenenza alle diverse aree
politiche; precisamente possiamo notare che:
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a) il massiccio rilievo dato da tutto il campione alle misure politiche e dialogiche si esprime con una percentuale più elevata per il centro e la sinistra;
b) il diffuso, già notato, apprezzamento per le missioni di peacekeeping trova
i maggiori sostenitori negli intervistati di centro, mentre quelli di sinistra
appaiono percentualmente meno convinti di quelli di destra. La spiegazione è in linea con tutti gli altri risultati della ricerca: si tratta anche nel caso
delle missioni di peacekeeping di un impiego delle Forze Armate che vengono considerate con una certa criticità dagli appartenenti a questa area
politica;
c) le misure coercitive e militari incontrano i più frequenti fautori negli intervistati di destra, seguiti da quelli di centro; ultima la sinistra.
Per concludere va osservato che questo item ha fatto emergere da una parte una omogeneità nel campione su alcune tematiche e dall’altra una polarizzazione significativa tra ‘destra’ e ‘sinistra’ essenzialmente per quanto riguarda le opinioni e le valutazioni dello strumento militare. Questa polarizzazione
si qualifica ulteriormente scomponendo la valutazione positiva tra ‘indispensabile’ ed ‘utile’ e tenendo anche presente le indicazioni negative ‘dannoso’.
Alcuni esempi possono meglio illustrare il profilo di queste differenze: le missioni militari coercitive per la tutela dei diritti umani sono considerate indispensabili dal 24% degli intervistati di destra e dal 7,7% da quelli di sinistra,
utili rispettivamente dal 48,6% e dal 35,2%; a reputarle dannose invece sono
il 23,2% degli appartenenti alla sinistra e il 5,6% alla destra. Un andamento
piuttosto simile è registrabile per le indicazioni riguardo alla lotta al terrorismo con mezzi militari, mentre il divario aumenta ulteriormente circa la valutazione sulla ‘guerra per ragioni legittime’. Questa modalità ha fatto registrare le seguenti indicazioni: la ritengono indispensabile il 3,9% degli intervistati di sinistra e il 22% di destra, utile rispettivamente il 16,5% e il 28%, mentre è dannosa per il 39,7% della sinistra e il 13,6% della destra.
Dissuasione versus deterrenza
I risultati dell’item sopra commentato ricevono un’ulteriore conferma
dalle risposte alla domanda ‘Secondo lei, per avere una pace duratura è necessario’ che, come si è detto, cercava di individuare i processi ‘stabilizzatori’
di lungo periodo ritenuti più efficaci a livello internazionale, mettendo in un
certo senso a confronto atteggiamenti ‘realistici’ che vedono una sicurezza garantita dalla difesa militare collettiva, da un’altra idea di sicurezza più ampliata e inclusiva che potremmo definire di tipo cooperativo. Rispetto alle diver-
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© Rubbettino
se strategie indicate nella domanda, gli intervistati dovevano posizionarsi scalarmente, qualificando la loro valutazione da una posizione di totale accordo
ad una di totale disaccordo.
Anche da questo item è emersa un’indicazione forte circa il fatto che le
minacce alla pace e alla stabilità internazionali possono essere meglio fronteggiate con strategie cooperative e discorsive, instaurando rapporti di reciproco
rispetto tra i popoli, piuttosto che militarmente, cioè quindi più con la dissuasione che con la deterrenza. Infatti, i risultati ottenuti, che vengono illustrati
nella tabella 3, fanno innanzitutto risaltare una irriducibile fiducia nel dialogo, nella comunicazione, sia quando questa viene gestita dai vertici, secondo
procedure e saperi tecnici (‘adeguate pressioni diplomatiche’), sia quando genericamente si parla di dialogo tra i popoli.
Tab. 3: grado di accordo sulle strategie per assicurare una pace duratura
Totale Acc.
Parziale Acc.
Indifferente
Parziale dis.
Totale dis.
Potenziale militare
deterrente %
27,1
35,9
8,0
12,5
13,1
Pressioni diplomatiche %
60,1
29,3
3,4
4,0
1,3
Mix incentivi/sanzioni econ. %
39,6
38,6
6,6
8,9
3,4
Rispetto e dialogo
tra i popoli %
79,3
16,5
2,9
0,3
0,1
Eliminare disug.
econ. %
59,6
25,5
5,1
3,6
2,6
Rispetto all’item precedente questa domanda permette però ulteriori riflessioni. Così, per esempio, se ci soffermiamo solo sulle indicazioni di un accordo totale risalta immediatamente una polarizzazione sugli aspetti societa© Rubbettino
77
ri-umanitari e sulle dimensioni orizzontali e non verticistiche degli stabilizzatori delle relazioni internazionali. La sola eccezione riguarda l’azione diplomatica che vede riconfermata la sua piena legittimazione, anche se risulta seconda a circa 20 punti percentuali in meno rispetto alla modalità ‘impostare i rapporti tra i popoli al rispetto e al dialogo’.
Sul versante delle misure militari circa 1 intervistato su 4 è in parziale o
totale disaccordo sull’efficacia di un adeguato potenziale militare da usare a
scopo di deterrenza, in sintonia con il dato già registrato circa la scarsa propensione per l’utilizzo di strumenti che tradizionalmente richiamano la guerra. Comunque va segnalato ancora una volta la capacità di riflettere sugli argomenti dimostrata dal campione, trattandosi di deterrenza – e non quindi di
un impiego attivo o aggressivo – la percentuale di accordo (totale e parziale)
sale al 63%.
Nel complesso le preferenze espresse riguardo alle strategie per la pace e
la stabilità internazionali inclinano verso attività che non utilizzano la forza militare (se non in modo, tutto sommato, piuttosto marginale) ma usano strumenti politici, diplomatici, economici, influenzando attraverso il dialogo e la
comunicazione gli interlocutori, cercando la cooperazione e l’incontro. Rimane però una fascia di poco meno del 30% convintamente a favore della deterrenza armata, percentuale che raggiunge, come si è visto, il 63% cumulando
le indicazioni di totale e di parziale accordo. Il campione quindi, pur preferendo gli strumenti non bellici, non esclude che una adeguata potenza militare possa rappresentare una buona garanzia per la pace, nel senso di funzionare come dissuasione per eventuali, potenziali, aggressori.
Appartenenza politica, deterrenza e cooperazione allo sviluppo
Un confronto interessante ad ulteriore conferma di come l’appartenenza
politica formi e sostenga una costellazione di valori che a loro volta orientano
le opinioni può essere fatto riflettendo su due modalità di risposta alla domanda e analizzandone la struttura interna. Si tratta cioè di vedere l’influenza dell’articolazione per appartenenza politica su coloro che, al fine di conseguire
una pace duratura, si sono dichiarati totalmente d’accordo e parzialmente
d’accordo (frequenze cumulate): a) di avere un potenziale militare adeguato a
scopo di deterrenza; b) di eliminare le disuguaglianze economiche. Per il primo caso le opinioni più favorevoli sono più frequenti a destra, per il secondo
la situazione è speculare; va però evidenziato che mentre nell’area di sinistra
si registra uno scarto percentuale veramente rilevante (oltre il 44%) tra misu-
78
© Rubbettino
re militari e interventi a sostegno dell’economia, nella destra, invece, le percentuali sono simili. In altri termini, gli intervistatori di questa area attribuiscono un’uguale importanza alla deterrenza militare e agli interventi di sostegno allo sviluppo. Nelle altre due aree va segnalato per il centro la seconda posizione a favore della deterrenza con poco più di 5 punti percentuali in meno
della destra e un livello alto di frequenze per il sostegno all’uguaglianza economica e per coloro che non si riconoscono in nessuna area politica una situazione intermedia. Nel complesso è però importante sottolineare l’elevato consenso presente in tutto il campione per gli interventi su scala globale tesi a produrre una migliore distribuzione delle risorse.
Tab. 4: per una pace duratura, deterrenza o eliminazione delle disuguaglianze economiche?
Potenziale
militare
di deterrenza
Eliminazione
disuguaglianze
economiche
Sinistra %
52,1
96,4
Centro %
71,1
87,6
Destra %
76,5
76,2
Nessuna %
61,1
83,9
Genere, età e ancora appartenenza politica
Ulteriori interessanti considerazioni possono essere formulate attraverso
alcune disaggregazioni del campione:
a) nella componente femminile emerge una preferenza (sia pure non molto
marcata) per le misure ‘altre’ rispetto a quelle militari, ad aggiuntiva conferma del maggior pacifismo delle donne;
b) i più giovani sono più convinti sostenitori dell’efficacia degli incentivi e
delle sanzioni economiche, mentre i più anziani sottolineano maggiormente l’importanza dell’eliminazione delle disuguaglianze economiche; rispetto alle misure militari la differenza è minima;
c) la distribuzione nelle diverse aree conferma nel complesso la differenza già
evidenziata destra/sinistra.
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In sintesi gli intervistati hanno mostrato di sapersi orientare con competenza nell’indicare strumenti e strategie di lungo periodo per il mantenimento della pace e della stabilità, manifestando una netta preferenza per le dimensioni dialogico-cooperative. Il consenso all’utilizzo dello strumento militare,
nelle sue varie modalità, è più frequente negli uomini che nelle donne e in coloro che si autocollocano a destra o al centro.
Le opinioni espresse dagli intervistati nel campo della difesa e della sicurezza nazionale e internazionale sono articolate e complesse; esse rispecchiano i mutamenti avvenuti in ampi settori dell’opinione pubblica mondiale che
si configura sempre più attenta e partecipe sulle tematiche della pace e della
sicurezza. Emerge un processo di crescente sensibilizzazione a problemi un
tempo delegati all’élite politica; si sta maturando l’opinione che, caduti i confini tra sicurezza interna e sicurezza esterna, è oggi necessario ripensare adeguatamente le strategie relative. Il campione della nostra ricerca ha espresso
una chiara, decisa inclinazione verso una concezione di sicurezza ampliata,
cooperativa e inclusiva piuttosto che verso una sicurezza garantita esclusivamente da una difesa collettiva. Non esclude l’importanza di una deterrenza
adeguata, che non evolva però verso configurazioni di stato-fortezza, ma si accompagni invece ‘con discrezione’ alle strategie di intervento dialogiche e cooperative.
L’immagine della pace
La ricerca ha inteso dedicare una sezione dell’indagine all’idea di pace e
alla difesa civile, tematiche non presenti nelle indagini francese e tedesca, ma
ritenute utili dall’équipe italiana dopo le interviste in profondità e i focus group
condotti nella primavera del 2002 durante la fase preliminare. Infatti questa
sezione risponde bene alle aspettative culturali degli Italiani che si confrontano meglio con temi militari, della difesa e della sicurezza se possono anche
esprimere la propria idea sulla pace e sugli strumenti per conseguirla e per
proteggerla; inoltre con l’inserimento dello strumento metodologico della metafora (presente anche in altre sezioni del questionario) si è inteso alleggerire
l’elevato grado di tecnicità (elevato almeno nella percezione degli intervistati
in fase di collaudo) di molte domande.
Alcuni brevi riferimenti concettuali possono essere utili per introdurre
l’argomento e meglio far risaltare il senso degli item inseriti in questa sezione.
L’interpretazione del concetto di pace in senso statico e negativo, cioè come assenza di guerra, appare oggi largamente superato (per es. Galtung, 2000;
80
© Rubbettino
Howard, 2001). Da una parte la pace viene attualmente intesa come un processo attivo e continuativo che vede il convergere degli sforzi di tutte le componenti della società internazionale – istituzionali e non; dall’altra è proprio la
caratteristica di alcune delle nuove emergenti minacce (come il terrorismo e le
armi di distruzione di massa) a rendere difficoltosa la classica distinzione tra
tempo di pace e tempo di guerra, tra pericoli di guerra e pericoli di pace. Anzi è lo stesso concetto di guerra, tradizionalmente inteso, ad apparire inadeguato per molti conflitti armati e ancor più per molti pericoli che dipendono
da armi subdole, ma non per questo di minore distruttività; tutto ciò ha prodotto notevoli slittamenti anche semantici nel concetto di ‘guerra’ che si configura ‘senza limiti’ (Qiao Liang e Wang Xiangsui, 2002), da condurre su scala globale anche con armi ‘non armi’. Con il dissolvimento dei dualismi della
prima modernità, tra cui anche quello di pace e di guerra, le odierne ‘definizioni’ della pace coprono uno spettro assai ampio di dimensioni; in essa convergono processi interni ed esterni, livelli emotivi e livelli cognitivi, esperienze e prefigurazioni, proiezioni e valori, che la allontanano, almeno in parte,
dalle dimensioni militari e guerresche delle quali solitamente ha rappresentato il referente di segno contrario (Zaretti, 2002).
Ma la ‘pace’, straordinario oggetto di amore collettivo, quando lascia il sicuro terreno definitorio della sua concettualizzazione in negativo, si trasforma
in un’immagine laboriosa, opaca, ridondante di ricchezza evocativa e persino,
per certi aspetti, ineffabile rispetto al discorso diretto della ragione e alla secchezza denotativa del suo linguaggio. Per questo motivo il questionario ha affidato la rilevazioni dell’idea di pace anche alle metafore. La metafora è un utile mezzo per comprendere un elemento della nostra esperienza riferendoci ai
termini di un altro elemento; essa facilita la ricostruzione delle rappresentazioni dei soggetti e permette di scorgere dimensioni che con altri strumenti
tendono a rimanere occultate. La metafora, come la favola, racconta l’esperienza del soggetto, ma è meno contaminata della favola da esigenze narrative; non ha un’architettura del prima, del dopo, del perché, dell’allora. Le sue
forme espressive, come quelle dell’analogia, appartengono all’area del mito,
cioè di ciò che si racconta in contrapposizione al logos, che è ragionamento,
ciò che si espone.
Nella nostra ricerca per meglio delineare il profilo dell’idea di pace sono
stati utilizzati due tipi diversi di metafore, inseriti sia con lo scopo di ridurre
la complessità delle rappresentazioni entro schemi piuttosto semplici, sia con
quello opposto di assumere complessità, lasciandola esprimere liberamente.
In altri termini, ci si è mossi da una riduzione di complessità ad un suo ampliamento; si è cercato cioè da una parte di ricondurre l’idea di pace entro im-
© Rubbettino
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magini già predefinite (‘giardino incantato’, ‘duro lavoro’, ‘equilibro precario’, ‘frutto di buona volontà’) o di riportarla alle rappresentazioni delle stagioni, e dall’altra di farne ‘esplodere’ la complessità grazie ai molteplici e più
variegati significati che gli intervistati potevano esprimere attraverso il ricorso agli animali. L’articolazione delle stagioni riduce e guida le opzioni di scelta, mentre la metafora degli animali (i cui risultati per l’eccessiva complessità
non vengono qui presentati) offre uno spettro di indicazioni decisamente più
ampio e con maggiore spazio proiettivo anche per dimensioni occulte e meno
trasparenti. Entrambe le metafore naturalistiche – quella delle stagioni e quella degli animali – sono di natura affettiva ed espressiva e la scelta relativa è stata interpretata in base alle risposte ad un’ulteriore domanda che chiedeva il
perché della scelta.
La prima metafora ha fatto risaltare una maggiore indicazione per l’idea di
‘duro lavoro’ (con il 37,1%), seguita da ‘una condizione che si può raggiungere con un po’ di buona volontà’, ‘equilibrio precario’ e ‘giardino incantato’ con
rispettivamente il 28,8%, il 20,3% e il 12,5%. La figura 4 rappresenta graficamente i risultati ottenuti.
Fig. 4: metafore della pace
Frutto di buona
Frutto di Buona
volontà
Volontà
Equilibrio
Equilibrio
precario
Precario
DuroLavoro
lavoro
Duro
Giardino Incantato
incantato
Giardino
0
5
10
15
20
25
30
35
40
Un’interpretazione di sintesi dei risultati ottenuti fa emergere nel campione la consapevolezza che la pace sia uno scopo importante da raggiungere con
un forte impegno e attraverso un processo di costruzione continua, perché
molte sono le forze che operano in senso contrario. È diffuso tra gli intervista-
82
© Rubbettino
ti un atteggiamento proattivo (con il 65,9% ottenuto cumulando le frequenze
delle due indicazioni ‘frutto di buona volontà’ e ‘duro lavoro’), con al suo interno il prevalere di un realismo piuttosto incline al pessimismo (37,1% di indicazioni ‘duro lavoro’). Gli atteggiamenti passivi sono del 32,8% (risultato
dalle frequenze cumulate delle due indicazioni ‘equilibrio precario’ e ‘giardino incantato’), con solo il 12,5% di ottimisti. La figura 5 sintetizza graficamente queste dimensioni.
Fig. 5: atteggiamenti rispetto alla pace
Ottimismo
Frutto di buona volontà
Giardino incantato
Atteggiamento
proattivo
Atteggiamento
passivo
Duro lavoro
Equilibrio precario
Pessimismo
Gli atteggiamenti sopra rappresentati hanno fatto registrare una significativa articolazione secondo l’area politica di appartenenza, con per esempio
la sinistra con un atteggiamento proattivo-volontaristico per il 72,7% (frequenze cumulate), contro il 62,7% della destra. La destra inoltre è quella che
si connota per la minore fiducia nelle possibilità di azioni ‘di buona volontà’
a favore della pace. Si tratta comunque di scarti percentuali significativi, ma
non eclatanti, a conferma di una omogeneità nel campione su certe tematiche
di fondo.
La tabella 5 illustra i risultati in tutte le loro articolazioni.
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Tab.5: Immagini della pace secondo l’area politica
Giardino
incantato
Duro
lavoro
Equilibrio
precario
Frutto
di buona
volontà
Sinistra %
8,8
40,2
18,5
32,5
Centro %
17,6
35,2
19,8
27,5
Destra %
14,2
34,9
28,5
22,3
Nessuna %
15,9
37,7
13,3
30,1
Rispetto al genere le differenze riscontrate sono minime con una leggera
propensione all’ottimismo per le donne.
La differenziazione di età fa risaltare invece negli ‘over 40’ un atteggiamento maggiormente volontaristico e forse un più incisivo idealismo, d’altronde già segnalato.
La metafora delle stagioni
Per quanto riguarda la rappresentazione della pace attraverso l’utilizzo
della metafora delle stagioni va subito notato che la primavera ha rappresentato l’indicazione più frequente con il 64,5%, seguita dall’estate con il 20,3%,
dall’autunno 6,9% e dall’inverno 6,4%.
Le caratteristiche associate alla primavera si coagulano essenzialmente intorno all’idea di una ‘rinascita’, di una vita in boccio, della speranza di qualcosa di bello, di qualcosa di nuovo e di vitale che si impone dopo la pausa, il
‘sonno’ dell’inverno; l’esuberanza, i colori, l’allegria e l’abbondanza sono le
spiegazioni prevalenti di quanti hanno scelto l’estate. Tempo di riposo e di meditazione, di ‘semina paziente’, cioè di lavoro poco appariscente, sono le più
frequenti argomentazioni di quanti hanno indicato le altre due stagioni. La
metafora naturalistica ha portato a spiegazioni coerenti che sono state di aiuto per comprendere gli stati d’animo che accompagnano le rappresentazioni
della pace. In sintesi ci si muove all’interno di coppie attività/riposo, esplosione/raccoglimento, tempo dell’espressività/tempo della riflessione, pace come
movimento, pace come tranquillità. In tutti però appare forte il legame dell’idea di pace con l’idea di vita, mai con quella di una immobile staticità, nemmeno per coloro che hanno preferito l’autunno e l’inverno.
84
© Rubbettino
Nell’immaginario collettivo degli Italiani appare pienamente portato a
termine il processo che, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ha
stravolto le regole fino ad allora conosciute, modificando profondamente l’idea di guerra e di pace: in una guerra nucleare si annullano le differenze tra
un eventuale vincitore e il vinto. Ponendosi come probabile suicidio collettivo, il ‘conflitto atomico’ azzera ogni funzione oggettiva e soggettiva della guerra: essa non è più Eros e Thanatos, è solo Thanatos; non è più festa crudele,
prova suprema, estasi sacra che trasfigura il fratricidio (Weber, 2002, II); è solo distruzione, ritorno al mondo inorganico. Così l’aspetto vitalistico-dionisiaco, spesso associato al combattimento e alla guerra (Bouthoul, 1961), nell’era
della guerra post-atomica, è traslato alla pace.
Corpi civili e sicurezza
A completamento delle domande sulle strategie per perseguire la pace, il
disegno della ricerca, come si è detto, ha previsto l’inserimento di due domande specifiche per analizzare l’opinione del campione sull’utilizzo in alcuni tipi di intervento all’estero di un corpo di civili disarmati, i cosiddetti ‘caschi
bianchi’. L’argomento è di attualità e rilevanza (per esempio, Tullio, 2000); i
‘caschi bianchi’, nati quali strumenti di supporto all’attività umanitaria delle
Nazioni Unite, sono stati istituzionalizzati con il rapporto del 27 giugno 1995
del Segretario Generale al Consiglio Economico e Sociale in cui si elencano
pure tutte le attività di cui possono essere incaricati. Anche il Parlamento europeo si è in più riprese occupato di corpi di volontari civili da impegnare nelle operazioni di pace.
È sembrato perciò importante approfondire l’analisi delle problematiche
oggetto della ricerca, allargando l’indagine alla cosiddetta difesa civile (in senso lato), quale strumento a cui ricorrere, in una concezione ampliata della difesa e della sicurezza, per alcune dimensioni delle missioni di pace o addirittura, in alcuni casi, come strumento alternativo per la sicurezza nel sistema internazionale. Il concetto di ‘difesa civile’ in effetti è molto più ampio di quello a cui si riferiscono le domande del questionario; esso arricchisce di una dimensione importante l’articolazione della protezione dalle minacce, che in
questo caso non è più affidata esclusivamente a corpi specializzati dello Stato,
ma allargata al contributo della società civile. Secondo alcuni autori (per esempio, Holmes,1990), una difesa civile non violenta sarebbe un’ipotesi da percorrere in direzione di una concezione creativa della sicurezza, arricchita da
strategie alternative. La difesa civile presenta un aspetto esterno e uno inter-
© Rubbettino
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no; quest’ultimo però non è stato considerato nella nostra rilevazione dei dati, per evitare di ampliarne troppo lo spettro, con il rischio di squilibrare il fuoco dell’indagine.
La prima domanda del questionario in argomento (‘Secondo lei, un corpo di civili disarmati – i cosiddetti caschi bianchi – in quale delle seguenti
missioni potrebbe essere utile e quanto?’) ha così inteso rilevare le opinioni
al riguardo di una gamma di interventi più limitati e di considerarne la valutazione dell’utilità. La tabella sotto riportata illustra i risultati ottenuti.
Tab. 6: valutazione della possibile utilità dei corpi civili di pace in alcune missioni
Molto
utile
Abbastanza
utile
Indifferente
Poco
utile
Inutile
Difesa comune
ambito NATO %
13,9
22,1
17,0
17,3
23,4
Missione di F.A.
per gestione crisi
%
12,0
23,1
13,4
18,4
27,4
Missioni di mantenimento della pace
%
41,6
31,9
6,6
8,1
8,0
Missione umanitarie o evacuazione
civili %
64,9
25,5
2,1
1,3
2,8
Una prima analisi dei risultati fa subito risaltare l’individuazione dei ‘caschi bianchi’ come i soggetti più adatti per l’assistenza umanitaria o per l’azione di evacuazione di civili, con una sorta di approvazione plebiscitaria
(90,4%) se si cumulano le due indicazioni ‘molto utile’ e ‘abbastanza utile’.
Ovviamente le indicazioni maggiori di ‘non utilità’ si hanno per le missioni in
ambito NATO (40,7%, cumulando ‘poco utile’ e ‘inutile’) e per quelle di forza armata nella gestione delle crisi (45,8%). Nuovamente viene confermata la
riflessività del campione e la relativa capacità di operare adeguate distinzioni.
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Rispetto all’utilizzo dei caschi bianchi in missioni NATO non si riscontrano scarti percentuali rilevanti, mentre le frequenze cumulate delle due modalità ‘molto utile’ e ‘abbastanza utile’ non raggiungono mai il 40% e non scendono sotto il 30%.
Comunque è possibile notare che:
a) le donne sono percentualmente più favorevoli degli uomini;
b) chi ha più di 40 anni è più favorevole dei più giovani;
c) i sostenitori di questo tipo di utilizzo sono più frequenti tra coloro che si
autocollocano a sinistra;
Anche per l’utilizzo dei caschi bianchi nelle missioni militari per la gestione di crisi l’andamento delle risposte è simili; riscontriamo che:
a) le donne sono più favorevoli degli uomini;
b) chi ha più di 40 anni è più favorevole dei più giovani;
c) i meno convinti sono gli intervistati di destra;
d) in questo caso la sinistra si colloca in terza posizione, superata dai consensi di coloro che si autodefiniscono appartenenti a nessuna area e al centro.
Con il passaggio alla valutazione di utilità rispetto all’impiego nelle missioni di mantenimento della pace, le percentuali fanno registrare un notevole
aumento e qualche cambiamento:
a) le donne si confermano sempre più favorevoli degli uomini;
b) i giovani superano gli anziani;
c) la sinistra rimane in terza posizione dopo chi rifiuta di collocarsi in un’area
politica e chi si autocolloca al centro.
Inoltre le differenze percentuali si fanno più marcate in special modo per
la differenziazione secondo le appartenenze politiche, dove tra i più e i meno
favorevoli lo scarto è di circa venti punti percentuali.
Per le missioni umanitarie la percentuale dei favorevoli cresce ulteriormente; inoltre si riscontra:
a) la posizione più favorevole delle donne;
b) tra le aree politiche l’indicazione più frequente nuovamente a sinistra.
Corpi civili disarmati e Forza Armata europea
L’opinione sul ruolo attribuibile ai corpi civili disarmati si completa con
l’analisi della domanda che chiedeva agli intervistati di esprimere la loro opinione circa la possibilità della suddetta forza di sostituire una Forza Armata
europea. La domanda era in un certo senso ‘provocatoria’, nella misura in cui
tentava di far proiettare sulle Forze Armate europee istanze favorevoli al di-
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sarmo, evitando il corto circuito delle Forze Armate nazionali. Le risposte
hanno visto una piccola minoranza di favorevoli (il 7,4%), contro il 46,3% di
assolutamente contrari e il 38,9% di coloro che reputano questo possibile ma
solo per alcuni casi, cioè per compiti specifici.
Se differenziamo il campione in base al genere, alle classi di età e all’appartenenza politica troviamo confermate alcune linee di tendenza già chiaramente delineatesi nel campione.
Tab. 7: opinione sulla sostituzione con i ‘caschi bianchi’ di una Forza Armata europea secondo il
genere
Sì
In alcuni
casi
No,
mai
No
opinione
Maschi %
6,1
35,0
52,0
6,9
Femmine %
8,6
42,9
41,7
6,8
Infatti anche dalla tabella 7 emerge un’inclinazione ‘pacifista’ percentualmente più diffusa presso le donne, mentre la tabella 8 fa risaltare una posizione più possibilista da parte dei più giovani.
Tab. 8: opinione sulla sostituzione con i ‘caschi bianchi’ di una Forza Armata europea secondo le
classi di età
Sì
In alcuni
casi
No,
mai
No
opinione
15 – 40 anni %
6,9
41,6
45,3
6,2
Più di 40 anni %
7,8
35,6
48,9
7,7
Infine la disaggregazione secondo le diverse aree politiche riconferma la
presenza nell’area di destra di indicazioni più frequenti a favore delle Forze
Armate; è comunque interessante notare che sia pure nella contrapposizione
sinistra/destra un cospicuo numero di intervistati di entrambe le aree condi88
© Rubbettino
vide le stesse posizioni. Il dato è già emerso per altre domande e meriterebbe
un ulteriore approfondimento.
Tab. 9: opinione sulla sostituzione con i ‘caschi bianchi’ di una Forza Armata europea secondo l’appartenenza politica
Sì
In alcuni
casi
No,
mai
No
opinione
Sinistra %
10,9
43,7
41,2
4,2
Centro %
4,4
39,6
53,8
2,2
Destra %
5,3
31,6
56,3
6,8
Nessuna %
5,6
42,4
36,8
15,2
Nuovi scenari di rischio ed equilibri per la pace
Nel complesso la ricerca per questa parte delle tematiche analizzate ha visto emergere alcuni importanti risultati. Innanzi tutto va evidenziato che la
percezione della minaccia è forte e chiaramente avvertita nell’opinione pubblica. Non solo riflette fedelmente i profondi cambiamenti intervenuti negli
scenari politico-strategici dopo gli attentati dell’11 settembre, ma si radica anche in un mutamento di lungo periodo che enfatizza i valori ‘ecologici’ dei diritti umani, della protezione dell’ambiente e della sicurezza, intesa in senso
globale e che quindi porta a temere, insieme alle minacce tradizionali, anche i
‘nuovi’ rischi.
La società del rischio elaborata dagli intervistati si organizza intorno a tre
tipologie di minacce: quella militare di natura più o meno tradizionale, caratterizzata dal nemico visibile e dichiarato, dall’eccezionalità della situazione (la
guerra) e dalla sua facile individuazione e due tipologie di rischi postmoderni, cioè presenti nella quotidianità, inattesi, subdoli, opachi perché mescolati
con il ‘familiare’. Questi ultimi, con il loro generare una rottura rispetto alle
routine della vita quotidiana producono una diffusa ‘insicurezza ontologica’
(Giddens, 1985); sono perciò i più temuti. Vengono imputati sia alla degene© Rubbettino
89
razione del sistema stesso per cause endogene (disastri ecologici, criminalità,
crisi economiche), sia ad una disgregazione per cause esogene (attacchi terroristici, proliferazione di armi di distruzione di massa e loro possesso da parte
di Stati fortemente instabili, di gruppi e organizzazioni di varia natura, migrazioni massicce e incontrollate); rappresentano inoltre le minacce più incisivamente mediatizzate e vissute con maggiore partecipazione emotiva.
Nella percezione/rappresentazione dei rischi e delle minacce è apparso
evidente come realtà e dimensione mediatica si presentino fortemente connesse, per cui alcune minacce sono asimmetriche anche per l’incredibile perdurante stato di tensione che producono nell’immaginario collettivo a causa della difficoltà di una loro ‘normalizzazione’ e della loro ridondante comunicazione nei media, anche al di là delle realistiche probabilità di accadimento. Oggi il più grande pericolo non sembra quindi risiedere nelle probabilità del rischio, ma nella sua percezione che agita le fantasie, paralizzando le normali capacità di reazione. È questo un importante dato che appare illustrato dalla ricerca.
Altro risultato di rilievo ottenuto, sulla linea di quanto indicato già da
tempo dall’antropologia sociale (per esempio, Douglas e Wildavsky, 1982), è
la conferma che sono la cultura (compresa l’ideologia politica) e la struttura
sociale dei gruppi di appartenenza che dotano gli individui dei codici di decodifica della realtà, per cui il rischio risulta socialmente costruito sulla base
di un processo interpretativo intersoggettivo in buona parte svincolato da valutazioni di tipo probabilistico.
All’interno del campione si sono riscontrate interessanti diversificazioni:
le donne più degli uomini temono le minacce belliche, anche le più tradizionali; l’atteggiamento maschile resta generalmente improntato ad un maggiore
realismo, mentre la componente femminile si riconferma portatrice di una cultura più universalistica e pacifista anche nell’affrontare le questioni della sicurezza e della difesa. Anche se con margini percentuali piuttosto ridotti, i risultati della ricerca sembrano richiamare l’immagine delle donne come hegeliane ‘anime belle’ (Elshtain, 1991). I più giovani sono più sensibili alle minacce
asimmetriche (terrorismo internazionale e armi di distruzione di massa) forse
anche perché più mediatizzate, più ‘nuove’ e perché, in un certo senso, presuppongono una capacità di concepire con facilità le interdipendenze di una
realtà globale; i più anziani restano ancorati maggiormente ai contesti della vita quotidiana, al loro habitat più circoscritto; sono più attenti alla qualità della vita e ai rischi (per es. epidemie e alterazione dei cibi) che la minacciano.
Per la destra la società di rischio si connota prevalentemente attraverso la minaccia del terrorismo e delle migrazioni non controllate, mentre la sinistra ten-
90
© Rubbettino
de con più frequenza a mettere i disastri ambientali al primo posto tra i pericoli; gli intervistati di centro e di sinistra sono i più convinti fautori delle misure politiche e dialogiche, mentre le misure coercitive e militari incontrano
maggiore consenso negli intervistati di destra, seguiti da quelli di centro.
La percezione elevata del rischio, diffusa sia pure con sfaccettature diverse in tutto il campione, risulta in un certo senso amplificata dalla convinzione
di una estrema vulnerabilità collettiva, probabilmente imputabile alle carenze
funzionali attribuite alle istituzioni italiane che raramente vengono chiamate
in causa come livello operativo in grado di fronteggiare la minaccia. D’altronde, però, se il rischio è ‘globale’, è coerente, rispetto alla magnitudine delle sfide che si pongono, percepire la fragilità di ogni singolo Stato, compresa, ovviamente, l’Italia. Comunque sia, ci troviamo di fronte ad una rappresentazione della sicurezza e della difesa connotate da timori e sfiducia; da questa angolazione l’attrazione verso l’Europa potrebbe apparire più come una ‘fuga’
dalla fragilità istituzionale e amministrativa nazionale – con l’aspettativa e la
speranza che le istituzioni europee possano svolgere quelle funzioni di cui è
ritenuta meno idonea l’amministrazione italiana – che una scelta ponderata in
base a considerazioni di utilità o a valori. Le aspettative di sicurezza di molti
intervistati quando invece si rivolgono alle Nazioni Unite – e questo accade
frequentemente – sono fortemente motivate dal fatto che l’organizzazione
sembra essere l’unico garante di una sicurezza globale non disgiunta dalla giustizia, l’unico foro della politica mondiale in cui l’idea di diritti internazionali
occupa un posto centrale; in questo caso la domanda di sicurezza si fonda sulla convinzione ideale che il benessere di tutti è interconnesso e che non si può
avere sicurezza attraverso lo sfruttamento e il dominio di altri.
Per quanto riguarda gli strumenti che la comunità internazionale ha a disposizione per il perseguimento della pace e della stabilità, la diplomazia mantiene un primato assoluto (è ritenuta indispensabile da circa la metà del campione e utile da circa 4 intervistati su 10), seguita dal sostegno economico e
dal supporto ai processi di democratizzazione. La capacità di mediazione a livello di vertice, la lotta alla povertà e la democrazia sono considerate le migliori misure per assicurare una governance globale efficace.
Il quadro si completa in maniera coerente se si considerano i diversi tipi
di stabilizzatori delle relazioni internazionali che possono essere di natura verticistico-statalista o orizzontale-societaria. Gli stabilizzatori appartenenti a
questa ultima categoria trovano un grande sostegno presso gli intervistati a
conferma del profondo mutamento in atto nella concezione delle relazioni tra
i popoli che non vengono più esclusivamente affidate ai governanti e alla politica estera ufficiale, ma si arricchiscono di una fitta rete di scambi orizzonta-
© Rubbettino
91
li tra le popolazioni. La dimensione societaria-umanitaria nelle relazioni internazionali gode di un ampio apprezzamento nell’opinione pubblica italiana
ed è sostenuta dalla diffusa convinzione che costituisca un importante strumento per la pace e la stabilità. Il risultato viene anche confermato dall’apprezzamento verso i corpi civili di pace e per il loro impiego in alcune tipologie di intervento.
Nell’insieme le preferenze espresse riguardo alle strategie per la pace e
la stabilità internazionali inclinano verso attività che non utilizzano la forza
militare (se non in un modo tutto sommato piuttosto marginale o residuale),
ma usano strumenti politici, diplomatici, economici, influenzando attraverso il dialogo e la comunicazione gli interlocutori. Gli Italiani rispecchiano a
livello di opinione pubblica la tradizionale linea di mediazione e di prudenza tipiche della politica estera italiana; l’atteggiamento prevalentemente
proattivo e volontaristico nei confronti della pace riguarda quindi il suo perseguimento e il suo mantenimento attraverso misure dialogiche e cooperative. Rimane comunque poco meno di un terzo degli intervistati convintamente a favore della deterrenza armata. Nel complesso il concetto di sicurezza
elaborato dagli Italiani risponde alle trasformazioni avvenute nel quadro della conflittualità internazionale e coniuga un modo tradizionale di pensare la
difesa con forme nuove e più partecipate di costruzione della sicurezza.
Va pure ricordato il diffuso consenso per le missioni di peacekeeping;
questa tipologia di impiego trova i suoi più frequenti sostenitori negli intervistati di centro, mentre quelli di sinistra appaiono percentualmente i meno
convinti. La spiegazione è intuibile: si tratta comunque di un utilizzo delle
Forze Armate che, come è emerso dall’insieme dei risultati della ricerca, viene considerato con una certa criticità dagli appartenenti a questa area politica. In generale però va notato che l’accettazione di operazioni militari di
contingenti nazionali non è mai aprioristica, ma necessita di chiare definizioni degli scopi complessivi e degli obiettivi specifici e richiede precise assicurazioni.
In sintesi il timore diffuso ed elevato per le nuove e le vecchie minacce
sembra non portare la popolazione italiana verso una maggiore richiesta di
protezione militare e tanto meno verso derive sicuritarie di tipo illiberale, ma
alimenta forti aspettative sulle capacità dell’Europa di arginarle. Il ruolo permanentemente incerto dell’Europa di fronte alle molteplici crisi che si sono
succedute nell’ultimo decennio sembra non avere un adeguato riscontro nelle rappresentazioni collettive o, almeno, non aver intaccato la fiducia nella
possibilità di superare la mancanza di coesione nella politica estera e in una
visione strategica comune.
92
© Rubbettino
Resta però l’alea della persistente scarsa informazione istituzionale che lascia la popolazione in balia dell’interpretazione dei rischi nazionali e internazionali effettuata dai media, secondo il loro linguaggio spettacolarizzante.
Questo da una parte non facilita la totale fuoriuscita da una ambiance culturale talvolta velleitaria talaltra utopistica, dall’altra può essere di ostacolo allo
sviluppo di un dibattito democratico, serio e costruttivo sulle enormi sfide che
ci attendono come italiani e come europei e per le quali sono indispensabili
strategie politiche innovative. Non appare del tutto matura la consapevolezza
del mutamento dei concetti di sicurezza e difesa; nel nuovo scenario geostrategico la priorità va alla prevenzione delle crisi: in questo contesto occorrerebbe sviluppare una riflessione adeguata sul rapporto tra un concetto di sicurezza cooperativa e inclusiva – che sembra attrarre prevalentemente il campione
– e quello di sicurezza garantita da un sistema di difesa collettiva.
A poco più di dieci anni dal dissolvimento dell’impero sovietico gli Italiani hanno in buona parte elaborato una nuova immagine delle relazioni internazionali, che resta però a volte troppo legata a matrici politico culturali ancora rilevanti nella nostra società e che, in assenza di un dibattito serio e costruttivo, rischia di non portare a pieno compimento quella capacità di esprimere posizioni articolate che pure in altre occasioni manifestano.
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Capitolo terzo
Forze Armate Italiane, Forze Armate Europee
Maria Luisa Maniscalco
Nuovi scenari internazionali e ruolo delle Forze Armate
Rispetto agli anni del confronto antagonistico tra i due blocchi quando il
loro impegno principale era di contribuire, insieme agli alleati della NATO, a
fermare un’eventuale penetrazione sovietica in occidente, oggi le Forze Armate del nostro Paese sono chiamate a far fronte a due compiti fondamentali: il
concorso al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e, per la
dimensione nazionale, la difesa dell’integrità territoriale e degli interessi italiani. Se con la fine della guerra fredda la minaccia militare è sicuramente divenuta più vaga e meno diretta, e, come ritiene la maggior parte degli intervistati, una guerra convenzionale sul nostro territorio appare poco probabile, essa
non è comunque impossibile e la difesa della Patria rimane sempre la mission
principale delle Forze Armate di ogni paese. Inoltre gli attentati dell’11 settembre sembrano aver reso palese una nuova fase in cui è difficile distinguere
tra sicurezza interna e sicurezza esterna e la vita dei cittadini può essere messa in pericolo da particolari forme di minacce al cui contrasto sono chiamate
a contribuire anche le forze militari. Mutano gli scenari della sicurezza; anche
lo strumento militare può essere coinvolto nella difesa dei diritti umani e dei
valori fondamentali democratici, da sempre centrali nelle politiche dell’Unione Europea.
A ciò va aggiunto che i conflitti – compresi quelli armati – non sono certo diminuiti; molto spesso però si sono trasformati nelle ‘nuove’ guerre (Kaldor, 1999), cioè in quelle contro il ‘nemico domestico’ (Zaretti, 2001), determinate per motivi etnici, nazionalistici, religiosi e fortemente segnate da un’economia di guerra criminale. Le Forze Armate dei paesi europei sono già da
tempo sempre più coinvolte negli impegni multinazionali di supporto alla pace per far fronte alle nuove forme di conflittualità internazionale. Da diversi
anni infatti l’istituzione più fortemente legata allo Stato-nazione, si è così coinvolta nella collaborazione internazionale che potremmo affermare, con Men© Rubbettino
95
dras (2002), che tutte le Forze Armate europee sono oggi post-nazionali. Per
far fronte ai nuovi diversificati impegni l’organizzazione militare ha affrontato un profondo processo di trasformazione; pur riconoscendo e tutelando la
propria specificità e la particolarità delle sue procedure, si è aperta alla ricerca di una professionalità più completa in un accrescimento di complessità
(Maniscalco,1995) adeguato alla complessità delle sfide che si trova a fronteggiare.
Pur considerando le grandi minacce emergenti – terrorismo, criminalità
internazionale e proliferazioni di armi di distruzione di massa –, sul cui impatto sull’opinione pubblica si è già detto, gli scenari prevedibili escludono, per
i prossimi 10-15 anni, l’ipotesi di una guerra generalizzata che coinvolga l’intero continente europeo, mentre appaiono prevedibili crisi sia in aree geograficamente più vicine (Balcani, Mediterraneo, Medio Oriente) sia più lontane
(Africa subsahariana, Caucaso, Asia centrale) che potrebbero però comunque
coinvolgere a vario titolo paesi europei singolarmente o l’Unione nel suo complesso.
Attualmente (per esempio, Silvestri, 2002) si tende a sintetizzare le ipotesi di utilizzo dello strumento militare entro tre grandi categorie:
a) difesa civile e territoriale (homeland defence) che comprende le missioni di protezione e di sorveglianza del territorio, includendo la protezione delle infrastrutture e delle comunicazioni, e tutte le attività per contrastare o ridurre i rischi legati alle armi di distruzione di massa;
b) operazioni di sicurezza (stability operations) che comprendono missioni umanitarie, di peacekeeping e di peacebuilding, ma anche molte missioni di
peaceenforcement;
c) guerra di proiezione (expeditionary warfare) che comprende le guerre
regionali, gli interventi di più alta intensità e importanza, la guerra al terrorismo internazionale, ecc.
Le categorie sopra richiamate riguardano interventi profondamente diversi, nella loro natura, nei loro fini e nelle esigenze militari corrispondenti; essi risultano socialmente legittimabili sulla base di presupposti differenti e presentano livelli di accettabilità da parte dell’opinione pubblica sicuramente diversificati. In linea di massima possiamo affermare che dal momento che le
operazioni militari odierne si presentano articolate su uno spettro molto ampio, conseguentemente, anche il consenso dell’opinione pubblica tende ad essere articolato e differenziato. In alcuni casi l’utilità e i fini degli interventi appaiono evidenti, in altri la distanza tra i fini dell’impiego delle Forze Armate e
gli interessi immediati e quotidiani dei cittadini rende necessarie complesse
mediazioni politiche e comunicative.
96
© Rubbettino
Dal momento che la probabilità di una guerra sul territorio nazionale e la
percezione delle minacce regolano le relazioni di base tra Forze Armate e società (Moskos e Burk, 1998), di tutte queste problematiche si è tenuto conto
nell’elaborazione del questionario che ha inteso approfondire l’immagine del
ruolo tecnico e di quello ‘politico’ delle Forze Armate, nonché le relative opinioni sulla cooperazione europea nel campo della difesa e della sicurezza. Alcune domande, infatti, sono state indirizzate a delineare l’opinione/valutazione circa le Forze Armate italiane e i relativi ruoli, considerando questi aspetti
quali elementi fondamentali ai fini di una corretta interpretazione degli atteggiamenti verso la Forza di Reazione Rapida europea e delle eventuali future
Forze Armate europee.
Una prima importante considerazione al riguardo pone il problema generale della ‘posizione’ delle Forze Armate nel contesto istituzionale delle democrazie mature; infatti un aspetto fondamentale per il buon funzionamento dello strumento militare è rappresentato dalla relazione intrattenuta con la società civile, dal momento che una legittimazione formale è necessaria, ma non
sufficiente. La specificità dello strumento necessita più di altri di un sostanziale consenso della collettività. In altri termini che ruolo e che peso hanno oggi
le istituzioni militari nella complessa architettura delle società avanzate? Quali sono le richieste rivolte alle Forze Armate da parte dell’opinione pubblica?
Quali le condizioni per il consenso da parte di cittadini, come quelli italiani,
fondamentalmente orientati a soluzioni pacifiche delle controversie internazionali e sensibili all’opera di mobilitazione dei mass media?
Come si è già visto nella prima parte del volume, solo il 27,2% degli Italiani ha considerato alto l’impatto delle Forze Armate italiane sulla propria vita, segno, ovviamente, del lungo periodo di pace, della storia più o meno recente del nostro Paese, ma anche di una annosa scarsa attenzione dei media al
riguardo e quindi di una sorta di perdurante invisibilità dell’istituzione militare. A ciò si aggiunge una certa strutturata difficoltà dell’opinione pubblica
italiana di coglierne a fondo gli aspetti di utilità svolta a favore della sicurezza
della collettività (a livello internazionale, ma anche sul territorio) e a sostegno
dell’immagine del Paese all’estero, attraverso le cosiddette relazioni militari
internazionali. Segno però, per un aggiuntivo elemento di interpretazione, anche di una certa incapacità del Paese di agire come sistema. Manca cioè, detto in altri termini, la consapevolezza che in uno Stato, che si adegui alla situazione degli attuali processi economici, politici e geostrategici, le Forze Armate, al pari di tutte le altre istituzioni, contribuiscono alla stabilità, al benessere, al prestigio e alla sicurezza di un paese, in modo diretto e indiretto, e in
questa maniera hanno un notevole impatto sulla vita dei cittadini. Ma manca
© Rubbettino
97
pure una capacità riflessiva nel considerare come tra gli indicatori principali
del ‘collasso’ di uno stato c’è sempre la decadenza delle Forze Armate regolari, con una relativa frammentazione militare; l’esperienza di molti failed States
post sovietici e africani è indicativa al riguardo.
I compiti delle Forze Armate italiane: opinioni e valutazioni
Sullo sfondo culturale dell’opinione pubblica del nostro Paese che, come si è visto, sembra avere un preciso orientamento nei riguardi dei rischi e
delle minacce e dei processi di tutela e difesa nazionali, la ricerca, per valutare le opinioni circa le funzioni dell’istituzione militare, ha previsto una domanda così formulata: ‘Rispetto alle seguenti affermazioni sulle Forze Armate
Italiane può indicarci il suo grado di accordo?’. Il fine specifico della domanda è stato quello di misurare il grado di accordo e di sostegno – e quindi di
consenso – nei confronti delle diverse missions delle Forze Armate italiane.
L’articolazione delle affermazioni nel questionario – per le quali appunto
si chiedeva di esprimere il proprio livello di accordo – ha permesso di misurare gli atteggiamenti a livello ordinale attraverso una scale che va da ‘totalmente d’accordo’ a ‘totalmente in disaccordo’ e ha presentato come sempre la modalità ‘nessuna opinione’.
Una prima analisi dei risultati ottenuti fa emergere come l’indicazione più
elevata circa il ‘totalmente d’accordo’ riguardi l’aiuto al proprio paese in caso
di disastro (57,6%), subito seguita dalla difesa del paese e del territorio
(52,3%); la funzione di ‘tutela’ delle Forze Armate, nel suo duplice aspetto civile e militare, gode quindi di un consenso pieno da parte della maggioranza
del campione. Segue poi, a decrescere, l’aiuto dato ad altri paesi in caso di calamità (40,0%), cioè un compito umanitario transnazionale; bisogna arrivare
in quarta posizione per trovare di nuovo un impiego più consono alle attività
militari, cioè il peacekeeping (39,4%), attività che però, come è noto, non è tipicamente militare e che, in quanto tale, nonostante una lunga e ormai consolidata consuetudine, ancora oggi suscita perplessità nelle Forze Armate di alcuni paesi come per esempio Gran Bretagna e Stati Uniti (Segal e Wechsler
Segal, 1995).
La funzione di garanzia e simbolo dell’unità nazionale trova ‘totalmente
d’accordo’ il 29,5% e quello di difesa di valori quali libertà e democrazia il
22,8%, mentre il ruolo più tradizionale di preparare alla guerra e al combattimento trova ‘totalmente d’accordo’ solo il 18,4% degli intervistati; per i due
ruoli tradizionali, tipicamente legati all’idea di Forze Armate di leva, quale la
98
© Rubbettino
capacità di educare i giovani ai valori della disciplina e del rispetto e di aiutarli ad integrarsi nella società, si ottiene l’indicazione ‘totalmente d’accordo’ rispettivamente per il 17,4% e il 7,0%.
L’affermazione di totale dissenso verso l’istituzione militare – ‘le Forze Armate non hanno nessuna utilità’ – trova ‘totalmente d’accordo’ il 6,4% degli
intervistati.
Cumulando le due indicazioni ‘totalmente d’accordo’ e ‘parzialmente
d’accordo’ l’ordine delle priorità non cambia anche se le percentuali aumentano sensibilmente arrivando a:
1) 92,6% per l’aiuto al proprio paese in caso di disastro;
2) 86,7% per la difesa del territorio;
3) 84,6% per gli aiuti in caso di disastro ad altri paesi;
4) 79,2% per il peacekeeping;
5) 65,9% per la garanzia dell’unità nazionale;
6) 63,6% per la difesa di libertà e democrazia;
7) 53,5% per la preparazione alla guerra e al combattimento;
8) 47% per educare i giovani al rispetto e alla disciplina;
9) 35,3% per aiutare i giovani nell’inserimento nella società.
Di nuovo sono le ultime due funzioni che ottengono minore consenso,
non raggiungendo la maggioranza del campione; in qualità di agenzia formativa, le Forze Armate vengono giudicate prive di una connessione organica con
la società. Il dato segnala una certa perdurante distanza dalle altre agenzie formative e dal contesto culturale più generale.
In sintesi possiamo sostenere che l’operato delle Forze Armate italiane sia
ben apprezzato dall’opinione pubblica; resta però da riflettere su alcuni importanti punti:
a) le funzioni difensiva e di aiuto umanitario all’interno del territorio sono sicuramente le più apprezzate e le meno problematiche; seguono come ordine l’aiuto umanitario agli altri paesi e le missioni di peacekeeping, talvolta accomunate nell’immaginario collettivo. Gli interventi umanitari assegnano alle Forze Armate un ruolo molto condiviso e facilmente comprensibile dall’opinione pubblica; anche le operazioni di peacekeeping costituiscono un impiego di vasto consenso sociale. Entrambi rivalutano abilità
prettamente militari in quanto espressione di una professionalità impiegabile ad ampio spettro;
b) rispetto alla funzione di integrazione sociopolitica e di difesa dei valori
portanti della nostra comunità, il maggiore grado di accordo va al livello
politico (‘garanzia e simbolo dell’unità nazionale’ e ‘difesa della libertà e
della democrazia’), mentre quella di integrazione sociale (‘aiutano i giova-
© Rubbettino
99
ni ad integrarsi nella società’) e culturale, in questo caso di socializzazione
a specifici valori (‘insegnano ai giovani disciplina e rispetto’), riscuote meno consensi, sia per l’influenza della scarsa valutazione della leva, sia perché quest’ultima è ormai in fase di abolizione e l’opinione pubblica è
proiettata verso forze solo professionali, sia infine perché ‘rispetto e disciplina’ sono valori poco considerati e comportamenti poco praticati nelle
società occidentali contemporanee;
c) solo poco più della metà del campione è d’accordo sulla mission tipica delle Forze Armate (guerra e combattimento) con una chiara indicazione per
l’auspicato ruolo poco aggressivo per le nostre Forze Armate, già presente
in altri risultati della ricerca.
Sicuramente, come emerge da molti altri elementi, le Forze Armate italiane hanno superato quell’invisibilità che le ha caratterizzate durante il lungo
periodo della Guerra Fredda, come risultato della tensione tra diffidenza (della società civile) e chiusura (del mondo militare). Sfumate molte delle cause
esterne che rendevano difficile il rapporto con la società civile, nel corso degli anni novanta le Forze Armate italiane hanno sperimentato un progressivo
ampliamento dei loro compiti e ciò ha contribuito a far elaborare e diffondere nell’opinione pubblica una immagine nuova del militare, come soggetto e
come organizzazione. Le prove fornite nelle missioni di pace e nelle attività di
ordine pubblico in concorso con le forze di polizia hanno contribuito a dissolvere gli stereotipi legati all’idea di un burocratismo esasperato, di isolamento
culturale e di inefficienza; l’operato dell’organizzazione militare gode di sicuro apprezzamento presso l’opinione pubblica. L’aumento di consenso e di legittimazione sociale è avvenuto però su una immagine della forza armata sbilanciata su alcuni aspetti: i militari sono stati apprezzati essenzialmente per le
loro funzioni di operatori dell’emergenza, umanitari e come forze di pace. In
altri termini si tratta di un consenso conquistato sul campo, in base alle funzioni svolte e per l’efficienza-efficacia dimostrate, a cui si accompagna – e questo è un punto importante – una dimostrazione di affidabilità rispetto a certi
parametri di valori – rispetto della vita, solidarietà, empatia – particolarmente apprezzati dall’opinione pubblica italiana.
Questi risultati fanno sorgere alcuni interrogativi: nell’immaginario collettivo è forse avvenuto una sorta di processo di ‘civilizzazione’ delle Forze Armate, con relativa rimozione delle funzioni tipiche di professionisti dell’impiego legittimo della forza armata? Quale ruolo internazionale gli intervistati vorrebbero che il nostro Paese giocasse e con quali mezzi? Quale pensano possa
essere l’effetto di una integrazione europea nel campo della difesa e della sicurezza? Il favore alla suddetta integrazione è dettato da un europeismo con-
100
© Rubbettino
vinto o dalla speranza di uno sganciamento dall’alleanza atlantica che è una
vera e propria alleanza militare?
A queste domande si cercherà di rispondere attraverso una lettura dei risultati della ricerca.
Immagini delle Forze Armate secondo le aree politiche
Come si è già evidenziato nelle parti prima e seconda del lavoro, gli incroci più significativi sono risultati quelli con l’area politica di appartenenza. La
sostanziale tenuta dell’asse destra-sinistra sembra trovare rinnovato vigore sulle tematiche più prettamente legate al ‘militare’ e alla sicurezza. Il dato ovviamente risente della scarsa attenzione e approfondimento a livello di coscienza collettiva sulle suddette tematiche che risultano così affidate ad interpretazioni ideologiche e a forme di pensiero spesso stereotipate.
Così, in sintesi, si può affermare che l’asse dell’area politica orienti significativamente le opinioni nel senso che:
1) nell’area di sinistra si produce una sorta di svuotamento delle funzioni attribuibili alle Forze Armate, con un andamento che assume incidenza maggiore quanto più ci si allontana dal tradizionale compito di difesa della Patria;
2) la funzione simbolica di rappresentare l’unità nazionale vede la più alta
percentuale tra gli intervistati di centro che sono ugualmente quelli più
d’accordo sulla funzione difensiva del Paese;
3) nell’area di destra oltre al sostegno di una diffusa attribuzione di ruoli alle
Forze Armate, e quindi al relativo riconoscimento quale istituzione fondamentale per la vita del Paese, si evidenzia la più alta percentuale di coloro
che attribuiscono ad esse capacità di tutela della libertà e della democrazia.
È difficile avanzare una interpretazione approfondita di queste differenti
posizioni; qualche indicazione può essere ricavata dai risultati dei focus group.
Si tratta della diversa distanza rispetto all’istituzione militare e delle differenti posizioni nei riguardi di scottanti questioni di politica internazionale. Gli intervistati che si sono definiti di destra sono più propensi a pensare che le nostre democrazie possano essere messe in crisi da attacchi destabilizzanti internazionali – quelli che abbiamo definito disintegrativi – e che le Forze Armate
quindi siano necessario scudo per libertà e democrazia; coloro che si sono dichiarati appartenenti all’area della sinistra sono inclini maggiormente verso
strumenti di tutela non militari e temono che Forze Armate troppo presenti
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101
incidano sul clima democratico interno del Paese. Vorrebbero per esse un ruolo passivo, in una sorta di ‘assicurazione’ per la sola difesa del territorio, oltre
che ovviamente un impegno per compiti umanitari. Purtroppo rimane il dubbio che entrambe le posizioni risultino elaborate sotto una certa pregiudiziale del filo o dell’anti atlantismo. Per questo aspetto l’opinione pubblica italiana sembrerebbe, ad una prima analisi, non aver fatto molti passi avanti rispetto al periodo della guerra fredda.
‘Nuovi’ e ‘vecchi’ compiti per le Forze Armate
Con il concetto di ‘nuove missioni’ si intendono i ruoli ricoperti e le operazioni effettuate dalle Forze Armate che, pur non essendo totalmente nuove,
sono oggi molto più frequenti e assumono maggiore rilevanza (Battistelli,
1995). Aumenta per tutte le Forze Armate dei paesi sviluppati la vocazione
transnazionale, ma nello stesso tempo rimane irrinunciabile la difesa del territorio che non può più essere intesa come contenimento di eventuali attacchi
esterni, ma si amplia fino a comprendere tutti gli interventi necessari a preservare la comunità da un ampio ventaglio di rischi. Le Forze Armate vengono
mobilitate anche per la protezione civile (il più antico dei suoi compiti sociali), per limitare l’immigrazione clandestina, per scopi di ordine pubblico e nella lotta alla criminalità internazionale e al terrorismo. La ricerca ha inteso analizzare il riflesso di tale cambiamento nell’opinione pubblica; in altri termini è
in atto nella società contemporanea un mutamento nella rappresentazione dell’identità del militare?
La domanda ‘Per ciascuno dei seguenti compiti indichi quanto ritiene
appropriate le Forze Armate’ ha chiesto agli intervistati di esprimere il proprio giudizio sul livello di adeguatezza a proposito di un ampio ventaglio di
attività in maniera di poter valutare attraverso uno strumento scalare le opinioni al riguardo. Il giudizio sul livello di adeguatezza è stato considerato un
buon indicatore della legittimazione sociale delle attività che le Forze Armate
devono svolgere, cioè in altri termini il loro profilo istituzionale.
Le tabelle n. 1, 2 e 3 illustrano nel dettaglio le frequenze ottenute dalle diverse modalità, che vengono presentate in tre gruppi: il primo per funzioni di
tipo umanitario, il secondo per compiti di polizia nazionale e internazionale,
il terzo per compiti più militari (di tipo tradizionale o più recenti).
102
© Rubbettino
Molto
Appropriate
Appropriate
Indifferenti
Parzialmente
Inappropriate
Del tutto
Inappropriate
No opinione
Tab.1: Rispetto ai seguenti compiti le Forze Armate sono
Assistenza in emergenza %
38,6
48,6
7,8
3,4
1,0
0,4
Emergenza altri paesi %
34,1
50,6
9,1
3,9
1,6
0,1
Protezione dei diritti umani %
17,4
35,9
23,6
10,1
10,0
2,5
Evacuazione cittadini %
39,8
45,9
7,1
3,3
1,6
1,0
Per questa prima tabella rispetto ai compiti umanitari e di emergenza appare netta l’indicazione che è la tutela dei diritti umani quella che suscita più
perplessità, con una chiara eco del dibattito circa i possibili relativi usi strumentali per interventi internazionali che superino, attraverso una sorta di escamotage, la barriera della sovranità dei singoli stati (per esempio, Chomsky,
2000).
Molto
Appropriate
Appropriate
Indifferenti
Parzialmente
Inappropriate
Del tutto
Inappropriate
No opinione
Tab. 2: rispetto ai seguenti compiti le Forze Armate sono
Lotta al terrorismo %
31,3
29,6
17,6
10,3
9,3
1,4
Ordine pubblico %
18,6
37,9
16,9
11,8
12,8
1,1
Supervisione ai confini %
26,6
35,9
17.0
9,1
9,5
0,9
Lotta al crimine internaz. %
19,9
30,6
20,3
12,5
13,1
2,3
La tabella n. 2 illustra che, con il passaggio a ruoli più da ‘poliziotto’, il consenso, sia pure sempre alto, fa registrare una leggera flessione, con l’ordine pub© Rubbettino
103
blico e la lotta alla criminalità organizzata internazionale che in questo caso riscuotono i minori consensi. Il dato attesta l’interesse di parte dell’opinione
pubblica a mantenere un profilo identitario preciso per le Forze Armate.
Molto
Appropriate
Appropriate
Indifferenti
Parzialmente
Inappropriate
Del tutto
Inappropriate
No opinione
Tab. 3: Rispetto ai seguenti compiti le Forze Armate sono
Peacekeeping %
40,3
37,9
9,9
4,6
2,9
3,6
Peaceenforcement %
34,6
37,5
9,8
5,8
4,9
6,0
Difesa terr.
& esig. Nazionali %
42,6
39,4
10,4
4,3
1,6
1,5
Difesa terr & esig. Europei %
29,6
46,3
13,4
6,0
2,5
1,6
Difesa terr. & esig. Alleati %
26,5
44,5
15,1
7,3
3,4
2,1
Per questo ultimo gruppo di attività, la difesa della Nazione e il peacekeeping fanno evidenziare le percentuali più elevate, ad ulteriore conferma che,
accanto alla mission istituzionale e più tradizionale dell’istituzione militare, la
difesa del territorio, della terra dei padri – la patria –, anche le missioni di peacekeeping hanno una legittimazione ormai consolidata presso l’opinione pubblica.
Anche per quanto riguarda questa domanda, come è già emerso in precedenza, è l’autocollocazione nelle diverse aree politiche a far risaltare le più incisive differenze.
In particolare, gli intervistati che si sono autodefiniti di sinistra ritengono
molto meno appropriate le Forze Armate per i compiti di lotta al terrorismo,
di cooperazione con la polizia per mantenere l’ordine pubblico e infine per la
supervisione dei confini per il controllo delle migrazioni di quanto lo fa il resto del campione.
Tra le diverse aree politiche la distanza diminuisce sensibilmente quando
si passa a ruoli tradizionalmente attribuiti alle Forze Armate come quelli di di104
© Rubbettino
fesa; il dato conferma le posizioni già emerse. In questo caso, sono coloro che
si sono dichiarati di nessun orientamento politico a far registrare le frequenze
di accordo più basse.
La Forza di Reazione Rapida europea
Un confronto interessante si può articolare tra i compiti delle Forze Armate nazionali sopra commentati e quelli della costituenda Forza di Reazione
Rapida europea; la domanda ‘L’Unione Europea ha deciso di costituire una
Forza di Reazione Rapida comune, composta di 60000 soldati provenienti da
tutti gli stati dell’Unione Europea. Per ciascuno dei seguenti compiti, per favore indichi quanto ritiene che queste Forze Armate Europee possano essere appropriate’ formulava un elenco con voci identiche a quelle analizzate nelle tabelle n. 1, 2 e 3.
Fig. 1: Forze Armate italiane e Forza di Reazione Rapida europea a confronto
Difesa territorio/paesi alleati
Difesa territorio/esigenze europee
Difesa territorio/esigenze nazionali
Peaceenforcement
Peacekeeping
Evacuazione dalle zone di conflitto
F.R.R.Europea
Protezione diritti umani
F.A. Italiane
Lotta alla criminalità internazionale
Controllo immigrazione
Cooperazione in ordine pubblico
Lotta al terrorismo
Emergenza altri paesi
Assistenza in emergenza
0
20
40
60
80
100
La figura 1 sintetizza graficamente i risultati ottenuti, mettendo in evidenza:
© Rubbettino
105
a) la maggiore appropriatezza attribuita per la quasi totalità dei compiti alla
suddetta Forza di Reazione Rapida, segno dell’elevato livello delle aspettative che gli Italiani ripongono nei progetti e nelle dimensioni europei;
b) la coerente indicazione di maggiore appropriatezza del livello nazionale
per la difesa del Paese.
Con le indicazioni per la Forza di Reazione Rapida europea mutano anche
alcune priorità; la tabella 4 illustra un confronto tra le graduatorie relative.
Tab. 4: Graduatoria nella appropriatezza dei compiti
Forze Armate Italiane
Forza di Reazione Rapida europea
Assistenza in emergenza
Assistenza in emergenza
Evacuazione cittadini
Evacuazione cittadini
Difesa territorio nazionale
Emergenza altri paesi
Emergenza altri paesi
Difesa territorio europeo
Peacekeeping
Peacekeeping
Difesa territorio europeo
Difesa territorio alleati
Difesa territorio alleati
Peaceenforcement
Peaceenforcement
Difesa territorio nazionale
Lotta al terrorismo
Lotta al terrorismo
Supervisione ai confini
Protezione diritti umani
Ordine pubblico
Lotta crimine internazionale
Protezione diritti umani
Supervisione ai confini
Lotta al crimine internazionale
Ordine pubblico
In sintesi possiamo rilevare che gli intervistati sono stati compiutamente
in grado di discriminare tra le diverse missions e di attribuire ad esse una valutazione non casuale, sia a livello nazionale sia a livello di Forza di Reazione
Rapida europea.
Quest’ultima è correttamente percepita come una forza transnazionale, e
quindi con priorità leggermente diversificate, ma comunque fortemente se-
106
© Rubbettino
gnate dalle istanze umanitarie che, come si è già notato nel corso dell’analisi
dei risultati, orientano il campione.
La Forza di Reazione Rapida europea: l’area del consenso
La costituzione di una Forza di Reazione Rapida europea rappresenta un
passo importante verso la realizzazione di Forze Armate postnazionali; non si
tratta infatti di coalizioni o di alleanze (sia pure con comandi integrati) ma di
un vero e proprio salto qualitativo verso la dimensione dell’integrazione nella
politica di sicurezza e difesa.
I risultati della ricerca hanno fatto emergere che questa realizzazione incontra molto favore nell’opinione pubblica italiana, favore che – cumulando
l’arco dei consensi articolato dal ‘sono molto d’accordo’ al ‘sono d’accordo’
fino al ‘sono abbastanza d’accordo’ – raggiunge l’88% del campione, mentre
rimane di poco sotto il 70% per le due prime modalità. La domanda ‘Cosa
pensa di un contributo dell’Italia a questa Forza di Reazione Rapida europea?’ ha infatti fatto riscontrare meno di circa il 10% di pareri contrari.
All’interno dell’area dei favorevoli, gli intervistati che si sono dichiarati
‘molto d’accordo’ rappresentano il 27,8%, mentre il gruppo più nutrito
(41,3%) è tra coloro che si dichiarano d’accordo.
Fig. 2: accordo al contributo italiano alla Forza di Reazione europea
Nessuna
opinione
Disaccordo
Poco d'accordo
Abbastanza
d'accordo
D'accordo
Molto d'accordo
0
10
20
30
40
50
Un’analisi più approfondita sull’articolazione interna del sostegno alla
Forza di Reazione Rapida fa risaltare alcune interessanti differenze.
© Rubbettino
107
Innanzitutto le donne si presentano un po’ meno entusiaste al riguardo,
sia nel complesso – con un’area totale di consenso dell’87% contro l’89,2 degli uomini – sia per quanto riguarda la qualità del consenso. Sulla modalità di
risposta ‘molto d’accordo’ si trova il 32,6% degli uomini – contro il 23,4%
delle donne. In effetti l’influenza del genere sembra agire insinuando una sorta di lieve diffidenza per ogni impresa militare che permane sia pure in un ambito fortemente sostenuto come quello europeo.
L’articolazione per classi di età rende meno evidenti le differenziazioni
che fanno comunque registrare un atteggiamento più europeista nelle classi di
età più avanzate.
L’autocollocazione in un’area politica fa registrare alcune differenze più
interessanti:
a) innanzitutto si profila una posizione di maggiore favore negli intervistati di
centro, sia nel complesso (83,5%), sia all’interno nell’area della modalità
‘sono d’accordo’ (con il 35,2% di ‘molto d’accordo’);
b) si conferma la diffidenza di parte della sinistra verso lo strumento militare, anche quando si dispiega in dimensioni europee di cui la sinistra in questo momento storico, come si è visto, è fortemente sostenitrice;
c) risalta nuovamente la maggiore fiducia della destra nello strumento militare come mezzo per rafforzare la sicurezza collettiva e quella italiana in particolare, fiducia che sostiene in questo caso l’impegno in Europa, portando a superare quella certa diffidenza talvolta riscontrata negli appartenenti a questa area politica.
Forza di Reazione Rapida europea e NATO
Tra i nodi da sciogliere per il pieno raggiungimento degli ‘Helsinki Headline Goals’, cioè degli obiettivi principali di Helsinki, uno dei più importanti
sul piano politico resta quello dei rapporti tra la Forza di Reazione Rapida e
la NATO. Infatti la coscienza e la determinazione politica per una difesa e sicurezza comuni quale necessità per gli Europei mette in campo il grado di autonomia di cui questa nuova dimensione militare europea potrebbe o dovrebbe godere. In questo senso è significativa la dichiarazione del dicembre 1999
dell’allora segretario di Stato statunitense Madeleine Albright, divenuta nota
come la dichiarazione delle tre D: decupling, duplication and descrimination.
Secondo questa tesi lo sviluppo di una dimensione europea della difesa, per
non tradursi in un pericolo per l’Alleanza, ma invece per rinforzarne l’efficacia, avrebbe dovuto rapportarsi al rispetto di tre condizioni fondamentali:
108
© Rubbettino
completare, piuttosto che duplicare, le istituzioni e gli strumenti della NATO;
essere collegata, piuttosto che scollata, rispetto alle relative strutture; assicurare una partecipazione attiva e paritaria di tutti gli alleati europei, senza discriminazioni per quelli che non sono membri dell’Unione.
Al momento della stesura del questionario e della rilevazione dei dati, non
si era ancora tenuto il vertice della NATO di Praga che ha sancito la formazione di una Forza di Reazione Rapida anche in ambito NATO a partire dal
2004. L’evento sembra segnalare una certa tensione e preoccupazione da parte dell’alleato d’oltre oceano per lo sviluppo di una eventuale, sia pure parziale, dimensione militare europea autonoma e quindi rende ancora maggiore
l’interesse per la domanda che pone agli intervistati il problema degli equilibri tra la costituenda Forza e la NATO.
La domanda, come si diceva, non ha potuto operare un confronto tra le
due Forze di Reazione Rapida ed è quindi restata a livello più generale; inoltre ha inteso semplificare la problematica, chiedendo agli intervistati il loro parere circa l’importanza che avrebbero voluto attribuire alla FRRE nei confronti della NATO. Facendo riferimento ad un termine piuttosto generico, come
quello di importanza, la domanda ha teso a sfumare la tecnicità delle possibili opzioni verso la rilevazione di un orientamento di fondo favorevole a tre diverse soluzioni. Una prima era per il mantenimento dello status quo pluridecennale di un sistema euroatlantico integrato e gerarchizzato, con al vertice la
leadership statunitense; la seconda per la definizione di una policy di difesa europea come ‘tessera’ di un complesso mosaico nella riorganizzazione del quadro gerarchico dell’egemonia americana nella NATO, tessera in grado di svolgere operazioni di supporto alla pace in maniera autonoma; la terza infine per
una Forza di Reazione Rapida europea come espressione politico-militare diversa e in grado di differenziarsi dalle scelte geostrategiche degli Stati Uniti.
Come illustra graficamente la figura 3 nell’insieme i risultati della ricerca
hanno visto convergere la maggioranza degli intervistati (52,8%) sull’indicazione ‘considerata importante quanto la NATO’, mentre coloro che la vorrebbero ‘considerata più importante della NATO’ (17%) sono solo di qualche
punto percentuale superiori a chi preferirebbe fosse ‘considerata meno importante della NATO’ (14,4%). Rilevante per questa risposta è il gruppo di coloro che hanno dichiarato di non avere opinioni al riguardo (15,4%).
© Rubbettino
109
Fig. 3: Importanza FREE versus NATO
Nessuna opinione
Importante meno
della NATO
Importante come
la NATO
Più importante
della NATO
0
10
20
30
40
50
60
Anche i risultati di questa domanda, coerentemente con l’insieme delle
opinioni emerse dalla ricerca, attestano la forte propensione europeista degli
Italiani; più di 5 intervistati su 10 infatti vorrebbero che l’importanza della
Forza di Reazione Rapida europea fosse pari a quella della NATO. Considerato la limitatezza dello spettro di azioni della prima e l’incredibile sproporzione di potenzialità tra le due, l’indicazione va letta come auspicio di pari dignità, di autonomia e di emancipazione da ogni forma di tutela americana.
Sembrerebbe quindi che, seppure limitata nei compiti e nelle capacità, la Forza di Reazione Rapida europea dovrebbe, nei desideri di molti Italiani, essere
la prima, iniziale espressione di una reale autonoma identità europea di sicurezza e difesa.
Vediamo ora alcune articolazioni della risposta secondo il genere, le classi di età e l’opinione politica.
110
© Rubbettino
Fig. 4: FREE versus NATO secondo il genere
70
60
50
40
Maschi
30
Femmine
20
10
0
Più della
Nato
Quanto la
Nato
Meno della
Nato
Nessuna
opinione
La figura 4 rappresenta graficamente una linea di tendenza che vede le
donne più propense alle posizioni ugualitarie; se però il dato viene letto nel
complesso – e cioè anche in considerazione della più alta inclinazione di ‘nessuna opinione’ – si potrebbe avanzare l’ipotesi di una maggiore incertezza di
genere che porta a non prendere posizione, per cui l’indicazione di uguaglianza apparirebbe fortemente connotata da un atteggiamento prudenziale. Gli
uomini, infatti, hanno preso con una certa maggiore frequenza le posizioni a
favore di una maggiore o minore importanza.
Per le diverse classi di età è possibile riscontrare un favore percentualmente più alto per una posizione di maggiore importanza da attribuire alla
Forza europea da parte degli ‘over 40’, con un atteggiamento speculare rispetto alla NATO da parte dei più giovani.
L’articolazione secondo l’appartenenza politica conferma quanto già
emerso da altre domande del questionario, cioè che l’europeismo della sinistra è anche, sia pure solo in parte, connotato da significati ‘anti-americani’,
nel senso che viene auspicata la via europea come percorso di affrancamento
e di autonomia. L’area di destra si connota come quella in cui vengono espres-
© Rubbettino
111
se con più frequenza opinioni favorevoli alla NATO. Altro elemento già segnalato, ma che ritorna in questa domanda, è la tendenza di quanti hanno affermato di non appartenere a nessuna area politica a non esprimere la propria
opinione.
Fig. 5: FREE versus NATO secondo la classe d’età
60
50
40
30
15-40 anni
Più di 40 anni
20
10
0
Più della
Nato
Quanto la Meno della Nessuna
Nato
Nato
opinione
Cooperazione o integrazione? Modelli a confronto
La costruzione di una politica di sicurezza e difesa necessita di uno strumento militare che ne supporti adeguatamente le scelte. Una serie di domande del questionario ha teso ad analizzare quale potesse essere, nelle prefigurazioni degli intervistati, l’immagine di un’Europa futura integrata anche militarmente, chiedendo sia la personale preferenza su una tipologia di modelli di
cooperazione o di integrazione delle istituzioni militari, sia la valutazione dell’impatto di un’ipotetica Forza Armata europea su alcune dimensioni del sistema socio politico europeo considerato nel suo insieme; infine, attraverso
l’utilizzo di alcune immagini, si è cercato di comprendere la rappresentazione
delle future (eventuali) Forze Armate europee. Lo scopo di questo set di domande è stato quello di tentare la delineazione di un profilo dell’Europa con
112
© Rubbettino
uno strumento militare comune. In altri termini, un’Europa dotata di Forze
Armate proprie cambierebbe alcune sue fondamentali dimensioni interne ed
esterne? Quale identità e quale profilo viene attribuito nell’immaginario collettivo ad eventuali Forze Armate europee?
Come si è visto nella prima parte del volume (vedi saggio di Antonelli) la
convinzione che sia auspicabile una maggiore integrazione nel campo delle
politiche istituzionali di sicurezza e di difesa si è però accompagnata con una
maggiore problematizzazione rispetto alla costituzione di un’unica forza armata. A ciò va aggiunto che il campione ha espresso nel complesso un interesse maggiore per le politiche comuni tese a tutelare il benessere interno delle
popolazioni (occupazione, salute, ambiente) e una minore disponibilità a sostenere un ruolo internazionale proattivo per l’Unione, anche se non è mai risultato scarso l’appoggio alle dimensioni di mediazione e di pacificazione, affidate però per lo più a strumenti dialogici e cooperativi.
Passiamo ora ad analizzare singolarmente le diverse domande.
Nuove forme di cooperazione militare
La domanda‘Guardando al futuro che tipo di Forze Armate preferirebbe?’ ha cercato di far emergere il modello di cooperazione militare a livello europeo più gradito agli Italiani, presentando una serie di items mutuamente
esclusivi.
Il valore più elevato, 44,4%, è stato in questo caso raggiunto dalla soluzione di una Forza di Reazione Rapida permanente che si affianchi alle Forze
Armate nazionali; segue con il 25,5% la preferenza per una forza armata unica, integrata. Questa ultima indicazione è inferiore di circa quattro punti all’indicazione di ‘totalmente d’accordo’ data alla domanda 1.2 sulle politiche
istituzionali dell’Unione dove si chiedeva di esprimere il proprio grado di accordo anche sull’affermazione ‘l’Unione Europea dovrebbe avere una sola
Forza Armata’. La differenza, non del tutto irrilevante, si spiega sia per una
sorta di ‘trascinamento’ subito a causa delle altre politiche istituzionali che
hanno riscosso livelli elevati di accordo, sia perché, solo trovandosi di fronte
ad opzioni più numerose, come nel caso della domanda che prevedeva persino la possibilità di indicare l’opzione ‘nessuna Forza Armata’, gli intervistati
hanno potuto articolare meglio la loro risposta, adattandola alle personali preferenze.
La soluzione di Forze Armate nazionali e una Forza di Reazione Rapida
europea creata di volta in volta è risultata un’opzione sicuramente minoritaria
con solo il 16,9% di indicazioni; a volere solo Forze Armate nazionali sono il
© Rubbettino
113
2,5% dei rispondenti, mentre una quota non proprio irrilevante, 7,3%, esprime l’opinione di non volerne nessuna. Il 2,9% del campione non esprime opinioni al riguardo.
In sintesi solo 1 intervistato su 4 è disposto rinunciare alle Forze Armate
nazionali; per la politica militare dell’Unione in gran parte viene auspicato il
doppio binario Forze Armate nazionali e Forza di Reazione Rapida europea
permanente, con l’intento di utilizzare le prime per i tradizionali compiti di difesa del territorio e per i problemi di sicurezza interna e la seconda per gli impieghi nei teatri di crisi. Questa soluzione potrebbe sembrare in un certo contrasto con quanto emerso circa le indicazioni dei livelli operativi per la tutela
dei rischi, indicazioni per le quali il sistema Italia è risultato il meno affidabile (vedi saggio di Zaretti). Si tratta però di dimensioni diverse e comunque non
pregiudicano la volontà degli intervistati di mantenere le proprie Forze Armate, nonostante affiorino criticità e ambivalenze al riguardo.
Fig. 6: le future Forze Armate
Nessuna Forza
Armata
Solo F.A.
Nazionali
Forze Nazionali
e FRRE ad hoc
Una FRRE e
Forze Nazionali
Una sola F.A.
Europea
0
20
40
60
80
100
Una disaggregazione per genere, area politica di appartenenza e classi di
età fa risaltare alcune interessanti differenziazioni.
114
© Rubbettino
Le donne per esempio sono meno favorevoli ad una delega totale e inclinano verso una cessione di sovranità limitata; ovviamente questi scarti percentuali non sono vistosi (per esempio la Forza Armata europea integrata è scelta dal 26,8% degli uomini e dal 24,8% delle donne, mentre queste ultime scelgono l’opzione Forze nazionali e una Forza di Reazione Rapida europea creata di volta in volta per il 18,1% contro il 15,85 degli uomini), ma confermano
un dato già emerso e segnalato. Si tratta, in questo ultimo caso, delle opinioni
circa i meccanismi decisionali per l’invio delle truppe all’estero dove le donne, come si è visto, sono disposte a cedere sovranità molto meno degli uomini. Il timore prevalente appare sempre quello che la complessificazione e l’estensione delle catene decisionali possano diluire la responsabilità fino a farla
scomparire.
La figura 7 illustra graficamente i risultati ottenuti.
Fig. 7: le future Forze Armate secondo il genere
50
45
40
35
30
Maschi
Femmine
25
20
15
10
5
0
Una sola Una FRRE Forze Naz. Solo FA
FA
e Forze e FRRE ad Nazionali
Europea Nazionali
hoc
Nessuna
Forza
Armata
L’analisi delle risposte ottenute nelle diverse aree politiche di appartenenza permette la formulazione di ulteriori interessanti osservazioni. Innanzitutto viene nuovamente in luce la presenza nell’area della sinistra di una frazione non irrilevante (in questo caso 12,9%) totalmente contraria ad ogni tipo di
© Rubbettino
115
Forza Armata; il confronto con l’area di destra mette in luce una posizione
speculare: per questa parte del campione solo lo 0,8% si è espresso per ‘nessuna Forza Armata’.
Il maggior europeismo della sinistra in questa domanda appare molto più
sfumato, con la prima opzione, quella cioè con una unica Forza Armata che
ottiene il 29,3% di favori a fronte del 28,6% del centro, il 22,3 per ‘nessuna
area politica’, e il 22,1% della destra.
Per quanto riguarda la differenziazione per classi di età appare evidente
il già segnalato maggiore europeismo idealistico da parte di chi ha più di 40
anni, mentre per l’opzione contraria ad ogni tipo di Forza Armata non si segnalano differenze significative. Come per altre risposte l’età sembra influenzare scarsamente rispetto a variabili come il sesso e l’appartenenza politica che
svolgono invece una influenza più rilevante.
L’Europa con un’unica Forza Armata
Per approfondire l’analisi della valutazione dell’impatto di un’ipotetica
Forza Armata europea su alcune dimensioni del sistema socio politico europeo considerato nel suo insieme è stata inserita nel questionario una domanda (Una Forza Armata Europea renderebbe l’Europa) che chiedeva agli intervistati di posizionarsi in uno spazio delimitato da due opposti aggettivi e
con al centro una posizione di indifferenza. A seconda della posizione scelta
l’intervistato esprime la sua opinione sulla dimensione indagata.
Per questa rilevazione è stata infatti utilizzata una particolare tecnica il
differenziale semantico, che attraverso coppie di aggettivi contrapposti cerca
di delineare una fisionomia dell’immagine. È così possibile cogliere prefigurazioni e aspettative che sicuramente orientano opinioni, valutazioni e scelte; così per esempio se coloro che sono preoccupati per la sicurezza ritengono che
una Forza Armata integrata renderebbe più sicura l’Europa e quindi l’Italia è
probabile che si esprimano e sostengano questa scelta in base a queste motivazioni. Il differenziale semantico senza porre una domanda diretta aiuta ad
orientarsi circa le immagini che sottostanno alle opinioni.
Il differenziale semantico del nostro questionario ha inteso verificare l’opinione degli intervistati sulle dimensioni della sicurezza (aggettivi: sicura-rischiosa e stabile-precaria) della potenza (aggettivi: potente-debole e aggressiva-non aggressiva) e dell’autoreferenzialità (aggettivi: aperta-chiusa).
La tabella 5 illustra i risultati ottenuti.
116
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Tab. 5: immagine dell’Europa integrata militarmente
1° aggettivo %
Valore centrale %
2° aggettivo %
Potente/debole
49,3
44,4
2,3
Aggressiva/non aggressiva
16,6
51,1
27,9
Sicura/rischiosa
62,5
28,1
6,0
Stabile/precaria
56,4
34,8
4,8
Aperta/chiusa
40,0
45,8
9,9
In sintesi una Forza Armata europea, secondo i nostri intervistati, renderebbe l’Europa soprattutto più sicura, poi più stabile e solo infine più potente. Sicuramente quasi per tutti non più chiusa, ma soprattutto, occorre sottolinearlo, non aggressiva. Su questa dimensione valoriale infatti il secondo aggettivo (non aggressiva) è maggiormente indicato del primo. Nell’immaginario degli intervistati la potenza che sicuramente acquisterebbe l’Europa con
una Forza Armata unificata non cambierebbe il tipo di atteggiamento in politica estera, incline al negoziato, alla mediazione, al dialogo. L’Europa, anche
se dotata di uno strumento militare suo proprio, mantiene il profilo di potenza pacifica, il cui ruolo a livello internazionale è esclusivamente quello di promuovere la pace e lo sviluppo. Inoltre, è interessante notare come tra gli effetti maggiori la stabilità venga messa al secondo posto, subito dopo la sicurezza, con una forte sottolineatura sul fatto che lo strumento militare comune è
un passo importante verso un rafforzamento dell’Unione.
Ancora una volta va sottolineata la coerenza e la riflessività del campione:
gli intervistati hanno mostrato di saper discernere con adeguatezza tra le diverse opzioni e di scegliere sempre in base ad un criterio guida mai casuale.
Le Forze Armate europee: immagini a confronto
Un ulteriore approfondimento di analisi sulle aspettative e sulle proiezioni ideali riguardo alle future Forze Armate europee è stato possibile grazie alla domanda ‘Se pensa alle Forze Armate europee, quali delle seguenti imma-
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117
gini userebbe per raffigurarle?’ che chiedeva di scegliere tra cinque differenti immagini cariche di valore simbolico. Il fine è stato quello di assumere, attraverso una rappresentazione di sintesi, il tipo di identità che veniva ad esse
attribuita e quindi, conseguentemente, le relative missions.
Le immagini da utilizzare come metafore per definire le future Forze Armate europee sono state articolate in diverse dimensioni; sollecitavano associazioni sia positive, sia negative, sia di potenza, sia di debolezza, sia di tradizione, sia di innovazione e sono state più o meno incentrate su valori tipicamente ‘guerrieri’. Come nel caso delle altre domande basate sull’utilizzo delle metafore, la definizione delle metafore è stata effettuata sulla base delle interviste in profondità e dei risultati dei focus.
Fig. 8: immagini delle Forze Armate Europee
Mendicante
infermo
Tecno guerriero
Mago saggio
Killer spietato
Nobile Cavaliere
0
5
10
15
20
25
30
35
40
L’immagine più tradizionale di potenza positiva (nobile cavaliere) è
quella che viene maggiormente indicata dagli intervistati, 34,1%; essa attribuisce alla Forza Armata europea il ruolo di un difensore di ideali che si ispira ad un codice di valori e di protettore dei deboli. Segue un’altra immagine positiva (tecno-guerriero, 27,4%) che però sottolinea gli aspetti di com-
118
© Rubbettino
mistione tra un’identità nuovamente tradizionale (guerriero) e l’efficienza
tecnologica tipica delle trasformazioni subite dall’arte della guerra. Al terzo
posto, con il 19,5%, troviamo ancora una raffigurazione positiva (mago saggio) – ma questa volta priva dell’idea di potenza militare, presente invece sia
pure con significati differenti nelle due prime immagini – indicativa di un
potere attribuibile alla forza del pensiero e della conoscenza e al prestigio
che ne deriva. Le due immagini più negative sia di potenza (killer spietato,
5,3%) che di debolezza (mendicante infermo, 4,6%) sono risultate nettamente minoritarie.
In sintesi, sia pure nelle diverse sfumature, sono state scelte immagini prevalentemente positive, ad ulteriore conferma delle speranze e dell’ottimismo
con cui il campione si orienta nei confronti dell’Europa.
La domanda seguente che chiedeva di motivare la scelta ha visto gli intervistati sottolineare, specialmente per la prima indicazione, ma non soltanto per essa, speranze e aspettative (‘perché spero si comportino con onore’;
‘vorrei che fossero come i cavalieri della leggenda … senza macchia e senza
paura!’; ‘perché come i nobili cavalieri dovrebbero difendere i deboli gli oppressi’; ‘perché credo che saranno efficaci … o almeno lo spero!’; ‘perché
vorrei che operassero come un vecchio mago saggio’; ‘la vecchia Europa ha
molto da insegnare al mondo, soprattutto come si superano i contrasti!’).
In effetti più che presentare valutazioni basate su aspettative formulate in
maniera più o meno realistica e orientate alle problematiche dell’Unione o della politica internazionale, per questa domanda gli intervistati hanno dato voce alla manifestazione delle proprie speranze. Appare ancora una volta chiaro
come gli Italiani si indirizzino all’idea di difesa in campo europeo e all’Europa della difesa e della sicurezza prevalentemente con molto idealismo e con
un’immagine assolutamente pacifica dell’Unione che viene raffigurata come
incline ad usare strumenti di potere soft come le pressioni diplomatiche e indiretti come la cooperazione allo sviluppo e gli accordi anche commerciali.
Questo atteggiamento influenza anche il modo di concepire l’utilizzo che l’Unione Europea potrebbe effettuare dello strumento militare.
Passiamo ora ad esaminare alcune differenziazioni all’interno del campione.
Come per le altre domande anche per l’immaginario della futura difesa
comune i più giovani appaiono più realisti (in questo caso si potrebbe dire più
pessimisti) rispetto alle Forze Armate europee ed indicano le due immagini
negative con una frequenza percentualmente maggiore, sia pure con scarti non
particolarmente rilevanti (per il killer spietato 7,6% contro il 3,4% dei più anziani e per il mendicante infermo 5,6% contro il 4,2).
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Fig. 9: immagini delle Forze Armate Europee secondo la classe d’età
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più 40 anni
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Il genere fa risaltare differenze poco significative, nel senso che all’interno
delle due immagini attive e positive il tecno-guerriero è più indicato dalle donne rispetto agli uomini che prediligono la figura del nobile cavaliere, probabilmente anche per effetto di processi di identificazione. Mendicante e killer vedono differenze minime (con rispettivamente il 4,7% dei maschi e il 4,9% delle femmine per il primo e il 5,8% dei maschi e il 5,2% delle femmine per il secondo) con una lieve preferenza delle donne per l’immagine di debolezza. Il
mago saggio viene indicato con più frequenza dalle intervistate 21% contro il
19,7%; in sintesi, come si diceva, dall’insieme dei risultati non appare chiara
una linea di tendenza rispetto al genere che possa presentarsi rilevante.
Completamente diversa si configura invece la disaggregazione per aree
politiche che si conferma nuovamente come significativo elemento di orientamento delle opinioni e delle valutazioni e che fa risaltare nelle risposte un andamento coerente con i dati emersi in tutta la ricerca.
Innanzitutto risalta l’ottimismo e la fiducia diffusa nel gruppo dei rispondenti moderati di centro, ottimismo e fiducia che sono testimoniati dalla più alta indicazione per l’immagine del nobile cavaliere (42,2%) e per le più basse
verso le due immagini negative (killer spietato 2,2% e mendicante infermo
1,1%). La destra fa risultare i suoi picchi nelle dimensioni positive e attive con
percentuali quasi simili per il nobile cavaliere (33,9%) e per il tecno-guerriero
120
© Rubbettino
(33,1%); in questa area politica si riscontrano per questa ultima modalità le frequenze più elevate del campione, con una chiara conferma del maggiore apprezzamento del ‘militare’ anche nei suoi aspetti di combattente. Il minore europeismo risulta confermato dall’indicazione più alta della media del campione (5,7% contro il 4,6%) per la voce ‘mendicante infermo’. La sinistra riafferma da un lato la sua visione più negativa del ‘militare’, con le percentuali più
alte del campione sulle due dimensioni negative (killer spietato e mendicante)
che raggiungono entrambe il 6,2%, e dall’altro un maggiore idealismo che la
vede seconda con il 35,9% per la scelta dell’immagine del nobile cavaliere.
Fig. 10: immagini delle Forze Armate Europee secondo il genere
Fig. 10: immagini Forze Armate Europee secondo il genere
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Maschi
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0
Forze Armate italiane e Forze Armate europee: alcune considerazioni conclusive
Nel complesso anche da questa parte della ricerca sono emersi risultati di
significativo interesse. Innanzitutto va segnalata una certa ambivalenza riscontrabile in gran parte del campione unitamente alla presenza di linee di tendenza piuttosto ben delineate.
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121
Tra queste ultime emerge con chiarezza che le Forze Armate italiane hanno superato quell’invisibilità che le ha a lungo caratterizzate durante il periodo della Guerra Fredda, come effetto della combinazione da una parte della
diffidenza della società civile e dall’altra della chiusura del mondo militare. L’isolamento che ne è scaturito ha però di fatto privato la Forze Armate di una
profonda connessione organica con la società e le ha separate anche sul piano
simbolico e rituale, rendendo difficile una reale comprensione reciproca.
Sfumate molte delle cause esterne che rendevano difficile il rapporto, nel
corso degli anni novanta le Forze Armate italiane hanno sperimentato un progressivo ampliamento dei loro compiti e una profonda riorganizzazione; ciò
ha contribuito a far elaborare e diffondere nell’opinione pubblica una nuova
immagine del militare, come professionista e come organizzazione. Le ottime
prove fornite sul campo nelle missioni di pace e nelle attività di ordine pubblico in concorso con le Forze di polizia hanno contribuito a dissolvere i timori di autoritarismo e la scarsa sfiducia nello strumento militare, dissolvendo gli
stereotipi legati all’idea di un burocratismo esasperato e di inefficienza. L’organizzazione militare italiana gode oggi di sicuro apprezzamento presso l’opinione pubblica del nostro paese, anche se manca una matura consapevolezza
che, nell’attuale situazione, politica, economica e geostrategica, le Forze Armate, al pari di tutte le altre istituzioni, contribuiscono alla stabilità, al benessere, al prestigio e alla sicurezza di un paese, in modo diretto e indiretto, e in
questa maniera hanno un notevole impatto sulla vita dei cittadini.
L’ambivalenza di cui si diceva si manifesta invece nel fatto che l’operato
delle Forze Armate ha conosciuto sì un aumento di consenso e di legittimazione sociale, ma ciò è avvenuto da una parte su un’immagine piuttosto sbilanciata su alcuni aspetti (i militari sono apprezzati essenzialmente come operatori dell’emergenza, umanitari e come forze di pace) e dall’altra circoscrivendone i ruoli, arrivando a sottovalutarne persino quelle funzioni che, per essere meramente simboliche, non potrebbero implicare un diretto collegamento
con dimensioni aggressive. Si pensi alla problematicità con cui nell’area della
sinistra, ma non solo, ci si è posti rispetto all’affermazione che le Forze Armate sono garanzia e simbolo dell’unità nazionale, problematicità che attesta la
permanenza dei segni della lunga frattura tra una consistente parte del Paese
e le sue Forze Armate; questa frattura che, come si diceva, risale ai tempi della Guerra Fredda – quando l’istituzione militare da una parte della cittadinanza era vista come l’espressione di un blocco ostile – sebbene per molti aspetti
è stata superata, non appare del tutto sanata.
Rispetto a molte posizioni e opinioni, come si è già evidenziato nelle parti prima e seconda del volume, si registra la sostanziale tenuta dell’asse
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destra/sinistra che anzi sembra trovare rinnovato vigore sulle tematiche più
prettamente legate al ‘militare’ e alla sicurezza. Il dato ovviamente risente della scarsa attenzione e approfondimento a livello di coscienza collettiva sulle
suddette tematiche che risultano così affidate ad interpretazioni ideologiche e
a forme di pensiero spesso stereotipate.
In sintesi l’area politica orienta significativamente le opinioni nel senso
che:
a) nell’area di sinistra si produce una sorta di svuotamento delle funzioni attribuibili alle Forze Armate, con un andamento che assume incidenza maggiore quanto più ci si allontana dal tradizionale compito di difesa della Patria, inteso in modo statico-passivo;
b) nell’area di destra invece, oltre al sostegno per una diffusa attribuzione di
ruoli alle Forze Armate, e quindi al relativo riconoscimento quale istituzione fondamentale per la vita del Paese, si evidenzia la più alta percentuale
di coloro che attribuiscono ad esse capacità di tutela della libertà e della
democrazia.
Si tratta della diversa distanza rispetto all’istituzione militare prodotta da
forme abitudinarie di pensiero e da differenti posizioni nei riguardi di scottanti questioni di politica internazionale. Gli intervistati che si sono definiti di destra sono più propensi a pensare che le nostre democrazie possano essere messe in crisi da attacchi destabilizzanti internazionali e che le Forze Armate quindi siano necessario scudo per libertà e democrazia; coloro che si sono dichiarati appartenenti all’area della sinistra sono inclini maggiormente verso strumenti di tutela per la pace e la stabilità non militari e temono che Forze Armate troppo presenti incidano sul clima democratico interno del Paese. Vorrebbero per esse un ruolo passivo, in una sorta di ‘assicurazione’ per la sola difesa del territorio, oltre ovviamente i compiti umanitari. Purtroppo affiora il
dubbio che entrambe le posizioni risultino talvolta elaborate sotto la pregiudiziale del filo o anti-atlantismo. Per alcuni aspetti l’opinione pubblica italiana sembrerebbe, ad una prima analisi, non aver fatto molti passi avanti rispetto al periodo della Guerra Fredda durante il quale le posizioni rispetto alle nostre Forze Armate si orientavano non tanto in base a dimensioni interne, ma
con ad unico referente la politica internazionale. D’altra parte appare comprensibile che le opinioni/ valutazioni sulle Forze Armate siano politicizzate e
risentano del clima politico internazionale, a maggior ragione nei paesi come
il nostro che devono ancora del tutto superare un deficit storico di identificazione con le istituzioni pubbliche.
Nonostante la differenziazione risultante dall’influenza dei diversi atteggiamenti politici, esiste però una gran parte del campione che trasversalmen-
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te condivide opinioni e immagini sul militare. Tra queste opinioni la più diffusa è quella che riconosce alle Forze Armate nazionali il compito principale
di difesa dell’integrità del territorio e di tutela della popolazione; di qui la difficoltà a delegare questa missione alla dimensione europea. L’altra opinione
fortemente trasversale e condivisa è quella che, come strumento di politica
estera, vuole per le Forze Armate un ruolo di operatori di pace.
Passando alle forme di cooperazione in ambito europeo, l’area del consenso alla Forza di Reazione Rapida europea è ampio, a chiaro riflesso dell’elevato livello delle aspettative che gli Italiani ripongono nei progetti e nelle dimensioni europei. Al riguardo va ricordata la posizione di maggiore favore degli intervistati di centro, mentre permane una certa diffidenza della sinistra
verso lo strumento militare anche quando si dispiega in dimensioni europee.
La fiducia della destra nello strumento militare come mezzo per rafforzare la
sicurezza collettiva e quella italiana in particolare, sostiene in questo caso l’impegno in Europa, portando a superare quella certa diffidenza verso elevati livelli di integrazione europea talvolta riscontrata in questa area politica.
Non solo la creazione di una Forza di Reazione Rapida ma anche l’idea di
un’Europa integrata militarmente trova molti e diffusi consensi, dal momento che una Forza Armata europea secondo i nostri intervistati renderebbe
l’Europa più sicura, stabile, potente, ma anche, occorre sottolinearlo, non aggressiva. L’Europa, anche unificata militarmente, viene vista mantenere il suo
profilo di potenza pacifica; questa dimensione è vissuta come molto rassicurante e sostiene il consenso all’Unione.
In sintesi l’europeismo degli Italiani, nutrito di fiducia nella dimensione
della sicurezza comune, si traduce anche in sostegno ai progetti di unificazione militare, nella diffusa convinzione della vocazione pacifica dell’Unione e
dell’importanza di sedi decisionali multilaterali. Gli Italiani si indirizzano all’idea di difesa in campo europeo e all’Europa della difesa e della sicurezza anche con molto idealismo e con un’immagine assolutamente positiva dell’Unione che viene raffigurata come incline in politica estera ad usare strumenti di
potere soft come le pressioni diplomatiche e indiretti come la cooperazione allo sviluppo e gli accordi anche commerciali. Attraverso questa immagine dell’Europa molti intervistati si sentono rassicurati sia nella dimensione della sicurezza (anche personale) sia nella tutela dei valori di solidarietà e di pacifica
convivenza che appaiono trasversalmente diffusi nel campione.
In nessuna tipologia di atteggiamenti ed opinioni rilevati, l’Italia e le Forze Armate italiane risultano sminuite, ma anzi sembrano assumere un significato aggiuntivo nella dimensione europea transnazionale.
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Capitolo quarto
La Difesa Comune Europea: informazione
e opinione pubblica
Giulia Aubry
Informazione e conoscenza: la costruzione sociale della realtà
Il ruolo dei mezzi di informazione nel contribuire alla costruzione sociale della realtà è uno degli elementi teorici condivisi da tutti i principali media
studies (per esempio, Mc Luhan 1968, Goffman 1997, Mattelart 1998, Wolf
1992, Dahrendorf 1990, Luhmann 2000). Per questo una ricerca sull’opinione pubblica non può non tener conto di “quanto, come e dove” i principali
mezzi di comunicazione abbiano trattato l’issue attorno alla quale si articola.
Ciò è tanto più vero quando al centro della stessa viene posta una realtà
sociale, come può essere quella di una Forza Armata europea, che sfugge alla
diretta e immediata esperienza personale dei soggetti intervistati. In situazioni di questo tipo, infatti, i mezzi di comunicazione assumono un vero e proprio “monopolio come fonti facilmente accessibili di conoscenza” (Wolf 1992:
122), confermando così che “ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media” (Luhmann 2000:
15). Per questo si è ritenuto importante accompagnare la ricerca sull’opinione pubblica – condotta attraverso questionari, interviste approfondite e focus
group –, con una indagine parallela, all’interno dei mezzi di comunicazione più
diffusi, per comprendere il tipo di informazioni da essi fornita, e per analizzare l’impatto che queste possono aver avuto sull’audience. Impatto che deve,
naturalmente, essere valutato in considerazione del livello di fruizione che il
campione intervistato possiede rispetto ai principali media. Per questo motivo diviene importante non soltanto sapere ciò che è stato detto ma, soprattutto, se e quanto di ciò che è stato detto è arrivato agli intervistati attraverso i
canali informativi più tradizionali dei telegiornali e dei quotidiani.
È però evidente che ridurre l’analisi dell’informazione a una equivalenza
tout-court tra contenuti dei media e sistemi di rappresentazione degli individui, significa abbracciare completamente la tesi dei sostenitori della teoria ipodermica, secondo la quale l’opinione pubblica è indifesa dai messaggi che co© Rubbettino
125
stituiscono fattori di persuasione. Così facendo si verrebbero a cancellare anni di ricerche e di riflessione nello studio della comunicazione di massa, i cui
risultati hanno delineato una sempre maggiore complessità del ruolo svolto
dai media nella costruzione sociale della realtà, dal momento che le audiences
manifestano una “irriducibile soggettività” (Tedeschi 2002: 43).
Proiettando determinate immagini della società e degli eventi i media
hanno, sì, una parte cruciale nelle conoscenze degli spettatori e nella definizione del loro stesso immaginario, ma allo stesso tempo guardare la televisione, così come leggere i giornali, ascoltare la radio o navigare in Internet, “non
è un sostituto del vivere in una società civile” (Dahrendorf 1990: 117).
È dunque necessario tener presente le diverse sfere dell’esperienza sociale, quella diretta delle relazioni interpersonali in cui si articola il nostro vivere
quotidiano e quella indiretta, mediata dai mezzi di informazione, dove le relazioni divengono astratte se non addirittura inesistenti. Perché la nostra immagine della realtà sociale si concretizzi in costruzione e conoscenza è dunque
necessario che i due livelli interagiscano in maniera “costante, riflessiva e routinizzata” (Wolf 1992: 117), dal momento che le esperienze personali hanno
un senso solo se comprese nella sfera dell’esperienza sociale più ampia e indiretta, e quest’ultima assume rilevanza solo se ripetutamente rappresentata negli incontri personali, nella vita di tutti i giorni. Affinché una informazione divenga elemento della costruzione personale della realtà sociale, è così necessario che passi attraverso le discussioni di ogni giorno e i confronti dialettici
che si svolgono nelle più ristrette cerchie della famiglia, degli amici, dei colleghi e dei semplici conoscenti.
Soltanto tenendo a mente la complessità e la molteplicità che interagiscono
e generano gli effetti dei media, è possibile interpretare quanto la presenza, o assenza di questi ultimi, possa aver pesato sulla conoscenza, la rilevanza e l’atteggiamento del campione intervistato nei confronti dell’oggetto dell’indagine.
I mezzi di informazione italiani e la Difesa Comune Europea
Per poter valutare il clima informativo all’interno del quale è stata condotta la nostra ricerca, è stato svolto uno studio sui due quotidiani italiani a
maggiore tiratura, distribuzione e diffusione, «la Repubblica» e il «Corriere
della Sera».
Il periodo scelto per l’analisi della quantità e della qualità dell’informazione rispetto alla creazione di una Forza di Reazione Rapida europea, altrimenti definita nei giornali presi in esame “Esercito europeo”, è stato quello
126
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compreso tra il 20 novembre del 2000 e il 1 settembre 2002. Alla fine del mese di novembre del 2000, infatti, i mezzi di informazione hanno cominciato a
interessarsi al progetto di riforma delle istituzioni dell’Unione Europea e alla
stesura di un nuovo trattato (firmato poi a Nizza il 10 marzo 2001), in previsione della riunione del Consiglio europeo tenutasi dal 7 al 9 dicembre dello
stesso anno e durante la quale sono state affrontate alcune questioni relative
alla definizione di una Politica Comune di Sicurezza e Difesa europea.
Ed è proprio il 20 novembre del 2000, a seguito di una riunione preliminare dei ministri della difesa dell’UE a Bruxelles, che i due principali quotidiani nazionali – utilizzando le stesse parole – hanno annunciato ufficialmente: “Nasce l’esercito europeo. Un corpo di centomila uomini”, dedicando alla notizia, per la prima volta, uno spazio proprio e di dignità pari a quello riservato ad articoli relativi a questioni europee generalmente considerate dalla
stampa italiana più rilevanti, dalla sicurezza alimentare all’allargamento, dalla
moneta unica allo sport.
Il 1 settembre del 2002, data scelta come conclusiva nel lavoro di analisi
dei due quotidiani, coincide con gli ultimi questionari somministrati nell’ambito della ricerca, e va così a rappresentare l’ultima possibilità da parte dei media italiani di contribuire alla creazione dell’immagine delle Forze Armate europee nel campione intervistato a riguardo.
Fig. 1: confronto articoli UE/Esercito Europeo 20 novembre 2000 - 1 settembre 2002
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Articoli sull'Unione Europea
Articoli sull'Esercito Europeo
1000
500
0
La Repubblica
Corriere della Sera
Come si può facilmente rilevare dal grafico sopra riportato, i dati quantitativi emersi dall’analisi sono molto interessanti in quanto evidenziano l’assoluta assenza non solo di approfondimenti sulla Politica di Sicurezza e Difesa
Comune Europea, ma anche delle cosiddette “brevi”, informazioni flash che
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127
avrebbero potuto aggiornare i lettori sullo stato dell’arte della discussione che
ha portato al varo del progetto di una Forza di Reazione Rapida Europea composta da 60.000 uomini.
Su un totale di 1052 articoli pubblicati su «la Repubblica» e in cui si fa riferimento, – nel titolo e/o nel testo –, a tematiche di carattere europeo, solo
35 affrontano, spesso solo con qualche breve accenno, la questione della Sicurezza e Difesa Comune.
La percentuale è ancora più significativa per quanto riguarda il «Corriere della Sera» dove, su un totale di 2229 articoli, solo 16 contengono riferimenti e accenni all’Esercito Europeo.
Spesso poi i giornali si occupano dell’argomento Difesa Europea in relazione a particolari situazioni di politica interna (come le dimissioni dell’allora
ministro degli Esteri Renato Ruggiero dopo l’affaire dell’Airbus europeo e la
polemica sull’europeismo italiano tra il novembre e il dicembre 2001), oppure come una delle questioni all’ordine del giorno nel dibattito sulla costituzione unica, oppure in relazione al ruolo dell’Unione nella politica estera internazionale (possibile mediatrice nel conflitto arabo-israeliano, forza autonoma
nel conflitto in Afghanistan), o, ancora, come supporto alla Protezione Civile
nell’ambito della gestione di emergenze come quelle verificatesi nell’estate
2002 nel Nord Europa a seguito delle disastrose alluvioni.
Talvolta si possono trovare riferimenti a un “possibile” progetto comune
per una Politica di Difesa europea all’interno di editoriali di personaggi politici piuttosto attivi sullo scenario dell’Unione, come il presidente della Commissione europea Romano Prodi e il presidente della Convenzione europea
Giscard d’Estaing, oppure di analisti politici italiani come Sergio Romano.
Per trovare articoli il cui focus sia costruito attorno alla costituzione di
una Forza Armata europea bisogna così tornare al novembre 2000 e alla riunione ad hoc dei ministri della difesa dell’Unione a Bruxelles, in occasione della quale – come abbiamo già avuto modo di sottolineare – i due principali quotidiani italiani (e con loro anche i telegiornali nazionali e altre testate giornalistiche, sia tradizionali sia elettroniche, di particolare rilievo) hanno dedicato
servizi più ampi alla nascita della Forza di Reazione Rapida europea.
A un’analisi qualitativa più attenta di questi ultimi articoli, però, emerge
un altro dato che sembra confermare la scarsa rilevanza che la Politica Comune di Sicurezza e Difesa europea ha per i mass-media italiani, oppure denunciare la mancanza di una conoscenza approfondita sull’argomento nell’utilizzo di una terminologia non sempre appropriata. Infatti gli autori degli articoli, nella maggior parte dei casi, si sono serviti della definizione di Esercito europeo – piuttosto generica e imprecisa – al posto di quella di Forza di Reazio-
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ne Rapida che indica un corpo di 60.000 uomini provenienti dai 15 paesi dell’Unione e immediatamente disponibili in caso di emergenza, secondo quanto stabilito a Bruxelles il 20 novembre del 2000.
Una simile analisi svolta negli archivi internet di Rai News 24 e del TGCom, afferenti rispettivamente ai telegiornali della Rai e di Mediaset, ha inoltre avvalorato l’ipotesi che, anche nella regolare programmazione delle news
quotidiane, servizi specifici relativi alla Forza di Reazione Rapida europea siano stati del tutto assenti o di scarso rilievo. Nei rigidi palinsesti dei notiziari e
nell’ambito di servizi che non vanno oltre il minuto, l’agenda setting televisiva
ha così deciso di marginalizzare al massimo le tematiche di Politica Comune
di Sicurezza e Difesa europea.
Mezzi di comunicazione di massa e issues politiche italiane ed europee
Con la domanda ‘Secondo lei in Italia i mezzi di comunicazione di massa quanto sono interessati alle seguenti questioni…?’ intendevamo misurare
la percezione del campione intervistato rispetto all’interesse che i principali
mezzi di comunicazione, attraverso articoli, servizi e approfondimenti, hanno
mostrato nei confronti di tematiche di carattere politico a livello italiano ed
europeo.
Vista la natura dell’indagine, l’interesse è stato rivolto principalmente alla politica estera (suddividendola nelle tre dimensioni: generale, europea e italiana) e alla politica di sicurezza e difesa (distinta in italiana ed europea), mettendole a confronto con le questioni europee relative a tematiche politiche più
ampie e con quelle di politica interna italiana.
Dai risultati così ottenuti è immediatamente visibile come gli intervistati ritengano che i mezzi di comunicazione siano prevalentemente interessati a questioni di politica interna italiana. Il 65,4% del campione ha infatti dichiarato che
la stampa e la televisione italiane sono molto interessate ai dibattiti parlamentari, agli scontri tra partiti e coalizioni e ai disegni di legge quando questi hanno
luogo nel contesto politico nazionale. Se a questa percentuale si aggiunge il
25,9% che li ritiene interessati, si arriva a un 91,3% che permette di considerare assolutamente ininfluente il restante 8,7%, equamente distribuito tra “indifferenti”, “poco interessati”, “per niente interessati” e “nessuna opinione”.
Il 78,5% degli intervistati ritiene, poi, che i mezzi di informazione siano
molto interessati (32%) o interessati (46,5%) alle tematiche relative alla politica estera italiana. Seguono a breve distanza le questioni di politica estera in
generale (73,8% di risposte distribuite tra “molto interessati” e “interessati”),
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129
le questioni europee (67,4% complessivi) e la politica di sicurezza e difesa italiana (65,2% complessivi). È importante sottolineare però che riguardo questi ultimi tre item, e come si era già cominciato a evidenziare nella valutazione
dell’interesse per la politica estera italiana, il contributo interno alla percentuale è decisamente sbilanciato verso l’opzione “interessati”, denotando quindi una rilevanza sostanzialmente differente rispetto alle tematiche proprie della politica interna nazionale.
Se l’interesse dei mezzi di comunicazione italiani è percepito come sempre di minor rilievo mano a mano che ci si allontana dalle tematiche nazionali, il ruolo che le politiche europee nel campo degli affari esteri e della sicurezza e difesa europea hanno nella stampa e nella televisione, appare agli intervistati come decisamente marginale. La percentuale del campione che ritiene
che i mezzi di comunicazione di massa siano molto interessati alla Politica di
Sicurezza e Difesa europea e alla Politica Estera Comune europea scende, infatti, rispettivamente al 10,6% e al 10,4%, mentre l’opzione “interessati” è stata scelta dal 32,9% e dal 41,6% degli intervistati. Molto alta, soprattutto se
confrontata con quelle relative agli altri item, la percentuale di intervistati che
hanno scelto l’opzione “poco interessati” (25,5% per la Politica di Sicurezza
e Difesa europea, 22,6% per la Politica Estera Comune europea) e “per niente interessati” (10% e 6,4%).
Va comunque fatto notare che la percezione di un modesto interesse dei
media verso le tematiche proprie dell’Unione Europea comincia a farsi sentire già nell’analisi dei risultati relativi alle questioni europee da un punto di vista più generale. Già rispetto a questo item, infatti, la percentuale di coloro
che hanno scelto l’opzione “molto interessati” scende all’11,1% per poi recuperare in quella “interessati” scelta dal 56,3% del campione. Tale indicazione
è probabilmente correlata con una forte identificazione, da parte di molti degli intervistati, delle questioni europee con le tematiche economiche legate, in
particolare, all’introduzione dell’euro che è stata a lungo al centro dell’interesse e del dibattito sia sulla carta stampata sia nei servizi della televisione pubblica e privata.
Appare comunque evidente una disparità di trattamento tra le notizie di
carattere nazionale e quelle di carattere europeo. Tale differenza, come dimostrato anche dall’analisi dei due principali quotidiani italiani, sembra testimoniare una scarsa attenzione dei media nei confronti della dimensione politica
sovranazionale dell’Unione europea il cui ruolo, proprio a partire dalle issues
legate a economia e sicurezza, sta divenendo sempre più importante per tutti
i paesi che ne fanno parte.
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L’informazione sulla costituzione di una Forza Armata europea
Con la domanda ‘Secondo lei l’informazione sulla costituzione di una
Forza Armata europea è stata…’ intendevamo misurare la percezione del
campione intervistato rispetto all’informazione fornita dai media e dalle istituzioni pubbliche sulla costituzione di una Forza Armata europea.
Una informazione scarsa o insufficiente è il dato che emerge con maggiore chiarezza dall’indagine. Il 67,7% degli intervistati, infatti, ritiene di essere
stato informato in maniera insufficiente o addirittura scarsa (coloro che hanno scelto questa ultima opzione rappresentano la maggioranza relativa del
campione e si attestano al 34%), il 16,8% in maniera sufficiente, mentre solo
il 10,3% considera la quantità e la qualità delle informazioni fornite dai mezzi di comunicazione buona e appena l’1,9%, percentuale assolutamente ininfluente ai fini di una costruzione dell’immagine personale e sociale della Forza Armata europea, ottima.
A ulteriore conferma della percezione negativa degli intervistati in relazione all’informazione sulla creazione di una Forza Armata europea, va evidenziato il dato della bassissima percentuale – appena il 3,4% – di coloro che
non hanno espresso opinione in merito. Ciò sembrerebbe dimostrare che, nonostante dai risultati dell’indagine non emerga un interesse pregresso verso
una politica comune di sicurezza e difesa, l’argomento abbia una qualche rilevanza per le persone intervistate e che, seppure non in maniera esplicita (come si vedrà più avanti il 35,5% del campione ha infatti dichiarato di discutere solo raramente di tematiche relative alla difesa comune europea, mentre il
38,4% non lo ha mai fatto), il problema della sicurezza (a livello nazionale, europeo e mondiale come dimostrano le risposte relative alle domande su “pericoli e minacce”, fortemente influenzate dagli avvenimenti dell’11 settembre
2001) è percepito come una priorità nelle esigenze dell’individuo e della società.
Il dibattito su tematiche europee e politica di difesa europea
Con le domande ‘Discutendo di politica con parenti, amici, colleghi, conoscenti affronta tematiche europee?’ ‘E in particolare affronta il problema
di una Difesa Comune europea?’ intendevamo analizzare quanto le tematiche
europee e quelle direttamente connesse alla Difesa Comune in ambito UE siano dibattute e, conseguentemente, elaborate all’interno della sfera dell’esperienza sociale diretta degli altri e con gli altri.
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Le risposte a queste due domande mostrano chiaramente come le tematiche europee non siano considerate delle priorità nelle discussioni quotidiane con familiari, amici e colleghi. Il 44,9% degli intervistati ha infatti dichiarato di discutere “qualche volta” di questioni relative all’Unione Europea, e
solo il 17% ha scelto l’opzione “spesso”.
Anche in questo caso, come già nell’analisi dei risultati prodotti dalla domanda precedente, va sottolineato che molti degli intervistati sono apparsi
portati a identificare le tematiche europee con il dibattito, svolto a livello nazionale e internazionale, sull’entrata in vigore della Moneta Unica. In questo
senso i dati riscontrati riguardo la percezione dell’interesse dei media nei confronti di questi argomenti (67,4% complessivo tra coloro che hanno scelto
l’opzione “molto interessati” e “interessati”) trovano una loro proiezione congruente nel 61,9% del campione che ha dichiarato di discutere, almeno in
qualche occasione, di tematiche europee.
Analogamente possono essere interpretati i risultati relativi alla discussione su questioni legate alla Politica di Sicurezza e Difesa europea. A fronte di
un 43,5% degli intervistati che ha rilevato un interesse medio-alto dei mezzi
di informazione nei confronti di tale issue, solo il 26% si è ritrovato a parlarne con parenti, amici o colleghi. Ciò sembrerebbe evidenziare che, complice
una rappresentazione assolutamente marginale delle Forze Armate europee
nella sfera indiretta dell’esperienza sociale, il campione intervistato non possedeva, nel periodo di tempo compreso tra l’inizio e la fine dell’indagine, una
immagine definita o quantomeno elaborata sulla base di informazioni approfondite e documentate di tale realtà.
Ciò è tanto più vero se si considera che molti degli intervistatori (sentiti
nell’ambito di focus group e colloqui immediatamente successivi alla raccolta
dei dati) hanno potuto rilevare come lo stesso questionario abbia contribuito,
nel suo svolgersi e nel suo divenire, a fornire un’occasione utile per riflettere
sulla Politica di Sicurezza e Difesa Comune europea.
Accesso e fruizione a quotidiani e telegiornali
Con le domanda ‘Quante volte a settimana legge un quotidiano?’,
‘Quante volte a settimana vede un telegiornale?’ intendevamo misurare il livello di esposizione del campione intervistato rispetto all’informazione dei
principali mezzi di comunicazione italiana.
Le risposte hanno evidenziato come gli intervistati siano particolarmente
informati, sia attraverso la stampa quotidiana, sia attraverso la televisione.
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Il 35,4% ha infatti dichiarato di leggere almeno un giornale al giorno, e
tra questi il 17,7% addirittura più di uno. La maggioranza relativa del campione (36,3%) ha poi accesso a un quotidiano più di tre volte alla settimana,
una frequenza che può consentire a un lettore medio un discreto approfondimento delle tematiche giornalistiche, sia di cronaca sia di politica nazionale ed
estera. Solo il 7,4% non ha mai occasione di sfogliare un quotidiano, ma di
questi ultimi molti rientrano nella categoria di coloro – il 90,7% del campione totale – che vedono almeno un telegiornale al giorno.
Una simile percentuale può forse apparire in evidente contrasto con le
tendenze generali della popolazione italiana in relazione alla lettura della
stampa quotidiana. Secondo il “Rapporto sull’industria dei quotidiani in Italia nel 2000” sarebbero infatti 5,9 milioni le copie di giornali vendute in media ogni giorno nel nostro paese. Anche considerando un bacino di lettori per
quotidiano di almeno quattro persone, i dati emersi dalla presente indagine
potrebbero apparire eccessivamente discordanti.
A parziale spiegazione di ciò va considerato il fenomeno della stampa
quotidiana gratuita, distribuita nelle principali città italiane all’interno delle
stazioni dei treni e delle metropolitane e nei bar e locali pubblici più frequentati, che ha avuto un notevole impatto sulle percentuali e sull’indagine stessa
laddove questa è stata svolta in importanti capoluoghi di regione. Meriterebbe, forse, maggiore spazio un’analisi dei contenuti e degli approfondimenti
presenti in questi mezzi di informazione. In questa sede ci limiteremo però a
sottolineare che si tratta prevalentemente di raccolte di informazioni provenienti dalle principali agenzie di stampa che, nella logica di pubblicazione, seguono le linee generali di tendenza della stampa maggiore.
A questi “nuovi” lettori di quotidiani vanno aggiunti coloro che usufruiscono di un collegamento internet, per la maggior parte dalle postazioni di lavoro, e possono così accedere ogni giorno a un numero sempre maggiore di
testate di loro interesse.
Di più facile lettura sono i dati relativi alla televisione che, anche in questo caso, si rivela essere il principale canale attraverso il quale vengono trasmesse le informazioni al pubblico più ampio. Se pure si potrebbe discutere
sulla qualità di tale fruizione, che può spesso rivelarsi eccessivamente passiva,
è evidente che la percezione della realtà passa attraverso le notizie e le immagini della televisione. “Ciò che non viene ripreso dalle telecamere non esiste”
e, in tal senso, anche un’immagine di una Forza Armata europea, un’idea di
politica comune per la sicurezza e la difesa dell’Unione stenta ad avere una
propria definizione che non vada oltre un consenso di massima collegato al
più generale europeismo degli Italiani.
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Conclusioni
In sintesi è apparsa evidente una perdurante difficoltà dei mass media a
trattare, in generale, tematiche di politica di sicurezza e difesa in ambito UE
e, molto più in particolare, di Forze Armate europee.
Così i nostri intervistati, pur sufficientemente informati a livello di accesso e fruizione dei principali media e interessati alle tematiche specifiche, hanno potuto dibattere sull’Europa essenzialmente da una angolazione economica-finanziaria. Nonostante ciò, anche in assenza di informazioni precise sulle
tematiche relative alla Politica di Sicurezza e Difesa europea e sugli strumenti necessari a perseguirla, come hanno mostrato i risultati della ricerca, sono
stati in grado di orientarsi e di offrire, con coerenza ed efficacia, le loro opinioni e i loro orientamenti unitamente alle aspettative e alle speranze con le
quali guardano al futuro del loro Paese e dell’Europa.
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Finito di stampare nel mese di marzo 2004
da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali
per conto di Rubbettino Editore Srl
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
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Collana Ce.Mi.S.S. – Serie Blu
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Il reclutamento in Italia (1989) (Autori Vari)(*)
12
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1506 al 1870, Vol. I (1989) V. Ilari (*)
13
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1871 al 1918, Vol. II (1990) V. Ilari (*)
14
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1919 al 1943, Vol. III (1990) V. Ilari (*)
15
Storia del Servizio Militare in Italia dal 1943 al 1945, Vol. IV (1991) V. Ilari (*)
15/bis Storia del Servizio Militare in Italia – La difesa della Patria (1945-1991) Vol. V
– “Pianificazione operativa e sistema di reclutamento” (1992) V. Ilari (*)
15/ter Storia del Servizio Militare in Italia – La difesa della Patria (1945-1991) Vol. V –
“Servizio militare e servizio civile – Legislazione statistiche” (1992) V. Ilari (*)
16
Soppressione della leva e costituzione di Forze Armate volontarie (1990) P.
Bellucci, A. Gori (*)
16/a Servizio di leva e volontariato: riflessioni sociologiche (1990) M. Marotta, L.
Labonia (*)
17
L’importanza Militare dello spazio (1990) C. Buongiorno, S. Abbà, G. Maoli,
A. Mei, M. Nones, S. Orlandi, F. Pacione, F. Stefani (*)
18
Le idee di “difesa alternativa” ed il ruolo dell’Italia (1990) F. Calogero, M. De
Andreis, G. Devoto, P. Farinella (*)
19
La “policy science” nel controllo degli armamenti (1990) P. Isernia, P. Bellucci, L. Bozzo, M. Carnovale, M. Coccia, P. Crescenzi, C. Pelanda (*)
10
Il futuro della dissuasione nucleare in Europa (1990) S. Silvestri (*)
11
I movimenti pacifisti ed anti-nucleari in Italia 1980-88 (1990) F. Battistelli, P.
Isernia, P. Crescenzi, A. Graziani, A. Montebovi, G. Ombuen, S. Scaparra, C.
Presciuttini (*)
12
L’organizzazione della ricerca e sviluppo nell’ambito Difesa, Vol. I (1990) P. Bisogno, C. Pelanda, M. Nones, S. Rossi, V. Oderda (*)
12/bis L’organizzazione della ricerca e sviluppo nell’ambito Difesa, Vol. II (1990) P.
Bisogno, C. Pelanda, M. Nones, S. Rossi, V. Oderda (*)
13
Sistema di programmazione generale finanziaria ed ottimizzazione delle risorse in ambito Difesa (1990) G. Mayer, C. Bellinzona, N. Gallippi, P. Mearini, P.
Menna (*)
14
L’industria italiana degli armamenti (1990) F. Gobbo, P. Bianchi, N. Bellini, G.
Utili (*)
15
La strategia sovietica nella regione meridionale (1990) L. Caligaris, K.S.
Brower, G. Cornacchia, C.N. Donnelly, J. Sherr, A. Tani, P. Pozzi (*)
16
Profili di carriera e remunerazioni del personale militare e civile dell’Amministrazione dello Stato delle qualifiche direttive e dirigenziali (1990) D. Tria, T.
Longhi, A. Cerilli, A. Gagnoni, P. Menna (*)
17
La riconversione dell’industria per la Difesa (1990) S. Rossi, S. Rolfo, N. Bellini (*)
18
Il trasferimento di tecnologie strategicamente critiche (1990) S. Rossi, F. Bruni Roccia, A. Politi, S. Gallucci (*)
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Nuove concezioni del modello difensivo italiano (1990) S. Silvestri, V. Ilari, D.
Gallino, A. Politi, M. Cremasco (*)
Warfare simulation nel teatro mediterraneo (1990) M. Coccia (*)
La formazione degli Ufficiali dei Corpi Tecnici (1990) A. Paoletti, A. D’Amico, A. Tucciarone (*)
Islam: problemi e prospettive e le politiche dell’Occidente (1990) R. Aliboni,
F. Bacchetti, L. Guazzone, V. Fiorani Piacentini, B.M. Scarcia Amoretti, P.G.
Donini, F. Bacchetti (*)
Effetti economici della spesa della Difesa in Italia (1990) A. Pedone, M. Grassini (*)
Atto unico europeo e industria italiana per la Difesa (1990) F. Onida, M. Nones, G. Graziola, G.L. Grimaldi, W. Hager, A. Forti, G. Viesti (*)
Disarmo, sviluppo e debito (1990) C. Pelanda (*)
Yugoslavia: Realtà e prospettive (1990) C. Pelanda, G. Meyer, R. Lizzi, A. Truzzi, D. Ungaro, T. Moro (*)
Integrazione militare europea (1990) S. Silvestri (*)
La Rappresentanza Militare in Italia (1990) G. Caforio, M. Nuciari (*)
Studi strategici e militari nelle università italiane (1990) P. Ungari, M. Nones,
R. Luraghi, V. Ilari (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano – Credenti e non credenti: il pensiero militare e la dottrina di Jaid, Vol. I (1991) V. Fiorani Piacentini (*)
Costituzione della difesa e stati di crisi per la difesa nazionale (1991) G. de Vergottini (*)
Sviluppo, armamenti, conflittualità (1991) L. Bonante, F. Armao, M. Cesa, W.
Coralluzzo (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano – Teoria e prassi la dottrina classica della Jihad e una fra le sue molteplici esperienze geocrafico-culturali: l’Asia
Centrale, Vol. II (1991) G. Ligios, R. Radaelli (*)
La “condizione militare” in Italia – I militari di leva, Vol. I (1991) M. Marotta,
M.L. Maniscalco, G. Marotta, S. Labonia, V. Di Nicola, G. Grossi (*)
Valutazione comparata dei piani di riordinamento delle FF.AA. dei Paesi dell’Alleanza Atlantica (1991) D. Gallino (*)
La formazione del Dirigente Militare (1991) F. Fontana, F. Stefani, G. Caccamo (*)
L’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia (1991) P. Bellucci, C.M.
Redaelli (*)
La “Condizione Militare” in Italia – Fenomenologia e problemi di devianza
(1991), Vol. III G. M. Marotta (*)
La Dirigenza Militare (1992) S. Cassese, C. D’Orta (*)
Diritto Internazionale per Ufficiali della Marina Militare (1993) N. Ronzitti, M.
Gestri (*)
I volontari a ferma prolungata: un ritratto sociologico. Tomo I (I volontari a
ferma prolungata ed i Sottufficiali) (1993) F. Battistelli (*)
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41/bis Sottufficiali delle Forze Armate. Idee propositive per migliorarne il reclutamento, lo statuto e la carriera. Tomo II (I volontari a ferma prolungata e i Sottufficiali) (1993) M. Marotta (*)
42
Strategia della ricerca internazionalistica (1993) L. Bonanate (*)
43
Rapporto di ricerca sui movimenti migratori e sicurezza nazionale (1993) G.
Sacco (*)
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Rapporto di ricerca su nuove strutture di sicurezza in Europa (1993) S. Silvestri (*)
45
I sistemi di comando e controllo ed il loro influsso sulla sicurezza italiana
(1993) P. Policastro (*)
46
Le minacce da fuori area contro il fianco Sud della Nato (1993) R. Aliboni (*)
47
Approvvigionamento delle materie prime, crisi e conflitti nel Mediterraneo
(1993) G. Mureddu (*)
48
Lo sviluppo dell’aeromobilità (1993) A. Politi (*)
49
L’impatto economico delle spese militari in Emilia Romagna (1993) A. Bolognini, M. Spinedi, NOMISMA S.p.A. (*)
50
I paesi della sponda Sud del Mediterraneo e la politica europea (1994) R. Aliboni, B. Scarcia Amoretti, G. Pennisi, G. Lancioni (*)
51
I problemi della sicurezza nell’Est Europeo e nell’ex-Unione Sovietica (1994)
C. Pelanda, E. Letta, D. Gallino, A. Corti (*)
52
Il pensiero militare nel mondo musulmano – Ragion militare e ragion di Stato,
Vol. III (1994) V. Fiorani Piacentini (*)
53
Presupposti concettuali e dottrinali per la configurazione di una futura forza
d’intervento (1994) G. Caccamo (*)
54
Lo status delle navi da guerra italiane in tempo di pace ed in situazioni di crisi
(1994) A. de Guttry (*)
55
La “Condizione Militare” in Italia, “Ufficiali e Sottufficiali”, Vol. II (1994) M.
Marotta (*)
56
Crisi del bipolarismo: vuoti di potere e possibili conseguenze (1994) S. Romano, J.L. Harper, E. Mezzetti, C.M. Santoro, V. Dan Segre (*)
57
Il problema della quantificazione di dati attendibili sull’interscambio militareindustriale fra i vari Paesi (1994) S. Sandri, A. Politi (*)
58
Ottimizzazione della selezione del personale – Metodi e modelli di selezione e
organizzazione nelle Forze Armate italiane (1994) A. De Carlo (*)
59
Gestione della crisi: metodologie e strumenti (1994) P. Isernia (*)
60
Politica militare e sistema politico: i partiti ed il nuovo Modello di Difesa
(1994) P. Bellocci (*)
61
Sicurezza ed insicurezza nell’Europa post-comunista (1994) A. Rossi, P. Visani (*)
62
Indagine sulla propensione delle donne italiane a svolgere il servizio militare
(1994) R. Savarese (*)
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L’impatto della presenza militare in Emilia Romagna: case study su Bologna
(1994) NOMISMA S.p.A. (*)
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L’impatto della presenza militare in Emilia Romagna “il caso Budrio”, il caso del “triangolo aeronautico”: Forlì, Cervia, Rimini, (1994) NOMISMA
S.p.A. (*)
Sistema di sicurezza dei Paesi del Golfo. Riflessi per l’Occidente (1995) S. Silvestri, R. Aliboni, L. Guazzone (*)
Sistema di controllo dell’esportazione degli armamenti e della tecnologia avanzata. Ammaestramenti delle crisi del Golfo (1995) A. Politi, A. de Guttry, S.
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zioni internazionali o nel suo ambito: problemi giuridici o organizzativi per le
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La difficile scommessa. L’allargamento della NATO ad Est (1997) M. Cremasco
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Cooperazione dell’Italia con l’Austria, «la Repubblica» Ceka, la Slovenia, la
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Elementi di diritto umanitario dei conflitti armati (Diritto italiano di bandiera)
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Italia e nucleare francese: attualità e prospettiva (1998) C. Paoletti (*)
Analisi delle spese per l’investimento dell’Esercito. Esame delle note aggiuntive: previsioni e scostamenti. Valutazioni sulle principali cause degli scostamenti (1998) M.T. Fiocca
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La geoeconomia delle imprese italiane: riflessi sulla gravitazione degli interessi geostrategici nazionali (2000) A. Cattaneo
Strategic sealift: sviluppo e caratteristiche nazionali di un importante strumento di proiezione e di forza nel mediterraneo allargato (2000) G. Mureddu
Repubblica di Jugoslavia (Manuali-Paese) (2001) a cura del Centro per l’Europa Centro-Orientale e Balcanica
Fyrom: «la Repubblica» di Macedonia (Manuali-Paese) (2001) a cura del Centro per l’Europa Centro-Orientale e Balcanica
La corte penale internazionale, i crimini di guerra e le truppe italiane all’estero in missione di pace (2001) N. Ronzitti
Gli effetti delle sanzioni economiche: il caso della Serbia (2001) M. Zucconi
Il coordinamento interministeriale per la politica industriale della difesa: valutazione comparata tra la soluzione italiana e quella dei principali paesi europei
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La difesa europea in ambito alleanza: una sfida per l’industria degli armamenti (2002) A. Traballesi
I diritti delle donne: le presenti strutture normative nel diritto internazionale
ed i loro effetti nei casi di conflitti etnici (2002) P. Brusadin
Il legame nazione-esercito: l’abolizione della leva basterà a rendere le forze armate meno impopolari tra i giovani? (2002) T. M. Blasi
La logistica degli anni 2000: ricorso a risorse esterne (outsourcing), contratti di
servizi, logistica integrata, contratti chiavi in mano. Evoluzione o rivoluzione?
(2003) F. Franceschini, M. Galletto, M. Borgarello
Cambiamenti organizzativi dell’industria statale della difesa: confronto con le
altre realtà europee, con particolare riferimento agli stabilimenti di manutenzione navale (2003) R. Stanglini
La bonifica umanitaria nel quadro della cooperazione civile e militare (2003)
F. Termentini
La questione di Cipro (2003) G. Sardellone
The international role of the European Union (2003) R. Balfour, E. Greco (edizione in lingua inglese)
Collana Ce.Mi.S.S. – Serie Blu – Atti di convegni
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South-Eastern Europe, bridge or border between civilizations (Atti del convegno tenutosi a Sofia nei giorni 17 e 18 ottobre 1997)
The Future of NATO’s Mediterranean Iniziative (1997) (Atti della conferenza
CeMiSS – RAND Corporation – Roma, 10 e 11 novembre 1997) (edizione disponibile anche in lingua araba)
NATO enlargement: situation and perspectives (Atti del convegno tenutosi a
Budapest dal 11 al 15 luglio 1998)
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I reparti multinazionali come strumento della sicurezza regionale (Atti del 1°
seminario italo/polacco – Roma, 24 marzo 1999)
Centralità dell’Italia nello sviluppo delle relazioni Nord-Sud nel bacino del
Mediterraneo. Quale ruolo per la Sicilia? – Atti del Seminario di studio fra studenti dell’Ateneo palermitano ed Istituti di Formazione della Difesa (Palermo,
23-25 novembre 1999)
Altre pubblicazioni
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Diritto Internazionale per Ufficiali della Marina Militare (1996) N. Ronzitti
(Ristampa della ricerca n. 40 sul supplemento della “Rivista Marittima” del luglio 1996)(*)
Un’intelligence per il XXI secolo (1999) G. Dottori
Il Neo-Terrorismo: suoi connotati e conseguenti strategie di prevenzione e contenimento (2001) V. Pisano
Collana Ce.Mi.S.S. – edizioni Franco Angeli
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Giovani e Forze Armate (1996) F. Battistelli
L’industria della Difesa. L’Italia nel quadro internazionale (1996) F. Onida, G. Viesti
Scenari di sicurezza per l’Europa e l’Italia (1996) M. Cremasco
Società civile e processo di pace in Medio Oriente (1996) D.V. Segre
Interesse nazionale e interesse globale (1996) P. Portinaro (*)
La crisi del bipolarismo (1996) S. Romano (*)
Il pensiero militare nel mondo musulmano (1996) V.F. Piacentini
Rischio da Sud (1996) C.M. Santoro (*)
Evoluzione della Guerra (1996) C. Pelanda
L’invasione scalza (1996) G. Sacco
Pax Pacifica (1996) M. Dassù (*)
Il Sistema Italia (1996) CeMiSS; (Atti del convegno “Gli interessi nazionali italiani nel nuovo scenario internazionale” Roma, 25-26 giugno 1996)
Integrazione e sicurezza nel Mediterraneo – le opzioni dell’Occidente
(1997) P.C. Padoan
Russia e sistema di sicurezza Occidentale (1997) M. Cremasco
Difesa della Patria e interesse nazionale nella scuola (1997) R. Cartocci, A.
M. L. Parisi
La logica del disordine (1997) E. Zanoni
Alla ricerca dell’interesse nazionale (1997) A. L. Pirocchi, M. Brunelli
La politica di sicurezza tedesca verso il duemila (1997) G. Dottori, S. Marino
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Medio Oriente e Forze di Pace (1997) G. Tappero Merlo
Armi e Disarmo (1997) F. Calogero, P. Miggiano, G. Tenaglia
Le missioni delle Forze Armate italiane fuori area (1997) A. de Guttry
La guerra civile in Rwanda (1997) Umwantisi
La “questione illirica” (1997) L. Bozzo, C. Simon Belli
Difesa, Politica e Società (1997) P. Bellucci
Partenariato nel Mediterraneo (1997) R. Aliboni
Combattere con le informazioni (1997) F. Pierantoni
Il conflitto Etnico (1997) R. Arbitrio
Geopolitica della salute (1997) B. Arrabito
Interessi nazionali e identità italiana (1997) F. Corsico
Missione in Bosnia (1999) T. Ammendola
Le armi inabilitanti non letali (1999) J. Alhadeff
L’Italia e l’Islam non Arabo (1999) G. Pastori, R. Redaelli (*)
Geopolitica della Turchia (1999) R. Aliboni
Antropologia e Peacekeeping (1999) A. Antoniotto (*)
Regionalismi economici e sicurezza (1999) L. Troiani (*)
Asia Centrale: verso un sistema cooperativo di sicurezza (1999) V.F. Piacentini
Macedonia: la nazione che non c’è (1999) L. Bozzo, C. Simon Belli (*)
Scenari strategici per il futuro (1999) M. Coccia
The Kosovo Quagmire. Conflict scenarios and method for resolution
(1999) L. Bozzo, C. Simon Belli (*)
Transizioni democratiche (2000) L. Bonanate
La Difesa Civile e il progetto Caschi Bianchi (2000) F. Tullio
La difficile sfida (2001) M. Cremasco (*)
L’Egitto tra Maghreb e Machrek (2001) C. Simon Belli
Le organizzazioni criminali internazionali (2001) M. Giaconi
La questione Kurda (2001) S. Mazzocchi, R. Ragionieri, C. Simon Belli
L’Europa centro-orientale e la NATO dopo il 1999 (2001) F. Argentieri
Europa – Stati Uniti: un Atlantico più largo? (2001) M. de Leonardis
The Effects of Economic Sanctions: the Case of Serbia (2001) M. Zucconi
Collana Ce.Mi.S.S. – edizioni A & P
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Security Threat perception in South – Eastern Europe (2001) CeSPI and EWI
La guerra incruenta (2001) F. Pierantoni
La politica di sicurezza e difesa dell’Unione Europea (2001) F. Attinà, F. Longo, C. Monteleone, S. Panebianco, P. Rosa
The flexible officer (2001) G. Caforio
Il documento di Washington: problemi politici e giuridici (2001) N. Ronzitti
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2.28
UMA: Les difficultés d’une reconstruction régionale (1989-1999) (2001) K.
Chater
Peacekeeping: Polizia internazionale e nuovi ruoli militari tra conflitti etnici,
terrorismo, criminalità organizzata (2001) R. Bettini
Il XXI Secolo: Ipotesi e tendenze dei modelli di difesa negli scenari mondiali
(2001) C. M. Santoro
Sociological aspects concerning the relations within contingents of multinational units: The case of the Italian-Slovenian Hungarian Brigade (2001) G. Gasperini, B. Arnejčič e A.Ujj
Il ruolo della forza europea di reazione rapida: un quadro strategico degli anni duemila (2001) M. Cremasco
Il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali nei processi di peace building
(2002) M. Fiocca
La sicurezza in Europa dopo il Kosovo (2001) R. Menotti e R. Balfour
Il processo di integrazione del procurement militare in Europa (2001) L. Bertini
Towards a European security and defence policy (2002) Ce.Mi.S.S. – C.D.S.
Il ruolo internazionale dell’Unione Europea (2002) R. Balfour – E. Greco
Rapporto dal futuro. 2004: lo Stato dell’Europa e l’Europa come Stato (2002)
L. Bonanate
Changing U.S. defense policy and the war on terrorism: implications for Italy
and for U.S.-Italian relation (2002) Ce.Mi.S.S. – RAND
Il diritto dei trattati nelle attività di interesse delle FF.AA. (2003) N. Ronzitti
Le dinamiche palestinesi nella politica giordana, prospettive per la stabilità di
un pivotal state (2003) R. Storaci
Le cooperazioni rafforzate per la ristrutturazione dell’industria europea degli
armamenti (2003) G. Bonvicini – G. Gasperini
Collana Ce.Mi.S.S. - edizioni Rubbettino
04/1 The Errf and the Nrf – The European Rapid Reaction Force and the NATOReaction Force: Compatibilities and Choises (2004) – Ce.Mi.S.S. – C.D.S.
04/2 Transforming Italy’s Military for a New Era: Options and Challenges – (2004)
– Ce.Mi.S.S. – RAND
04/3 Globalization, Armed Conflicts and Security (2004) – A. Gobicchi
04/4 Verso un concetto di Politica Estera Europea. Le sfide esterne e di sicurezza
per la UE (2004) – R. Balfour e R. Menotti
04/5 Comunicazione e politica internazionale. Mutamenti strutturali e nuove strategie (2004) – E. Diodato
04/6 La Nato dopo l’11 settembre. Stati Uniti ed Europa nell’epoca del terrorismo
globale (2004) – G. Dottori e M. Amorosi
04/7 La dimensione finanziaria del terrorismo e del contro-terrorismo transnazionale (2004) – M. Fiocca e S. Cosci
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04/8 Islamist and Middle Eastern Terrorism: a Threat to Europe (2004) – M. do Céu
Pinto
04/9 Tra due culture. Le problematiche della famiglia del militare (2004) – M. A.
Toscano
04/10 Russia’s Western Orientation after 11th September (2004) – D. Sagramoso
04/11 Opinione pubblica, sicurezza e difesa europea (2004) – M.L. Maniscalco
Paper Ce.Mi.S.S.
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L’evoluzione della politica di controllo delle esportazioni di materiali d’armamento e di alta tecnologia dual use alla luce della nuova intesa “The Wassenar
Arrangement” (1998) A. Politi, S. Ruggeri
L’Ucraina nuovo architrave della sicurezza europea (1999) F. Argentieri
L’impatto dell’evoluzione sul futuro campo di battaglia (1999) ISTRID
Disordine, Sicurezza, Stabilità. Il sistema internazionale ed il ruolo per l’Italia
(1999) P. Soave
Research-Papers on Balcans and Caucasus. A Russian Point of View (1999) N.
Arbatova – V. Naumkin
Resources and economic cooperation in the Caspian and Black sea region and
security in south-eastern Europe (1999) N. Behar
Western European Union: operational capabilities and future perspectives
from the national point of view (1999) S. Giusti (*)
Conflict management in Europe on the return of the century (1999) I. Gyarmati
Risks for Russia’s security in the next decade: repercussion on the country’s domestic, foreign and defence policies (2000) I.B. Lada
Central-Eastern Europe and the process of approaching western institutions
(2000) B. Klich, B. Bednarczyk, A. Nowosad, M. Chorosnicki –.Institute for
Strategic Studies “Studies and Analyses” – Krakòw (*)
Institutions and civil society: crucial aspects of a peace process (2000) A. Corazza Bildt
Projects of exploitation of the Caspian Sea Central Asia energy resources: impact on relations between the states involved and the stability in the region
(2000) V. Naumkin
The CIS Security cooperation: problems and prospects (2000) – A.G. Arbatov,
A.A. Pikayev; S. K. Oznobischev; V.E. Yarynich – ISS Mosca;
Is the establishment of a national security policy for a Bosnia – Herzegovina
possible? (2000) S. Turkovic (*)
The regional co-operation initiatives in the black sea area and their influence
on security in the Romania-Moldova-Ukraine region (2000) A. Pop
The regional and circum-regional co-operation initiatives in South-East Europe and their influence on security (2000) Center for National Security Studies
– Sofia
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Possible developments in the Balkans in the medium term (2000) E. Kojokine
Catalogo ragionato delle pubblicazioni CeMiSS (1987-1999) (2000) V. Ghiotto
Il controllo della qualità degli approvigionamenti della Amministrazione della
Difesa, con particolare riferimento ai servizi. (2000) Politecnico di Torino
Il futuro delle forze armate nell’era dell’information technology (2000) A. Ferranti
L’evoluzione della minaccia e l’alea di rischio delle nazioni moderne (2000) V.
Porfiri – N. Pedde
The post – Yeltsin Russia: the main trends in domestic and foreign policy evolution (2001) N. Arbatova
European transport corridors and security in south eastern Europe (2001) Institute for Social and Political Studies – Sofia
Società e Forze Armate in Albania (2001) R. Devole
La politica estera e di sicurezza italiana nell’Europa Sud – Orientale e l’iniziativa quadrilaterale (2001) R. Umana
Tendenze dello sviluppo della dottrina militare della Russia (2001) M. Gareev
Maghreb Alaqsa. L’estremo Occidente (2001) M. Giaconi
Le politiche della ricerca militare e duale nei principali paesi industrializzati
(2001) M. Nones, G. Perani, S. Rolfo
La cultura del peacekeeping (2002) T. Bergantini
Ottimizzazione della contrattualistica di Forza Armata (2003) R. Pardolesi
(*) pubblicazione esaurita
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