Academia.eduAcademia.edu

Occupare o punire? Sulla riappropriazione dei beni comuni.

Occupare o punire? Sulla riappropriazione dei beni comuni lavoroculturale.org/occupare-o-punire-sulla-riappropriazione-dei-beni-comuni/nolted/2011/ Redazione December 20, 2011 di Adriano Martufi Il tema dell’occupazione è tornato in modo prorompente al centro del dibattito sulle pratiche di conflitto, come testimonia anche l’attenzione dedicata da questa rivista al tema dell’“insurrezione degli spazi”. Più marginale nel discorso pubblico pare invece la riflessione sulle politiche di repressione e sulle ricadute sanzionatorie in cui può incorrere chi metta in atto una strategia di riappropriazione dello spazio pubblico. Sarebbe però un errore confondere alcune forme tradizionali di occupazione con i più recenti fenomeni di resistenza per il bene comune. Per prima cosa è dunque opportuno tratteggiare gli elementi di novità che caratterizzano, sotto un profilo sia fenomenologico che valoriale, la pratica dell’occupazione nel quadro di una politica del comune. È poi necessario descrivere sommariamente l’arsenale sanzionatorio minacciato nei confronti di chi occupa e fare il punto su alcune allarmanti e recenti strette repressive volte a ridurre ulteriormente il potere di critica. Infine, sembra utile immaginare in una prospettiva costituente come possano evolvere i margini di legittimità per una pratica, anche conflittuale, di gestione del bene comune. 1. I beni comuni sono certo, come si sente dire, beni non quantificabili in termini monetari, entità non suscettibili di alienazione perché prive di un titolare astrattamente identificabile (lo Stato o i privati); tuttavia essi costituiscono soprattutto delle oggettività essenziali per l’esistenza di una comunità, beni che fondano e garantiscono la vita di relazione e che, in una prospettiva di superamento della dicotomia Stato-individuo, si identificano con la stessa dimensione relazionale. Si potrebbe dire che la nozione di bene comune tende a scardinare la tradizionale distinzione tra beni-mezzo e beni-scopo, dando corpo a un’entità che è al contempo strumento e obbiettivo del vivere in relazione. 1/4 Non sorprende dunque se la pratica di difesa del bene comune tende ad organizzarsi nelle forme della riacquisizione degli spazi propri dell’agire sociale, e mette invece da parte l’aggressione diretta, anche se simbolica, ai centri di irradiazione del potere politico ed economico. Come ha notato acutamente Naomi Klein la più significativa novità del movimento Occupy Wall Street è stata la rinuncia a puntare su specifici obbiettivi istituzionali (la Banca Mondiale, l’OMC) per periodi di tempo circoscritti (quasi sempre la durata dei rispettivi summit), in favore di una presenza fissa ed illimitata che “mette radici” e si fa tutt’uno con la vita quotidiana. In modo analogo, le numerose e creative mobilitazioni dei lavoratori della cultura italiani, che negli ultimi mesi hanno pionieristicamente aperto la strada ad una pratica politica del bene comune, si caratterizzano per lo sforzo di riassegnare all’arte il ruolo di risorsa per la comunità spesso ri-abitando luoghi che ad essa erano stati sottratti. Un ulteriore elemento caratterizzante risiede nell’inscindibile coesistenza tra azione politica e pratica costituente. Tra le diverse declinazioni di questo paradigma possono annoverarsi la redazione di statuti volti a garantire il carattere strutturalmente inclusivo delle soggettività che occupano e amministrano spazi di interesse comune (penso naturalmente alla recente approvazione dello statuto della Fondazione Valle Occupato) e l’elaborazione di proposte di legge di iniziativa popolare in tema di gestione dei beni comuni. 2. Le specificità delle pratiche di occupazione in nome dei beni comuni che abbiamo tentato sommariamente di descrivere si riflettono sul funzionamento del meccanismo sanzionatorio-repressivo predisposto dal legislatore, neutralizzando in molti casi il rischio della pena. Le norme penali che tutelano l’utilizzazione dei beni immobili pubblici e privati da parte dei legittimi proprietari, concepite anche per svolgere una più sotterranea funzione di controllo sociale, presentano infatti dei limiti strutturali che ne rendono assai dubbia l’applicazione alle ipotesi che abbiamo evocato. Si tratta invero di disposizioni che, secondo l’orientamento ormai nettamente prevalente, mirano a colpire esclusivamente le condotte finalizzate a trarre profitto dall’occupazione dell’immobile, con l’effetto di rendere penalmente irrilevanti tutte le occupazioni che abbiano genericamente scopi di protesta. Inoltre, nella prassi applicativa si tende ormai a ritenere assodato che, per punire l’occupazione, sia necessario valutarne il “disvalore” alla luce delle concezioni socioculturali e istituzionali vigenti nel momento storico di applicazione della norma. Questo ha consentito di escludere la punibilità della condotta tutte le volte in cui le occupazioni, svoltesi in modo pacifico, apparivano orientate a soddisfare gli interessi della comunità anziché quelli degli occupanti (cfr., per tutti, Pret. Pordenone, 19 maggio 1993). 2/4 In questo contesto normativo, la teoria dei beni comuni si presta ad operare in chiave interpretativa come efficace strumento di riduzione dell’area del penalmente rilevante, allargando le maglie del dispositivo sanzionatorio. In particolare, come si è visto, la presenza di processi partecipativi e la vocazione a restituire gli edifici oggetto di “invasione” ad un uso pubblico da parte dei cittadini, costituiscono altrettanti motivi per ritenere che la riappropriazione degli spazi non possa essere punita. Tutto ciò premesso, non può essere un caso che il legislatore italiano abbia introdotto, anche recentissimamente, delle norme penali a carattere eccezionale volte a punire le occupazioni di siti ritenuti di “interesse strategico nazionale”. Si tratta di una reazione a carattere marcatamente repressivo che mira esplicitamente a colpire determinate esperienze di conflitto sfociate nell’occupazione di luoghi-simbolo nella lotta a tutela dei beni comuni. Si allude, da ultimo, alle norme contenute nella legge di conversione del “decreto-sviluppo” che prospettano la pena della l’arresto fino a un anno e la multa fino a 309 euro per chi invade i cantieri della TAV. L’escamotage tecnico utilizzato per aggirare i limiti alla penalizzazione cui si è fatto cenno poc’anzi, è consistito nel rinviare alla norma che punisce l’accesso ai siti militari, qualificando appunto la zona del cantiere TAV come “area di interesse strategico nazionale”. Si tratta solo dell’ultimo esempio della tendenza alla militarizzazione del conflitto sociale, sperimentata in forme analoghe anche nel caso dell’emergenza rifiuti in Campania, e realizzata tramite la creazione normativa di veri e propri luoghi di non-diritto. Aree dove non può operare il bilanciamento tra interessi contrapposti e dove lo Stato esercita poteri in condizioni di eccezione. 3. In prospettiva, tuttavia, nuovo impulso a una pratica conflittuale di riappropriazione degli spazi potrà derivare dalla definizione di un nuovo statuto normativo della gestione del bene comune. Per un verso, l’elaborazione di nuovi modelli partecipativi ed inclusivi, anche a livello statutario, sembra destinata a limitare ulteriormente il potenziale repressivo delle norme in vigore poiché esse presuppongono l’arbitrarietà e fondano il proprio disvalore sulla logica tipicamente privatistica dell’esproprio. 3/4 Per altro verso, sottrarre, per via normativa, i beni comuni alla dimensione del mercato – come prospettato dal progetto di riforma del codice civile redatto dalla Commissione Rodotà – consentirebbe di escludere alla radice la rilevanza penale delle pratiche di riappropriazione. In altre parole, esse costituirebbero l’esercizio di un diritto e sarebbero perciò stesso giustificate. Un risultato che condurrebbe a formule di assoluzione piena (“perché il fatto non costituisce reato”) nel caso di un procedimento penale, mettendo al riparo chi occupa da qualsiasi conseguenza sanzionatoria anche a livello amministrativo, civile, e disciplinare. Redazione See author's posts 4/4