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Impero (Filippi)

Alcuni storici dell'India sostengono che esiste una forte anomalia nello sviluppo primigenio di questa civiltà. Da circa la metà del secondo millennio dell'evo antico, in quello snodo cronologico di passaggio tra l'età del bronzo e quella del ferro, presso tutte le popolazioni storicamente attestate lo stato s'identificò con la figura del Re, grande conquistatore, eroe culturale e figura divina. Dalla Cina a Creta, dall'Egitto all'Assiria, tanto per citare esempi ben noti, monarchie personali si tradussero in regimi dinastici consolidati nel tempo. In India, invece, l'istituzione del Re divino non si sarebbe mai realizzata in ragione della presenza di una casta sacerdotale stabilmente dominante, tale da oscurare il sovrano, rājan e l'intera casta nobiliare dei guerrieri, rājanya 1 , considerati individualmente come Re virtuali 2 . Secondo quest'opinione, ciò costituirebbe un'eccezione nello sviluppo storico delle istituzioni statali, tale da penalizzare lo svolgimento successivo degli eventi indiani, condannando un Subcontinente altamente civilizzato a un continuo fallimento nell'affermazione delle sue strutture politiche e a una debolezza patologica nei confronti dei popoli confinanti 3 . Questa dell'anomalia indiana è teoria d'indubbia suggestione e fonda i suoi postulati su alcune evidenze obiettive. Il limite della teoria consiste, tuttavia, nell'appoggiarsi su alcune osservazioni ignorandone altre; o, meglio, nel selezionare tra diversi dati storici quelli metodologicamente più controllabili e atti a confermare l'ipotesi inizialegià promossa a teoria; ciò s'opera semplicemente ignorando evidenze altrettanto obiettive, ma in contraddizione con l'impostazione ideologica dello storico. Per esempio, gli storici dell'India spesso sono forniti di nozioni archeologiche, più facili da acquisire, mentre lo stesso non si può dire riguardo alla loro formazione filologica. Tendenzialmente lo storico si troverà maggiormente a suo agio nell'interpretare i dati provenienti dagli scavi, essendo l'archeologia una scienza introduttiva alla storia, piuttosto che a dipendere controvoglia dalle traduzioni delle fonti letterarie pubblicate da sanscritisti o esperti d'altre lingue dell'India antica, il cui interesse filologico spesso prescinde da una impostazione storica. Purtroppo l'archeologia dell'India del periodo da noi indicato rimane una fonte d'informazione poco trasparente, a causa di fattori ambientali devastanti (sommovimenti tellurici, variazioni repentine dei corsi fluviali, bradisismi di grande portata) e climatici particolarmente erosivi (monsoni, esondazioni, muffe, insetti). A questa scarsità d'informazione s'aggiunga il particolare che in India l'antichissima pratica della cremazione sottrae agli archeologi le loro principali fonti d'indagine, le tombe. Se a questo quadro sconfortante si aggiunge la particolare litigiosità dilagante tra gli archeologi che si occupano d'India, apparirà evidente come l'indagine letteraria rimanga privilegiata. Non che su questo versante tutto risulti cristallino ed esente da controversie; ma, per lo meno, la copia di informazioni di una delle lettera-

GIAN GIUSEPPE FILIPPI LA CONCEZIONE IMPERIALE NELL’INDIA CLASSICA Alcuni storici dell’India sostengono che esiste una forte anomalia nello sviluppo primigenio di questa civiltà. Da circa la metà del secondo millennio dell’evo antico, in quello snodo cronologico di passaggio tra l’età del bronzo e quella del ferro, presso tutte le popolazioni storicamente attestate lo stato s’identificò con la figura del Re, grande conquistatore, eroe culturale e figura divina. Dalla Cina a Creta, dall’Egitto all’Assiria, tanto per citare esempi ben noti, monarchie personali si tradussero in regimi dinastici consolidati nel tempo. In India, invece, l’istituzione del Re divino non si sarebbe mai realizzata in ragione della presenza di una casta sacerdotale stabilmente dominante, tale da oscurare il sovrano, r jan e l’intera casta nobiliare dei guerrieri, r janya1, considerati individualmente come Re virtuali2. Secondo quest’opinione, ciò costituirebbe un’eccezione nello sviluppo storico delle istituzioni statali, tale da penalizzare lo svolgimento successivo degli eventi indiani, condannando un Subcontinente altamente civilizzato a un continuo fallimento nell’affermazione delle sue strutture politiche e a una debolezza patologica nei confronti dei popoli confinanti3. Questa dell’anomalia indiana è teoria d’indubbia suggestione e fonda i suoi postulati su alcune evidenze obiettive. Il limite della teoria consiste, tuttavia, nell’appoggiarsi su alcune osservazioni ignorandone altre; o, meglio, nel selezionare tra diversi dati storici quelli metodologicamente più controllabili e atti a confermare l’ipotesi iniziale – già promossa a teoria; ciò s’opera semplicemente ignorando evidenze altrettanto obiettive, ma in contraddizione con l’impostazione ideologica dello storico. Per esempio, gli storici dell’India spesso sono forniti di nozioni archeologiche, più facili da acquisire, mentre lo stesso non si può dire riguardo alla loro formazione filologica. Tendenzialmente lo storico si troverà maggiormente a suo agio nell’interpretare i dati provenienti dagli scavi, essendo l’archeologia una scienza introduttiva alla storia, piuttosto che a dipendere controvoglia dalle traduzioni delle fonti letterarie pubblicate da sanscritisti o esperti d’altre lingue dell’India antica, il cui interesse filologico spesso prescinde da una impostazione storica. Purtroppo l’archeologia dell’India del periodo da noi indicato rimane una fonte d’informazione poco trasparente, a causa di fattori ambientali devastanti (sommovimenti tellurici, variazioni repentine dei corsi fluviali, bradisismi di grande portata) e climatici particolarmente erosivi (monsoni, esondazioni, muffe, insetti). A questa scarsità d’informazione s’aggiunga il particolare che in India l’antichissima pratica della cremazione sottrae agli archeologi le loro principali fonti d’indagine, le tombe. Se a questo quadro sconfortante si aggiunge la particolare litigiosità dilagante tra gli archeologi che si occupano d’India, apparirà evidente come l’indagine letteraria rimanga privilegiata. Non che su questo versante tutto risulti cristallino ed esente da controversie; ma, per lo meno, la copia di informazioni di una delle lettera1 Si tratta di una concezione paragonabile a quella europea dei Pari del Regno. Tant’è vero che in aree fortemente induizzate, ma con scarsa presenza di brahmani, la divinizzazione del Re si affermò con grande facilità. Pensiamo qui alla Cambogia, all’Indonesia e a Champa (Vietnam). A questo si può aggiungere quell’area pedehimalayana corrispondente all’attuale stato del Bihar, che fin da epoca vedica fu rétta da repubbliche aristocratiche, proprio perché ivi il sacerdozio era pressoché assente e quindi impotente a imporre il sistema dinastico prescritto dai testi sacri. Questa situazione può essere una delle ragioni per cui in quell’area comparissero poi due religioni antibrahmaniche fondate da due Prìncipi: il Jainismo e il Buddhismo. 3 Per la verità, e in modo strettamente paragonabile all’esempio della Cina, l’India subì continuamente invasioni di sciti, kus na, unni, parti, persiani, che, paradossalmente, la rafforzarono e ne ampliarono il territorio. Il fascino della sua civiltà riuscì a sempre a conquistare l’animo dei suoi barbari conquistatori, che sempre furono assimilati fino a scomparire nella complessa struttura sociale delle caste. Græcia capta ferum victorem cepit (Orazio, Epist. Il, 1, 156). Persino i musulmani indiani assunsero forme proprie, accettando, per esempio, il sistema castale. Fecero eccezione i britannici, che subirono il fascino dall’India, ma la cui presunzione di superiorità razziale impedì l’integrazione in un’unica civiltà. 2 1 ture più ricche del pianeta a partire dal Rgveda in poi, garantisce un campo di ricerca ricco e ben fondato. Anzitutto si deve dare atto che i sostenitori della teoria dell’anomalia indiana partono da un dato certo: il sistema castale assegna inequivocabilmente la supremazia sociale ai sacerdoti, i br hmana, riconoscendo ai Re e all’aristocrazia guerriera solamente un ruolo di secondo piano4. Ciò appare evidente fin dagli inni ritenuti più antichi fra le samhit del Rgveda5. Se vi furono degli episodi di rivolta di aristócrati, ksatriya6, contro la casta sacerdotale in un’antichità insondabile, essi furono privi di risultato, come appare evidente dal mito di Para ur ma7. Secondo questo mito gli ksatriya si sarebbero presi delle libertà nei confronti della casta brahmanica, per cui furono puniti dal dio Visnu8. Egli, sceso sulla terra sotto le spoglie di un sacerdote-guerriero, R ma con l’ascia, mise in atto un vero sterminio di ksatriya, per la qual cosa ancor oggi si sostiene che l’esiguo numero di appartenenti alla seconda casta va fatto risalire a quel mitico evento9. Avendo stabilito quanto precede, ovvero la singolarità del caso indiano per cui anche il Re deve essere considerato incomparabilmente inferiore al Sacerdote, si procederà dimostrando che anche l’India antica conobbe e riconobbe la funzione civilizzatrice dei Sovrani. Anche in questo caso, però, sono necessarie alcune precisazioni. Dai testi appare evidente che la figura del Re con caratteristiche divine appartiene a un’antichità insondabile. Il Re, sovrano di tutta la terra, è per eccellenza Manu, il primo uomo, che stabilì le regole10 per l’esistenza degli esseri di questo mondo. Il termine r jan, negli altri casi, è attribuito a divinità che svolgono la funzione di reggitori, quali Varuna, Agni, Soma e, per eccellenza, Indra, Re degli déi. Si deve intendere che il regno, r jya, di Manu rappresenta davvero l’età dell’oro della mitologia indiana11, dopo di che, con il succedersi di un’altra era, l’equilibrio e la perfezione delle origini vennero a oscurarsi. Lo stesso Regno rimase suddiviso 4 La lettura ottocentesca dei testi vedici, secondo la quale in origine non ci sarebbe traccia di alcuna gerarchia castale, è sprovvista di alcun fondamento e deve essere ritenuta ideologica. L’egualitarismo della civiltà primitiva indiana riposa nelle credenze mistico-sociali del romanticismo. Le caste, invece, nel Veda sono presenti ovunque, e non solamente tra gli esseri umani, ma anche tra gli déi, i demoni e persino tra gli animali. 5 L’antichità di questa raccolta vedica è invero difficile da datare. A questo proposito si deve anche considerare che la sua trasmissione è rimasta orale per decine di secoli. Friedrich Max Müller, a metà dell’ottocento, stabilì, in base all’arcaicità della sua lingua, che il Rgveda dovesse essere datato intorno al XV secolo a. C. Non entreremo in considerazioni filologiche riguardo questa teoria facilmente confutabile, ma osservata ancor oggi come dogma da alcuni indologi, limitandoci a retrodatare la composizione di gran parte della raccolta al XIX secolo. Infatti, per tutti i primi nove dei dieci libri del Rgveda, il fiume sacro dell’India per eccellenza anziché il Gange, è la Sarasvatī, corso d’acqua scomparso durante il XIX secolo, com’è dimostrato abbondantemente dall’idrogeologia contemporanea. 6 Il vedico r janya fu sostituito, in epoca successiva, dal termine ksatriya. Questa parola, che indica la casta dei guerrieri e dei signori di principati, procede da ksatra, dominio, che, a sua volta s’imparenta a ksetra, campo, sia inteso come area coltivabile sia come terreno di battaglia. In entrambi i casi si allude ai complessi significati della parola rya. Il sanscrito ksatriya corrisponde all’avestico xšathrapâ, satrapo. Per maggiore informazione, aggiungeremo che in epoca antica gli ksatriya che non appartenevano a famiglie regnanti erano detti ugra, mentre i membri di famiglie reali r j putra, da cui più tardi il termine r japūt. 7 Tracce storiche di una rivolta di ksatriya sono però riscontrabili nella comparsa delle due religioni “eterodosse,” n stika dharma, il Jainismo e il Buddhismo. Nonostante l’iniziale successo, dopo diversi secoli anche queste rivolte religiose furono neutralizzate. Il Jainismo alla fin fine riconobbe la propria debolezza come religione priva di sacerdozio, accettando che gli officianti nei suoi templi fossero brahmani hindū. Il Buddhismo, invece, migrò fuori dell’India. 8 Mah bh rata, I, 66, 48. 9 Agni Pur na, CCLXXVI, 22. 10 Non a caso la radice √rij-reg, da cui derivano i titoli regi in gran parte delle lingue della famiglia indoeuropea, indica l’idea di regolare, mettere ordine, misurare, estendere. 11 Anche la mitologia indiana, come quella esiodea, conosce quattro età, che si succedono nel senso della decadenza. Le quattro età sono dette satyayuga, tret yuga, dv parayuga e kaliyuga. 2 tra diversi Re12, frequentemente in lotta tra loro, e il vero Regnum, la sovranità su tutta la terra, rimase come il ricordo di un Eden perduto. Tuttavia si concepì che, sebbene in un’epoca decaduta13, alcuni r jan d’eccezionale personalità, inclini alla verità e alla virtù, potessero restaurare il Regno primordiale, assoggettando tutta la terra alla pace e alla giustizia14. Un monarca di un singolo regno, dunque, poteva ripristinare l’ordine primigenio perseguendo gli ideali di santità e di conquista, diventando così Imperatore. Come si può notare, l’ideale imperiale, a differenza di quello regale, è basato sul principio della restaurazione. In questo modo il Regno, andato in frantumi come un vaso di ceramica, poteva essere riunificato nell’Impero15. Non a caso Imperatore suona in sanscrito samr t, colui che riunisce i regni, e impero s mr jiya, integrazione di regni. Ben presto però il termine samr t  fu usato come sinonimo dei più popolari titoli di s rvabhauma, [signore dell’] intero mondo, dhipati, supremo signore, adhir ja rajñ m, Re dei re, e di cakravartin, colui che fa girare la ruota [del mondo fino all’oceano esterno, samudraksitī a]16. Per meglio capire quali sono rispettivamente le funzioni caratteristiche di un Re e quelle di un Imperatore universale, sarà necessario aggiungere alcune note sui fini della vita com’erano concepiti dagli antichi indiani. Nell’India classica si enumerarono quattro ideali, caturvarga, e precisamente: k ma, artha, dharma e moksa. K ma comprende la sfera del desiderio e della sua soddisfazione. Si tratta del dominio sottoposto all’esperienza del mondo attraverso i cinque sensi, e al piacere che se ne deve trarre, evitandone le conseguenze sgradevoli. La concezione di massima prevede che l’essere umano sia provvisto dei mezzi per trarre piacere dal mondo che lo circonda, per cui egli ha un naturale diritto a ricercarne il godimento e a evitarne la sofferenza. Questo ideale presuppone la capacità di scelta e di rifiuto che accomuna la casta dei nobili ksatriya e a quella dei vi , i ricchi. Artha, invece, è la sfera del potere, inteso come gestione della cosa pubblica, della giustizia e della difesa. È cosa propria ai r janya e, in particolare, al Re. Dharma è il dominio della Legge universale, che dà regola al mondo e ordina e armonizza le gerarchie degli esseri. Dharma s’imparenta per mezzo della radice √dr-dhru al termine dhruva, l’immobile, che definisce la stella polare, unico punto fisso dell’universo mondo. Da quest’ultima affermazione si può ben comprendere che il dharma è l’ideale del cakravartin17. Ora, poiché l’ordine cosmico, rtam, non è conservato dalla volontà degli individui, ma dai rituali solenni che sono in grado di contrastare la decadenza ciclica, si 12 Questi sovrani erano riconosciuti come legittimi successori di Manu, la loro limitazione consistendo esclusivamente nella loro pluralità causata dalla decadenza dell’intero mondo. A costoro furono anche attribuiti i titoli di raj, re, p rthiva, signore di un dominio, ksam bhrt, capo di una signoria, nrpa, padrone di uomini, bhūpa, padrone di terre, mahīksit, il massimo supervisore. 13 Gli Imperatori cominciarono a comparire nella seconda età del mondo, durante il tret yuga. Brahm nda Pur na, I, 1, 98; II, 23, 71; Matsya Pur na, CXLII, 64-65; V mana Pur na, LVII, 66-80. 14 Da ciò si evince come la qualifica di Imperatore sia strettamente personale e, perciò, essa non assuma caratteristiche dinastiche. 15 Ci si riferisce qui al simbolo della frantumazione di un singolo vaso in quattro vasi identici per opera prodigiosa dei Rbhus. RV, I, 110, 3. 16 Sul significato di cakravartin come motore immobile dell’intero universo, axis mundi, concordano tutti gli specialisti. Certamente il termine può assumere significati più peculiari se attribuiti a personaggi diversi. Per esempio, se attribuito al Buddha, esso significherà, colui che ha messo in moto la ruota [della legge]. Nel Veda è usato per definire Indra come colui che mise in moto il sole nella sua orbita (apparente), dando così inizio al tempo. RV, IV, 17, 14. Sulla concezione universale della ruota che dà il nome al cakravarti è detto: “Il grande cakra che ha forma di una ruota di carro, più grande della ruota del mondo, più grande della ruota del tempo: possa il cakra del cakravartin proteggerci.” Soda yudhastotram, 2. Altri titoli s’incontrano nella letteratura sanscrita per definire l’Imperatore, come sv r jan, autocrate e m h r j , termine inflazionato durante il dominio britannico, per cui tutti i più irrilevanti feudatari indiani poterono fregiarsene. 17 I Dharmasūtra, testi sacri che enumerano le leggi del dharma , sono di più ampio respiro e comprendono i doveri degli appartenenti a tutte le caste; in questi testi, perciò, si trovano anche le parti che riguardano specificatamente i doveri dei Re, r j dharma. L’applicazione totale dei contenuti dei dharmasūtra, invece spetta al cakravartin. 3 comprenderà che questo dominio sarà comune all’Imperatore e ai brahmani18, a esclusione dei semplici r janya19. Quest’affermazione è d’importanza centrale per l’argomento trattato; da quanto appena affermato si trae, dunque, che, a differenza del Re, che agisce in base a ragioni di opportunità politica, l’Imperatore svolge una funzione carismatica nel dominio del rituale20. In definitiva, dharma è il principio di stabilità che regge l’universo rotante, senza tuttavia rimanere coinvolto da questo divenire, imponendo l’ordine rtam e contrastando il disordine, anrtam21. Sarà ora opportuno stabilire in che modo un semplice guerriero, r janya o ksatriya che dir si voglia, ottenga di essere proclamato Re, r jan, per poi stabilire le sottili differenze con l’ottenimento della dignità imperiale. Come sempre, nella civiltà hindū tutto dipende dalla volontà sacerdotale, che s’esprime in forma rigorosamente rituale. Comunque sia, l’elevazione di un r janya al trono, fin dall’ epoca più antica dipende da regole dinastiche, per cui è eccezionale che sia proclamato r j chi non sia figlio di Re. Queste regole prevedono rigorosamente quella legge che in Occidente è detta salica, sebbene l’India non tenga in altrettanta importanza la successione per primogenitura. L’erede al trono22, sotto la guida del purohita, il brahmano prescelto per essere il cappellano di corte, doveva sottoporsi al rito di consacrazione regale, r jasūya, che poteva avere una durata di oltre due anni, e che comprendeva molteplici oblazioni di soma23, tra cui il più importante era il pavitra24, e diversi sacrifici animali. A conclusione del primo anno dedicato ai sacrifici, il purohita impartiva al kum ra l’iniziazione regia, dīks , che si sviluppava ritualmente simulando la morte e rinascita del principe, a cui seguiva un altro anno dedicato al rito di abhiseka, unzione o aspersione del Re. L’abhiseka si realizzava con abluzioni, alternate alla vestizione di dieci sottovesti e vesti, che rappresentavano la crescita dell’embrione durante i dieci mesi lunari di gestazione. Alla fine la collocazione sul capo del principe di un ricco turbante, usnīsa, rappresentava una vera e propria incoronazione, a cui seguiva un rituale che simulava un matrimonio tra il brahmano e il Re, in cui al sacerdote spettava la funzione maschileŚ “Io sono quello, tu sei questa, io sono il Cielo, tu la Terra”25. Il tutto si concludeva con il conferimento dello scettro, vajra26, alla recitazione d’una vera e propria formula di accipe sceptrumŚ “Noi sacerdoti t’abbiamo messo in mano la folgore!”27. Come s’è detto innanzi, tutto ciò riguarda l’incoronazione del Re. I testi sacri affermano infattiŚ “Compiendo il r jasūya si diventa un Re, r jan; ma compiendo il v japeya si diventa Imperatore, samr t: la dignità regale deve essere ottenuta per prima, e poi quella imperiale”28. I brahmani rappresentano nel contesto sociale coloro che, tralasciando l’azione, si dedicano alla contemplazione. L’unica azione che è loro concessa è quella rituale, che, in quest’ottica, ha origini e fini che trascendono la sfera dell’azione mondana. 19 Rivolgendosi allo ksatriya Arjuna, Krsna affermaŚ “Qualsiasi utilità ci sia in tutti i riti vedici, tutto ciò è contenuto nell’utilità della retta conoscenza posseduta dal brahmano che ha rinunciato al mondo e ha completamente realizzato la verità che concerne la realtà assoluta… tu sei qualificato solamente per l’azione, non per la via della Conoscenza. Bhagavad Gīt , amkara Bh sya, II, 46-47. 20 Il quarto ideale, il moksa, consiste nella Liberazione dal ciclo trasmigratorio delle nascite e delle morti, e coinvolge principalmente la sola casta sacerdotale. 21 RV, X, 124, 5. Cfr. G. G. Filippi, “Cakravartin”: mithyc and historical symbols, in “Annali di Ca’ Foscari”, XXX, 3, S. O. 22, pp. 126-127. 22 Al principe ereditario si attribuisce il titolo di kum ra, il fanciullo, esattamente allo stesso modo in cui in Spagna si usa il termine d’Infante. R j kum ra è invece d’uso recente. 23 Succo fermentato ottenuto dalla spremitura della pianta omonima. 24 Rito eminentemente purificatorio. 25 Aitareya Br hmana, VIII, 27. 26 Lo scettro, in India, è la folgore usata come un’arma, sia dai Re umani, sia da Indra, Re degli déi. Ciò è in accordo con la mitologia ellenica, in cui la folgore è scettro e arma di Zeus. 27 RV, II, 11, 4. Per ragioni di spazio, abbiamo dato una relazione estremamente succinta della numerosissima e complessa serie di rituali che compongono il r jasūya. Pandurang Vaman Kane, History of Dharma stra, vol. II, part. II, , Bhandarkar Oriental Research Institute, Pune 1997 (III ed.), pp. 1214-1223. 28 atapatha Br hmana, IX, 3, 4, 8. Per la verità questa appena descritta è la successione normale del cursus honorum. Tuttavia è anche tenuta in considerazione una situazione straordinaria, per cui se un r janya avesse 18 4 Anche nel caso della consacrazione imperiale le scelte sono da attribuire ai sacerdoti, per cui lo svolgimento è strettamente rituale. Il purohita di un r jan, dopo aver verificato le alte virtù del sovrano e consultati i brahmani del regno, indìce il rito detto libagione per la corsa, v japeya. Anche in questo caso il v japeya appare come l’aggregazione di moltissimi rituali vedici di lunga e complessa preparazione. Il candidato Imperatore dovrà ricevere una nuova iniziazione, dīks , e presenziare al rito sempre in un abito da neonato di sera bianca. Sul far dell’autunno è allestito un ippodromo di pianta ellittica, che ha due pali yūpa ai due fuochi della figura geometrica di base. Sono allestiti diciassette carri da corsa, dei quali uno sarà condotto dal Re, gli altri dai più prestigiosi guerrieri del regno. Prima della partenza i diciassette aurighi brindano con del vino, sur , da auree coppe, mentre i brahmani libano con il soma. La gara ha inizio in direzione del movimento apparente del soleś il Re sta all’interno e gli altri sedici concorrenti all’esterno del recinto che circonda il dromos. Il vincitore, quindi, non può non essere il Re. Conclusa la gara, il purohita fa innalzare un palo tra i due yūpa già presenti sul terreno di gara, su cui fa fissare in alto una ruota di carro, alla maniera di un albero di Cuccagna delle feste agresti europee. A questo terzo palo è appoggiata una scala, su cui s’arrampica il vincitore tenendo per mano la Regina. Il Re pronuncia dunque la fatidica formulaŚ “Moglie vieni, saliamo in cielo!” a cui la Regina rispondeŚ “Orsù, saliamo!” raggiunta la sommità del palo il Re esclamaŚ “Tutti e due stiamo salendo in cielo!” Infine, sporgendo il capo al di sopra della ruota egli dichiaraŚ “Abbiamo raggiunto il cielo, abbiamo visti gli dei, siamo diventati immortali!”29. A conclusione del rituale il sacerdote principale, menzionando il nome del nuovo Imperatore, per tre volte grideràŚ “Il tal dei tali è ora samr t!” Il v japeya è dunque un rituale carico di simboli e significati che ci consentono di comprendere meglio la nuova dignità imperiale del Sovrano. Una delle chiavi di lettura per interpretarne il significato principale è l’ossessiva presenza del numero diciassette che si ripete nel corso di ogni fase del v japeya. Questo numero è la somma del dodici e del cinque: il primo rappresenta il tempo impiegato dal sole per attraversare le dodici case zodiacali nel corso del ciclo annuale. Il secondo, invece, rappresenta l’intera estensione della terra contenuta dai quattro punti cardinali, più il centro. Chi compie il sacrificio v japeya, dunque, s’impadronisce del dominio compreso tra le coordinate di tempo e spazio. Se il sole, nel suo viaggio lungo il piano dell’eclittica, determina lo scorrere dei mesi, è sempre lo stesso astro, con i suoi due solstizi e i due equinozi, a fissare i punti cardinali. Il samr t, a conclusione del rito, s’identifica perciò al sole30, stabilendosi nel punto centrale di questa sfera armillare. Signore dello spazio e del tempo, egli potrà, quindi, a buon diritto affermareŚ “Siamo diventati immortali!”31. La stessa corsa dei carri simboleggia il percorso annuo del sole nella fascia zodiacale, rasi cakra, lungo il piano dell’eclittica, quest’ultima rappresentata dalla forma del dromos. I sedici nobili concorrenti personificano i dodici mesi e i quattro punti cardinali, mentre il Re, che corre avvantaggiato all’interno del recinto del dromos, s’identifica al centro. Dopo la corsa dei carri, il Sovrano è dotato dei dodici gioielli, di cui la regina è il primo, seguito dal ministro, dal generale, dal suo cavallo, dall’elefante e così via32. Il sole diventa il suo simbolo d’Imperio, e al suo nome è aggiunto il titolo di Simha, leone, il re degli animali. A questo punto si possono trarre le differenze tra il samr t e un Re qualunque. Quest’ultimo ha ricevuto un’iniziazione che gli permette d’impadronirsi degli strumenti offerti dall’artha, per rendere giusto, pacifico, potente e prospero il proprio regno. Man mano che questo ideale politico viene a realizzarsi, il Re si purifica perseguendo la virtù e l’amore della verità. Il suo regno e i suoi sudditi già compiuto il v japeya senza ancora essere Re, egli è tenuto a regolarizzare la sua posizione compiendo il r jasūya. val yana rauta Sūtra, IX, 9, 19. Probabilmente ciò comprende il caso di generali vincitori proclamati Imperatori dal loro esercito. 29 Taittirīya Samhit , I, 7, 9, 2. V jasaneyi Samhit , IX, 21. 30 La solarità del Re è simboleggiata dai dodici gioielli di cui s’adorna. 31 Nella tradizione brahmanica con immortalità, amrta, non s’intende la longevità, cirajīva, che eccezionalmente può essere raggiunta operando uno yoga tantrico o l’alchimia, rasa vidy . Altrimenti l’immortalità consiste nella certezza, ritualmente garantita, di raggiungere il cielo, svarga, nel post mortem. 32 G. G. Filippi, “Cakravartin”Ś mithyc and historical symbols, cit., pp. 129-130. 5 sono coinvolti in questo processo di perfezionamento, godendo gli effetti positivi di una situazione che si fa sempre più armonica. Un sovrano così virtuoso, la cui virtù è resa palese dalla felicità in cui versa il suo regno, meriterà che gli sia offerta dalla casta sacerdotale l’elevazione a Imperatore. Si può, però, notare che il Re, diventato samr t, è solamente virtualmente a capo d’un Impero. Di fatto egli rimane signore del medesimo territorio di quando era un semplice r j . Il samr t, durante il rito v japeya, ottiene dal purohita33 una iniziazione superiore, con il fine di realizzare al di là dell’artha, il dharma34. Si tratta dunque di perseguire un ideale più elevato, che si potrebbe descrivere come l’abbandono della sfera semplicemente politica per abbracciare un orizzonte più universale che definiremmo, seguendo Coomaraswamy, l’esercizio del Potere temporale35. È dunque in seguito al v japeya che il Sovrano può dedicarsi a una visione cosmica della sua alta funzione. Per usare un linguaggio preso in prestito dallo yoga, il Re che ha ricevuto l’iniziazione per essere Imperatore, percorrendo il nuovo sentiero che gli si apre davanti, deve realizzare progressivamente tutti i poteri, siddhi, e le conoscenze, vidy , che gli si parano innanzi. Allorquando il cakravartin ha concluso fino in fondo la sua realizzazione spirituale, irraggiandone abbondantemente gli effetti sul suo regno e sui regni confinanti, i sacerdoti lo preparano per l’ultimo riconoscimento pubblico e storico della sua santità36. Questa volta il purohita lo proporrà per il sacrificio del cavallo, a vamedha, il più solenne rito vedico accessibile ai guerrieri37. La durata del sacrificio è di un anno intero. Per prima cosa è selezionato uno stallone bianco fornito di alcuni segni fisici che lo indicano come predestinato a questo fine. La maggioranza dei testi richiede che il cavallo porti sulla fronte sei circoli di pelo più scuro, a rappresentare le stelle delle Pleiadi, krttik 38. L’importanza di questa costellazione risiede nel fatto che, all’epoca in cui fu elaborato questo rituale antichissimo39, doveva essere il punto vernale in cui il sole sorgeva40, come si ricava chiaramente dal testo che segue: Om. La testa del cavallo sacrificale è l’aurora, il sole è il suo occhio, l’aria il suo respiro, quel fuoco chiamato vai v nara è la sua bocca aperta, l’anno è il suo corpo. Il cielo è la sua groppa, l’atmosfera il suo addome, la terra il suo zoccolo, i punti cardinali i garretti e i suoi fianchi i punti intermedi, le stagioni le sue membra, i mesi lunari e le mezze lunazioni le sue articolazioni, i giorni e le notti le sue zampe, le costellazioni i suoi ossi, le nubi la sua carne, il suo cibo digerito è la sabbia, le sue vene i fiumi, il suo fegato e la sua cistifellea sono i monti, erba e alberi il suo pelo. Il sole che sorge è la sua parte frontale, il sole al tramonto è il suo posteriore. Quando sbadiglia, lampeggia, quando sbuffa, tuona, quando orina, piove; il 41 suo nitrito è V c” . 33 In questo caso il purohita deve essere un adhvaryu, sacerdote yajurvedico di alto livello. Questa è la ragione per cui il cakravartin può essere anche definito dharmar j . Poiché questo è il principale appellativo di Yama, Re dei defunti, giudice dei morti e dio della morte, a questo titolo si attribuisce prevalentemente la virtù della Giustizia. 35 A. K. Coomaraswamy, Spiritual Authority and Temporal Power in the Indian Theory of Government, American Oriental Society, New Haven 1942. 36 Come si può notare, oltre alle peculiarità della sua casta guerriera d’origine, l’Imperatore sviluppa anche caratteristiche sacerdotali. 37 I riti vedici si dividono in due categorie: dv da ha, in cui l’offerente può appartenere a una delle tre caste superiori, e sattra, riservati ai soli brahmani. 38 Costellazione composta da sei stelle che fecero da nutrici a Skanda, dio della guerra e protettore degli ksatriya. Si trova all’interno della costellazione del Toro, in India nota come mrga, l’antilope, o mahīsa, il bufalo. Vedremo di seguito l’importanza di questi termini nel sacrificio del cavallo. 39 Alcuni testi, invero assai antichi, considerano il sacrificio del cavallo un rito arcaico già caduto in disuso, utsanna. TS, V, 4, 12, 3; B, XIII, 3, 3, 6. 40 Il punto vernale in Toro ci porta addirittura a un’epoca attorno al 4000 a. C. 41 Brhad ranyaka-upanisad, I, 1, 1. 34 6 Il testo upanisadico qui proposto ha anche una grande importanza per comprendere quali dovevano essere gli scopi dell’a vamedha. La vittima del sacrificio, che, nella dottrina del rituale vedico, s’identifica al sacrificatore, al samr t medesimo, assume dimensioni cosmiche, facendo coincidere non più solamente per analogia, ma effettivamente il microcosmo con il Macrocosmo. Nel corso del lungo sacrificio, dunque, il samr t subirà un processo di universalizzazione e di totalizzazione che gli permetterà di superare di gran lunga i confini spaziali e temporali del suo stato, per impadronirsi e identificarsi all’intero perenne universo. Veniamo dunque a un breve sunto di ciò che accade in questo fatidico anno: dopo i riti di lustrazione e unzione regale del cavallo, che ripercorrono quanto già compiuto durante il r jasūya, si avvicina all’area sacrificale un cane con quattro occhi. Si tratta di uno di quei cani che, sopra gli occhi, portano due macchie più chiare come sopraccigli. Quest’animale rappresenta sulla terra uno dei cani infernali s rameya, provvisti di quattro occhi con cui tengono sotto controllo i quattro punti cardinali, per impedire ai morti di fuggire nel mondo dei viventi e ai vivi di violare il regno dei defunti42. Il cavallo è condotto nel mezzo di un torrente e lì il cane è ucciso con un colpo di mazza. La carcassa dell’animale, poi, è fatta galleggiare con la corrente attraverso le zampe del cavallo. Ciò riassume il superamento della morte e il raggiungimento dell’immortalità che il Re ottenne durante il v japeya. A questo punto l’identificazione dell’Imperatore con la vittima sacrificale è ritualmente compiuta. Il cavallo, scortato da quattrocento guerrieri, sarà spinto per sei mesi verso nord. Tutti i regni che dovessero essere attraversati dal piccolo esercito dovranno riconoscersi spontaneamente vassalli del cakravartin, o essere obbligati a diventarlo con la forza. Infatti nel corso dell’anno almeno dodici Re che già abbiano compiuto il r jasūya devono accettarlo come loro Imperatore e diventare suoi discepoli43. Allo scadere dei sei mesi, il cavallo è sospinto verso sud e in altri sei mesi si ritroverà nei pressi dell’area sacrificale. Con ogni evidenza il quasi libero girovagare della vittima designata verso nord e verso sud rappresenta il viaggio annuale del sole compreso tra il solstizio del cancro, kūrma e quello del capricorno, makara44. Il cakravartin sarà allora sottoposto a un’altra sessione iniziatica che lo renderà identico non più agli déi, come nel v japeya, ma alla divinità suprema, Praj pati45: Egli desideròŚ “Possa questo corpo essere sacrificato al mio posto: per suo tramite possa io raggiungere il Sé”46 poiché ciò lo permeava47, a vat, allora divenne un cavallo, a va; e dato che divenne oggetto di sacrificio, medhya, questo sacrificio del cavallo è detto a vamedha. Chi concepisce così l’idea dell’a vamedha conosce la verità. Costui decise di lasciarlo libero e, alla fine di un anno, lo sacrificò al suo Sé. Dedicò le altre vittime agli déi. Per questa ragione queste ultime si dedicano a tutti gli déi, mentre la vittima consacrata si sacrifica a Praj pati. [Il sole] che brilla lassù è l’a vamedha il cui corpo è l’anno. Il fuoco sacrificale di quaggiù è Arka48 e le sue membra 42 Anche Cerbero e Argo, i cani inferi della religione greco-romana è provvisto di innumerevoli occhi per le medesime esigenze. 43 Questo rapporto di guru- iksa è un indizio chiaro dell’andamento rituale di queste conquiste. Dalle narrazioni, sia mitiche sia storiche, che riguardano queste spedizioni nel corso dell’a vamedha non si trae alcuna traccia di resistenza armata da parte di altri Re, con l’eccezione di casi in cui l’esercito imperiale si è trovato ad affrontare popolazioni tribali o barbare che non erano in grado di riconoscere la statura spirituale del cakravartin. L’episodio storicamente più celebre concerne l’a vamedha celebrato da Pusyamitra unga (187 a. C. circa). I Greci di Bactriana rapirono il cavalloś l’Imperatore dovette recuperare il cavallo assoggettando i nemici e quindi portare a termine il sacrificio. A. Danélou, Histoire de l’Inde, Fayard, Paris 1971, vol. III, p. 2. 44 Il Cancro, come segno zodiacale, in India è rappresentato dalla testuggine, anch’esso animale marino come il granchio e ricoperto di un carapaceś il Capricorno, che nell’astronomia greca è un capro con coda di delfino, è qui invece sostituito da un coccodrillo con le zampe da capro. 45 pastamba-kalpasūtra, XX, 7, 14-16. 46 La divinità suprema presente nell’intimo di ogni essere, nel linguaggio upanisadico. 47 I pr na, gli spiriti vitali. 48 Il fuoco che arde nel sole. 7 sono questi mondi. Così questi due [il fuoco e il sole] sono l’Arka e l’a vamedha. Questi due diventano un unico dio: la Morte49. Chi conosce ciò vince le molteplici morti, la Morte non lo coglie50, la Morte diventa il suo Sé ed egli s’identifica con questa divinità”51. Seguono dieci giorni d’istruzione iniziatica che l’adhvaryu impartisce all’ImperatoreŚ nel primo giorno, gli è spiegato che egli è Manu tra gli uomini; nel secondo, che tra gli antenati è Yama; nel terzo, che egli è Varuna tra i gandharva52; nel quarto, che è Soma tra le apsaras53; nel quinto, che è Arbuda K draveya tra i serpenti54; nel sesto, che è Kubera tra i r ksasa,55 nel settimo, che egli è Asita Dh nvana tra gli asura56; nell’ottavo, che è Matsya S mada tra i pesciś nel nono, che è T rksya57 tra gli uccelli; infine il decimo giorno, gli si comunica che egli è Indra tra gli déi58. L’impero del samr t si estende dunque ben al di là della terra, per comprendere tutti i mondi dell’intero universo. Dopo di ciò si potrà procedere con gli ultimi riti dell’a vamedha. Nell’area sacrificale sono eretti trentaquattro yūpa, a cui saranno in seguito legati gli altri animali. In totale il numero di vittime sacrificali supera il migliaio, tutti rappresentanti di specie diverse appartenenti ai tre regni, degli uccelli, degli animali di superficie e dei rettili. In realtà gli animali selvatici, mrga, colpiti alla nuca da un bastoncello, sono poi lasciati liberi di ritornare alla natura, mentre solamente trentaquattro animali domestici, pa u, saranno uccisi. Anche il cavallo, unto e accarezzato dalle quattro mogli del Sovrano, ricoperto dalla veste brahmanica t rpya, color della porpora e tempestata di stelle, è condotto e legato allo yūpa principale. Quindi è strangolato con un lembo dello stesso abito59. Il cavallo muore, dunque, avvolto dal cielo stellato e assicurato con una cavezza all’axis mundi. Lo spirito del cavallo, presa la forma d’un grande uccello, un’aquila, o di un pegaso, vola quindi in cielo seguendo l’asse del mondo rappresentata dallo yūpa60. Il volo celeste dello spirito del cavallo, ovvero dello stesso cakravartin, abbandonando la cintura zodiacale, lo conduce a una situazione polare. Qui l’Imperatore finalmente si trova nel mozzo vuoto e immobile della ruota, intorno a cui vortica la sfera del divenire. Per questa ragione i gioielli che rappresentano il potere imperiale non sono più dodici come i segni zodiacali, ma sette, come le stelle dell’Orsa. Questi gioielli sonoŚ il cakra, la ruota, arma da lancio di forma circolare, dal bordo affilato;61 la Regina, mahīsī, simbolo del potere 49 Per comprendere perché la Morte sia la divinità suprema v. G. G. Filippi, Note sul terrore della morte, in G.Marchianò (a cura di), Elémire Zolla dalla morte alla vita, Viátor, Nuova serie monografica, IX, 2005/2006, pp 51-60. 50 Per la differenza tra le molteplici morti e la Morte v. G. G. Filippi, Dialogo di Naciketas con la Morte: Taittirīyabr hmana, III.11.8 - Katha-upanisad, Cafoscarina, Venezia 2001, pp. 26-32. 51 BU, I, 1, p. 7. Non si deve dimenticare che il dio della Morte è detto dharmar j , uno dei titoli del cakravartin. 52 Geni atmosferici, musici degli déi. 53 Ninfe delle acque. 54 Geni sotterranei. 55 Demoni guardiani dei tesori. 56 Antidéi, titani. 57 Il re degli uccelli, nel Rgveda, è descritto talvolta come un uccello gigantesco, identificato a Garutman, il Garuda della letteratura classica sanscrita. Altre volte appare come un bianco cavallo alato che traina il carro solare. RV, I, 89, 6; X, 178, 1; VII, 77, 3; Kausitakī Br hmana, XXX, 5. Come si vedrà subito di seguito, l’assimilazione pegaso-uccello è di grande rilevanza nella conclusione del sacrificio del cavallo. 58 Nel mito, la gelosia e il timore di essere spodestato spingono spesso Indra a sabotare i riti di a vamedha. 59 A differenza del sacrificio con versamento di sangue, che rappresenta una morte innaturale, o morte cattiva, lo strangolamento rappresenta simbolicamente la morte naturale. Infatti, ogni essere vivente muore soffocato, esalando l’ultimo respiro, e incapace di effettuare una ulteriore inspirazione. Per questa ragione Yama, dio della morte, è armato di un cappio, p a. G. G. Filippi, Mrtyu: the concept of Death in Indian Traditions, II revised ed., DK Printworld, New Delhi, 2005, pp 99-117. 60 “Chi era stato il grande uccello?” – “Il grande uccello, di certo, era stato il cavallo”. B, XIII, 2, 6, p. 15. 61 O. H. de A. Wijesekara, Discoid Weapon in Ancient India, Adyar Library Bulletin, Madras , 1961, p. 25. 8 terreno; il parasole, chattra, che rappresenta l’emisfero boreale celesteś l’aquila Garuda, Re degli esseri volanti e cavalcatura di Visnu; l’elefante, gaja, che rappresenta la fissità della terra; la spada, khadga, segno di giustizia e di potere; la pietra preziosa, mani, che rappresenta l’abbondanza e la ricchezza garantita a tutto l’Impero62. La morte del cavallo-Imperatore, rappresenta il superamento di ogni condizionamento cosmico e l’identificazione reale con la vita eterna. La prima Regina63, quindi, è condotta sotto al t rpya, a giacere con il cadavere del cavallo per mimare con lui un rapporto sessuale. Dato che il povero cavallo non è in grado di reagire, la situazione è caricata d’erotismo per mezzo di un dialogo osceno che intercorre tra la mahīsī e l’adhvaryu. Anche le altre tre Regine intervengono, aggiungendo a voce particolari osceni, in modo da sostituire una sessualità impossibile con un ambiente psicologicamente saturo di orgasmo. Lo scopo è ottenere la discesa del seme dello stallone celeste per fecondare di grazie spirituali la Regina, ossia l’Impero stesso, l’intero cosmo. Infine il sacrificio del cavallo si conclude con la cottura della carne e la sua divisione tra i popolani presenti. Non pochi cakravarti decisero di abdicare per potersi infine dedicare esclusivamente alla contemplazione, scegliendo la vita anacoretica che fece di loro dei r j -rsi. Morissero da asceti, o finissero la loro vita ancora da sovrani, i cakravarti erano cremati e per loro era costruito un monumento funebre particolare, lo stūpa, a base quadra come la terra e con la copertura emisferica come il cielo64. Con l’andare dei secoli molti di questi monumenti, disseminati nelle pianure dell’India, furono considerati dagli abitanti la dimora di un antenato totemico o di un genius loci. Il Buddha, quando si trovava morente nei pressi di Ku inagara, scelse come sua sepoltura lo stūpa, come s’usava per “gli antichi cakravarti”. Ben presto lo stūpa divenne il monumento principale del Buddhismo, e molti degli antichi reliquiari dei cakravarti furono restaurati e abbelliti, e considerati edifici religiosi della nuova religione65. Come si può evincere da quanto sopra esposto, la concezione indiana d’Impero è prevalentemente spiritualeŚ l’Imperatore stesso, innalzandosi dallo stato di semplice Re, assume carismi che riguardano la santità e la virtù, piuttosto che il potere terreno. Si può dire che, come il brahmano per sua natura è indotto a superare il suo stato sociale66, per assumere l’abito del rinunciante, dell’anacoreta e dell’asceta, così il r jan ambisce a diventare un samr t. Per questa ragione non è necessario che l’Imperatore conquisti effettivamente in modo capillare l’intero globo terracqueo, come fu tentato da Alessandro o da Gingis Khan67. L’importante è il riconoscimento unanime della dignità di cakravartin da parte dei brahmani dell’India, e la sottomissione formale di almeno dodici G. G. Filippi 1991, cit. 131-135. Sull’iconografia del cakravartin di Jaggayyapeta, v. Heinrich Zimmer, The Art of Indian Asia, Princeton University Press, Princeton, 1955, pp. 245-246. 63 La religione brahmanica è strettamente monogama. Fanno eccezione le regole matrimoniali che concernono i Re, per motivi evidentemente dinastici: le Regine concesse ai sovrani sono quattro, gerarchicamente distinte tra loro. La prima Regina è quella più importante dal punto di vista delle alleanze che comporta. Questa Regina ha il titolo di mahīsī, la bufala, e rappresenta l’estensione del regno. Un Re non sposato è equiparato a un Re privo del territorio, o un Re esiliato. Il bufalo, cavalcatura di Yama, ripropone qui il tema della morte iniziatica e del titolo di dharmar j . G. G. Filippi, On some sacrificial features of the Mahīsamardinī”, in “Annali di Ca’ Foscari”, XXXII, 3 (SO 24), Venezia, 1993, pp. 173-182. La seconda è la Regina più giovane e bella, la terza Regina è quella che è stata scalzata dal secondo posto, la quarta Regina appartiene alla famiglia meno illustre. 64 G. G. Filippi, Conservazione delle ceneri umane nell’India tradizionale. La dottrina del resto, in Francesco Remotti (a cura di), Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Paravia Bruno Mondatori, Milano 2006, pp. 316-319. 65 G. G. Filippi, R japūt influences in the Chaukhandi Graveyards, in “Asiatica Venetiana”, n° 4, 1999, pp. 84-85. 66 L’ideale per un brahmano è diventare ativarn rami, ossia chi ha superato le caste e le età dell’uomo, santo superiore agli stessi déi. 67 Anche fosse, mancherebbero sempre all’Impero i mondi superi e inferi, impossibili da conquistare con le armi. Sono comunque interessanti le leggende che raccontano i tentativi di questi due grandi Imperatori del passato di conquistare gli inferi, descritti come un mondo sotterraneo. 62 9 Re vassalli. L’estrema decadenza dell’umanità, l’ignoranza e la matta bestialità che ne conseguono, spiegano perché barbari, mleccha, e selvaggi, vanyaj ti, non abbiano la capacità intellettuale e la purezza spirituale per riconoscere un Signore universale. Il non riconoscimento da parte loro, dunque, non inficia in nulla la realtà del s mr jiya. Con grande senso pratico, i commentari tradizionali dei testi sacri s’impegnarono a definire le dimensioni del dominio territoriale dell’Impero, cakravartiksetra: all’inizio si sostenne che questo territorio doveva estendersi all’intero Jambudvīpa, che anticamente rappresentava la totalità delle attuali terre emerse68. Presto però Jambudvīpa divenne sinonimo di Bh ratavarsa, ossia l’India compresa tra l’Him laya e l’oceano, ad esclusione, perciò dell’India esterna.69. Durante il regno di Gautamīputra takarni della dinastia tav hana (106-130 d. C.) il cakravartiksetra si era ulteriormente ridotto a un’area che poteva comprendere o l’India settentrionale dall’Him laya ai Vindya, o il solo Deccan70.Come sopra si è accennato, l’indiscussa santità e saggezza di un Sovrano, divulgate ovunque e sostenute dalla casta sacerdotale, inducevano facilmente dei Re pii a riconoscerne la superiorità morale e ad accettarlo come proprio Imperatore; ciò era facilitato dalla modestia del tributo di vassallaggio che, in certi casi, poteva ridursi a un gesto simbolico, come, per esempio, la consegna d’una vacca all’anno. Alcune volte però il fascino di un Imperatore saggio, eccellente nella filosofia, nella letteratura e musica, abile nell’arte di governo e della guerra, e fautore di una rinascita nel benessere e nella cultura, come fu il caso di Samudragupta della dinastia Gupta (335-380 d. C.), riuscì a indurre varie decine di r j a implorare di diventare suoi vassalli, costituendo così un colossale Impero che copriva gran parte del Subcontinente e notevoli aree nel sudest asiatico. Si tratta di un caso unico, ma pur sempre la prova della possibile realizzazione storica dell’Impero ideale indiano. Per quello che riguarda i nomi dei samr t antichi, di cui si hanno informazioni esclusivamente da fonti mitiche ed epiche, essi sono: Marutta vīksita, otra, tithina, Brhadratha Vīra, Sivi Au īnara, Bharata Dausyanti, R macandra D arathi, Bhagīratha, Dilī Ailavila Khatv , M ndh tr Yauvan va, Yay ti N husa, Ambarīsa N bh gi, a abindu Caitraratha, Gaya mūrtarayasa, Rantideva S nkrti, Sagara Aiksv ku, Prthy Vainya.71 Fra tutti costoro il più celebrato è certamente R macandra figlio di Da aratha, poiché, prima ancora di essere un cakravartin, per tutti i fedeli dell’Induismo egli è il settimo avat ra, la settima discesa, di Visnu sulla terra, e il protagonista del poema epico R m yana72. Circa a metà del tret yuga, alla fine della lunga spedizione per liberare sua moglie Sīt , rapita da R vana, Re dei r ksasa, R ma ritornò sul trono del padre ad Ayodhy per poi fondare un Impero universale che si estese su tutta la terra abitata. La pace e la giustizia regnarono come mai, al punto che il nostro mondo non potè conoscere né prima né dopo di allora, una simile armonia. Durante la vita di R ma gli déi ripresero a frequentare la terra e avere rapporti d’amicizia con il genere umano. Anche gli animali godettero di questo clima edenico, e i carnivori divennero vegetariani, di modo che il leone e l’antilope fraternizzarono. Gli alberi e le piante tutte, spontaneamente producevano il cibo necessario per nutrire tutti gli esseri. Persino in demoni frequentavano i santi brahmani dell’India per imparare le virtù e la saggezza. Il mito di perfezione del r mar jya fu tale da oscurare persino l’età felice dell’inizio del mondo, quando regnava Manu, e divenne ideale e punto di riferimento per tutti i cakravarti storici. Uscendo nel mito per approdare alla storia, il più antico samr t ricordato nei documenti fu il già citato Pusyamitra della dinastia unga, che fu proclamato tale nel 187 a. C. Documentato è anche 68 D. Ch. Sircar, Cosmography and geography in early Indian literature, Indian Studies: Past & Present, Calcutta 1967, p. 19. 69 Vale a dire la Camboja, Java, Champa e altri territori hindū d’oltremare. P. V. Kane, op. cit., vol. I., p. 227. 70 D. Ch. Sircar, op. cit., p. 163. 71 J. W. Spellmann, Political Theory of Ancient India. A Study of Kingship from the earliest Times to circa a. D. 300, Clarendon Press, Oxford 1964, pp. 99-100. Per la verità questo ultimo sovrano, Prthy Vainya, compare esclusivamente nell’elencazione del Mah bh rata ed è del tutto ignorato dalla letteratura mitica. Forse si doveva aggiungere un diciassettesimo cakravartin per obbedire ai canoni del v japeya. 72 Alcune tradizioni, tuttavia, sostengono che ogni cakravartin è un avat ra parziale di Visnu. V yu Pur na, LVII, 72. 10 l’Impero universale di Sen nī K yapa-dvija (I sec. a. C.), e quello di Kh ravela, Re del Kalinga (I sec. a. C.- I sec. d. C.), che pone un problema storico, dato che questo monarca era jaina di religione, perciò, almeno teoricamente, contrario ai sacrifici di animali. Altri cakravarti che compirono l’a vamedha furonoŚ Bhavan ga della dinastia Bh ra iva (200 a. C. circa), e suo figlio Pravarasena I, fondatore della dinastia V k taka (250 a. C. circa). Dopo di loro divenne samr t il grande imperatore Samudragupta della dinastia Gupta (335-380 d. C.), di cui abbiamo già magnificato le doti, e l’ultimo grande sovrano della sua dinastia Skandagupta (450-467 d. C.). Caduto il grande impero Gupta, fu il Re Pallava Simhavarman che celebrò l’a vamedha a metà del VI sec. d. C., seguito dal rivale Pulake in I della dinastia C lukya (570 d. C. circa); all’inizio del VII secolo fu proclamato cakravartin Adityasena, discendente dai Gupta imperiali, e trent’anni dopo Svaskondavarman PallavaŚ alla fine dello stesso secolo Pulake in II C lukya eseguì un a vamedha, come, a metà dell’VIII sec. d. C., il re Visnukundin M dhavavarm della dinastia V k taka. L’ultimo riferimento storico a un cakravartin riguarda Anantavarman Chodagang Deva (1077–1147), Re del Kalinga, il fondatore del tempio di Jagann tha a Puri. Ci sono notizie di due altri Re che celebrarono l’a vamedha durante il tredicesimo secolo, ma si tratta di due sovrani giavanesi della dinastia rīvijaya73. Furono gli ultimi; dopo di loro non fu più sacrificato il cavallo. Vi fu un unico timido tentativo, quando nel 1674 si radunarono circa centomila brahmani nei pressi di Pune, per proclamare samr t il grande generale iv jī. Non si sa per quale ragione, dopo qualche titubanza, iv jī rifiutò il titolo imperialeś forse fu la ripugnanza per i sacrifici cruenti, che si era imposta nel corso dei secoliś forse qualche dubbio sollevato sull’ascendenza ksatriya del condottieroś forse un senso d’indegnità da parte sua, sta di fatto che l’a vamedha non fu eseguito. Fu invece allestito un rito v japeya abbreviato, che conferì a iv jī il titolo, invero molto significativo, di chattrapati, Signore del parasole74. Anche se non portato a termine per mezzo degli indispensabili riti sacrificali di v japeya e di avamedha, la dignità di cakravartin mantenne un prestigio ineguagliabile in India. I buddhisti, tenaci avversatori dei sacrifici di animali, tuttavia utilizzarono abusivamente questo titolo per celebrare la grandezza dei grandi monarchi appartenenti alla loro comunità. Così A oka, il grande sovrano della dinastia Maurya (304-232 a. C.), convertito al Buddhismo, è ricordato correntemente come un cakravartin. Non solamente in India il fascino del cakravartin ha profondamente influenzato i buddhisti: in Cina essi attribuirono questo titolo anche agli Imperatori della dinastia Tang, protettori del Buddhismo. In India, dopo che l’Impero Mughal si era radicato, soprattutto nelle pianure dei grandi fiumi settentrionali, i Sovrani musulmani elaborarono una vera e propria dottrina mistica relativa al loro dominio, per larghi versi simile a quella del s mr jiya75. Il carisma imperiale era ancora così vivo tra i prìncipi r japūta del XVI, XVII e XVIII secolo che essi attribuirono all’Imperatore musulmano di Delhi e Agra il titolo di dharmar j 76. in questo modo lo riconobbero come loro Imperatore legittimo. Certo, considerazioni di questo genere dovettero consigliare il governo britannico ad attribuire il titolo di Imperatrice delle Indie alla regina Vittoria, quando, dopo aver soffocato nel sangue il Mutiny del 1857-58, sollevarono dal trono l’ultimo Grande mughal. La manovra politica dei britannici non ottenne tutto il successo che si poteva aspettare; tuttavia, dopo qualche anno di indecisione, i prìncipi sovrani dell’India, fossero nawab e amir musulmani, o fossero r j e mah r j hindū, ossequienti al mito imperiale, strinsero dei legami di fedeltà con la corona britannica, che li portò a diventare il nerbo delle armate britanniche durante i due conflitti mondiali. Diversamente si 73 H. B. Sarkar, Cultural Relations between India and Southern Asian Countries, ICCR- Motilal Manarsidass, Dehli 1985, pp. 256-257. 74 A. Daniélou, Storia dell’India, Roma, Ubaldini Ed., 1984 (I ed. Paris, Arthème Fayard, 1971), p. 244. 75 V. il contributo di Thomas Dänhardt in questo stesso volume. 76 Probabilmente questi prìncipi ebbero il pudore di non attribuire il titolo maggiore di cakravartin o di samr t avendo piena consapevolezza che l’Imperatore musulmano non poteva compiere il sacrificio del cavallo. 11 comportarono le emergenti classi borghesi dell’India, che s’esprimevano per mezzo del Partito del Congresso. Pur essendo un partito ampiamente controllato dai britannici, molti suoi aderenti di grande prestigio manifestavano la loro intolleranza nei confronti del colonialismo inglese. Tra essi Bal Gangadhar Tilak (1856-1920), noto come Lokamanya, gloria del mondo, che all’inizio del XX secolo proclamò, come discendente da una famiglia di brahmani citp van, di essere in grado di ungere un cakravartin. Egli vedeva il riscatto dell’India possibile solamente ritornando all’ideale del r mar jya e alla figura di un cakravartin che potesse cacciare gli inglesi dal suolo dell’India77. Tilak predicava perciò lo sv r jya nel senso di Impero autocratico, a differenza dei suoi compagni di partito, che davano a questo termine il senso di indipendenza. Tilak fu facilmente neutralizzato dal raj britannico con una lunga incarcerazione. Nel frattempo nel Congresso prevaleva la frangia moderata della cosiddetta “opposizione lealista” agli inglesi di Gokhale e Annie Besant, che avrebbe aperto la strada a Gandhi. Quest’ultimo statista non fu del tutto insensibile al mito del cakravartin. A lui si deve la scelta dei simboli della nuova India indipendente: la ruota del cakravartin al centro della bandiera e il capitello con i quattro leoni di Saranath, simbolo del Sovrano universale. Con questi simboli, certamente s’intendeva dare un messaggio, più alla popolazione dell’India che non al resto del mondo, per sottolineare un ideale senso di continuità con il passato. Forse si deve alla sua scarsa conoscenza della religione tradizionale il fatto per cui furono scelti simboli non appartenenti all’Induismo, bensì al Buddhismo: il cakra della bandiera, invece di rappresentare l’arma del samr t78 è la ruota buddhista del dharmacakra, tratto dallo stūpa buddhista n. 1 di Sanchi; e il capitello di Saranath è uno dei pochi del genere sicuramente attribuibile all’imperatore buddhista A oka79. Un altro segno di un certo interesse per la sovranità universale fu lanciato da Gandhi in occasione dell’abrogazione del Califfato da parte di Kemal Atatürk; egli sostenne con energia le agitazioni organizzate in India dal movimento islamico di protesta intitolato alla Khilafat. D’altra parte però Gandhi contribuì in modo definitivo all’alterazione del senso dei termini politici sanscriti, a cui furono attribuiti significati appartenenti alla cultura europea. Con lui sv r jiya perse per sempre il senso di Impero universale, per convertirsi nel concetto d’indipendenza, se non addirittura per ridursi al modesto significato di autonomia80. La maggioranza del partito del Congresso, invece, mostrò indifferenza ai simboli del passato, nehruvianamente affascinati dalle sirene della terza internazionale. Al social-nazionalismo di questa maggioranza del Congresso fece da contrappeso tutta una costellazione di movimenti e partiti nazionalisti e socialisti, a tendenze più fasciste che fondamentaliste. L’utilizzo delle glorie del passato in funzione politica del R strīya Svayamaevak Sangha e del Jana Sangha, in realtà, allontanò i loro attivisti dagli ideali di ordine e armonia, di pace e giustizia tipici dell’ideale imperiale. Solamente dal 1948 al 1962 un movimento politico-religioso, il R ma R jiya Parisad, fortemente antinazionalista e antisocialista e ispirato da ambienti brahmanici, ebbe una parabola di successo nel panorama politico indiano. Da quel momento in poi la politica indiana fu dominata dalle tendenze antireligiose del Congresso e quelle neo-hindū del Bh ratīya Janat Party. Ciò non toglie che ambizioni più imperialiste che imperiali, di tanto in tanto affiorino in India, indipendentemente dal fatto che al governo ci sia una coalizione di destra o di sinistra. L’intervento a Goa nel 1961, le guerre con il Pakistan del 1947, 1965 e del 1971, l’annessione del Sikkim nel 1975, spesso mascherate da rivendicazioni anticoloniali, stanno a dimostrazione di un’aspirazione d’egemonia e di dominio nell’area dell’Asia meridionale. I successi cinesi dal 1949 a oggi, l’invasione del Tibet e il recente protettorato del Nepal, che mette 77 M. Edwardes, A History of India, Thames and Hudson, London 1961, VI, 4, p. 2 O. H. de A. Wijesekara, The Symbolism of the Wheel in the Cakravartin concept, in A. S. Altekar (ed.), Felicitation Volume presented to Prof. Sripad Krishna Belvalkar, M. B. Dass Pbls., Varanasi 1957, pp. 262267. 79 John Irwin, The stupa and the Cosmic Axis: the archaeological evidence, in M. Taddei (ed.), South Asian Archaeology, vol. V, Neaples, 1979. 80 Per l’alterazione in hindī del significato dei termini politici sanscriti operato nel periodo tra le due guerre mondiali v. G. G. Filippi, Precisazioni storiche sull’origine della poetica romantica hindī, in “Annali di Ca' Foscari”, XLVI, 3 (SO 38), 2007, pp. 165-199. 78 12 fuori gioco l’Unione Indiana (che aveva sempre manifestato le sue intenzioni sul piccolo regno himalayano)ś l’annessione cinese della parte settentrionale del Kashmir81; e, per ultime, le pretese della Cina Popolare sullo stato indiano dell’Arunachal Pradesh, annunciate nel 2008, senza che il governo indiano reagisse minimamente, mettono in evidenza un complesso d’inferiorità verso il potente vicino asiatico. Certamente il nuovo boom economico indiano, più lento ma più sicuro di quello cinese, sta diventando il nuovo terreno del contendere. E, da quanto si può notare dall’osservatorio europeo, su questo terreno l’India potrà soddisfare con successo molte delle sue ambizioni imperialistiche. Il governo indiano, che ha sempre protestato a buon diritto per l’invasione pakistana di una parte importante del Kashmir, tende a mettere la sordina sull’occupazione cinese dello stesso territorio. 81 13 BIBLIOGRAFIA: - A. K. COOMARASWAMY, Spiritual Authority and Temporal Power in the Indian Theory of Government, in American Oriental Society, New Haven, 1942. - Alain DANELOU, Histoire de l’Inde, Paris, éd. Fayard, 1971. - Paul Émile DUMONT, L’A vamedha. Déscription du sacrifice solemnel du cheval dans le culte vêdique, Paris-Louvain, Paul Geuthner, 1927. - M. EDWARDES, A History of India, London, Thames and Hudson, 1961. - G. G. FILIPPI, “Cakravartin: mithyc and historical symbols,” in Annali di Ca’ Foscari, XXX, 3, S. O. 22, Venezia 1991. - G. G. FILIPPI, “On some sacrificial features of the Mahīsamardinī”, in Annali di Ca’ Foscari, XXXII, 3 (SO 24), Venezia, 1993. - G. G. FILIPPI, “Rajput influences in the Chaukhandi Graveyards”, in Asiatica Venetiana, n° 4, Venezia, 1999. - G. G. 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