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Culti gentilizi, culti degli antenati

2008, Scienze dell’antichità. Storia archeologia antropologia

Sacra gentilicia are a main evidence of gentes’ originary autonomy within the civitas. An analysis of the sources about several cults held by main gentes in Republican age confirms the internal charachter of the gentilician cult, often strenghtened by myths about origins of the rituals going back to the oldest stage of the roman religious tradition. Nevertheless any attempt to include funerary rites among the gentilician cult should be refused, since they commemorate the defunct ancestors, and only the agnates, but don’t purpose to ensure the union of the various families bearing the same nomen gentilicium. Informations about gentilician burials should be compared with those about distinguished subjects of republican history buried inside the pomerium. Such analysis may help to solve open questions about the problems of sacred urban space, relationships between pomerium and Urbs and the various ways of urban space occupation.

SCIENZE DELL’ANTICHITÀ STORIA ARCHEOLOGIA ANTROPOLOGIA 14/2 (2007-2008) UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA» DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE ARCHEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELL’ANTICHITÀ Direttore responsabile Gilda Bartoloni Direzione M. Barbanera, B.E. Barich, G. Bartoloni, G.M. Forni, G.L. Gregori, M. Liverani, P. Matthiae, L. Michetti, L. Nigro, C. Panella Segretaria di redazione I. Brancoli Verger UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA» ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE SEPOLTI TRA I VIVI BURIED AMONG THE LIVING EVIDENZA ED INTERPRETAZIONE DI CONTESTI FUNERARI IN ABITATO Roma, 26-29 Aprile 2006 A cura di Gilda Bartoloni e M. Gilda Benedettini MARIO FIORENTINI CULTI GENTILIZI, CULTI DEGLI ANTENATI 1. Qualche osservazione preliminare – L’argomento di questo contributo è di grande interesse, ma anche difficile da sintetizzare in uno spazio limitato. Parlando di culti gentilizi la prima domanda da porsi è: cos’era la gens? La costante attenzione di storici e giuristi verso questa struttura sociale e giuridica, che informa di sé una parte non piccola della storia monarchica e repubblicana di Roma, è motivata dalla possibilità di capire come si formi un organismo complesso a partire da aggregazioni più modeste, e dalla qualità delle fonti che, per la loro lacunosità e laconicità, sollecitano la speculazione e la passione combinatoria degli studiosi. Se si aggiunge che non pochi istituti di diritto privato (tutela degli impuberi, successione ab intestato, gestione della terra) e pubblico (curie, plebe, clientela) sono coinvolti nei problemi di organizzazione della gens, e che essa si situa sullo spartiacque tra discipline diverse, diritto pubblico e privato, studi storico-religiosi, analisi, anche comparativa, delle società e delle economie antiche, e perfino filosofia politica (per quanto attiene all’origine della proprietà e dello stato), la continuità di questo interesse risulta pienamente giustificata. Ma qui sorge subito una difficoltà, perché le fonti che la definiscono sono tutte molto tarde, al massimo del I secolo a.C.: quella di Q. Mucio Scevola ricordata da Cicerone, Top., 29: «Gentiles sunt inter se qui eodem nomine sunt. Non est satis. Qui ab ingenuis oriundi sunt. Ne id quidem satis est. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Abest etiam nunc. Qui capite non sunt deminuti. Hoc fortasse satis est. Nihil enim video Scaevolam pontificem ad hanc definitionem addidisse»; e quella di L. Cincio conservataci in un lemma dell’epitome di Paolo Diacono, gentilis, 83 L.: «Gentilis dicitur et ex eodem genere ortus et is qui simili nomine appellatur, ut ait Cincius (fr. 21 Hu.): «Gentiles mihi sunt qui meo nomine appellantur». Entrambe, con accenti vari, sottolineano la comunanza del nomen, che ovviamente implica la discendenza di coloro che «eodem nomine sunt» da un capostipite comune1. Ma a noi questa definizione non basta: si tratta di un semplice rapporto di parentela, qualitativamente analogo alla familia communi iure di cui parla Ulpiano in una definizione conservata in D. 50, 16, 195, 2, o di 1 Sul nomen gentilicium, con accenti diversi, cfr. COLONNA 1977A, pp. 175 ss.; FRANCIOSI 1984A, pp. 3 ss. Emblematiche dell’incertezza che attanaglia i ricer- catori sui rapporti tra struttura familiare e gentilizia sono le antiche rassegne critiche di ZANCAN 1936-37 e di FREZZA 1947. 988 M. Fiorentini Sc. Ant. qualcosa di diverso2? Se pensiamo che, secondo la famosa formula di Livio (10, 8, 9), «semper ista audita sunt eadem penes vos auspicia esse, vos solos gentem habere» (usualmente ricordata con il brocardo «plebeii gentem non habent»), mi pare evidente che la gens delineata nelle fonti tardorepubblicane sia la struttura di riferimento dell’aristocrazia. Ma sappiamo che a Roma e nel Lazio un ceto aristocratico non nasce con la città ma dopo: lo rilevano gli archeologi, che rimarcano la profonda difformità tra una società in cui i morti sono deposti con differenze di corredo correlate verosimilmente al prestigio e al ruolo occupato nella comunità, ipotizzati sia in base alla diversa configurazione del cinerario (urne a capanna, urne con coperchio a forma d’elmo, cinerari semplici), sia per le peculiarità del corredo, come le statuette che accompagnano il defunto, comunque siano da interpretare3, o i dischi di bronzo trovati in due tombe del Foro di Cesare della fase II A, interpretati da Colonna come scudi bilobati di tipo saliare, che fanno pensare al rango sacerdotale ricoperto in vita dai due individui4; e una società i cui morti sono seppelliti con segni di distinzione di ricchezza non solo individuale ma di lignaggio; e questo progressivamente già a partire dall’VIII secolo a.C.5. Mi pare allora verosimile dedurne due forme distinte e successive di gens: una originaria, caratterizzata da una tendenziale omogeneità sociale, in cui il prestigio è determinato dalle qualità individuali (sacerdote, pater familias, capo della comunità, guerriero, matrona), ed una successiva, che nel Lazio pare già profilarsi nel corso dell’VIII secolo, determinata da vari fattori economici e sociali su cui non mi posso dilungare, in cui si afferma la potenza del lignaggio6. Questo è un punto di grande incertezza nella discussione: ricordo il lavoro di Carmine Ampolo sui mutamenti sociali nel Lazio nell’VIII secolo e le accese discussioni che ne seguirono7; ma ricordo come già Pietro De Francisci avesse insistito nel differenziare la struttura della famiglia 2 Ulpian., 46 ad edictum, D. 50, 16, 195, 2: «Communi iure dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias mortuo singuli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt». DE FRANCISCI 1959, pp. 159 ss.; FRANCIOSI 1995, pp. 276 ss.; SERRAO 2006, p. 56. 3 Il significato delle statuette nei corredi delle tombe laziali è vivacemente dibattuto: BIETTI SESTIERI 1992; TORELLI 1996=1997; BIETTI SESTIERI 2000, pp. 17 ss. Ai miei fini è sufficiente l’osservazione, comune ai due autori, che le statuette sono indicative di rango, non di lignaggio. 4 COLONNA 1991, pp. 55 ss.; DE SANTIS 2001, pp. 269 ss. Sulle differenze di rango nelle sepolture delle prime due fasi della civiltà latina, già TORELLI 1974-75, pp. 40 ss. 5 AMPOLO 1980; BIETTI SESTIERI 2000, pp. 15 ss., sulle tombe di Osteria dell’Osa; BARTOLONI 2003, pp. 93 ss.; DE SANTIS 2001, pp. 269 ss. e già TORELLI 1974-5, pp. 41 ss. 6 A un’originaria strutturazione della gens come «unità parentelare» tra varie familiae pare credere TORELLI 1988B, p. 241, secondo cui «più familiae possono riconoscersi in un culto familiare e in antenati comuni, e dunque in gentes»; struttura in seguito trasformatasi in una «forma di dominio aristocratico». In linea generale questa scansione mi pare persuasiva. Un problema ulteriore è quello dell’esistenza di un capo della gens: senza riandare a Bonfante, LÜBTOW 1955, pp. 36 ss., la ammetteva; a mio parere è più aderente a una struttura sociale larga come la gens, dotata di vincoli di solidarietà ma non di gerarchia (se non forse nei fatti: ma la struttura giuridica prescinde spesso dalla prassi), l’esclusione dell’esistenza del pater gentis durante la vita ordinaria del gruppo; salva la sua creazione in casi straordinari come una migrazione (esemplare il caso di Atta Clausus) o una guerra. Ipotesi nelle quali un capo era indispensabile. Sui mutamenti dei corredi tombali come segno delle trasformazioni sociali in senso aristocratico AMPOLO 1972, pp. 469 ss. Il successivo AMPOLO 1984 indaga invece la veridicità delle norme decemvirali sulle limitazioni al lusso funerario, che giustamente l’A. ritiene del tutto veritiere. 7 AMPOLO 1970-71, pp. 37-100. Sulla questione della possibile organizzazione gentilizia presso la plebe cfr. in senso negativo FRANCIOSI 1984C, pp. 162 ss., sostanzialmente accettabile nonostante qualche affer- 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 989 allargata dalla gens, e ancora prima lo stesso Edoardo Volterra avesse messo in guardia dal ritenere la familia un gruppo «politico»8. Un altro problema di grande interesse è il carattere rurale o cittadino della gens. Non posso dilungarmi su questo punto, ma mi pare che, se nel periodo precivico va da sé che le gentes dovessero fondare la prosperità economica sull’appropriazione della terra, distribuendosi per pagos, la nascita della città abbia creato una situazione inedita di fronte alla quale la risposta dei gruppi gentilizi sarà stata di continuare a controllare le zone rurali ma inurbandosi per avvicinarsi al centro del potere, che ormai era urbano. Non credo, infatti, a certe ricostruzioni che propongono una lotta tra poteri civici e poteri gentilizi rimasti ostinatamente rurali, che assomiglia troppo alle vicende della lotta tra liberi comuni e signorie feudali nell’Italia medievale, finendo per riproporre una sorta di Niebuhr aggiornato: non dimentichiamo che, quando Atta Clauso emigra a Roma cinque anni dopo l’espulsione dei Tarquinii, se crediamo alla cronologia di Svetonio (Tib., 1), ottiene un territorio rurale trans Anienem per i suoi gentiles e clienti, ma viene cooptato in senato, ed il sepolcro gentilizio non è situato nell’agro, ma sotto il Capitolium9. In questo contesto, quale posto è occupato dal culto? Non è semplice rispondere a questa domanda, anche perché non sfuggirà, nelle due definizioni ora ricordate, un dato abbastanza sorprendente, l’assenza della menzione della comunanza dei sacra tra gli elementi caratterizzanti della gens. Il che sconcerta soprattutto nella definizione di un pontefice massimo come Q. Mucio. È un’omissione di cui è difficile dare una spiegazione esauriente, tenendo conto che il controllo sul culto privato era, a detta di Cicerone, una delle competenze fondamentali dei pontefici. Anche per le difficoltà ora delineate, i culti gentilizi come argomento autonomo hanno raramente attratto l’attenzione degli storici, e a maggior ragione dei giusromanisti, che ne accennano appena come indizio del carattere di comunità politica che la gens avrebbe rivestito fin dalle sue origini10 (ed è difficile pensare altrimenti; ma fermarsi a questa constatazione non mi pare sufficiente a spiegarne le dinamiche interne e nei rapporti con la civitas), unitamente al ricordo di decreta gentilicia che, in alcune prospettive critiche, dimostra un’originaria autonomia normativa delle gentes. Anche gli storici della religione o dedicano loro solo qualche accenno sbrigativo, più attratti dai grandi sistemi cultuali pubblici e dal mai risolto problema della «religione senza miti», o li studiano con una prospettiva che privilegia la «funzione» che le presunte mentalità collettive delle gentes avrebbero rivestito all’interno del complessivo apparato del culto arcaico, non mazione discutibile (come quella che fa nascere la vera e propria Urbs «a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C.», ibid., p. 168). Va da sé che anch’io, come il compianto A., ritengo MÉNAGER 1980 sprovvisto di qualsiasi plausibilità. 8 VOLTERRA 1949, pp. 521 ss.; DE FRANCISCI 1955, pp. 137 ss. 9 La caratterizzazione «paganica» della gens è stata sostenuta soprattutto da CAPOGROSSI COLOGNESI 1992, pp. 141 ss. Troppo caratterizzata in senso rurale appare la gens nella ricostruzione di AMOROSO - BARBI- 2003, pp. 19 ss. Sulla migrazione dei Claudii, CACOLOGNESI 1980, pp. 48 ss. 10 Su questo punto è quasi superfluo citare Pietro Bonfante e la sua teoria della natura politica rivestita dalla gens nel periodo precivico (BONFANTE 1916). Anche i non molti decreta gentilicia conservati dalle fonti sembrano confermare il carattere di entità dotate di autonomia normativa, rivestito in origine dalle gentes: MANCUSO 1988 e già VOLTERRA 1949, pp. 525 ss. Contro la caratterizzazione «politica» della gens, già ARANGIO-RUIZ 1914. NA POGROSSI 990 M. Fiorentini Sc. Ant. di rado elaborando sistemi religiosi e rappresentazioni partendo dal dato etimologico e linguistico e dalla comparazione storico-religiosa. Questa prospettiva evoca richiami talora espliciti, più spesso indiretti, all’idea duméziliana secondo cui le narrazioni storiche dei primi secoli di Roma, lungi dal contenere nuclei storici da ricavare con un paziente lavoro esegetico, costituirebbero una sorta di specchio deformato nel quale intravedere strutture, funzioni sociali e mentalità conservatesi immutate fino almeno al IV secolo a.C. Non diversamente dai racconti relativi ai «fatti» dei primi secoli della storia di Roma, le fonti relative ai culti gentilizi andrebbero perciò lette come eco distorta delle strutture mentali arcaiche, che poi sarebbero quelle «archetipiche» della società indoeuropea primitiva non ancora sommerse dagli influssi etruschi e greci, e che avrebbero, anch’esse, subíto in séguito quella sorta di «Entmythisierung» a cui, secondo Karl Koch, ma con ben altra consapevolezza storica, sarebbe andato incontro tutto il patrimonio mitologico romano arcaico11. Esempi illuminanti di quest’ottica mi appaiono la «triple fondation de Rome» che Dominique Briquel collega all’ideologia trifunzionalistica di Dumézil12; o una certa esegesi delle «leggende» dei Fabii, reinterpretate come se nascondessero caratteri sacri inalterati dalla preistoria romana (come ad es. la «ferinità dei Lucerci» o la «fabietà come dato mitico», secondo la prospettiva di Montanari, che ritengo sprovvista di qualsiasi plausibilità13), o del culto lupercale come se fosse la trasposizione sul piano rituale della lotta tra il «desordre rituel» di fine anno, collegato a Fauno, ai Luperci Fabiani e quindi ai Fabii, e l’«ordre jovien», impersonificato dalla sodalitas dei Luperci Quinctiales collegata alla gens Quinctia, con una prospettiva calendariale proposta, sulle orme di Dumézil, da Marinella Corsano in un pur importante contributo14. Con la prospettiva incentrata su questi temi è quasi inevitabile la sconfortata conclusione, espressa da Jörg Rüpke in un suo recente libro sulla religione romana, secondo cui «noi non sappiamo quasi nulla dei sacra gentilicia»15. Un esito deludente, ma forse meno drastico di quanto sia apparso allo studioso tedesco, forse troppo condizionato dalle fonti a cui ha attinto per la sua ricerca. Senza entrare nella controversia fra «struttura» e «funzione» (ché non mi sento all’altezza di ricoprire il ruolo di arbitro tra Lévi-Strauss e Dumézil16), personalmente trovo questo 11 KOCH 1986. BRIQUEL 1976, pp. 145 ss. 13 MONTANARI 1976, p. 143, nota 97. La matrice duméziliana di questa impostazione è evidente. 14 Mi riferisco allo studio, per altri aspetti importante e con molti rilievi di notevole acutezza, di CORSANO 1977, pp. 137 ss. Particolarmente rilevante e, a mio parere, da condividere, è la considerazione secondo cui, nonostante i nomi gentilizi delle due sodalità, esse non sono formate da membri delle due gentes (o almeno non solo da loro). Anche HOLLEMAN 1976, pp. 212 ss., argomenta dalla posizione del rito nel contesto dei Parentalia per trarne inferenze su natura e scopo. Sul punto tornerò tra breve. 15 RÜPKE 2004, p. 31, che ai culti gentilizi dedica solo un rapido accenno, e con un’impostazione su cui converrà, in seguito, spendere qualche parola. Né 12 più esaurienti sono le trattazioni più antiche, a partire da WISSOWA 1912, per giungere a DUMÉZIL 1977, secondo cui la religione gentilizia si esaurisce nei riti personali e familiari. Diversa era la consistenza dell’indagine di DE MARCHI 1896, che al culto gentilizio dedicava un’accurata, anche se ormai molto datata, ricerca. 16 MOMIGLIANO 1984=1988, pp. 45 ss., come sempre lucidissimo nell’evidenziare le falle della costruzione duméziliana. PROSDOCIMI 2002, pp. 126 ss., respinge sia la ricostruzione «trifunzionalistica» duméziliana, sia quella strutturalista di Lévi-Strauss. Anche se le ragioni di questo dissenso non sono ovviamente quelle che avanzerebbe un giusromanista, esse appaiono comunque decisive (soprattutto contro Dumézil) per negare attendibilità a quelle che mi sembrano eleganti ma inconcludenti esercitazioni 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 991 filone di studi non particolarmente attraente, direi di più, scarsamente produttivo, almeno ai fini dello studio delle strutture giuridiche romane arcaiche, mentre mi sembra più vantaggioso esaminare le fonti relative alla storia (e la mitistoria) delle singole gentes combinandole con quelle sui culti, per tentare di collocare correttamente queste all’interno della società romana, ed il culto gentilizio nel più generale contesto delle forme del culto romano. Inoltre in dottrina non sempre la locuzione «culto gentilizio» è impiegata con proprietà. Vi si include spesso di tutto, per esempio il culto degli antenati, che è essenzialmente culto dei defunti. Su un piano probabilistico niente vieterebbe di classificare le cerimonie per gli antenati come sacra gentilicia: in linea astratta si può affermare che le cerimonie funebri per gli antenati servissero a riaffermare e consolidare i vincoli fondati sul nomen che, certificando la comune discendenza dal capostipite, attestavano il rapporto gentilizio. Questa è, per esempio, la rappresentazione che dei Parentalia di febbraio propone Sabbatucci17. Tuttavia i modelli interpretativi devono, per quanto possibile, approssimarsi alle rappresentazioni antiche; e purtroppo nelle classificazioni pervenuteci che, pur essendo tardorepubblicane, rispecchiano forme di organizzazione del culto molto conservative, i culti gentilizi, inclusi tra le forme del culto privato, sono definiti semplicemente sacra pro gentibus, ossia culti officiati per la prosperità del gruppo gentilizio nel suo insieme, come è affermato nella classificazione, forse da attribuire ad Ateio Capitone, conservata da Festo (publica sacra, 284 L.). In essi non sono inclusi i riti per gli antenati. Infatti le feriae denicales sono annoverate tra le feriae privatae in un’altra classificazione riferita da Festo (privatae feriae, 282 L.: «Privatae feriae vocantur sacrorum propriorum, velut dies natales, operationis, denecales»). Si tratta dunque di ricorrenze esclusive ad ogni singolo soggetto, corrispondenti ai sacra pro singulis hominibus della classificazione di Capitone. Neanche le parentationes sono sacra gentilicia, come affermano ad esempio Sabbatucci e Fraschetti sulle orme di John Scheid18. I Parentalia di febbraio, la celebrazione degli antenati defunti, erano culti funerari privati, cui si affiancava la parentatio pubblica che apriva il novemdiale19. Sabbatucci li ha collegati alla ricognizione rituale dei iura sanguinis collegati ai vincoli agnatizi, mentre ai riti volti a rafforzare quelli di cognatio erano riservati i Caristia (non a caso detti anche cara cognatio) del 22 febbraio, il giorno successivo al termine del novemdiale dei Parentalia. Ma vincoli di agnazione non vuol dire legami gentilizi, bensì rapporti di parentela allargata ai collaterali, tanto è vero che anche nella norma delle XII Tavole relativa alla succes- intellettuali. Contro le ricostruzioni di Dumézil si era già pronunciato GRANDAZZI 1993. A mio parere le critiche espresse da POUCET 2000, pp. 424 ss., non scalfiscono la validità della presa di posizione di Grandazzi. 17 WARDE-FOWLER 1912; SABBATUCCI 1999, pp. 58 ss. 18 SCHEID 1993, pp. 188 ss.; FRASCHETTI 1998, p. 741. Peraltro, l’A. propone su questo punto alcuni rilievi di grande interesse, come l’ipotesi che le gentes (o meglio, le famiglie) disponessero di registrazioni delle date di avvenimenti salienti della vita degli antenati, per poter effettuare le parentationes. Queste registrazioni potrebbero avere costituito parte di quegli archivi privati tante volte ipotizzati dagli studiosi. 19 SABBATUCCI 1999, pp. 58 ss. Più suggestiva mi pare la spiegazione della presenza della parentatio pubblica attuata dalla virgo Vestalis il primo giorno del novemdiale, come tentativo della civitas di «impadronirsi» della festività in funzione antigentilizia. Sui riti funerari come sacra pro familiis, HARMON 1978B, pp. 1600 ss.; KASER 1978, pp. 19 ss. 992 M. Fiorentini Sc. Ant. sione ab intestato (Tab. V, 4-520) la successione degli agnati è tenuta rigorosamente distinta da quella dei gentiles. Si tratta cioè di due ordines ben distinti anche nell’assetto altorepubblicano e quindi, a maggior ragione, in età monarchica. In più va osservato che i Caristia non erano inseriti nel ciclo dei Parentalia ma ne rimanevano al di fuori, pur in una posizione di stretto collegamento, per cui l’autonomia delle due feste (pur in un contesto temporale omogeneo) ribadisce la differenza tra gli stessi vincoli di agnazione e di cognazione. Come si vede, secondo le classificazioni romane, il culto degli antenati non è culto gentilizio. Chiarito questo punto, che mi pare essenziale, dobbiamo porci un altro problema preliminare, quello delle fonti sui culti. Notizie frammentarie provengono da opere sulle gentes. Di alcune di esse abbiamo i titoli: de familiis Romanis di Valerio Messala Rufo e di T. Pomponio Attico (Corn. Nep., v. Att., 18, 2); de familiis Troianis di Varrone e un’omonima di Igino; un liber commentarius de familia Porcia citato da Aulo Gellio (N. A., 13, 20, 17), il libellus di Q. Elogio ad Quintum Vitellium Divi Augusti quaestorem menzionato da Svetonio (Vitell., 1, 2): tutte fonti al massimo del I secolo a.C. Per il totale naufragio di questa letteratura è praticamente impossibile stabilire da quali fonti tali autori abbiano tratto le notizie, e ciò ha suscitato un’ondata di diffidenza sulla loro affidabilità: penso alla sprezzante valutazione del lavoro degli annalisti sui primi secoli di Roma espressa da Elias Bickerman, degradato a «invenzioni per riempire i rotoli di papiro»21. La dottrina storica francese, profondamente influenzata dallo strutturalismo di Levi-Strauss e dal funzionalismo di Dumézil, è forse la più scettica in assoluto. È sufficiente citare il nome di un caposcuola: Jacques Poucet. Anche Wiseman ha più volte espresso la sua critica radicale delle opere genealogiche, che ritiene invenzioni per nobilitare personaggi di dubbi natali dell’età triumvirale o dei primi anni augustei22. Le vedute dello studioso inglese sono, a mio parere, imprescindibili per una corretta comprensione della temperie politica e culturale che spira a Roma dall’età mediorepubblicana; ma rischia di veicolare l’immagine di una città la cui storia inizia nel III o al massimo nel IV secolo, come se si trattasse di una società senza memoria, che si sveglia improvvisamente e si inventa un passato di comodo. Questa strada può portare o alla paralisi della ricerca per mancanza di fonti affidabili, o alla sostituzione delle «invenzioni» degli antichi con «miti» moderni, creati in base a supposizioni, ad associazioni libere tra fatti diversi, o a deduzioni fondate sul buon senso23 o sulla logica (che è, ovviamente, quella di noi che viviamo nel nostro secolo), già combattuti da Massimo Pallottino negli anni ’60 nella sua polemica con Gjerstad24. Se è facile sbarazzarsi 20 Tab. V, 4: «Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. 5. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento». TALAMANCA 1998. Con una prospettiva per molti versi nuova ARICÒ ANSELMO 2000, nota 88, secondo cui la norma di Tab. V, 5 non sarebbe una semplice recezione di un antichissimo mos, ma una norma profondamente innovativa sul sistema della successione ab intestato. Qui mi limito a segnalare questo contributo senza poterlo ovviamente analizzare. 21 BICKERMAN 1969, pp. 399 ss. WISEMAN 1974, pp. 153 ss. Prospettive ribadite in WISEMAN 1983. Le ricerche di TRAINA 1993-1994 hanno in parte riabilitato queste tradizioni, riportate a più complesse motivazioni e a memorie interne dei gruppi gentilizi. Dinamiche già affrontate più volte da Mario Torelli, ad es. in TORELLI 1991. 23 È il «merito» riconosciuto alle ricerche di Jacques Poucet da MEURANT 2006, p. 21 s. 24 PALLOTTINO 1963. 22 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 993 delle tradizioni dei «Familienarchive» con la condanna inappellabile di falso (per la datazione al I secolo a.C. con l’aggravante dell’imitazione di modelli greci, come già opinava Soltau, ai primi del Novecento, in relazione ai modelli storiografici25), io, invece, non sono mai riuscito a districarmi da un’obiezione di fondo: in una società ristretta come quella aristocratica urbana, anche tardorepubblicana, in cui il reciproco controllo sociale doveva essere massimo per arginare e bilanciare le spinte egemoniche delle gentes, una falsificazione grossolana sarebbe stata accolta dagli altri casati aristocratici con disinteresse o acquiescenza26? Di questa vigilanza abbiamo esempi eloquenti: Cn. Gellio negava credibilità alle genealogie di gentes che asserivano di discendere da Numa Pompilio che, secondo lui, non avrebbe avuto discendenza maschile27. E i freni all’ostentazione gentilizia non si limitano alla storiografia. Livio (43, 13, 6) menziona la reazione ai prodigi che, nel 169 a.C., accompagnarono la vigilia della terza guerra macedonica: i decemviri sacris faciundis esclusero due prodigia dal novero di quelli per i quali ordinarono azioni di culto, uno dei quali «quod in privato loco factum esset - palmam enatam <in> impluvio suo T. Marcius Figulus nuntiabat». Dalla natura privata del luogo in cui si svolge il prodigium discende la sconfessione dell’interesse statuale: trattandosi di presagio trionfale, pare evidente che i decemviri mirassero a contrastare scalate politiche fondate su tali prodigi. Poiché quell’anno il fratello di Figulo rivestì il consolato l’obiettivo di arginare le velleità dei Marci, veicolate nel presagio trionfale, appare fin troppo scoperto. Se dunque la società nobiliare romana aveva, in un certo senso, gli anticorpi per tenere a freno le ambizioni politiche dei gruppi, non credo, con Besnier, che si debba accordare fiducia cieca alla diffidenza manifestata da Livio e da Cicerone28. Essa è giustificata riguardo ai «falsi triumphi, plures consulatus, genera etiam falsa et ad plebem transitiones», come afferma Cicerone (Brut., 61), ossia alla storia genealogica e di avvenimenti confluita nella seconda annalistica e poi nella storiografia augustea: è comprensibile l’interesse che i gruppi plebei potevano avere a vantare inesistenti origini patrizie, poi perse con un’immaginaria transitio ad plebem. Invece le informazioni su mores, culti e rituali funerari gentilizi, essendo in linea generale «neutre», a mio avviso dovrebbero essere vagliate con sano scetticismo ma senza pregiudizi e furori iconoclasti. Ciò non significa prendere per buoni i «fatti» narrati dalle fonti; ma studiare le tradizioni pervenuteci, per tentare di collocarle nel loro contesto culturale e giuridico e ricostruirne la genesi, potrà permetterci di ipotizzare con qualche verosimiglianza che almeno alcune delle tradizioni raccolte dagli antiquari della tarda Repubblica possano provenire da archivi gentilizi o da laudationes funebres, di cui Santo Mazzarino sottolineava la rilevanza nella trasmissione 25 SOLTAU 1909, pp. 181 ss. Opposta la valutazione di TONDO 1981, p. 18: gli storici greci, nel loro sforzo di informazione dei loro lettori, dovevano essere particolarmente scrupolosi nel descrivere le istituzioni romane. 26 È un pensiero già espresso da GABBA 1995= 2000, p. 65. 27 Dion. Hal., 2, 76, 5: «genea;n de; katalipwvn, wJ" me;n oiJ pleivou" gravfousin, uiJou;" tevttara" kai; qugatevra mivan, w|n e[ti swvzetai ta; gevnh, wJ" de; Gevllio" Gnai'o" iJstorei', qugatevra movnhn, ejx h|" ejgevneto “Agko" Mavrkio"». Plutarco (Numa, 21, 2), senza nominare la fonte, conferma questa differenza, elencando anche le quattro gentes presunte discendenti di Numa: Pomponii Pinarii Calpurnii Mamerci. Su questa polemica GABBA 1967=2000, p. 43; RUSSO 2005, pp. 16 ss. 28 BESNIER 1953, p. 9; BRUNT 1982, pp. 5 ss., è più possibilista. 994 M. Fiorentini Sc. Ant. di generazione in generazione delle genealogie gentilizie, in séguito recepite in quella che il Maestro definì incisivamente «l’età della pretesta»29. Si tratta cioè di ripensare quel criterio ermeneutico che già Pugliese Carratelli definì «pseudocritico piuttosto che ipercritico» che porta a «diagnosi patologiche» sul grado di attendibilità delle fonti antiche30. Un’ultima osservazione. Quando studiamo le origini di Roma è difficile sottrarsi all’impressione che la ricerca soffra di una sorta di schizofrenia: a seconda che l’analisi provenga da un archeologo, da uno storico o da un giurista leggiamo storie radicalmente differenti, come se provenissero da pianeti diversi. Qualche frizione, derivante dalle diverse fonti utilizzate dalle quali vengono dedotte divergenti interpretazioni dei processi di crescita e trasformazione della civitas, è in fondo inevitabile, perché adottando prospettive diverse è abbastanza naturale che si ricostruiscano dinamiche diverse. Tuttavia una così totale incomunicabilità a me pare inaccettabile: la storia è una e sarebbe a mio avviso necessario tentare di avvicinare i quadri storici. Se, studiando i corredi delle tombe dell’Orientalizzante laziale, si nota che a Decima solo nelle tombe femminili si trovano oggetti legati al consumo del vino, prima di dedurne «il particolare rapporto della domina con il consumo del vino»31, sarebbe necessario incrociare questo indubitabile dato archeologico con un dato giuridico, quello della lex Romuli sul divieto di bere vino imposto alle donne (FIRA, 12, Leges regiae, Romulus 7). Così come, quando si studia la norma decemvirale sul divieto di seppellire i defunti con oro e argento, tranne nel caso in cui essi portassero protesi dentarie d’oro (Tab. X, 8: «Neve aurum addito, at cui dentes iuncti escunt, ast im cum illo sepeliet uretve, se fraude esto»), prima di affermare che questa norma è incompatibile con la depressa civiltà latina del V secolo a.C.32, sarebbe opportuno verificare se per caso siano documentate tombe con defunti con denti d’oro; e infatti almeno in un caso, a Satrico verso la fine del VII secolo a.C., fu inumato un uomo provvisto di una protesi dentaria aurea. Già Pietro De Francisci aveva tentato di armonizzare le testimonianze della storia delle istituzioni romane arcaiche con quelle archeologiche33; è opportuno non perdere quella lezione di metodo. L’incrocio delle documentazioni potrebbe contribuire a unificare interpretazioni che tendono a divergere anche sensibilmente, fornendo immagini dei medesimi fenomeni storici discordanti ed eccessivamente contraddittorie tra loro34. 2. Classificazioni tardorepubblicane – Sul posto occupato dal culto gentilizio all’interno delle strutture cultuali romane disponiamo di due fonti fondamentali, entrambe conservate da Festo. I) Fest., publica sacra, 284 L. – La prima è la notissima classificazione composta alla fine della Repubblica o nei primi anni del principato da un anonimo, già da Reitzenstein identificato con buona plausibilità in Ateio Capitone35, e riportata da Festo (publica sacra, 284 L.=fr. 70 Suppl. Strzel.): «publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curis, sacellis; at privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt». 29 MAZZARINO 1972, p. 58. PUGLIESE CARRATELLI 1981, pp. 10 ss. 31 D’AGOSTINO 1999, p. 84. 32 ROMANO 1981. 33 DE FRANCISCI 1959; ma tutta la sua produzione relativa ai primordia era fondata su questa impostazio30 ne di metodo, come nel precedente DE FRANCISCI 1955. 34 Fondamentali mi sembrano, a questo proposito, le «Riflessioni sul metodo» di PALLOTTINO 1993, pp. 48 ss. 35 REITZENSTEIN 1887. Ma già MARQUARDT 1878 lo aveva riportato al diritto pontificale. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 995 Il testo opera una rigida bipartizione tra due categorie di culti, la cui discriminante è individuata in due parametri: quello dei destinatari del culto (pro), in base al quale sono pubblici i culti svolti in favore del popolo nel suo complesso o nelle sue partizioni, curie, montes e sacella, mentre quelli svolti in favore dei singoli, delle famiglie e delle gentes sono privati; e quello della provenienza del sumptus: i sacra publica sono compiuti publico sumptu. Con questa premessa indispensabile non mi pare che Rüpke, nel suo studio già citato, abbia interpretato correttamente la fonte di Capitone, dato che individua come principale carattere distintivo la provenienza del finanziamento per il culto, da assicurare publico sumptu: un criterio sicuramente presente nella classificazione di Capitone, ma non quello fondamentale, anzi direi sicuramente secondario rispetto all’altro36. È necessario inoltre ribadire che il culto è pubblico se svolto in favore del popolo, non dal popolo: i culti a cui partecipa il popolo nel suo complesso erano definiti popularia da Labeone (Fest., Popularia sacra, 298 L.=fr. 16 Hu.): «Popularia sacra sunt, ut ait Labeo, quae omnes cives faciunt nec certis familiis adtributa sunt: Fornacalia, Parilia, Laralia, porca praecidanea». Essi rispondevano ad un criterio del tutto diverso: quello della partecipazione di tutti i cittadini, ciascuno nella ripartizione a cui apparteneva, ad esclusione dei culti certis familiis adtributa. Labeone elencava infatti tra i sacra popularia i Fornacalia, culto pro curiis, i Parilia, di cui Varrone affermava la natura al contempo pubblica e privata, i Lararia e la porca praecidanea, tipici rituali funerari privati, familiari ma non riservati ad una sola famiglia37. Capitone cataloga dunque come pubblici i culti celebrati non solo a vantaggio del popolo, ma anche nelle minori articolazioni che, sotto il profilo cultuale, egli giudica autonome rispetto al populus, e che classifica seguendo un percorso discendente, dalla ripartizione maggiore (il populus), scendendo verso quelle minori: prima cita i montes, articolazione di settori urbani comprendente il Septimontium, che Labeone descrive come ancora vitale al suo tempo38 (sacra 36 RÜPKE 2004, p. 25: «Il più importante criterio per distinguere i sacra publica dalle altre pratiche cultuali consiste nel guardare al finanziamento, ovvero nella risposta alla domanda: chi paga per celebrare questi culti?». Ovviamente l’aspetto dei destinatari non è assente dalla visuale dell’A. tedesco: però non occupa, come secondo me dovrebbe, il posto centrale. Anzi, la provenienza del finanziamento non mi pare neanche requisito fondamentale: in tal caso le opere edificate con denaro privato non potrebbero mai essere pubbliche: e invece l’evergetismo privato che finanzia la costruzione di luoghi sacri o templi pubblici è una delle manifestazioni peculiari della civiltà romana fin dall’età repubblicana. 37 Sui Parilia, Varr. ap. Schol. Pers., 1, 72: «Varro sic ait: Palilia tam privata quam publica». Pare evidente che, se questa festa veniva celebrata a livello sia pubblico sia privato, non poteva essere definita «certis familiis adtributa». RADKE 1994, p. 57. Dal verbo adtribuere MOMMSEN 1834, p. 10, era portato a costruire una figura di «culti gentilizi pubblici», statali quanto alla costituzione ma affidati per la celebrazio- ne a singole gentes. Una posizione ribadita in MOMM1887, p. 19, ove l’adtributio era interpretata come «Verleihung». In contrario, e giustamente, DE FRANCISCI 1959, p. 170 e nota 341, faceva notare che, se la ricostruzione mommseniana fosse stata esatta, non si spiegherebbe la presenza della porca praecidanea che, in quanto rito dedicato ai di parentes, appare uno dei più tipici sacra familiaria. Sul punto cfr. anche CATALANO 1974, pp. 123 ss. 38 Fest., Septimontio, 476 L.: «Septimontio, ut ait Antistius Labeo (fr. 14 Br.), hisce montibus feriae: Palatio, cui sacrificium quod fit, Palatuar dicitur; Veliae, cui item sacrificium; Fagu<t>ali, Suburae, Cermalo, Oppio, Caelio monti, Cispio monti». Labeone impiega il tempo presente per qualificare il sacrificio palatino, che potrebbe implicare la vitalità del rito al suo tempo. L’interpretazione della festa è tuttora oggetto di acceso dibattito: con pareri discordanti FRASCHETTI 1984 (ribadito in FRASCHETTI 1990, pp. 134 ss. e in FRASCHETTI 2002); CARANDINI 1997 (confermato in CARANDINI 2006). Penso che vada abbandonata la visuale della festa come manifestazione di una sorta di lega religiosa tra uguali, SEN 996 M. Fiorentini Sc. Ant. pro montibus); poi i pagi urbani, partizioni di cui non sono chiari i rapporti con i montes, ed a cui appartengono i Paganalia39; le curie (Fornacalia, Fordicidia e Quirinalia: sacra pro curiis); e infine i sacra pro sacellis, in cui saranno da identificare Strenia, Volupia, Cloacina (i cui luoghi di culto sono designati come sacella), i sacella ricordati da Varrone (L. L., 7, 84), secondo cui «in aliquot sacris et sacellis habemus ‘Ne quod scorteum adhibeatur’, ideo ne morticinum quid adsit», riferendosi palesemente ad una lex sacra relativa a luoghi di culto pubblici, che vieta di insozzare materialmente (e contaminare sul piano rituale) con carogne di animali; e forse Argei. Al contrario i culti celebrati a favore dei singoli, delle famiglie e delle gentes sono catalogati fra i culti privati. Da notare che per i sacra privata Capitone impiega un andamento contrario a quello adottato per i sacra publica, ascendente dal più semplice (i singuli) al più complesso (le gentes). Qualche parola va spesa sui sacra pro sacellis. Nella presenza di questa species dei sacra publica taluno40 ravvisava una tensione nel lemma di Capitone, per la loro eterogeneità rispetto agli altri sacra publica che, con i sacra pro populo, pro montibus, pagis, curis fanno riferimento a partizioni cittadine, mentre i sacella non sarebbero identificabili in nessuna di esse. Si tratta di una critica meramente stilistica che non inficia l’importanza della fonte. Più significativo è un altro rilievo. I sacella erano edifici cultuali generalmente di modeste dimensioni, come risulta dalle definizioni tardorepubblicane, di Trebazio Testa riportata da Aulo Gellio (N. A., 7, 12, 5=fr. 4 Hu.) e di Verrio Flacco (sacella, 422 L.)41. Per questo erano più facilmente appropriabili dai privati, come dimostra una serie di fonti tardorepubblicane di cui mi limiterò a segnalare alcune più rilevanti. In una lettera del 50 a.C., M. Celio Rufo informa Cicerone (ad Fam., 8, 12, 3) di avere intrapreso un’iniziativa giudiziaria contro Ap. Claudio, fratello di Clodio: «Praeterea coepi sacellum, in domo quod est, ab eo petere». Si tratta verosimilmente di un piccolo edificio di culto che Claudio aveva accorpato alla sua abitazione. L’interpretazione più attendibile di questo accenno sibillino è, a mio avviso, quella di Tyrrell e Purser42, secondo cui si sarebbe trattato di un sacello pubblico illecitamente privatizzato da Claudio. Ancora più sfortunata fu in cui ciascun villaggio conservava la sua indipendenza, come pensava ancora DE FRANCISCI 1959, pp. 479 ss. Vi sono anche testimonianze epigrafiche di sacra pro montibus, come il rito che si svolgeva nel sacellum attestato da una epigrafe urbana (CIL, 12, 1003=ILLRP, 698): M<ag(istri)> et flamines / montan(orum) montis / Oppi / de pequnia mont(anorum) / montis Oppi / sacellum / claudend(um) / et coaequand(um) / et arbores / serundas / coeraverunt. Il sacellum è di pertinenza dei montani e i lavori sono finanziati a loro spese; non credo quindi che si possa trattare di un luogo di culto pubblico: valutando il rito che vi si svolgeva alla stregua della classificazione di Capitone, pare evidente che non appartenesse ai sacra pro sacellis, ma pro montibus. Sui montani montis Oppii, PALMER 1976, pp. 50 ss.; FRASCHETTI 1990, pp. 174 ss. 39 CAPOGROSSI COLOGNESI 2002, pp. 43 ss.; TARPIN 2002, pp. 186 ss.; CARANDINI 2006, pp. 140 ss. In questa sede non posso affrontare una discussione sull’ipotesi di SABBATUCCI 1999, pp. 41 ss., che non esclude un’identificazione delle feriae Sementivae di fine gennaio con i Paganalia, a cui accenna Varrone (L. L., 6, 24). Il rapporto tra le due entità è esaminato da FRASCHETTI 1990, pp. 173 ss.; CARANDINI 2006, pp. 140 ss., inserisce i pagi nel contesto del processo che porta alla nascita di Roma, nel quale essi sono inseriti come prima fase preurbana. 40 Ad es. MOMMSEN 1907, III, p. 539. 41 Au. Gell., N. A., 7, 12, 5 (= fr. 4 Hu.): «sacellum est locus parvus deo sacratus cum ara.». Fest., sacella, 422 L.: «sacella dicuntur loca dis sacrata sine tecto». La marcata discrepanza tra le due fonti è risolta da COARELLI 1983, pp. 124 ss., accordando fiducia alla definizione di Trebazio. Non tutti i sacella che conosciamo sono a cielo aperto, mentre tutti sono provvisti di un’ara per la celebrazione del rito; alcuni ne hanno più di una, come il sacellum Mutini Titini sulla Velia, a cui accennerò subito. La soluzione di Coarelli mi pare la sola accettabile. 42 TYRRELL - PURSER 1969, III, p. 268. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 997 la sorte toccata al sacello di Mutinus Titinus, secondo un lemma di Festo (Mutini Titini, 142 L.), «Mutini Titini sacellum fuit in Veliis, adversum murum Mustellinum in angi<portu>, de quo aris sublatis balnearia sunt facta Cn. D<omitii> Calvini, cum mansisset ab urbe condita <ad pri>ncipatum Augusti <…>». Anche in questo caso abbiamo lo smantellamento di un piccolo e antichissimo luogo di culto pubblico, con la rimozione delle are in esso contenute e la trasformazione del corpo di fabbrica in balnearia privati43. Quello che può sorprendere è l’assenza di reazione degli organi preposti alla tuitio, censori ed edili44: fenomeno che si può riportare alla mancata elezione di censori nell’età delle guerre civili e fino al 22 d.C. Ben diversa era stata la risposta in una situazione identica, nel pieno della Repubblica, descritta da Livio (40, 51, 2): i censori del 179 a.C. «complura sacella publicaque <loca> usu occupata a privatis publica sacra<que> ut essent paterentque populo curarunt». Il sacellum distrutto da Domizio Calvino, invece, non fu mai rivendicato. Così come accadde in parecchi casi ricordati da Cicerone nel de haruspicum responsis, a partire da quelli distrutti da Sex. Atilio Serrano (de har. resp., 32: «A Sex. Serrano sanctissima sacella suffossa, inaedificata, oppressa, summa denique turpitudine foedata esse nescimus?»), per giungere a quello distrutto ed accorpato da Clodio alla sua casa (de har. resp., 30: «Sequitur de locis sacris, religiosis.[…] in iis aedibus quas tu, Q. Seio, equite Romano, viro optimo, per te apertissime interfecto, tenes, sacellum dico fuisse <et> aras. Tabulis hoc censoriis, memoria multorum firmabo ac docebo»). C’è un’apparente contraddizione in quanto dichiara l’oratore: prima afferma che parlerà di loca sacra e religiosa, che per loro natura non possono appartenere a nessuno, essendo cose sottratte al commercium; poi dichiara di avere le prove di quanto ha appena affermato nelle registrazioni delle tabulae censoriae. Poiché in esse era contenuto l’elenco di tutti i beni di cui il singolo cittadino era proprietario, ne discenderebbe che il sacello in parola fosse di proprietà di Seio. La composizione di questa discrepanza andrà forse cercata nel fatto che nella sua professio Seio avrà dichiarato anche tutti i beni comunque nella disponibilità privata, indipendentemente dal loro essere in sua proprietà. Se questa interpretazione è corretta, avremmo un caso rilevante di sacellum racchiuso in una proprietà privata, ma aperto al culto pubblico. Finora abbiamo visto sacella pubblici, i cui culti quindi rientrano nella species dei sacra pro sacellis. Tuttavia le fonti ci mostrano anche sacella privati, ove si svolgevano riti non pubblici, o addirittura sacella adibiti al culto gentilizio di diverse gentes, come ci mostra inequivocabilmente un testo di Cicerone (de har. resp., 32) secondo cui molti membri dell’ordine senatorio eseguivano culti gentilizi a Diana in un sanctissimum sacellum sul Celicolo: «L. Pisonem quis 43 L’identificazione di Calvino con il Cn. Domizio Calvino console nel 54 a.C. e autore del restauro della Regia pontificum nel 36 a.C. (TORELLI 1984, p. 154) è convincente. L’A. identifica l’incendio che distrusse l’edificio poi ricostruito da Calvino con lo stesso evento che gli avrebbe permesso di impadronirsi del sacello di Titinus. Ma Festo afferma che esso sopravvisse intatto fino <ad pri>ncipatum Augusti, una formulazione che difficilmente si concilia con la data dell’incendio. Può darsi pertanto che il sacello non fosse andato distrutto nell’incendio e sia stato sman- tellato da Calvino in seguito. Sappiamo che costui era ancora vivo nel 21 a.C. (MÜNZER 1903, col. 1422); potrebbe quindi avere compiuto l’empia azione poco prima di morire. Sul rapporto tra il sacello di Titinus e Venus Calva, e le relative implicazioni in tema di culti gentilizi, convincentemente ipotizzati da Torelli, qualche rilievo più sotto. Ottimi rilievi su tutto il problema in PALOMBI 1997, pp. 88 ss. 44 DE RUGGIERO 1925, pp. 148 ss.; 229 ss.; PALMER 1965, pp. 319 ss. 998 M. Fiorentini Sc. Ant. nescit his temporibus ipsis maximum et sanctissimum Dianae sacellum in Caeliculo sustulisse? Adsunt vicini eius loci; multi sunt etiam in hoc ordine qui sacrificia gentilicia illo ipso in sacello stato loco anniversaria factitarint». Va evidenziata la particolare forma di esercizio di questo sacello di Diana: l’uso cultuale ne è aperto ad una molteplicità di gentes. Ciò significa che nessuna gens ha l’esclusiva dell’esercizio del relativo culto. Ma c’è di più: il sibillino accenno di Cicerone parrebbe sottintendere un esercizio collettivo di questo sacello da parte dei gentiles, ciascuno dei quali vi celebra il suo rito gentilizio45. I sacra pro sacellis implicano un’altra difficoltà: l’attendibilità della proposta di includervi i sacra Argeorum. L’obiezione principale consisteva nel fatto che il nome tecnico delle «cappelle» degli Argei, come risulta da Varrone, non è sacella ma sacraria46; ma Varrone, dopo aver affermato (L. L., 5, 45) che «reliqua urbis loca olim discreta, cum Argeorum s a c r a r i a septem et viginti rell.», poco dopo (L. L., 5, 48) nomina l’«Argeorum s a c e l l u m sextum» della regio Suburana, evidenziando una certa variabilità terminologica dei relativi luoghi di culto47. Più interessante è il problema della determinazione della partizione cittadina alla quale essi avrebbero afferito. Su questo punto non mi pare convincente una certa tendenza a incardinare gli Argei nel sistema delle curie48. Se così fosse, nelle classificazioni tardorepubblicane dei sacra essi sarebbero ricompresi nei sacra pro curiis; il che non è, dato che la processione ai sacraria è svolta da sacerdoti pubblici (le vestali, la flaminica Dialis, i pontefici), e pertanto non coinvolge nessuna struttura curiale. Inoltre l’incompatibilità tra il sistema degli Argei e quello delle curie è dimostrata dall’eterogeneità dei ventisette sacraria degli Argei con le trenta curie; e inaccettabile è l’antico tentativo di «normalizzarne» il numero con le quattro regiones serviane, ipotizzando un numero di ventiquattro sacelli49; né persuasivo mi sembra il tentativo di concordare i due numeri ipotizzando un aumento del numero delle curie da ventisette a trenta, ad opera di Romolo: un intervento di tale importanza che, se ci fosse stato, le fonti non avrebbero mancato di ricordarlo. Esatta, invece, la collocazione degli Argei nella fase proto-urbana, proposta da Carandini50. A mio parere gli Argei rispecchiano una fase del popolamento antecedente non 45 Un non più recente commento all’orazione ciceroniana infila un paio di perle in relazione a questo sacello: prima sospetta che esso sia stato «apparently dedicated by a private person or family», poi collega la distruzione del sacello ad una «vigorous action against the Egyptian cults (…) destroying their altairs», vedendo una possibile connessione tra i due eventi «especially if this cult of Diana were foreign, orgiastic, or in any way unruly». Non riesco a vedere dignitosi e severi membri dell’ordine senatorio compiere un culto orgiastico: LENAGHAN 1969, p. 165. 46 Così ad es. GEIGER 1920, col. 1661. 47 POE 1978, pp. 150 ss. 48 STORCHI MARINO 1995; SABBATUCCI 1999, p. 123; ma già così PALMER 1970, p. 85; p. 126, pensava che un sacello destinato a sacrifici di famiglie (sic) nobili avrebbe potuto svolgere al meglio il suo ruolo «if it were a sacred enclosure belonging to a curia»; GJER- STAD 1973, p. 39. Contro il collegamento Argei-curie si era pronunciato già MAGDELAIN 1976-77=1990, p. 172, a mio avviso correttamente, e pur nel contesto di un’ipotesi sulla collocazione cronologica del rituale argeo che non ritengo plausibile. 49 SAGLIO 1877, p. 404; contra SCULLARD 1981, pp. 120 ss.: PALOMBI 1997, pp. 86 ss., con una persuasiva deduzione tratta da un’integrazione della seconda parte di Fest., Mutini Titini, 142 L., nella quale compare un <s>extum et vicesimum (accolta anche da TORELLI 1984, p. 154), convincentemente identificato nel ventiseiesimo sacrario argeo. Ciò ovviamente sarebbe sufficiente a escludere che la locuzione di Varrone (L. L., 5, 45) «Argeorum sacraria septem et viginti» possa essere considerata un errore del Reatino o, peggio, della tradizione manoscritta (che sul passo, a quanto mi consta, non conosce varianti testuali). 50 CARANDINI 2006, pp. 201 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 999 solo alla divisione della città in quattro regiones, come affermato da Van Doren sulla scia delle appropriate osservazioni di Collaart51, ma anche alla concentrazione della popolazione in curie. Del resto non mi pare persuasiva, nonostante la sua suggestività, la proposta di Gianfranco Maddoli di collegare gli Argei al culto greco di He®ra Argheía introdotto durante la monarchia etrusca52. Né tanto meno ritengo accettabile l’ipotesi formulata da Magdelain che, argomentando dalla circostanza che la processione avrebbe seguito un percorso concepito in modo da toccare tutti i sacella di ogni regione serviana prima di passare alla seguente, deduceva la dipendenza del rito dall’assetto quadripartito dell’Urbe serviana, e quindi la seriorità degli uni in confronto all’altra53. II) Fest., sacer mons, 424, 14 ss. L. – La segregazione dei culti gentilizi nell’ambito dei culti privati, asserita nel testo di Capitone, rispecchia una fase della storia romana nella quale le gentes, avendo perso qualsiasi rilievo ed essendo state respinte al di fuori della vita della res publica, sono state relegate nella sfera privata, considerate tutt’al più nel contesto dei rapporti di parentela e del diritto delle successioni54. Una prova di tale declino è unanimemente riconosciuta nella supervisione sul culto gentilizio esercitata dal collegio pontificale: un fenomeno implicante il sostanziale venir meno dell’autonomia cultuale delle gentes. Festo (sacer mons, 424, 14 ss. L.) riferisce una preziosissima testimonianza di questo controllo; un testo che, vorrei far notare, non è stato influenzato dalla classificazione di Capitone essendone sicuramente anteriore: «Gallus Aelius (fr. 5 Br.) ait sacrum esse quocumque modo [Linds.; quodcumque more Lachm.] atque instituto civitatis consecratum sit, sive aedis, sive ara, sive signum, sive pecunia, sive quid aliud quod dis dedicatum atque consecratum sit; quod autem privati suae religionis causa aliquid earum rerum deo dedicent, id pontifices Romanos non existimare sacrum. At si qua sacra privata succepta sunt, quae ex instituto pontificum stato die aut certo loco facienda sint, ea sacra appellari, tamquam sacrificium; ille locus, ubi ea sacra privata facienda sunt, vix videtur sacer esse». Una considerazione preliminare si impone: Elio Gallo cita materiali pontificali. Queste fonti in genere hanno fino a tempi recenti sollecitato scarse attenzioni, come se i pontefici fossero qualcosa di sostanzialmente estraneo al patrimonio della sapienza giurisprudenziale romana: nel giusromanista essi in genere suscitano interesse solo laddove la loro attività si incontri col diritto profano, lasciando agli specialisti di storia della religione l’analisi dei responsi pontificali in materia di culto55. 51 DOREN 1958, pp. 39 ss.; AMPOLO 1988, p. 166, invece, ritiene gli Argei «organicamente distribuiti secondo la città delle quattro regioni» serviane; ciò che gli suggerisce la conclusione che l’elenco, «nella forma in cui ci è pervenuto», debba risalire ad età successiva al VI secolo a.C. Una conclusione che mi lascia parecchi dubbi. 52 MADDOLI 1971. 53 MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 171 ss. 54 TALAMANCA 1998; MASI DORIA 1999. 55 Ad es. SCHULZ 1968, p. 19: «La storia della scienza giuridica romana, peraltro, si occupa del diritto sacro solo in quanto il diritto sacro tocchi il profano e presenti con il medesimo parallelismi; materia puramente di culto appartiene alla storia della religione». Nello stesso senso mi pare caratteristico dell’atteggiamento dei giusromanisti nei confronti della giurisprudenza pontificale il sostanziale disinteresse manifestato, in un articolo peraltro di notevole spessore critico, da WIEACKER 1986, p. 347 s. che, ricordata la 1000 M. Fiorentini Sc. Ant. Francesco Sini ha evidenziato bene le ragioni che hanno indotto la critica del secolo XIX, alla quale ancora oggi in sostanza facciamo riferimento, a marginalizzare questi materiali, ritenuti appunto estranei alla nostra tradizione giuridica perché riguardanti settori diversi, come il ius sacrum56. In realtà, l’attività dei collegi sacerdotali nel campo del diritto pubblico in età repubblicana va ricondotta alla sua reale portata, che è quella del controllo della correttezza delle procedure dei riti. Lungi dal rilevare esclusivamente nell’ambito religioso, essa vale ad assicurare il gradimento delle divinità e, in definitiva, l’armonioso rapporto tra queste e la civitas. Si tratta perciò di funzione strettamente collegata al diritto pubblico. La descrizione dell’attività pubblica degli àuguri fatta da Cicerone (de leg., 2, 31) è determinante. Dal momento che quella che i Romani chiamavano pax deorum era una componente essenziale del corretto funzionamento della civitas, i pontefici e gli àuguri erano chiamati a governare un settore fondamentale della vita politica romana57. Mi pare che sia questo il senso più pregnante della formula, altrimenti francamente ambigua, secondo cui nell’età arcaica non si può tracciare una reale cesura tra diritto e religione58. Vedremo in séguito come questo rilievo possa essere proficuamente speso nell’analisi di un testo importante di Cicerone (de leg., 2, 58) relativo all’aedes Honoris extra portam Collinam. Nel lemma Sacer mons la citazione da Elio Gallo, finalizzata alla delimitazione della nozione di res sacra, può essere suddivisa in tre parti: i) definizione di sacrum, limitato solo a quanto (aedis, ara, signum, pecunia, quid aliud) sia stato consecratum atque dedicatum da un mos o da un institutum civitatis; ii) le stesse res, se destinate dai privati suae religionis causa, non sono considerate sacrae dai pontefici59; iii) vi sono sacra privata che un institutum pontificum impone ai privati di compiere stato die aut certo loco: questi sono sacra, e il locus ove si deve svolgere l’atto di culto è, pur con qualche riserva (vix), considerato locus sacer. profonda compenetrazione tra sacro e civile nell’esperienza romana arcaica, lamenta che i testi pontificali «unterrichten nicht direkt über ihre (scil. dei pontefici) Methoden und Vorstellungen zum profanen Recht: wir können auf diese nur zurückschließen aus Sakralformeln und Sakralgutachten» (ibid., p. 348, nota 2), che l’A. esclude dal suo esame, in quanto ritenute estranee all’attività «profana» dei pontefici. Invece a mio parere «Sakralformeln und Sakralgutachten» sono parte del peculiare orizzonte giuspubblicistico romano di età repubblicana e non possono essere messi da parte in ossequio ad una visione liberale della separazione tra diritto e religione (così anche VOCI 1953, p. 45). Una nozione che, se al giorno d’oggi sarebbe del tutto auspicabile (oltre che, a torto, ritenuta pienamente realizzata), non risponde a pieno alla mappa delle strutture pubblicistiche romane, neanche di età imperiale: figuriamoci a quelle monarchiche e repubblicane. Più equilibrato, benché ancora orientato nel senso di nega- re la «confusione» tra sacro e profano nelle pronunce pontificali, RANDAZZO 2004. 56 SINI 1995, pp. 28 ss., sull’espulsione dei fragmenta extra Digesta tradita, secondo la logica costruttiva (ma meglio sarebbe dire, come fa giustamente Sini, «omissiva») del Lenel della Palingenesia Iuris Civilis. La complessità dei materiali giuridici utilizzati da Elio Gallo fu messa in risalto da BONA 1987, pp. 119 ss. 57 VOCI 1953, pp. 49 ss.; SINI 2002, pp. 68 ss. 58 È l’ambiguità che si riscontra in alcuni accenti del pur denso contributo di VOCI 1953. Non ambiguo invece FABBRINI 1968, nell’attribuire alla religio arcaica un significato non circoscritto alla religio sepulcrorum ma esteso a coprire tutte le manifestazioni del sacro. Una visione confutata da Albanese: ALBANESE 1969, a mio avviso determinante, nonostante la replica di FABBRINI 1970, pp. 197 ss. 59 ALBANESE 1969, pp. 208 ss., nota 8. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1001 Come si vede il lemma è molto più articolato di quanto sia considerato da coloro che lo leggono come prova della pura e semplice sorveglianza del collegio pontificale sui culti privati. Mommsen lo ritenne prova del fatto che lo stato avrebbe usato conferire culti pubblici alle gentes, anzi, avrebbe attuato una vera e propria «Mandirung eines Geschäfts»60: un fatto non solo inspiegabile (perché conferire un culto ad una gens invece di affidarlo a sacerdozi pubblici?), ma contraddetto proprio dal passo di Elio Gallo. In esso, infatti, i pontefici non affidano ai privati un culto pubblico, ma accolgono culti privati nella categoria dei sacra qualora sussistano determinati requisiti, in particolare la cadenza temporale (stato die) o la determinazione del certus locus in cui l’atto di culto deve svolgersi; ne deriva l’estensione della qualità di sacer al locus in cui si svolge l’atto cultuale. La considerazione più interessante mi pare però un’altra: la classificazione di Elio Gallo è certamente anteriore a quella di Capitone, e in essa sono già menzionati i sacra privata, ancora privi di quella caratterizzazione definitoria che contraddistingue la definizione di Capitone, ma certamente già strutturati come «contenitore» di quelle forme del culto che non rispondono ai criteri elaborati dai pontefici per la ricomprensione nella categoria del sacrum. Un altro rilievo mi pare di grande valore: l’esclusione di quanto i privati abbiano costituito suae religionis causa è il frutto di un intervento interpretativo dei pontefici, come appare evidente dal verbo existimare che esprime l’autorevole pronuncia del collegio sulla soluzione di una controversia o di un quesito portato alla sua attenzione. Infatti, non esistendo una letteratura scientifica pontificale nella quale potessero maturare opinioni sull’ambito semantico di un termine tecnico, il verbo in parola allude all’esito dell’attività di controllo del collegio, espresso in un decretum61. L’intervento pontificale delineato in questi testi si era reso necessario per assicurare la continuità di culti gentilizi che dovevano essere in immediato pericolo di estinzione. Le fonti, almeno a partire dal II secolo a.C., sono prodighe di informazioni sugli espedienti escogitati non solo dai privati ma anche dalla giurisprudenza cautelare dei pontefici per permettere agli onerati di sottrarsi ad obblighi che non solo dovevano essere sentiti sempre più economicamente gravosi e costrittivi, ma, aggiungerei, nei cui confronti, per la dispersione dei gruppi gentilizi in entità sempre meno compatte, la determinazione concreta dell’onerato doveva essere sempre più problematica. Il lungo testo del de legibus di Cicerone (2, 48-54), contenente una serrata polemica con gli Scevola pontefici, accusati dall’Arpinate di avere, con i loro interventi cautelari in materia di obbligati ai sacra, contribuito pesantemente al declino della religione gentilizia, venendo sostanzialmente meno all’attività di controllo esercitata tradizionalmente 60 In realtà il pensiero di Mommsen, oltre che più articolato di come l’ho ora presentato, ha subìto una profonda evoluzione, dal libro giovanile sui collegia (MOMMSEN 1834) al maturo Staatsrecht (MOMMSEN 1887). 61 Che i collegi sacerdotali dovessero non di rado risolvere questioni attinenti alla qualificazione pubblica o privata delle materie di loro competenza è evidenziato dall’episodio narrato da Livio, relativo ai decemviri sacris faciundis (43, 13, 6), cui ho accen- nato poco sopra. Quanto alla forma assunta da questa pronuncia pontificale, data l’espressione usata da Elio Gallo (existimare), sarei orientato a ritenerla un decretum. Sulla differenza tra le due forme di intervento pontificale mi pare che si sia correttamente pronunciato RANDAZZO 2004. Cfr. anche MANCUSO 1988, pp. 78 ss.; FALCONE 1991, pp. 234 ss., di cui, in assenza di più precisi riscontri cronologici, trovo convincente la datazione di Elio Gallo ai primi anni del I secolo a.C. 1002 M. Fiorentini Sc. Ant. dal collegio, appare emblematico in proposito: la penetrante lettura proposta dal compianto Ferdinando Bona al Convegno di Copanello del 1988, che confermava con altri argomenti la cautela verso l’attendibilità delle critiche ciceroniane manifestata da Eberhard Bruck nel suo lavoro del 1945, mi pare la più affidante, e ad essa rinvio senz’altro62. Dirò di più: abbiamo almeno una testimonianza quasi in presa diretta di questo fenomeno di abbandono dei sacra, risalente alla prima metà del II secolo, l’episodio dell’espulsione di L. Veturio dal ceto degli equites ad opera di Catone, su cui tornerò tra breve. Queste testimonianze rispecchiano dunque un’età di disgregazione progressiva della solidarietà gentilizia in materia cultuale, specchio di un più generale fenomeno di sfaldamento della gens come struttura sociale: un fenomeno che già nel II secolo fa avvertire i primi scricchiolii (anche se, come vedremo, lo stesso secolo presenta episodi che ne attestano anche un’insospettata vitalità). Nell’ottica della giurisprudenza pontificale cui accenna Elio Gallo, pertanto, tra i culti privati è fatta una bipartizione: culti privati di stretta pertinenza privata, e culti privati che, a séguito dell’intervento di un institutum pontificum, sono assimilati a culti pubblici. Anche in questo secondo caso siamo in presenza di culti privati, dotati però di un grado particolare di coercitività proprio a causa dell’institutum pontificum. Questa duplicità dei culti privati è confermata da un’analisi, necessariamente rapida, dei singoli sacra gentilicia. 3. Sacra gentilicia – Le fonti attestano l’esistenza di culti rimasti sempre nel chiuso della vita delle gentes. Si tratta di culti e rituali che non hanno mai influenzato la vita della civitas. Tra questi il più insolito è senz’altro quello ricordato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 34, 137) a proposito della gens Servilia: «Unum etiamnum aeris miraculum non omittemus. Servilia familia inlustris in fastis trientem aereum pascit auro, argento, consumentem utrumque. Origo atque natura eius incomperta mihi est. Verba ipsa de ea re Messallae senis ponam: “Serviliorum familia habet trientem sacrum, cui summa cum cura magnificentiaque sacra quotannis faciunt. Quem ferunt alias crevisse, alias decrevisse videri et ex eo aut honorem aut deminutionem familiae significari”». Il testo è così singolare da avere provocato una sorta di reazione di rigetto tra gli studiosi63. Il motivo è evidente: Messalla descrive un rituale di pronostico celebrato in onore di un triens sacer che, nel corso di un sacrificio annuale, viene «alimentato» con oro e argento per ottenere un pronostico sulle sorti future della gens, da ricavare dal gradimento delle offerte manifestato dal presunto aumento o meno delle sue dimensioni. Cosa era questo triens? 62 BRUCK 1945, pp. 6 ss.; BONA 1990, pp. 215 ss., con un’acuta disamina dei rapporti tra l’attività pontificale e il ius civile nell’ottica non disinteressata di Cicerone. Che fosse l’aspetto del peso economico connesso alla celebrazione dei riti gentilizi il maggiore responsabile di disaffezione e tentativi di abbandono, soprattutto al momento dell’apertura della successione, mi pare dimostrato dal criterio elaborato dai pontefici per individuare l’obbligato ai sacra, incardinandone la trasmissione al patrimonio. È questo il nucleo concettuale che ci trasmette Cicerone (de leg., 2, 50): «Sed pontificem sequamur. Videtis igitur omnia pendere ex uno illo, quod pontifi<ces> cum pecunia sacra coniungi volunt, isdemque ferias et caerimonias adscribendas putant». FRANCIOSI 1964. 63 Nonostante la sua lunghezza, esso non fu recepito nella raccolta di HUSCHKE (SECKEL - KÜBLER) 1908, mentre fu inserito in quella di BREMER 1896 (Br.). Perfino un contributo che fin nel titolo riprende alla lettera le espressioni pliniane non ha sentito la necessità di soffermarvisi: VONES 1978. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1003 Il problema è stato spesso risolto proponendo l’identificazione con una moneta della serie enea di un terzo d’asse64. Una soluzione davvero banale, inadeguata a spiegare non solo il carattere «alimentare» del rito, non attestato in nessun altro culto, ma anche la materia del simulacro di culto, il bronzo. Non si capisce perché i Servilii avrebbero scelto un oggetto di culto di così scarso valore come una moneta di bronzo, per di più di una frazione ponderale. Oltre tutto, in questo caso, il rito non potrebbe essere più antico della più antica monetazione romana in bronzo che, anche accettando la datazione più alta, non sarebbe più antica della seconda metà del IV secolo a.C. Invece il simulacro del culto servilio si armonizza con un periodo in cui il bronzo era considerato materia dotata quasi di una virtù magica, a cui veniva offerto un pasto altrettanto prezioso come oro e argento. Un parallelo potrebbe essere costituito dal divieto di utilizzare strumenti di ferro, imposto al flamen ed alla flaminica Dialis, o dall’analogo obbligo di impiegare solo strumenti di bronzo nei restauri del pons Sublicius, secondo una serie di testimonianze la più completa delle quali è fornita da Aulo Gellio (N. A., 10, 15)65. Già trenta anni fa Jean Gagé aveva proposto un’interpretazione del rituale a mio avviso esatta, leggendovi un caso rarissimo di sopravvivenza di magia dei metalli, unita ad una «éminente dignité de l’aes»66. Non mi pare che vi sia alcun altro rituale, nelle pur variegate forme del culto romano, dotato di un simile valore: dal punto di vista della tipologia del rito, siamo in presenza di un vero e proprio unicum: l’identificazione con un aes signatum mi pare nel complesso la più plausibile. Saremmo pertanto portati in piena età arcaica quando, come ricorda Varrone in un testo proveniente da Agostino (civ. Dei, 4, 31), che pure ha sollevato non infondate perplessità, i Romani veneravano immagini di culto aniconiche, come il lapis manalis portato in processione durante l’Aquaelicium, o il lapis silex dei feziali che, come ricorda Servio (ad Aen., 8, 641), «antiqui Iovis signum lapidem silicem putaverunt esse», o il delubrum che, secondo un lemma festino conservato nell’epitome di Paolo Diacono (delubrum, 64 L.) avrebbe preso nome da un «fustem delibratum, hoc est decorticatum, quem venerabant pro deo». Questa fase storica della religione romana ben si accorda con la grande antichità della presenza dei Servilii a Roma: essi infatti sono menzionati da Livio (1, 30, 2) tra le gentes Albanae coattivamente trasferite a Roma dopo la distruzione di Alba Longa ad opera di Tullo Ostilio: «principes Albanorum in patres 64 Per l’identificazione in una moneta già MOMM1860, p. 107, che collegava la notizia di Messalla alla serie di C. Servilio del 134; DE MARCHI 1896, p. 107, che lo riferiva ad un culto familiare; H. Le Bonniec, nel commento al l. 34 della Naturalis Historia accolta nella coll. delle Belles Lettres (p. 302); GAGÉ 1958, p. 476, richiamò l’opinione di Adrien Blanchet, secondo cui si sarebbe trattato di «une monnaie ancienne considérée comme un souvenir sacré». 65 DE FRANCISCI 1955, pp. 119 ss. 66 GAGÉ 1976, pp. 241 ss.: si sarebbe trattato di «survivances d’une magie des metaux rarement attestée à Rome». Ancora più ragguardevole è il rapporto istituito dall’A. tra il bronzo dei Servilii e la riforma monetaria di Servio Tullio, attestata da Plin., N. H., 33, 42-47, su cui AMPOLO 1974, pp. 382 ss. Un lontano SEN rapporto con questo pronostico del futuro associato all’aumento o diminuzione delle dimensioni potrebbe forse essere rintracciato in testimonianze di sortes imminutae, come presagio di calamità, ricordate da Livio (21, 62, 5 a Caere, scoppio della seconda guerra punica; 22, 1, 11 a Falerii, disastri del Trasimeno e di Canne). Si tratta di mera analogia esteriore mancando, nel caso delle sortes, l’elemento per così dire «alimentare», essenziale nel rito servilio in quanto preliminare al riscontro del «gradimento» dell’offerta. In FIORENTINI 1988, p. 124 s., proponevo anche due eccezionali paralleli etnografici, tratti da VAN DER LEEUW 1975, p. 24 (pesatura annuale di una catena d’oro a Goa, ove ogni famiglia ha oggetti di culto da cui dipende la prosperità) e p. 552, nota 50 (Ewe del Togo), interpretati alla luce delle teorie dinamistiche di Wagenwoort. 1004 M. Fiorentini Sc. Ant. ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Servilios, Quinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios». Quale che sia il grado di attendibilità della lista liviana, l’appartenenza dei Servilii al nucleo più antico della popolazione romana mi pare certa67, così come è innegabile che il rito presuma un mondo ideale di pertinenza strettamente gentilizia nel quale il simulacro di bronzo è venerato alla stregua di una divinità. Un altro culto su cui vorrei fermare l’attenzione è quello tributato dalla gens Nautia a Minerva, la cui rilevanza è data dal fatto che vi è coinvolto il palladium: Servio (ad Aen., 5, 704) ricorda che «Nautiorum familia Minervae sacra retinebat, quod etiam Varro docet in libris quos de familiis Troianis scripsit». Dunque, secondo Varrone, la gens Nautia avrebbe tributato un culto a Minerva, nella rara epiclesi di Tritonia68. A lui, mi pare, si collega esplicitamente Virgilio (Aen., 5, 704-719) nel descrivere il capostipite della gens in questi termini: «tum senior Nautes, unum Tritonia Pallas / quem docuit multaque insignem reddidit arte / haec responsa dabat, vel quae portenderet ira / magna deum vel quae fatorum posceret ordo». La provenienza troiana asserita da Varrone è confermata da Dionisio di Alicarnasso (6, 69, 1): «infatti il capostipite della loro gens Nauzio, sacerdote di Atena Poliade, era uno di coloro che con Enea allestivano la colonia, e portava emigrando il simulacro della dea, che i membri della gens dei Nautii si tramandarono trasferendoselo l’uno dopo l’altro»69. Vi sono alcune discrepanze: per Dionisio il capostipite della gens, Naútios, avrebbe trasportato il palladio da Troia: è la stessa versione di Virgilio. In altre fonti, invece, lo avrebbe ricevuto da Diomede. Anche questa seconda versione è tramandata da Servio (ad Aen., 2, 166), che la colloca nell’ambito del viaggio di Enea (il capostipite degli Iulii) a cui il protagonista della storia, Diomede, tenta di restituire il palladio; ma si verifica un imprevisto che consente a Nautes di impadronirsi della statua: «transeunti per Calabriam Aeneae offerre conatus est. sed cum se ille velato capite sacrificans convertisset, Nautes quidam accepit simulacrum: unde Minervae sacra non Iulia gens habuit, sed Nautiorum». Purtroppo stavolta Servio non ricorda il nome dell’autore da cui ha tratto la notizia. Questa tradizione relativa alla gens Nautia va raffrontata con quella narrata da Cassio Emina e conservata da Solino (Coll. rer. mem., 2, 14=fr. 7 P.=fr. 8 S.): «Nec omissum sit, Aenean aestate ab Ilio capto secunda, Italicis litoribus appulsum, ut Emina tradit, sociis non amplius sexcentis, in agro Laurenti posuisse castra: ubi dum simulacrum, quod secum ex Sicilia advexerat, dedicat Veneri matri, quae Frutis dicitur, a Diomede Palladium suscipit, tribusque mox annis cum Latino regnat socia potestate, quingentis iugeribus ab eo acceptis». Cassio Emina non fa cenno alla presenza del senior Nautes di Virgilio (Aen., 5, 704)70: Enea riceve direttamente il palladio dalle mani di Diomede. Qui non posso affrontare il problema, ben studiato da Marta Sordi, della pluralità dei palladi, tra quello laviniate e quello romano, senza contare quello di 67 Nello stesso senso cfr. VONES 1978, pp. 3 ss. Sulle derivazioni greche del culto di Tritonia a Lavinio, BEARZOT 1982, pp. 43 ss. 69 Dion. Hal., 6, 69, 1: «oJ ga;r hJgemw;n aujtw'n tou' gevnou" Nauvtio" ajpo; tw'n su'n Aijneiva/ steilavntwn th;n ajpoikivan ei|" h\n, ∆Aqhna'" iJereu'" Poliavdo", kai; to; xovanon ajphnevgkato th'" qea'" metanistavmeno", o{ 68 diefuvlatton a]lloi par∆ a]llwn metalambavnonte" oiJ tou' gevnou" o{nte" tou' Nautivwn». 70 Neanche le figurazioni vascolari greche raccolte da Schauenburg nel 1960 accennano a Nautes: ZEVI 1981, pp. 145 ss. Ciò conferma l’origine gentilizia della narrazione del senior Nautes. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1005 Fimbria71, ma rilevo che la versione anonima della tradizione nauzia pare incunearsi in quella incentrata sulla restituzione del palladio ad Enea: Nautes si inserisce nel momento della consegna della statua, di cui si impossessa approfittando del fatto che Enea, in quel momento, è occupato a svolgere, velato capite, un sacrificio a Venus Frutis. Appare evidente che Virgilio e Servio (ad Aen., 5, 704) abbiano attinto al de familiis Troianis di Varrone come fonte del racconto. Al di là di dettagli fittizi72, è ricco di significato che Varrone trattasse di una gens ormai praticamente estinta73. L’acme dei Nautii si situa nel V secolo a.C.: Dionisio (6, 69, 1) definisce questa gens, al tempo della secessione della plebe del 494, «casata illustrissima»74; Livio ricorda quattro consolati dal 484 al 404; uno nel 316 e uno nel 287, dopo di che la gens soffre un inarrestabile declino per sparire dalla vita pubblica nel I secolo a.C.75. Per questo motivo la collocazione dell’opera varroniana proposta da Traina mi pare solo in parte convincente76: nel caso dei Nautii l’interesse di Cesare per le origini troiane postulata dall’A. si sarebbe scontrato con una tradizione gentilizia che sottraeva alla 71 SORDI 1982, pp. 65 ss., anche in relazione alla notizia, tramandata da Servio (ad Aen., 2, 166), del rinvenimento del palladio da parte di Fimbria: «quamquam alii dicant, simulacrum hoc a Troianis absconditum fuisse intra extructum parietem, postquam agnoverunt Troiam esse perituram: quod postea bello Mithridatico dicitur Fimbria quidam Romanus inventum indicasse: quod Romam constat advectum». 72 Bisognerebbe a mio avviso indagare meglio i rapporti tra queste tradizioni e quelle connesse ai nostoi, soprattutto nel punto in cui Enea viene fatto incontrare con Odisseo sul lido laviniate. Il rapporto tra Enea e Odisseo in Italia è ambiguo: secondo Dionisio di Alicarnasso (1, 72, 2), Ellanico descrive Enea che arriva in Italia «met∆ ÔOdussevw"»; una tradizione, nota a Licofrone, li descrive come alleati (se è nell’eroe greco che va identificato il misterioso nános di Alex., 1244); ma Festo (Saturnia, 432 L.), riporta la tradizione opposta in cui i due eroi sono nemici: «Italici auctore Aenea velant capita, quod is, cum rem divinam faceret in litore Laurentis agri Veneri matri, ne ab Ulixe cognitus interrumperet sacrificium, caput adoperuit atque ita conspectum hostis evitavit». Sul percorso seguito dal mito di Enea per giungere da Lavinio a Roma, SORDI 1989, pp. 19 ss., privilegia la «pista» etrusca a preferenza di quella greca, riproposta ancora da BRACCESI 2000, pp. 58 ss. con (p. 62) una rilevante interpretazione sul nános di Licofrone, associato, oltre che a Odisseo, al Nános re pelasgo fondatore o conquistatore di Cortona di cui parla ancora Dionisio (1, 28, 3). Su questi problemi, AMPOLO 1992, pp. 321 ss. Sul problema dei santuari laviniati in rapporto alle tradizioni sull’arrivo di Enea e Odisseo, anche in rapporto all’importante versione di Dionisio di Alicarnasso (1, 55, 1-2) appresa, a suo dire, «para; tw'n ejgcwrivwn», TORELLI 1984, pp. 158 ss. Lo scetticismo dichiarato da TURCAN 1983, p. 47, sull’identificazione del tumulo scoperto a Lavinio con l’he®rô.on di Enea di cui parla ancora Dionisio (1, 64, 5), pur basato su reali discrepanze tra le fonti scritte e le risultanze degli scavi, mi pare forse troppo radicale. 73 È un rilievo simile a quello proposto da AMPOLO 1970-71, pp. 42 ss., a proposito dei Veturii e dei Volumnii in relazione alla «saga» di Coriolano. 74 Dion. Hal., 6, 69, 1: «oijkiva lamprotavth». 75 In età imperiale è nota solo attraverso documenti epigrafici di liberti: CIL, 11, 8269, da Terracina, menzionante un C. Nautius C. l. Trupho, fu trovata insieme a una fistula aquaria coi nomi di Settimio Severo e Caracalla (CIL, 11, 22893): FIORENTINI 1988, pp. 143, note 79 e 80. Condivido in pieno WISEMAN 1974, p. 157, secondo cui, dato che non conosciamo senatori della gens dopo il 287 a.C. (mentre un’altra gens albana, quella dei Geganii, sembra sparire anche prima, nel IV), «the story of their Trojan origin probably goes back a long way». 76 Sulla scorta di uno studio di Toohey, TRAINA 1993-1994, p. 627, inquadra il de familiis Troianis nel contesto della politica cesariana e del connesso «interesse di Cesare per il mito di Romolo e la leggenda troiana». Ciò è possibile; resta però che la narrazione varroniana sottrae agli Iulii la prerogativa del culto di Minerva Tritonia; e va aggiunto, se la narrazione di Servio (ad Aen., 5, 704) proviene da Varrone, con una sorta di furto con destrezza. C’entra qualcosa la provenienza della gens, che potrebbe essere indiziata da uno dei suoi cognomina più antichi, Rutilus / Rutulus, portato dai consoli del 488, del 475, del 458, del 424, e dai tr. mil. cos. pot. ? 1006 M. Fiorentini Sc. Ant. gens Iulia l’onore dell’introduzione del palladio a Roma. Varrone infatti attribuisce il palladio non agli Iulii ma agli oscuri, e quasi scomparsi, Nautii e, a quanto è possibile dedurre dalle fonti, senza giustificarne il successivo passaggio da questi agli Iulii. È vero che forse a Cesare poteva non fare ombra una gens praticamente estinta: ma in un agone politico in cui anche le priorità temporali facevano aggio sulla potenza gentilizia, resta il fatto che Varrone attestava come il culto di Minerva Tritonia non fosse di pertinenza degli Iulii, ma dei Nautii. Peraltro, evidenziando la precedenza storica dei Nautii sugli Iulii nel culto di Minerva, Varrone potrebbe avere sfruttato notizie sui Nautii in funzione anticesariana, rispecchiando i suoi trascorsi pompeiani; ma l’eventuale strumentalità della narrazione non può nascondere che essa si deve essere basata su notizie molto più antiche, delle quali tuttavia è impossibile stabilire la provenienza. Un altro culto sicuramente gentilizio è quello della gens Aurelia, attestato solo in un lemma di Festo epitomato da Paolo Diacono (Aureliam, 22 L.): «Aureliam familiam ex Sabinis oriundam a Sole dictam putant, quod ei publice a populo Romano datus sit locus in quo sacra faceret Soli, qui ex hoc Auseli dicebantur, ut Valesii, Papisii, pro eo quod est Valerii, Papirii». A lungo, e anche di recente, ne è stata dichiarata la natura pubblica, congetturata sulla base della concessione publice del locus destinato al culto77. Ma la concessione pubblica del locus è il solo indizio che permetta di giungere a questa conclusione, mentre in contrario milita l’osservazione che le fonti fanno frequenti riferimenti a concessioni di fondi, aree sepolcrali individuali o collettive, case, emanate publice in favore di privati particolarmente benemeriti; esse, tuttavia, non rimangono pubbliche ma rientrano nella piena proprietà dell’onorato. Mi riferisco alle testimonianze relative alle case dei Valerii, note da molte fonti, e in particolare da Asconio (in Pisonian., 13, 8 ss. Clark) e da Cicerone (de har. resp., 16); ai prata Mucia, di cui parlano Livio (2, 13, 5) e Festo (Paul. Fest., Mucia prata, 131 L.); alla domus concessa publice sulla Sacra via a C. Scipione Nasica Corculum, pontefice massimo dal 150 a.C., cui accenna Pomponio (l. sing. ench., D. 1, 2, 2, 37); per non parlare del locus sub Capitolio concesso ai Claudii come sepolcreto gentilizio78. Per nessuna di queste si parla di pagamento di un vectigal che, fin da età repubblicana, connota l’uso privato di beni pubblici, mentre è evidente che, nei casi ora in esame, siamo in presenza di beni che ricadono nella piena proprietà dei beneficiati. Particolarmente significativo è quanto dichiara Cicerone (de har. resp., 16) sullo status giuridico della domus di Valerio Publicola: «P. Valerio, pro maximis in rem publicam beneficiis data est domus in Velia publice… illi locus… illi quam i p s e p r i v a t o i u r e t u e r e t u r ». Il richiamo alla tutela privatistica assicurata a Valerio, a prescindere dalle motivazioni che avevano spinto 77 Una rassegna critica sarebbe troppo lunga; è sufficiente ricordare che già MOMMSEN 1834, p. 10, lo aveva ritenuto pubblico poiché «in agro publico fieret»; e WISSOWA 1912, p. 315, aveva dichiarato la natura pubblica del culto aurelio «ohne Zweifel». Eppure già WILLEMS 1883, pp. 347 ss., aveva affermato che il publice del lemma festino avrebbe significato solo che la concessione era avvenuta a spese dello stato, senza conseguenze sul regime giuridico del locus. La natura pubblica del culto è stata ribadita ancora più di recente da RICHARD 1976, pp. 915 ss., in un pregevole contributo che mi trova in disaccordo su questo unico, benché centrale, punto. 78 Per un’analisi delle fonti in materia mi permetto di rinviare ancora a FIORENTINI 1988, pp. 132 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1007 Cicerone a menzionare l’episodio79, vale ad assicurarci che la casa di Publicola era di pieno diritto privato. Un regime giuridico attribuito anche alla domus di un altro membro della gens Valeria, secondo una notizia fornita da Valerio Anziate e trasmessa da Asconio (in Pisonian. p. 13, 8 ss. Clark): «M. Valerio Maximo, ut Antias tradidit, inter alios honores domus quoque publice aedificata est in Palatio, cuius exitus quo magis insignis esset in publicum versus declinaretur, hoc est, e x t r a p r i v a t u m a p e r i r e t u r ». La concessione dell’area di culto agli Aurelii segue le stesse modalità. Abbiamo dunque una gens sabina, come i Claudii e i Valerii, che, trasferitasi a Roma, vi ottiene un’area per la celebrazione del culto. Da notare l’etimologia del nomen gentilizio: Auselii < Sol80, come se il nome della gens derivasse dalla divinità a cui i suoi membri celebravano il culto. È evidente che siamo nel contesto del più ristretto patrimonio cultuale gentilizio, in cui perfino il nome si fa derivare dalla divinità a cui viene reso il culto. Anche i Claudii avevano uno o più culti propri: lo attestano alcune testimonianze, invero piuttosto sibilline, su un sacrificio espiatorio annuale e su un culto reso a Saturno. Sul primo ci informa una definizione di Ateio Capitone conservata in un lemma di Festo (propudialis porcus, 274 L.): «propudialis porcus dictus est, ut ait Capito Ateius (fr. 19 Strzel.), qui in sacrificio gentis Claudiae velut piamentum et exsolutio omnis contractae religionis est». Capitone menziona dunque un sacrificio gentilizio nel corso del quale veniva sacrificato un porcus propudialis per l’espiazione di una religio contracta81. La situazione alla quale si riferisce il giurista augusteo è piuttosto oscura, e solo un esame dei termini chiave (propudialis, religio e piamentum) da lui adoperati può consentirci di collocarla genericamente. I primi due termini si riferiscono ad una colpa che ha dato luogo ad una rottura dei rapporti col mondo divino. Due lemmi dell’epitome di Paolo Diacono ci permettono di instradare la discussione per tentare di comprendere la natura di questa colpa: Paul. Fest., propudium, 253 L.: «propudium dicebant, cum maledicto nudare turpitudinem volebant, quasi porro pudendam. Quidam propudium putant dici, a quo pudor et pudicitia procul sint»; e Paul. Fest., pro, 257 L.: «pro ponitur […] pro privandi facultate, ut in propudio, prohibendo, quia utrumque abnuit in his esse pudorem potestatemque». In entrambi i testi il valore di propudium è delineato come antitetico ai valori del pudor e della pudicitia. È dunque nell’ambito del disordine sessuale, che aveva dato luogo a una situazione permanente di contaminazione, che deve essere collocata la religio, per purificare la quale i Claudii sacrificavano annualmente un porco. Il termine piamentum fa invece riferimento esplicito al mezzo necessario al ristabilimento dell’armonico rapporto con la divinità: si tratta di un piaculum, ossia di un sacrificio riparatore della contracta religio. Prosdocimi ha ben messo in luce che il piaculum può servire in una serie molto ampia di situazioni: quando si tratta di compiere una «violenza», volontaria ma necessaria, a un elemento naturale che potrebbe essere consacrato a qualche divinità, come un 79 Si tratta del raffronto, invero un po’ vanitoso, tra la fonte della concessione a Valerio, a cui la casa è donata dal popolo romano con un regime privatistico, e quella a lui restituita grazie a responsi di aruspici e a pronunce dei pontefici e degli auguri, e quindi dotata di una tutela anche rituale. 80 Un’etimologia esatta: sul liber linteus di Zagabria e sul fegato di Piacenza il nome del Sole è Usil. 81 FIORENTINI 1988, pp. 185 ss. 1008 M. Fiorentini Sc. Ant. bosco o le messi, come ricorda Catone (agr., 134 e 139-140); o per riscattare infrazioni sociali; o in seguito a portenta come fulmini o monstra82. Il piamentum della gens Claudia si pone in questa funzione espiatoria, con la differenza che i piacula per i portenta e quelli catoniani sono compiuti una tantum, quando se ne presenti la necessità; mentre quello claudio è perpetuo per espiare una colpa inestinguibile. Se si pensa al crimine di cui la tradizione storiografica accusa il decemviro Ap. Claudio, ossia l’oltraggio a Virginia, la sua uccisione per mano del padre, con così tanti particolari apparentemente romanzeschi narrati da Livio (3, 48), è forte la tentazione di collegare il porcus propudialis a questo episodio tutt’altro che edificante della storia gentilizia dei Claudii. Ovviamente questa è solo una suggestione: mancando le controprove necessarie, la correlazione proposta può essere ipotizzata solo in via indiziaria. Tuttavia l’uccisione del porcus propudialis non appare l’unico atto di culto attribuito dalle fonti alla gente Claudia. In realtà abbiamo altre fonti che ci prospettano la celebrazione di un culto tributato dai Claudii a Saturno. Si tratta di un altro testo, molto mutilo, di Festo (<Saturno>, 462 L.): «<Saturno> sacrificium fit cap<ite aperto… > Metellus pontifex <maximus Claudium augurem iussis>set adesse[t], ut eum <… Sul>pici Ser. f. inaug<urationi adhiberet, Claudius excusa>ret se sacra sibi fa<miliaria esse Saturni, ob quae sibi sup>plicandum esset capite <aperto; itaque si ad iussum > adesset, futurum, ut cum ap<erto capite inauguratio> facienda esset, pontif<ex eum multavit>; Claudius provocavit; <populus negavit ius pon>tifici esse, et Claudius fl<…> Saturno sacra fecit rem<…>». Il testo, a parte le gravi lacune, pone alcuni problemi di difficile soluzione, primo fra tutti quello della cronologia. In genere l’episodio viene datato al I secolo a.C., identificando i personaggi rispettivamente in Q. Cecilio Metello Pio e in Appio Claudio console nel 54 a.C., esperto augure83. Il dato problematico di questa collocazione cronologica è costituito dall’appellativo di Metello: Metellus pontifex senza altre note identificative è costantemente denominato il L. Cecilio Metello console nel 251 a.C., protagonista del famoso episodio del salvataggio del palladio nell’incendio del tempio di Vesta che, nella ricostruzione mitistorica dell’evento, gli sarebbe costata la vista84; e a mio parere è questa l’identificazione giusta. Un altro punto discutibile è la qualificazione del culto come familiare. Bona, nel 1963, l’aveva accettata senza discutere; ma già nel 1949 Volterra lo aveva, a mio avviso correttamente, classificato come culto gentilizio85. Un altro problema posto dal lemma festino è la collocazione temporale del sacrificio. Un testo di Livio (43, 23, 6) potrebbe contribuire a risolvere la questione. Narrando le vicende del 82 PROSDOCIMI 2002, pp. 133 ss. Non ho la possibilità di approfondire un altro punto di una certa importanza, ossia il tipo di animale sacrificato, un porco. FIORENTINI 1988, pp. 187 ss. Tanto meno mi posso soffermare su un’altra espressione di estremo interesse, ossia religio contracta, una locuzione che parrebbe situare la circostanza sul piano della produzione di un’obbligazione, non diversamente, nel caso, da un atto illecito. Ma il punto meriterebbe un’attenzione particolare che in questa sede non è possibile. 83 MÜNZER 1920, p. 267, nota 1; CATALANO 1960, p. 221; BONA 1963, p. 319, n. 18; BONA 1964, p. 81; SZEMLER 1972, p. 175 e n. 4, senza prove, data l’episodio al 63 a.C., l’anno della morte di Metello Pio. 84 La dimostrazione è di COARELLI 1969, p. 149 nota 1, con le fonti a sostegno dell’identificazione, accettata poi da MORGAN 1973, p. 36. 85 Risp. BONA 1963, p. 319; VOLTERRA 1949, p. 526. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1009 primo anno di guerra contro Perseo, lo storico ricorda come i primi scontri tra l’esercito macedone e quello romano, comandato da Ap. Claudio, si svolgessero in Epiro all’inizio dell’inverno, dopo di che, sistemate le truppe negli accampamenti invernali, «Appius nequiquam in his locis terens tempus,… ipse Romam sacrificii causa rediit». Sarebbe suggestivo identificare il giorno di questo sacrificio, che non può essere altro che quello menzionato da Festo, con i Saturnalia. Se così fosse, avremmo un esempio luminoso di culto gentilizio svolto nella stessa data di quello pubblico. Sappiamo che nel calendario romano i Saturnalia iniziavano a.d. XVI kal. Ian. Ma il calendario repubblicano, come ben si sa, era gravemente in ritardo rispetto a quello astronomico: Derow ha dimostrato che le idi di marzo del 168 a.C. caddero il 4 gennaio dello stesso anno, quindi 68 giorni prima della data astronomica86. Se è così, anche il solstizio invernale, e gli stessi Saturnalia, devono essere caduti con un divario temporale simile. Tuttavia, collocando la fine delle operazioni militari verso l’inizio di dicembre, Claudio avrebbe avuto tutto il tempo di compiere alcune operazioni in Epiro, sistemare le truppe negli hiberna e tornare rapidamente a Roma per celebrare il rito a Saturno negli stessi giorni della celebrazione pubblica. Ovviamente questa interpretazione è solo congetturale; ma, se anche non possiamo identificare il giorno in cui i Claudii celebravano il loro sacrificio a Saturno con uno di quelli in cui si svolgevano i Saturnalia, il dato più importante che emerge dal lemma di Festo è che il sacrificio dei Claudii era compiuto secondo le stesse modalità del culto pubblico a Saturno che, com’è fin troppo noto, veniva celebrato graeco ritu, a capo scoperto87. In altri termini il rito gentilizio e quello pubblico si svolgevano seguendo le medesime formalità. I culti dei Valerii e dei Fabii hanno localizzazioni note: il primo stanziato al Terentum, il secondo sul Quirinale. Le origini mitologiche del culto praticato dai Valerii alle divinità infere del luogo sulla riva sinistra del Tevere, successivamente trasformato nei ludi saeculares, sono descritte da Valerio Massimo e Zosimo88; il secondo è ampiamente, benché variamente, citato dalle fonti in rapporto all’assedio gallico di Roma. Il culto della gens Fabia è un caso paradigmatico che ha sollevato discussioni a non finire, per la grande quantità di argomenti correlati. Il testo fondamentale è un passo della narrazione dell’assedio di Roma ad opera dei Galli di Brenno, trasmessaci da Livio (5, 46, 2): «Sacrificium erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabius Dorsuo Gabino cinctu sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per medias hostium stationes egressus nihil ad vocem cuiusquam terroremve motus in Quirinalem collem pervenit; ibique omnibus sollemniter peractis, eadem revertens similiter constanti voltu graduque, satis sperans propitios esse deos quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset, in Capitolium ad suos rediit». 86 DEROW 1973, p. 346; la tabella a p. 349, che mostra come le calende di dicembre cadessero il 16 novembre precedente. 87 SCHEID 1995, pp. 21 ss., ritiene che l’espressione ritus graecus rimandi non alla provenienza etnica di un culto ma solo a una modalità rituale, come quella del compimento del rito a capo scoperto che, nel caso di Saturno e di molte altre divinità cui si sacrificava graeco ritu, non affonda neanche le sue origini in un rituale effettivamente greco. Scheid rifiuta quindi la caratterizzazione del ritus graecus come culto straniero. 88 COARELLI 1997, pp. 113 ss.; ARONEN 1989, pp. 19 ss., ipotizza che Zosimo abbia attinto dal «peri; tw'n para; ÔRwmaivoi" eJortw'n» di Flegonte di Tralle (II secolo d.C.). 1010 M. Fiorentini Sc. Ant. Livio individua dunque nel sacrificio dei Fabii al Quirinale un culto gentilizio in senso proprio (sacrificium statum genti Fabiae); dove, con statum, il Patavino sottintende la cadenza annuale del rito, che si svolge stato die (un giorno prefissato); si tratta inoltre di un rito da svolgersi certo loco (sul Quirinale). Non mi soffermerò sul problema più dibattuto ma che, allo stato, mi pare insolubile, vista anche l’ambiguità delle fonti su tutto l’episodio: quello dell’identificazione della divinità cui il sacrificio era tributato89. Qui discuterò brevemente la natura del culto. Per due volte Livio esplicitamente lo definisce gentilizio, nel luogo appena descritto e in 5, 52: «sollemne Fabiae gentis in colle Quirinali» ove, con sollemne, il Patavino usa il termine tecnico che indica il sacrificio da compiersi ogni anno, come ricaviamo da un lemma di Festo (Sollo, 384 L.): «sollemne quod omnibus annis praestari debet». Ma altre fonti, descrivendo Fabio come sacerdote pubblico, postulano la natura pubblica del rito, come in un frammento di Cassio Dione: «poiché era necessario, da parte dei pontefici, compiere un certo sacrificio in un’altra parte della città, Cesone Fabio, a cui toccava il rituale, discese dal Campidoglio preparato come di consueto, e attraversando le linee nemiche compì i riti prescritti e lo stesso giorno ritornò»90. Si tratta della medesima versione che leggiamo in Floro (1, 7, 16)91. Ne deriva che, nella variante Floro-Dione, il culto è pubblico e non gentilizio. Non sfuggiranno le profonde divergenze di questa versione rispetto a quella liviana: qui Fabio è un pontefice. Non credo, con Fraschetti, che la qualità di pontefice di Fabio possa conciliarsi con la natura gentilizia del rito92: per lo storico greco il culto era di competenza dei pontefici, non specifico dei Fabi, e Dorsuone lo compie rivestendo la carica di pontefice. Quindi, a mio avviso, la contraddizione non è sanabile. Ma la collazione dei testi su questo episodio offre anche di peggio: Appiano fornisce una terza versione anche più divergente rispetto a quella di Cassio Dione, a suo dire letta in un Cassio romano, in genere identificato con Cassio Emina: «e discese dal Campidoglio un sacerdote, di nome Dorso, per un sacrificio annuale nel tempio di Vesta, tranquillamente portando gli oggetti sacri in mezzo ai nemici. 2. Pur vedendo che il tempio era bruciato sacrificò nel luogo consueto… 3. … E questo afferma essere accaduto Cassio il Romano (fr. 19 P.= fr. 23 S.)»93. Qui Fabio è un sacerdote che compie un rito al tempio di Vesta; quindi, 89 Dopo GAGÉ 1966, cfr. WISEMAN 1995. Dio Cass., fr. 25.5 B.: «ejpeidhv ti tw'n iJerw'n ejcrh'n uJpov tw'n pontifivkwn a[lloqi pou th'" povlew" genevsqai, Kaivswn Favbio", ou| hJ iJerourgiva iJknei'to, katevbh te ejp∆ auJth;n ejk tou' Kapitwlivou steilavmeno" w}sper eijwvqei, kai; dia; tw'n polemivwn diexelqw;n ta; te nomizovmena ejpoivese kai; aujqhmero;n ajnekomivsqe». 91 Flor., 1, 7, 16 «Et stato quodam die per medias hostium custodias Fabium pontificem ab arce dimisit» dipende evidentemente dallo stesso ramo della tradizione che fa di Fabio Dorsuone un sacerdote pubblico. 92 FRASCHETTI 1998. 93 App., Celt., 6 Viereck-Roos: «1. kai; ti" ajpo; tou' Kapitwlivou katevbainen iJereuv", o[noma Dovrswn 90 ejpi; ejthvsion dh; tina iJerourgivan ejn to;;n th'" ÔEstiva" newvn stevllwn ta; iJera; dia; tw'n polemivwn eujstaqw'": 2. to;n de; newvn ejmpeprhsmevnon iJdw;n e[qusen ejpi; tou' sunhvqou" tovpou... 3. … Kai; to;de fhsivn w|de genevsqai Kavssio" oJ ÔRomai'o"» (fr. 19 P.=fr. 23 S.).. Partendo dalla considerazione che Kássios è frutto di correzione testuale per un sicuramente errato Kaúsios presente nel greco de virtutibus et vitiis del X secolo che ci ha conservato il frammento di Appiano, FORSITHE 1990, pp. 342 ss., propone di correggerlo in Klaúdios, ossia Claudio Quadrigario. SANTINI 1995, p. 171 s., non si pronuncia sull’ipotesi di Forsithe. Ai fini del mio discorso, che l’autore sia Emina o Quadrigario è indifferente. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1011 non solo un culto pubblico ma neanche svolto sul Quirinale. Non mi soffermerò sugli innumerevoli, e in gran parte infruttuosi, tentativi di comporre queste divergenze insanabili. Ognuna delle varianti ha una spiegazione plausibile: quella di Livio serviva ad accentuare la pietas verso un culto gentilizio, a fronte della minaccia di abbandono della città, ventilata dai plebei, che avrebbe significato la defezione dai luoghi del culto pubblico94; l’autore citato da Appiano forse mirava a sminuire il ruolo svolto da una casata preminente nell’episodio dell’assedio95. Non si può non collegare la notizia del culto gentilizio sul Quirinale ad una versione, tramandata dal solo Dionisio di Alicarnasso (9, 19, 1), relativa al massacro dei Fabi al Cremera, che lo stesso storico dichiara inverosimile: «Alcuni dicono che, avvicinandosi un sacrificio patrio che doveva compiere la gens dei Fabii, gli uomini uscirono per compiere i riti portando con sé pochi clienti, ed avanzarono senza aver prima perlustrato le strade né essendosi disposti per centurie dietro le insegne, ma tranquillamente e senza alcuna cautela, come procedendo in pace e per terre amiche... 3. Questo racconto mi pare poco degno di fede: infatti non è credibile che tali uomini, sotto le insegne militari, tornassero dall’accampamento in città a causa di un sacrificio senza un decreto del senato, potendo i sacri riti essere compiuti anche da altri membri più anziani della stessa casata; e se anche tutti fossero partiti dalla città e nessuna parte della gens fosse stata lasciata presso la sede gentilizia, è inverosimile che tutti coloro che occupavano la fortezza ne abbiano abbandonato la difesa; infatti avrebbero potuto andare anche tre o quattro di essi per compiere il sacrificio in favore di tutta la stirpe. Per queste cause questa narrazione non mi sembra degna di fede»96. Mi pare di poter dire, forse un po’ paradossalmente, che è proprio la dichiarata inverosimiglianza del lógos a indurre a dargli credito: Dionisio, infatti, gli nega attendibilità sulla base 94 Nel celebre discorso che fa pronunciare a Furio Camillo, Livio (5, 52) contrappone la cura delle gentes verso i loro culti al pericolo di abbandono dei luoghi sacri, se fosse stata approvata la proposta plebea di trasferire la popolazione a Veio, abbandonando la città in rovina dopo il saccheggio gallico: «Hos omnes deos publicos privatosque, Quirites, deserturi estis? Quam par vestrum factum [ei] est quod in obsidione nuper in egregio adulescente, C. Fabio, non minore hostium admiratione quam vestra conspectum est, cum inter Gallica tela degressus ex arce sollemne Fabiae gentis in colle Quirinali obiit? An gentilicia sacra ne in bello quidem intermitti, publica sacra et Romanos deos etiam in pace deseri placet, et pontifices flaminesque neglegentiores publicarum religionum esse quam privatus in sollemni gentis fuerit?». Notevole anche la contrapposizione tra gentilicia sacra e publica sacra et Romanos deos, che implica l’antinomia tra le divinità del popolo romano, a cui sono tributati sacra publica, e quelle peculiari della gens. 95 Su alcuni spunti di polemica antigentilizia del nobile Emina cfr. MAZZARINO 1972, pp. 302 ss. 96 Dion. Hal., 9, 19, 1: «Tine;" me;n ou\n fasin o{ti qusiva" ejpistavsh" patrivou, h}n e[dei to; Fabivwn ejpitelevsai gevno", oiJ me;n a[ndre" ejxh'lqon ojlivgou" ejpagovmenoi pelavta" ejpi; ta; iJerav, kai; prohv/esan ou[te diereunwvmenoi ta;" oJdou;" ou[te uJpo; semeiva" tetagmevnoi kata; lovcou", rJa/quvmw" de; kai; ajfulavktw" wJ" ejn eijrhvnh/ te kai; dia; filiva" poreuovmenoi... 3. ou|to" me;n ou\n h|tton e{moige piqano;" faivnetai ei\nai lovgo". ou[te ga;r eijko;" ajpo; stratopevdou qusiva" e{neka tou;" uJpo; tai'" shmeivai" tosouvtou" a[ndra" eij" th;n povlin ajnastrevfein a[neu yhfivsmato" boulh'", dunamevnwn tw'n iJerourgiw'n kai; di∆ eJtevrwn ejpitelesqh'nai tw'n metecovntwn me;n tou' aujtou' gevnou", probebhkovtwn de; tai'" hJlikivai": ou[t∆ eij pavnte" ajpelhlu;qesan ejk th'" povlew", kai; medemiva moi'ra tou' Fabivou gevnou" ejn toi'" ejfestivoi" uJpeleivpeto, pavnta" eijko;" h\n tou;" katevkonta" to; frouvrion ejklipei'n aujtou' th;n fulakhvn: h[rkoun ga;r a[n kai; trei'" h] tevttare" ajfikovmenoi suntelevsai peri; tou' gevnou" o{lou ta; iJerav dia; me;n dh; tauvta" ta;" aijtiva" oujk e[doxev moi pisto;" ei\nai oJ lovgo"». 1012 M. Fiorentini Sc. Ant. di argomentazioni razionali, di tattica militare o di logica comune o di procedura, come il fantomatico pse®phisma boulés che sarebbe stato necessario per tornare in città per svolgere il rito. Mi sembra evidente che nel ragionamento dello storico greco finisce per rimanere totalmente oscurato il carattere privato del bellum dei Fabii, che peraltro risalta particolarmente in pratica in tutte le fonti antiche; anzi, secondo alcune suggestive ricostruzioni, si sarebbe trattato del tentativo di incorporare permanentemente al territorio della tribus Fabia territori marginali confinanti con Veio: una vera e propria espansione territoriale97. È soprattutto un dettaglio ad attirare l’attenzione: quello del ritorno in massa dei membri della gens, sia gentiles sia clienti, per il compimento del sacrificio. Un dato del genere non si accorda con la configurazione assunta dalla religione, anche privata, di età evoluta ma con quella, ancora collettiva, della gens arcaica (almeno per come la possiamo, con molta cautela, intravedere dalle fonti), in cui gentiles e clienti partecipano in massa alla celebrazione del culto, entro certi limiti cooperando per la prosperità materiale e ideale del gruppo. Più incerte, ma altrettanto significative, le notizie su un culto della gens Veturia, noto attraverso due frammenti di un’orazione di Catone, il primo tramandato da Festo (stata sacrificia, 466 L.=ORF 8, 72), «quod tu, quod in te fuit, sacra stata, sollempnia, capite sancta deseruisti»; il secondo da Prisciano (Inst., 6, 16, p. 208 K.=ORF 8, 74): «aquam Anienem in sacrarium inferre oportebat. non minus XV milia Anien abest». Va in primo luogo respinta l’idea, ancora di recente affacciata, che il culto a cui accenna Catone fosse pubblico. Mommsen lo aveva dedotto dalla locuzione capite sancta impiegata dal Censore, e l’illazione era stata approvata dal compianto Gennaro Franciosi, ma a me pare non aderente al tenore dei frammenti pervenuti98. Il rito invece era sicuramente privato; e questo carattere sarebbe rafforzato se accogliamo, come secondo me è necessario, la vecchia ipotesi di Marmorale secondo cui anche il fr. 73 Malcovati sul crepitum dei servi appartenesse all’orazione catoniana, che conterrebbe dunque la giustificazione di ordine rituale addotta da Veturio per la commissio del rito99. Plinio Fraccaro ipotizzò che la Voturia tribus fosse stanziata nell’agro ostiense, come era già stato riconosciuto da Mommsen e, negli anni ’60 del secolo scorso, da Lily Ross Taylor100. Poiché la gens Veturia eseguiva i riti con acqua dell’Aniene, ciò potrebbe alludere al trasferimento della gens dall’agro sabino, attraversato da questo fiume, ove sarebbe stata precedentemente stanziata, a quello ostiense, nel territorio successivamente occupato dalla tribù rustica 97 RICHARD 1989, pp. 68 ss. MOMMSEN 1887, pp. 19 ss. e nota 3, confermato in MOMMSEN 1907, p. 568, nota 1: Mommsen riteneva che la locuzione capite sancta si riferisse alla diserzione dai culti pubblici, considerata «Kapitalklage». Da ultimo accetta tale ricostruzione FRANCIOSI 1995, p. 29, nota 32. Ma già WISSOWA 1912, p. 400, nota 7, aveva respinto l’ipotesi di Mommsen, orientandosi, a mio avviso esattamente, per la natura gentilizia del rito. 99 MARMORALE 1949, p. 95. Fest., stata sacrificia, 466 L.=ORF 8, 73: «Domi cum auspicamus, honorem me dium immortalium velim habuisse. Servi, ancillae, 98 si quis eorum sub centone crepuit, quod ego non sensi, nullum mihi vitium facit. Si cui ibidem servo aut ancillae dormienti evenit, quod comitia prohibere solet, ne is quidem mihi vitium facit». Appare evidente nelle parole di Catone che un evento capace di impedire la convocazione dei comitia non necessariamente era idoneo a contaminare il rito privato. 100 MOMMSEN 1887, p. 165 e nota 2; ROSS TAYLOR 1960, p. 42. Qui prescindo del tutto dalla spinosa (ma anche un po’ oziosa) questione dell’appartenenza della gens alla parte patrizia o a quella plebea della civitas. Sul punto, SHATZMAN 1973, pp. 65 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1013 che avrebbe assunto il nome gentilizio del gruppo ormai ivi stabilitosi da tempo101: un altro cospicuo caso di mobilità orizzontale di gruppi gentilizi, come già delineata nel dossier preparato da Ampolo102. E non affronto lo spinoso problema della coppa prenestina di Vetusia, che potrebbe invece suggerire una provenienza prenestina della stessa gens o di un suo ramo (se il nome è latino e non etrusco, come la critica più recente è portata a credere103). Per finire questa breve carrellata, menziono la testimonianza epigrafica del culto della gens Iulia a Vediovis, scoperta a Bovillae e datata al II secolo (CIL, 12, 1439=ILLRP, 270), un’età in cui gli Iulii non erano ancora al sommo della vita politica ma solo una delle gentes patrizie: in fronte: Vediovei patrei / genteiles Iuliei; in latere dextro: [[Vedi[ov]ei]] aara; in parte postica: leege albana dicata104. Va rilevata prima di tutto l’importanza del luogo di ritrovamento: Bovillae è, secondo la tradizione, la città che ha accolto i sacra di Alba dopo la distruzione, e da qui proviene un altare dedicato da una gens Albana: straordinario esempio di fossile cultuale105. In secondo luogo sarebbe importante comprendere a quale lex Albana si riferisca la dedicazione dell’altare. Frotingham collegò la lex Albana al carattere «vulcanico» del dio, correlato a sua volta al vulcano Albano106. A me pare piuttosto che il nesso sia da comporre proprio con l’origine albana vantata dagli Iulii e dichiarata da Livio (1, 30, 2), che elenca gli Iulii tra le gentes deportate a Roma da Tullo Ostilio dopo la distruzione di Alba107. Questa tradizione, così, non può più essere 101 FRACCARO 1924, p. 55. Con un calcolo delle distanze non privo di elementi congetturali (soprattutto il punto da cui partire per misurare le quindici miglia), egli giungeva ad identificare nel X miglio della via Ostiensis il punto approssimativo ove localizzare il sacrario dei Veturii. Fraccaro correggeva così l’ipotesi precedentemente formulata (FRACCARO 1911, p. 43, n. 1), secondo cui XV, presente nei codici di Prisciano, sarebbe stato un errore per IIII. La nuova soluzione è di gran lunga preferibile. 102 AMPOLO 1970-71, pp. 42 ss., con importanti osservazioni sul ruolo centrale ricoperto dai gruppi gentilizi all’interno della civitas di V secolo a.C. Rilievi di grande interesse sul tema della mobilità gentilizia in età altorepubblicana sono proposti da TORELLI 1988A, p. 66 s., ed ora da BRIZZI 2001, pp. 125 ss. 103 Mi pare che ormai l’origine latina dell’iscrizione sia stata abbandonata sin da TORELLI 1967. TORELLI 1981, pp. 135 ss., ipotizza plausibilmente un passaggio della gens da Veio (come testimonierebbe la presenza in quella città del veiente Mamurio Veturio) a Preneste, e da qui a Roma. Ipotesi prospettata anche da GRANT 1982, p. 308, per il quale l’iscrizione sulla coppa «documenta la forma di un arcaico nome regale veientino (sic nella trad. it.), Vetusia», ma respinta da AMPOLO 1980, p. 176. Cfr. anche ROMANO 1988. 104 Dalle note dell’ed. ILLRP (I, p. 159) ricaviamo due dati epigrafici importanti: patrei fu «postea additum», e il Vedi<ov>ei del lato destro, aggiunto dal lapicida per errore, fu eraso. Soprattutto il rilievo relativo a pater come appellativo di Vediovis è significativo perché non coevo con la dedicazione dell’ara gentilizia. Com’è noto Tacito (Ann,. 2, 41) ci informa che Tiberio costruirà un sacrario nei pressi di Boville: «Fine anni arcus propter aedem Saturni ob recepta signa cum Varo amissa ductu Germanici, auspiciis Tiberii, et aedes Fortis Fortunae Tiberim iuxta in hortis, quos Caesar dictator populo Romano legaverat, sacrarium genti Iuliae effigiesque divo Augusto apud Bovillas dicantur». Sulla natura ambigua della divinità, la cui rilevanza nel calendario arcaico è comunque dimostrata dal fatto che l’atto di culto in suo onore vi è definito come agonium, ossia sacrificio compiuto dal rex in regia, come afferma Varrone (L. L., 6, 12, «dies agonales per quos rex in regia arietem immolat»), MAGDELAIN 1995, pp. 18 ss. 105 Un tentativo di ricostruire un’etnologia laziale precivica a partire dalla lista di Plinio fu compiuto da BERNARDI 1964, pp. 228 ss., ancora legato alle teorie etniche, ma di sicuro interesse. 106 FROTINGHAM 1917, p. 376. 107 Com’è noto, la tradizione manoscritta del passo liviano reca non Iulios ma Tullios; la correzione tuttavia pare inevitabile, dato che nessuno ha mai pensato che i Tullii avessero origini albane. Sulla deportazione delle gentes Albanae a Roma, MAGDELAIN 1995, pp. 37 ss. 1014 M. Fiorentini Sc. Ant. imputata alla piaggeria di scrittori che, volendo compiacere la vanità di Cesare, proiettano nel passato più remoto l’origine della gens in funzione encomiastica, ma appare attestata epigraficamente già nel II secolo a.C., in un’età in cui la casata degli Iulii non è ancora particolarmente eminente. Mommsen, che identificò la lex Albana in una regolamentazione cultuale pubblica che perpetuava l’ancestrale rito albano, alla quale quello gentilizio si sarebbe dovuto conformare108, si era maggiormente avvicinato alla soluzione, che tuttavia non mi pare ancora soddisfacente. Infatti, dalla scarna allusione sembra di poter ricavare che il rinvio alla lex Albana non riguardasse le modalità del rito ma quelle della dedicazione dell’ara, leege Albana dicata: un procedimento ben noto sul piano epigrafico riguardo a luoghi di culto non solo pubblici, ma anche privati109. Infine un altro dettaglio mi pare importante: gli Iulii non dedicano l’ara a Roma, ove era presente un antichissimo culto pubblico di Vediovis, qualificato come agonium ed officiato dal rex110. Qualunque sia l’implicazione di questo rilievo, una gens stabilitasi a Roma da molti secoli, ma con saldi legami con l’area da cui aveva tratto origine, ancora nel II secolo a.C. si richiama a prescrizioni rituali che fanno riferimento a un centro estintosi mezzo millennio prima. Ancora Cicerone (De har. resp., 32) ricorda come molti membri dell’ordine senatorio eseguissero culti gentilizi a Diana in un sanctissimum sacellum sul Celicolo: «L. Pisonem quis nescit his temporibus ipsis maximum et sanctissimum Dianae sacellum in Caeliculo sustulisse? Adsunt vicini eius loci; multi sunt etiam in hoc ordine qui sacrificia gentilicia illo ipso in sacello stato loco anniversaria factitarint». Questa fonte, stranamente poco utilizzata in relazione al culto gentilizio, attesta al di là di ogni possibile dubbio come, ancora alla fine della Repubblica, il culto gentilizio fosse diffuso nella certo non vastissima cerchia dell’aristocrazia senatoria alla quale Cicerone si rivolge ricordando la demolizione del sacello ad opera di L. Calpurnio Pisone Cesonino. Questo fenomeno induce a non accentuare eccessivamente la crisi del culto gentilizio nella tarda Repubblica. Se molti sono gli episodi di diserzione dei culti privati e di distruzione di secolari luoghi di culto, va tuttavia riconosciuto che forse i nobiles, nella vita quotidiana, avranno perpetuato le antichissme pratiche di culto. Forse gli episodi ricordati con indignata foga retorica da Cicerone sono solo casi isolati, che potrebbero, a contrario, confermare che, nel quotidiano, il culto gentilizio in qualche modo continuava ad essere praticato con una certa continuità. Tutti questi riti sono stati sempre confinati nella più ristretta cerchia gentilizia. Vi sono invece culti che, o nella loro eziologia, o nel loro svolgimento storico, nati come culti gentilizi, in séguito sono stati accolti come culti pubblici: il culto di Ercole all’ara maxima, che sappiamo essere diventato pubblico solo alla fine del IV secolo, quello al Terentum dei Valerii, che si trasformerà nei ludi saeculares, o il rito svolto al tigillum sororium, collegato alla gens Horatia111. 108 MOMMSEN 1834, p. 18: «Lex sacrorum faciundorum Albano ritu, gentis Iuliae patrio». 109 Per limitarmi ad esempi di età repubblicana, CIL, 14, 2892, da Praeneste; 11, 944, da Carpi. 110 MAGDELAIN 1995, pp. 18 ss. 111 Un altro, attestato archeologicamente, potrebbe essere il luogo di culto connesso alla villa arcaica dell’Auditorium, trasformato nel IV secolo a.C., stando alla valutazione di D’ALESSIO - DI GIUSEPPE 2005, pp. 15 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1015 Non credo invece che in questo gruppo siano da includere i Lupercalia, dei quali sono portato a escludere il carattere gentilizio. Su quest’ultimo mi soffermerò brevemente. 4. I Lupercalia non sono un culto originariamente gentilizio – Agli inizi stessi della città troviamo il rito più famoso e discusso della religione romana, quello dei Lupercalia. La sua caratterizzazione gentilizia è accolta quasi unanimemente, soprattutto facendo leva sulla circostanza che le due sodalitates che lo svolgono portano nomi gentilizi, Luperci Fabiani e Quinctiales (o Quintiliani)112. Dirò subito che il carattere originariamente gentilizio dei Lupercalia a me non riesce convincente. Le fonti sui Lupercalia si possono suddividere in due gruppi omogenei: quello che descrive il rito e quello che ne narra l’eziologia. I due insiemi non si amalgamano facilmente tra loro: quello «rituale» non sembra presentare decise connotazioni gentilizie; quello «eziologico» si appunta invece sulla rivalità tra le due sodalitates, riportata a una sorta di gara tra i due capostipiti, Romolo e Remo, senza rendere conto dei particolari, decisamente inconsueti, del rito. Cerchiamo di dipanare brevemente la matassa. In un’orazione giudiziaria (pro Cael., 26) Cicerone descrive i rapporti che intercorrono tra i membri delle due sodalitates: «Neque vero illud me commovet, quod sibi in Lupercis sodalem esse Caelium dixit. Fera quaedam sodalitas et plane pastoricia atque agrestis germanorum Lupercorum, quorum coitio illa silvestris ante est instituta quam humanitas atque leges, siquidem non modo nomina deferunt inter se sodales, sed etiam commemorant sodalitatem in accusando, ut, ne quis id forte nesciat, timere videantur!». Come si vede, l’oratore colloca l’origine dei collegi lupercali all’età preurbana, quando ancora la comunità non era retta dalle leggi ed aveva caratteri talmente primitivi da non contemplare quella solidarietà che dovrebbe vincolare tra loro i membri di qualsiasi sodalitas, ma che tra i Luperci non esisteva proprio perché essi risalivano a un’età in cui, non essendo stata ancora fondata la città, erano ignote le relazioni tipiche di una società civile. La cronologia preromulea è confermata dall’appellativo che Varrone (L. L., 6, 34) attribuisce all’abitato palatino nell’ambito del rito: antiquum oppidum Palatinum significa che il sito non è ancora stato inaugurato da Romolo; ed è significativo che alla fine della Repubblica Varrone fosse così avvertito della precedenza cronologica dei Lupercalia da definire il Palatino semplicemente oppidum, evitandone una caratterizzazione terminologica «urbica». Nel discorso ciceroniano i germani Luperci alludono alle due sodalitates, ma anche ai due germani mitici per eccellenza, Romolo e Remo, che avrebbero fondato il culto113. Ed è proprio questo il punto che mi porta a dubitare della caratterizzazione gentilizia del rito: essa si evidenzia esclusivamente per i nomi gentilizi delle due sodalitates, ma quasi tutti i miti eziologici attestati dalle fonti prescindono dalle gentes. Leggiamo questo lungo testo di Servio (Ad Aen., 8, 343): «‘gelida monstrat sub rupe lupercal’ sub monte Palatino est quaedam spelunca, in qua de 112 Come MARQUARDT 1878, p. 422; WISSOWA 1912, p. 404; CORSANO 1977; DE MARTINO 1979, pp. 57 ss., e, sia pur rapidamente, CAPOGROSSI COLOGNESI 2000, che lo definisce «forse il più importante». Ma contra, già UNGER 1881, p. 54. Un elenco che non ha la minima pretesa di esaustività. 113 Il fatto che Cicerone parli non di due soda- litates ma di una sola fera quaedam sodalitas non mi pare significativo: nel contesto del brano l’oratore non intende riferirsi alla loro organizzazione interna. Una lettura convincente di questa testimonianza ciceroniana, e dell’inesistenza dei rapporti che normalmente legano tra loro i sodales, in FRASCHETTI 2002, pp. 18 ss. 1016 M. Fiorentini Sc. Ant. capro luebatur, id est sacrificabatur: unde et lupercal non nulli dictum putant. alii quod illic lupa Remum et Romulum nutrierit: alii, quod et Vergilius, locum esse hunc sacratum Pani, deo Arcadiae, cui etiam mons Lycaeus in Arcadia consecratus est. et dictus Lycaeus, quod lupos non sinat in oves saevire. ergo ideo et Euander deo gentis suae sacravit locum et nominavit lupercal, quod praesidio ipsius numinis lupi a pecudibus arcerentur. Dan.: sunt qui dicant hunc Pana Enualion, deum bellicosum: alii Liberum patrem, eo quod capro ei fit divina res, qui est hostia Liberi propria. in huius similitudinem intecti cultores eius: cui lupercalia instituta sunt, quia deus pastoralis est. nam Remum et Romulum ante urbem conditam lupercalia celebrasse eo quod quodam tempore nuntiatum illis sit latrones pecus illorum abigere: illos togis positis cucurrisse caesisque obviis pecus recuperasse: id in morem versum, ut hodieque nudi currant. non nulli propter sterilitatem hoc sacrum dicunt a Romulo constitutum, ideoque et puellae de loro capri caeduntur, ut careant sterilitate et fecundae sint: nam pellem ipsam capri veteres februm vocabant». Anche le varie eziologie narrate dal Servio Danielino ne collocano le origini ai primordia, quando il Palatino è ancora un oppidum, e a quel mondo pastorale anteriore alla fondazione della città (ante urbem conditam) in cui l’abigeato è frequente degenerando spesso in disordini. Come si può vedere, l’ultima interpretazione proposta dal commentatore, «non nulli propter sterilitatem hoc sacrum dicunt a Romulo constitutum», neanche si lega alla storia dei gemelli (tanto più che vi compare solo Romolo, e non anche il fratello). Mi pare importante notare che anche le tradizioni ricordate dai due testi serviani che collegano le due sodalitates ai mitici gemelli, non fanno alcuna menzione dei Fabii e dei Quinctii. Un’eziologia diversa, e a mio avviso deteriore rispetto a quella narrata dal Servio aucto, è riportata da Valerio Massimo (2, 2, 9): «Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est tunc, cum laetitia exultantes, quod his avus Numitor rex Albanorum eo loco ubi educati erant, urbem condere permiserat sub monte Palatino […] facto sacrificio caesisque capris epularum hilaritate ac vino largiore provecti, divisa pastorali turba, cincti obvios pellibus immolatarum hostiarum iocantes petiverunt. Cuius hilaritatis memoria annuo circuitu feriarum repetitur». Sembra che, nell’ansia di coprire quanto di «anticivico» è presente nel rito lupercale, Valerio Massimo ne abbia volutamente cancellato i particolari più imbarazzanti, trasformandolo in un innocuo gioco di giovani in preda al vino e al buon umore114: è per questo che lo ritengo deteriore rispetto alle altre versioni note. La maggior parte delle fonti antiche relative all’origine delle due sodalitates non le collega alle gentes: non la narrazione di Fabio Pittore, né quella di Tuberone, né quella dell’altrimenti ignoto Boutas: testimonianze raccolte tutte da Plutarco nella biografia di Romolo (Rom., 1, 79-80). C’è invece un particolare del mito eziologico più famoso, quello di Ovidio (Fast., 2, 373-380), che non solo si riferisce sicuramente al rito ma collega esplicitamente le due sodali- 114 Dico «anticivico» nel senso messo in luce da FRASCHETTI 2002, pp. 24 ss., facendo leva su alcuni particolari del mito eziologico, che ho definito imbarazzanti: Remo che si ciba degli exta ancora semicrudi, e senza farne parte a Romolo e ai suoi sodales. Partendo da questo passo WISEMAN 1995 propone una conget- tura di grande interesse circa un’ipotetica riforma dei collegi lupercali effettuata nel 304 a.C. da Q. Fabio Rulliano. Tuttavia mi pare che l’A. sopravvaluti l’importanza della narrazione di Valerio Massimo; a mio parere essa è solo una variante nettamente impallidita. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1017 tates alle gentes: è il momento in cui Romolo, dopo il massacro dei ladri di bestiame, arrivato più tardi del fratello, si accorge che Remo e i suoi sodales, i Fabiani, hanno mangiato gli exta senza attendere il suo ritorno: «ut rediit (scil., Remus), veribus stridentia detrahit exta / atque ait ‘haec certe non nisi victor edet.’ / dicta facit, Fabiique simul. venit inritus illuc / Romulus et mensas ossaque nuda videt. / r i s i t , e t i n d o l u i t F a b i o s p o t u i s s e R e m u m q u e / v i n c e r e , Q u i n t i l i o s n o n p o t u i s s e s u o s . / forma manet facti: posito velamine currunt, / et memorem famam quod bene cessit habet». Romolo ride e si duole: l’interpretazione razionalistica, proposta da Ovidio, immagina che Romolo abbia, come si suol dire, fatto buon viso a cattiva sorte. Io penso, invece, che in questa risata (che ha dato a Valerio Massimo il destro di falsificare, da bravo benpensante, tutto l’intento del rito, trasformandolo in un ingenuo gioco di primitivi «bestioni») vada sentita l’eco lontana di un dettaglio importante del rituale descritto da Plutarco: in una prima fase, che si svolge nelle immediate adiacenze della grotta del Lupercal, «sacrificano infatti delle capre, e poi fatti venire presso di loro due giovani nobili, alcuni li toccano sulla fronte con un coltello grondante di sangue, gli altri li asciugano subito con un batuffolo di lana inzuppato di latte. Dopo essere stati asciugati, i giovani devono scoppiare a ridere»115. Il rituale, che riusciva incomprensibile a Plutarco (che ne definiva l’aitía, in apertura di § 6, dustópaston), appare chiaramente di natura iniziatica, di morte e di resurrezione: il sangue delle capre sacrificate porta alla vita i due giovani (che ovviamente rappresentano le due sodalitates116), e la risata che essi lanciano è la manifestazione della loro nuova vita. Ovidio ha razionalizzato questa risata, non comprendendone la vera natura di morte e rinascita117. E Ovidio e Plutarco ci introducono al rituale. Le fonti che si soffermano sulla funzione del rituale ne evidenziano la finalità lustrale. La più importante è un testo di Varrone (L. L., 6, 34): «posterior (scil. mensis), ut idem dicunt scriptores, ab diis inferis Februarius appellatus, quod tum his paren<te>tur; ego magis arbitror Februarium a die februato, quod tum februatur populus, id est Lupercis nudis lustratur antiquum oppidum Palatinum gregibus humanis cinctum». Il Reatino contrappone due etimologie del nome del mese di febbraio che a suo avviso sono incompatibili tra loro: quella funeraria, giustificata dalla collocazione calendariale delle parentationes in memoria degli agnati defunti in febbraio; e la sua («ego magis arbitror»), secondo cui il mese prende nome dal dies februatus, ossia quello in cui si svolge il rito lupercale, fondata sulla assimilazione tra februare e lustrare. 115 Plut., Rom., 21, 6: «sfavttousi ga;r ai\ga", ei}ta meirakivwn duoi'n ajpo; gevnou" prosacqevntwn aujtoi'", oiJ me;n hJ/magmevnh/ macaivra/ tou' metwvpou qiggavnousin, e{teroi d''∆ ajpomavttousin eujquv", e]rion bebregmevnon gavlakti prosfevronte". gela'n de; dei' ta; meiravkia meta; th;n ajpovmaxin». Il testo ovidiano evidenzia anche un’altra fase importante del rito: il pasto consumato vede la preminenza della sodalitas collegata a Remo, quella dei Fabiani. 116 Così convincentemente anche FRASCHETTI 2002, p. 21. Tuttavia, secondo l’A. la risata vuole ri- cordare il risit et indoluit di Romolo. A mio parere è il contrario: le espressioni di Ovidio dimostrano che egli non comprendeva la ragione della risata e tentò di razionalizzarla. 117 Questa parte del rito potrebbe essere collegata alla particolare data in cui esso si svolge: in effetti già COARELLI 1983, p. 276, aveva sottolineato la funzione espiatoria della festa, in quanto posta «al centro di una celebrazione dei morti, i dies parentales». Questa funzione dei Lupercalia suona particolarmente persuasiva, visto il particolare momento dell’anno 1018 M. Fiorentini Sc. Ant. A me pare che l’incompatibilità sia solo apparente, e che anzi i due aspetti, funerario e lustrale, si possano integrare tra loro. Infatti appare evidente che la seconda parte del rito, che si svolge intorno all’antiquum oppidum Palatinum, abbia una decisa connotazione propiziatoria: il rituale di morte e rinascita dei Luperci, svolto al Lupercal, si trasmette a tutta la popolazione, soprattutto alle donne, per procurar loro la fecondità; tanto è vero che sono loro le prime destinatarie delle frustate. L’espressione «gregibus humanis cinctum», che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, secondo me si inscrive perfettamente in questa prospettiva: gli uomini-capri (o gli uomini-lupo, se aveva ragione Altheim118) corrono tutto intorno alle radici del Palatino (ma, come ha sottolineato benissimo Fraschetti, al di fuori di esso, dato che la Sacra via, percorsa dai Luperci alla base della pendice settentrionale del Palatino, è esterna al pomerio romuleo), e colpiscono il gregge degli umani che sta all’interno del circuito percorso dai Luperci: questi, a mio avviso, sono i greges humani di cui parla Varrone (L. L., 6, 34), e non i due gruppi di Luperci119. E che il percorso fosse intorno al Palatino mi pare dimostrato dalla circostanza che si trattava di una lustratio, termine di cui Macrobio (Sat., 3, 5, 7) fornisce il significato rituale, affermando che «lustrare significat circumire»120. La finalità propiziatoria mi pare coessenziale all’intero rito: non credo, con Wiseman121, che essa appartenga a uno strato del rito successivo a quello lustrale. Questa funzione propiziatoria può spiegare perché, secondo alcune tradizioni, trasmesse nell’epitome paolina (Februarius, 75 L.), il febbraio abbia questo nome: «Februarius mensis dictus, quod tum, id est, extremo mense anni, populus februaretur, id est lustraretur ac purgaretur, vel a Iunone Februata, quam alii Februalem, Romani Februlim vocant, quod eo mense sacra fiebant, eiusque feriae erant Lupercalia, quo die mulieres februabantur a lupercis, amiculo Iunonis». Il lemma riporta entrambi gli aspetti del rito, sia quello espiatorio, collegato al periodo dell’anno (extremo mense anni) in cui si svolge, sia quello propiziatorio, vòlto ad impetrare la in cui si svolge. Tuttavia la finalità espiatoria, legata ai morti, non mi pare alternativa a quella lustrale; anzi, come cercherò di mostrare, le due funzioni mi sembrano complementari. 118 ALTHEIM 1956, II, p. 13, definì il rito lupercale una «Wolfshöhle». 119 Come credeva WISEMAN 1995, p. 82. Sprovvista di qualsiasi verosimiglianza l’ipotesi di KIRSOPPMICHELS 1953, pp. 38 ss., criticata anche da ZIOLKOWSI 1998-99, pp. 198 ss., anche se qualche credito sembri attribuire alla sua idea della corsa dei Luperci come forma di difesa contro i possibili effetti maligni della presenza dei morti durante il novemdiale dei Parentalia. Contro questa ricostruzione sia sufficiente rilevare che i morti a cui favore si compiono i riti parentali non sono i «morts malfaisants» di Jobbé-Duval, ma i parentes. 120 Nonostante HARMON 1978A, pp. 1441 ss., e FLOBERT 1983, p. 96, ritengo inaccettabile KIRSOPPMICHELS 1953, pp. 43 ss., la quale dava eccessivo rilie- vo al «Lupercorum per sacram viam ascensum atque descensum» di Agostino (civ. Dei, 18, 12). Credo che l’Ipponense si riferisse solo al settore della corsa più frequentato dal «pubblico» e perciò percorso più volte avanti e indietro dai Luperci lungo il tragitto in declivio della Sacra via (su cui COARELLI 1983; FRASCHETTI 2002, p. 142, nota 50, e FIORENTINI 1988, p. 168 e nota 125). Sul percorso in declivio della Sacra via, CARANDINI 2004, pp. 14 ss. L’interpretazione di Michels è ora accolta da ZIOLKOWSKI 1998-99, pp. 195 ss., pur critico verso l’eccessivo rilievo concesso dalla studiosa al passo di Agostino. Per un percorso intorno al Palatino si pronuncia anche WISEMAN 1999, p. 77, che evidenzia come lustratio «dovrebbe implicare un percorso circolare», apportando l’uso del termine in Catone (Agr., 141, 1), che lo fa coincidere con circumagere. 121 WISEMAN 1999, p. 78 s., che argomenta dal fatto che i Luperci battevano non solo le donne, ma tutti coloro che incontravano. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1019 fecondità delle donne, che richiama la presenza di Iuno. Incidentalmente, dalle parole di Paolo Diacono parrebbe che non solo i Romani, ma anche altre comunità avessero festività in onore di questa Iuno, denominata in modo diverso che a Roma (Februalis invece che Febru® lis). Anche Giovanni Lido ci trasmette alcune informazioni preziose, combinate ad altre confuse e forse fraintese: «il febbraio prende nome da Februa, dea così chiamata; i Romani adottarono Februa come divinità custode della purificazione delle azioni; invece Anisio, nel suo ‘Sui mesi’, afferma che Februo, in lingua etrusca, significa il mondo infero e viene venerato dai Luperci allo scopo di aumentare i frutti. Ma Labeone afferma che febbraio prende nome dal lutto; infatti presso i Romani il lutto si chiama feber e durante questo mese veneravano coloro che abitavano nell’aldilà. Ma i libri pontificali chiamano il purificare februare, e Plutone Februs. Ritengono che il mese di febbraio sia consacrato ad Era per il fatto che ai fisici Era appare essere il cielo inferiore; e la purificazione è assolutamente adatta ad esso. Si chiama però non solo Febbraio, ma anche Februato, per il fatto che presiede ad esso, e con sacrifici vengono adorate Februata e Februale»122. Oltre ad alcune informazioni avvicinabili a quelle del lemma di Paolo-Festo, Lido infila una dietro l’altra tre citazioni rare e per questo preziose (il che non significa che siano vere): a) secondo uno sconosciuto poeta elegiaco, Anýsios, nel rito lupercale vi sarebbe una sovrapposizione lessicale etrusca: «∆Anuvsio"... Febrou'on to;n katacqovnion ei\nai th'/ Qouvskwn fwnh'/ … levgei, kai; qerapeuvesqai pro;" tw'n Louperkw'n uJpe;r ejpidovsew" tw'n karpw'n». L’aspetto funerario, che risalta nel rapporto col katachthónion, si accompagna tuttavia, nella visuale di Anisio, a uno propiziatorio, volto ad assicurarsi un buon raccolto, ove, più che un aspetto agrario, potrebbe vedersi un fraintendimento, o forse meglio una metafora, del «raccolto» umano propiziato alle donne in età feconda dai colpi inferti dai Luperci con l’amiculum Iunonis. L’etimologia del febbraio dal «tòn katachthónion» non è comunque una gratuita invenzione dell’oscuro poeta, risalendo piuttosto alla tradizione antiquaria del II secolo a.C.: Varrone (L. L., 6, 34) ricorda come, secondo Ser. Fulvio Flacco (cos. 135 a.C.) e M. Giunio Graccano, «ab diis inferis Februarius appellatus, quod tum his paren<te>tur»123; b) un Labeone, che Pernice124 identificò con Cornelio Labeone, enfatizza l’aspetto espiatorio del rituale, sulla base del significato di phéber, collegato dall’erudito romano con il latino februum, con cui era designata la striscia di pelle di capra con cui i Luperci battevano gli astanti e soprattutto le donne; 122 Lyd., de mens., 4, 20: «Tw'/ Febrouarivw/ meniv ajpo; Febrouva", qea'" ou{tw prosagoreuomevnh", to; o[noma gevgonen: Febrouvan de; e[foron kaqartikh;n tw'n pragmavtwn oiJ ÔRwmai'oi parevlabon: ∆Anuvsio" de; ejn tw'/ peri; mhnw'n Febrou'on to;n katacqovnion ei\nai th'/ Qouvskwn fwnh'/ levgei, kai; qerapeuvesqai pro;" tw'n Louperkw'n uJpe;r ejpidovsew" tw'n karpw'n. oJ de; Labew;n ajpo; tou' pevnqou" levgei klhqh'nai to;n Febrouavrion: fevber ga;r para; ÔRwmaivoi" to; pevnqo" prosagoreuvetai, kat∆ aujto;n de; tou;" katoicomevnou" ejtivmwn. ajlla; mh;n kai; febroua're to; kaqa'rai ta; pontifikavlia bibliva kalei', Fevbron to;n Plouvtwna. to;n Febrouavrion mh'na »Hra/ ajnateqh'nai ajxiou'si dia; to; th;n »Hran para; toi'" fusikoi'" dokei'n ei\nai ton; u}ption ajevra: oJ de; kaqarmo;" a[ntikru" tw'/ ajevri ajrmovdio". ouj movnon de; Febrouavrio" ajlla; kai; Febrouavto" levgetai, dia; to; th;n touvtou e{foron, kai; Febrouavtan kai; Febrouavlem, toi'" iJeroi'" ajnafevresqai». 123 UNGER 1881. 124 PERNICE 1873, pp. 46 ss. Su Cornelio Labeone, BRIQUEL 1998, pp. 345 ss. 1020 M. Fiorentini Sc. Ant. c) un’opinione che evidentemente era supportata dai libri pontificali nei quali, a detta di Giovanni Lido, si leggeva la stessa notizia125: «febroua're to; kaqa'rai ta; pontifikavlia bibliva kalei', Fevbron to;n Plouvtwna», ove Plutone appare interpretatio graeca di una divinità infera romana, forse Dite o forse Vediovis126. Ma Lido fa emergere, un po’ confusamente, anche quello propiziatorio collegato a Iuno. In tutto questo discorso l’aspetto gentilizio rimane completamente oscurato. Il rituale è certamente pubblico pro populo (nel senso di Capitone), e non ha niente a che fare con i Fabii o con i Quinctii. Il mito di fondazione del rito è collegato alle due gentes da un numero relativamente ristretto di fonti: Ovidio, due lemmi festini (Paul Fest., Faviani, 78 L., e <Quintiliani Luperci>, 308 L., come integrato da Orsini e Mueller), un riferimento poetico di Properzio (4, 1, 26), e l’origo gentis Romanorum (22, 1: «suos appellaverunt, Remus Fabios, Romulus Quintilios»). Ma l’analisi delle finalità del rito ora tentata mi porta ad escludere questa identificazione. Il rito, come si è potuto vedere, serviva alla lustratio dell’oppidum Palatinum, con cui nessuna delle due gentes aveva rapporti: non i Quinctii che, secondo Livio (e quindi probabilmente Varrone, che dovrebbe essere la sua fonte tramite il de familiis Troianis), hanno origine albana, da cui furono deportati sotto Tullo Ostilio e, secondo un’ipotesi recente, potrebbero avere avuto il loro luogo di residenza sul Celio, mentre secondo Marinella Corsano potrebbero avere avuto rapporti col Capitolium, attraverso contatti con Iuppiter127; non i Fabii, che avevano il loro luogo di culto ancestrale sul Quirinale dove, ancora nei primi anni del IV secolo, compivano il loro annuale sacrificio gentilizio128. Nel 1963, partendo proprio dal collegamento dei Fabii col 125 Questa testimonianza di Giovanni Lido va aggiunta al dossier di tracce dei libri pontificum raccolto da Francesco Sini. 126 L’identificazione di Ploúto® n con Vediovis potrebbe essere suggerita dall’avvicinamento di Fauno, la divinità a cui in primo luogo è dedicata la festa, con Vediovis, secondo la prospettiva di KERENYI 1979, p. 87. Ciò, a parere dell’A., spiegherebbe perché Cesare non avrebbe avuto difficoltà ad aggiungere una terza sodalitas alle due originarie: infatti Vediovis era venerato a Boville dagli Iulii (CIL, 12, 1439=ILLRP, 270: Vediovei patrei / genteiles Iuliei / [[Vedi<ov>ei]] aara / leege Albana dicata (FIORENTINI 1988, pp. 237 ss., e supra, p. 1013). 127 L’eccezionale livello delle sepolture del VII e del VI secolo della zona lateranense, che riflette una notevole prosperità dei gruppi ivi stanziati, induce COLONNA 2005, p. 737, a cautamente identificarle con quelle dei capi albani deportati a Roma da Tullo Ostilio, tra cui, come ricorda Livio (1, 30, 2) vi erano anche i Quinctii. Quanto al legame col Capitolium, espresso dal cognomen portato da uno dei gruppi più antichi della gens, CORSANO 1977, pp. 146 ss., ne trae un’illazione di tipo funzionalistico (presunta «capitolinité» della gens Quinctia) che ritengo inammissibile. 128 Notavo (FIORENTINI 1988, pp. 165 ss.) che la prospettiva «gentilizia» lascia inesplicato un particolare che la rende inverosimile: se le due sodalitates avessero fin dall’inizio avuto caratterizzazione gentilizia, non si riuscirebbe a spiegare la notizia, irrimediabilmente contradditoria, secondo cui i Quinctii sarebbero stati deportati forzatamente a Roma da Tullo Ostilio dopo la distruzione di Alba. Una composizione potrebbe essere proposta nell’immaginare la presenza di due nuclei di Quinctii, una albana e una romana. Ma una dispersione gentilizia per queste età così antiche non mi pare verosimile. La contraddizione pertanto rimane e non può essere spiegata se non escludendo l’originarietà del carattere gentilizio del rituale. Che poi, a mio parere, non si presenta neanche nelle età successive. Ovviamente questo rilievo si regge sul presupposto che il nome autentico della sodalitas romulea rimandi alla gens Quinctia. Ovidio usa Quintilii, e Dionisio (3, 29, 7), nel riportare l’elenco delle gentes coattivamente trasferite a Roma da Tullo Ostilio, usa Kointilíous: ma il nome di questa gens ha una formazione più recente dell’altra che, col tema in -ali-, appartiene ad uno strato molto arcaico, di cui fanno parte anche i nomi dei flamines (PERUZZI 1978, p. 33 s.). 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1021 Quirinale testimoniato dal culto gentilizio di cui ci informa Livio (5, 46, 2), combinato con la suddivisione del collegio dei Salii in due gruppi, Palatini e Collini, Arnaldo Momigliano aveva argomentato che i Luperci avrebbero rappresentato la fusione della comunità latina con quella sabina129. Almeno per quanto attiene al rito lupercale questa deduzione mi pare poco verosimile: in primo luogo, se i Fabii hanno rapporti accertati col Quirinale, non altrettanto si può dire dei Quinctii per il Palatino, dato che sappiamo dalla lista liviana che, fino al regno di Tullo Ostilio, essi erano stanziati ad Alba, donde vennero deportati dopo la sua distruzione. Inoltre, se la suddivisione del collegio lupercale in due sodalitates rispecchia una sorta di sinecismo tra la comunità palatina e quella collina, non si capisce perché il rito si dovesse svolgere esclusivamente attorno a uno dei due stanziamenti. In questo caso l’«evidence» invocata dal Maestro piemontese è infondata. Anche l’argomento onomastico, proposto da Mommsen ed accettato da larga parte della dottrina, secondo cui l’originario carattere gentilizio del rito sarebbe provato dalla circostanza che il prenome Kaeso sarebbe stato esclusivo delle due gentes130, è confutato dal fatto che, in età altorepubblicana, altre gentes, anche plebee, portavano questo prenome: almeno gli Acilii e i Duilii. E allora resta da spiegare quando il carattere gentilizio si sia infiltrato nel contesto rituale. Wiseman ha proposto un momento preciso: il 304 a.C., ad opera di Q. Fabio Rulliano131. Forse la ricostruzione di Wiseman è eccessivamente circostanziata, anche perché in una data così bassa una riforma di questa portata non avrebbe potuto essere stata omessa dagli annali dei pontefici, da cui è difficile pensare che non sarebbe passata agli annalisti e soprattutto agli antiquari. Tuttavia mi pare di grande interesse la prospettiva dalla quale Wiseman guarda all’aspetto gentilizio del rito: esso sarebbe la superfetazione repubblicana di un rituale che in origine non aveva niente di gentilizio. Dopo questo lungo ma necessariamente sommario esame dei sacra gentilicia una conclusione si impone: da essi è totalmente estraneo l’aspetto funerario, relativo alla celebrazione degli antenati defunti, sui quali è ora necessario brevemente soffermarsi. 5. Riti funerari – Riguardo al secondo argomento del mio esame, è inevitabile partire dalla norma delle XII Tavole citata da Cicerone (de leg., 2, 55=X, 1): «Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito». Cicerone aveva cura di differenziare concettualmente i verbi designanti le azioni collegate ai due diversi rituali funerari: subito dopo avere esposto la sua opinione sulla ratio della norma decemvirale, su cui mi soffermerò tra breve, egli (de leg., 2, 55) proseguiva: «quod autem addit ‘neve urito’, indicat non qui uratur sepeliri, sed qui humetur». Quindi, a parere dell’Arpinate, dal momento che il testo della norma contemplava due ipotesi, sepeliri ed uri, con la prima espressione il legislatore decemvirale si sarebbe riferito solo all’inumazione. Neve urito designa una tipologia di cerimonia funebre diversa dall’inumazione, ossia la cremazione. La meticolosa differenziazione dei due rituali, correttamente effettuata da Cicerone, ci introduce al problema più rilevante della norma, quello della sua ratio. Se la sua portata è oscura 129 130 MOMIGLIANO 1963, p. 99. MOMMSEN 1864, p. 17; GAGÉ 1966, e ora WISE- MAN 1999, p. 76. WISEMAN 1995. 131 1022 M. Fiorentini Sc. Ant. ai nostri occhi, neppure i dotti Romani della fine della Repubblica capivano bene a cosa servisse. Cicerone (de leg., 2, 55) la riportava ad esigenze di sicurezza urbana, connesse alla necessità di evitare il pericolo di incendi: «Credo vel propter ignis periculum». Il sostanziale fraintendimento dell’Arpinate è reso evidente dalla titubanza con cui egli propone la sua spiegazione. Secondo Isidoro di Siviglia (Etym., 15, 11, 1), invece, la norma avrebbe inteso tutelare la città dalle esalazioni prodotte dalla putrefazione dei cadaveri: «Prius autem quisque in domo sua sepelibatur, postea vetitum est legibus, ne faetore ipsa corpora viventium contacta inficerentur». Sia la soluzione di Cicerone, sia quella di Isidoro sono del tutto insufficienti, perché entrambe collegate al rito prevalente ai loro tempi: la prima perché il pericolo degli incendi non spiega il divieto dell’inumazione; quella di Isidoro, che lo giustificava con gli effetti della decomposizione dei cadaveri inumati, lascia inesplicato il divieto di cremazione132. È evidente che siamo in presenza di spiegazioni razionalizzanti di una norma di cui non si riusciva più a comprendere la portata. Tenterò di propore qualche rilievo tra breve. Cicerone sapeva bene che la norma decemvirale non era stata applicata inflessibilmente. Proprio al centro della città erano note sepolture mitiche, come la tomba di Acca Larentia al Velabro, i doliola o i busta gallica; tutte sepolture che comunque erano esterne all’antiquum pomerium Palatinum come, a proposito del sepolcro di Acca, afferma esplicitamente Varrone (L. L., 6, 24); la tomba di Faustolo o di Osto Ostilio al Comizio, le ossa di Oreste, la sepoltura di un fulmine ictus nel Volcanal, disposto da un senatus decretum, e quindi all’interno del pomerio serviano133; alcuni sepolcreti definiti familiari (credo però gentilizi) di età storica, come quello della familia Cincia attestato in un lemma di Festo in relazione alla porta Romana134; ed infine aree sepolcrali destinate a personaggi eccezionali e alle loro discendenze. 132 Ciononostante il fine della norma è ancora riconosciuto in esigenze di prevenzione degli incendi da ROBINSON 1977, pp. 386 ss. È evidente che non sono d’accordo con la studiosa irlandese; né mi convince DYCK 2003, p. 400, secondo cui, con la ratio proposta, «Cicero clearly has no feeling for the fear of the dead that causes them to be safely contained in their own places well away from human habitation». Non c’era bisogno di una norma legislativa per tenere lontani i morti dall’Urbs: ad esorcizzare la paura dei morti, del resto, erano deputate apposite festività come i Lemuria. La ratio di Tab. X, 1, come cercherò di mostrare tra breve, va ricercata nella necessità di tenere separata l’area inaugurata all’interno del pomerio dalla contaminazione rituale insita nella morte. Tende ad accentuare il carattere preventivo della norma, pur senza omettere che la prima finalità sarebbe stata da ricercare in «un complesso di prescrizioni di carattere religioso», anche MINIERI 2000, pp. 46 ss. Ringrazio l’amico Luciano per avermi fornito l’estratto del suo articolo. 133 Serv., ad Aen., 2, 116: «Orestis vero ossa Aricia Romam translata sunt et condita ante templum Satur- ni, quod est ante clivum Capitolinum iuxta Concordiae templum». I busta gallica si trovavano, secondo Livio (22, 14, 1), «media in Urbe»: l’Urbs repubblicana, non quella romulea. Sta di fatto che essi erano ritenuti collegati con l’assedio gallico, quando tutta l’area si trovava intra pomerium. Sulla qualificazione giuridica dei doliola, dei busta gallica e delle ossa Orestis come res religiosae in quanto sepolture, ALBANESE 1969, pp. 215 ss., critico nei confronti di FABBRINI 1968, pp. 536 ss. La risposta di FABBRINI 1970 non mi pare efficace. Festo (Statua, 370 L.) riporta una tradizione relativa a un seppellimento rituale nel Volcanale: «Statua est ludi eius, qui quondam fulmine ictus in Circo, sepultus est in Ianiculo. Cuius ossa postea ex prodigis, oraculorumque responsis senatus decreto intra Urbem relata in Volcanali, quod est supra Comitium, obruta sunt; superque ea columna, cum ipsius effigie, posita est». 134 Fest., Romanam portam, 318 L.: «Romanam portam vulgus appellat, ubi ex epistylio † defluit aqua; qui locus ab antiquis appellari solitus est statuae Cinciae, quod in eo fuit sepulcrum eius familiae. Sed porta Romana instituta est a Romulo infimo clivo Victoriae; qui locus gradibus in quadram formatus est». COARELLI 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1023 A proposito di queste ultime, Cicerone (de leg., 2, 58) inizia esponendo le regole relative al ius sepulcrorum contenute nel diritto pontificale, prosegue con quella disposta dalle leges, ossia nelle XII Tavole (Tab. X, 1), giustificandola come misura di prevenzione degli incendi, e poi parla delle sepolture in urbe posteriori alle XII Tavole: «Atticus. Quid quod post XII in urbe sepulti sunt clari viri? Marcus. Credo Tite fuisse aut eos quibus hoc ante hanc legem virtutis causa tributum est, ut Poplicolae, ut Tuberto, quod eorum posteri iure tenuerunt, aut eos si qui hoc ut C. Fabricius virtutis causa soluti legibus consecuti sunt». Cicerone distingue due categorie di soggetti: coloro ai quali tale onore era stato decretato prima delle XII Tavole e mantenuto per i posteri, come ai Valerii a partire da Publicola, e ai Postumii come premio ad A. Postumio Tuberto, il dittatore vittorioso al lago Regillo nel 499 o 496, ai quali vanno aggiunti i Claudii ricordati da Svetonio (il cui sepolcro gentilizio era probabilmente alla pendice N del Capitolium, e perciò extra pomerium135); ed altri ai quali esso fu conferito dopo la legislazione decemvirale, come a C. Fabrizio Luscino, il vincitore di Pirro, morto nel 275, e forse alla sua discendenza. Conosciamo dunque almeno due gentes che seppellivano entro l’urbs in età predecemvirale (nel Foro ed alla base della Velia; non contando la gens Cincia), ed almeno un’altra cui questo onore fu concesso dopo. Di questi sepolcri parla Plutarco (quaest. rom., 79): «e infatti agli altri aristocratici e comandanti decretarono che non solo loro ma anche i loro discendenti fossero sepolti nel Foro, come a Valerio e a Fabrizio; e si afferma che, quando i loro discendenti muoiono e vengono portati nel Foro, una torcia accesa viene posta sotto il feretro e subito rimossa, godendo dell’onore senza provocare invidia, e così limitandosi a confermare il loro privilegio»136. Soffermiamoci sul sepolcreto dei Valerii al piede della Velia. Il rapporto col riconoscimento reso a Publicola, risultante nelle Quaestiones Romanae, è evidenziato da Plutarco anche nella chiusa della vita di Publicola (Popl., 23, 4): «e il popolo… votò che il corpo fosse sepolto a spese pubbliche… 5. Fu infatti sepolto sulla base di un voto del popolo dentro la città presso la cosiddetta Velia, in modo che il luogo di sepoltura toccasse anche a tutta la gens. 6. Ora però nessun membro della gens vi viene più sepolto, ma conducendo il defunto lo depongono lì, e qualcuno, presa una fiaccola accesa, ve la pone sotto per un momento e subito la toglie via, testimoniando con questo gesto che il defunto ha il diritto di esservi seppellito ma vi rinuncia, e in tal modo portano via il morto»137. 1983, pp. 232 ss. e nota 31, non credendo che la porta Romana si aprisse nelle mura palatine, esprime un motivato scetticismo sulla localizzazione del sepolcro dei Cincii all’interno del pomerio; VALVO 1990, pp. 145 ss.; GRANDAZZI 1998. Il lemma festino parrebbe profilare diverse localizzazioni della porta: una «popolare» («vulgus appellat»), un epistilio da cui scende acqua e che gli antichi chiamavano statuae Cinciae per la presenza del sepolcro; ed una tecnica attribuita alla porta della cinta romulea del Palatino aperta in fondo al clivus Victoriae. Anche se sarebbe di estremo interesse localizzare più precisamente questo epistilio, ai miei fini basta considerare che esso doveva comunque trovarsi fuori del pomerio palatino (ma all’interno di quello serviano). 135 COARELLI 1997, p. 255. Plut., quaest. rom., 79: «kai; ga;r a]lloi" ajristeu'si kai; strategoi'" e]dwkan oujk aujtou;" movnon ajlla; kai; tou;" ajp∆ aujtwn' ejntavptesqai th'/ ajgora'/, kaqavper Oujalerivw/ kai; Fabrikivw/: kai; fasi touvtwn ajpogovnoi" ajpoqanou'si kai; komisqei'sin eij" ajgoravn uJfivesqai da'/da kaiomevnhn, ejnq∆ eujqu;" ai[resqai, crwmevnwn ajnepifqovnw" th'/ timh'/ kai; tw'/ ejxei'nai movnon ejkbebaioumevnwn». 137 Plut., Popl., 23, 4: «oJ de; dh'mo"... ejyhfivsato dhmosiva/ tafh'nai to; sw'ma... 5. ∆Etavfh de; kai; tw'n politw'n yhfisamevnwn ejnto;" a{steo" para; th;n kaloumevnhn Oujelivan, w{ste kai; gevnei pantiv th'" tafh'" metei'nai 6. Nu'n de; qavptetai men; oujdei'" 136 1024 M. Fiorentini Sc. Ant. Questo ragguaglio va collazionato con una notizia fornita da Dionisio di Alicarnasso (5, 48, 3): «ma il senato, venuto a conoscenza di come le loro sostanze (scil. dei cogentiles di Publicola) fossero scarse, decise che le spese per la sua sepoltura fossero tratte dall’erario, e concesse un luogo entro la città, nei pressi del Foro sotto la Velia ove fu cremato e sepolto, unico tra gli uomini eminenti fino ai miei tempi; e questo luogo, come se fosse sacro, è consacrato alla sepoltura dei suoi discendenti»138. Dunque, con una legge comiziale per Plutarco (tw'n politw'n yhfisamevnwn) o, secondo Dionisio, con senatoconsulto (hJ boulh; … ejyhfivsato), venne assegnato a Publicola un luogo ai piedi della Velia ove fosse seppellito lui con la sua discendenza. A parte l’evidente iperbole costituita dall’«unico tra gli uomini eminenti fino ai miei tempi» (almeno Silla aveva avuto lo stesso onore), Dionisio fornisce un’indicazione significativa: Publicola fu incinerato e sepolto nello stesso luogo: «e]nqa ejkauvqh kai; ejtavfh». Si tratta dunque d’un bustum, secondo la definizione di Festo (bustum, 29 L.): «bustum proprie dicitur locus, in quo mortuus est combustus et sepultus (...); ubi vero combustus quis tantummodo, alibi vero est sepultus, is locus ab urendo ustrina vocatur». I passi di Plutarco conservano un’altra rilevantissima informazione sul rituale in uso presso i Valerii. Il rito prevalente fino al IV secolo a.C. è l’inumazione, ma i Valerii rimarranno sempre fedeli alla cremazione, tanto che Plutarco ci trasmette una preziosa notizia (letta in Valerio Anziate?139): il corteo si dirige nel Foro, il feretro viene deposto a terra, una fiaccola viene accesa sotto il letto funebre e subito rimossa, dopo di che il corteo riprende il percorso verso il sepolcreto. È ragionevole vedere in questo rito una finta cremazione svolta nello stesso luogo ove, evidentemente prima delle XII Tavole, si svolgeva un’incinerazione autentica in un bustum. Questo rituale sostitutivo è sicuramente databile all’età postdecemvirale quando, in ossequio alla disposizione della norma di Tab. X, 1, il sepolcreto dei Valerii dovette essere rimosso140. tw'n ajpo; gevnou" komivsante" de; to;n nekro;n ejkei' katativqentai, kai; da'/dav ti" hJmmevnhn labw;n o}son uJphvnegken, ei\t∆ ajnairei'tai, marturovmeno" e[rgw/ to; ejxei'nai, feivdesqai de; th'" timh'", kai; to;n nekro;n ou{tw" ajpokomivzousin». 138 Dion. Hal., 5, 48, 3: «hJ mevntoi boulh; maqou'sa wJ" ei|cen aujtoi'" ta; pravgmata (add. ajpovro" O), ejk tw'n dhmosivwn ejyhfivsato crhmavtwn ejpicorhghqh'nai ta;" eij" th;n tafh;n dapavna", kai; cwrivon e]nqa ejkauvqh kai; ejtavfh movnw/ tw'n mevcri" ejmou' genomevnwn ejpifanw'n ajndrw'n ejn th'/ povlei suvneggu" th'" ajgora'" ajpevdeixen uJp∆ Oujeliva": kai; e[stin w{sper iJerovn tou'to toi'" ejx ejkeivvnou tou' gevnou" ejnqavptesqai ajneimevnon». 139 BOSCHERINI 1975, pp. 141 ss. ha escluso che la fonte di Cicerone e Livio, che deve essere la stessa, sia Valerio Anziate, propendendo per Calpurnio Pisone. Valerio Anziate deve essere la fonte, ma insieme ancora a Pisone, delle versioni di Dionisio e di Plutarco (HRR, I2, CCCXXVI ss. P.). 140 Non accettabile FRANCIOSI 1984B, pp. 52 ss., per il quale il rituale della torcia attesterebbe che in origine i Valeri inumavano i loro morti, e solo in séguito sarebbero passati alla cremazione. È frutto di un fraintendimento MANZO 1995, p. 113, nota 32, secondo cui, oltre ad altre gentes, i Valerii «originariamente inumanti, in prosieguo di tempo accolsero la pratica dell’incinerazione». E, soprattutto, Plut., Popl., 32, 5-6 non «narra che Valerio Publicola fu inumato all’interno dell’abitato nella tomba gentilizia e poi aggiunge che, successivamente, tale pratica cadde in disuso». Dion. Hal., 5, 48, 3 è esplicito nell’indicare che il luogo in cui Valerio fu sepolto era un bustum. Non vi fu quindi alcuna obliterazione del rito, bensì una sua trasformazione cosciente quando il rito da sempre seguito dai Valeri non poté più essere celebrato nel Foro: cioè dopo l’introduzione legislativa del divieto. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1025 Sulla Velia (o alla sua base) la tradizione colloca anche la casa di Publicola che, non diversamente dal successivo locus sepulturae, le fonti, e soprattutto Asconio (in Pisonian., 13, 8 ss. Clark), rappresentano come una novità giustificata dai meriti insigni dell’onorato. È significativo che dalla stessa area provengano i frammenti di elogia dei Valerii Messallae (CIL, 12, Elogia, XL=CIL, 6, 3826 e 31618), scoperti nei pressi della Basilica di Massenzio, quindi proprio sulla Velia. L’ipotesi che si possa trattare di tituli apposti a un monumento funerario, enunciata da Federica Fontana141, mi pare da escludere proprio perché un sepolcro, in quel luogo e nella tarda Repubblica, non poteva esistere. E allora si potrebbe pensare, come propone Jean-Claude Richard, a un monumento commemorativo della gens Valeria sulla collina da sempre collegata alle memorie gentilizie142. Tuttavia sorge spontanea la domanda se il luogo di sepoltura dei Valerii, situato anch’esso ai piedi della Velia, come ricordano sia Dionisio («uJp∆ Oujelivan»), sia Plutarco («ejnto;" a{steo" para; th;n kaloumevnhn Oujelivan»), non possa essere più antico di Publicola. I Valerii sono una delle gentes maiores che, nonostante la dichiarata provenienza sabina, sarebbe giunta a Roma con Tito Tazio, agli albori stessi dell’urbs143; Plutarco fornisce anche la presunta versione originaria del nomen: Oujevleso", che sarebbe traslitterazione greca di un latino *Velesus144. La suggestione di associare il luogo di sepoltura a quello di abitazione è forte. Avremmo quindi un caso esemplare di collegamento topografico tra casa dei vivi e casa dei morti, ossia un emblema anche visivo del prestigio gentilizio, entro la città ormai formata in tutte le sue articolazioni giuridiche e spaziali, anzi vicino al suo centro politico e religioso, il Foro e la Regia, agli inizi del V secolo a.C., un’età che vede lo stanziarsi nel territorio romano di altre gentes, come quella dei Claudii, anche ai quali viene concesso dallo stato un luogo di sepoltura presso il Campidoglio145. E il discorso non cambierebbe, anzi si farebbe anche più stringente, se fosse vera l’ipotesi, cautamente avanzata da Coarelli, di identificare nella domus dei Valeri la casa arcaica, scoperta da Giacomo Boni, sovrappostasi al sepolcreto adiacente al tempio di Antonino e Faustina146. 141 FONTANA 1999, p. 301. RICHARD 1994, p. 420. 143 Val. Max., 2, 4, 5, ne localizza la residenza originaria «in villa sua propter vicum Sabinae regionis Eretum». 144 Più volte: Public., 1; Numa, 5, 2. Zosim., 2, 1-3 lo chiama Oujalevsio", ossia *Valesius, che si accorda perfettamente con la versione del nome gentilizio nota dal lapis Satricanus che, com’è noto, è al genitivo Popliosio Valesiosio, ossia Publii Valesii. La versione del nome tramandata da Plutarco, pertanto, se non è pura invenzione dello storico greco (che non credo), deve risalire ad uno strato linguistico ancora più antico della seconda metà del VI secolo a.C. Mi pare significativa, anche se, per quanto ne so, mai evidenziata, la coincidenza del tema Vel- della gens con quello del mons che in séguito la accoglierà, la Velia, con la comunità albense dei Velienses che sicuramente lo abitava (Plin., N. H., 3, 69), e col nome della curia probabilmente ivi 142 stanziata, la Velitia. Mi pare stimolante uno spunto di PALOMBI 1997, p. 26, nota 65, circa un originario popolamento sabino della Velia, indiziato dall’identità del suo nome con quello che, a dire di Dionisio di Alicarnasso (1, 20), gli Aborigeni avrebbero donato ai Pelasgi presso Reate: una notizia forse mutuata da Varrone. Il collegamento onomastico del monte con la gens, che ovviamente non va interpretato come derivazione dell’uno dall’altra, potrebbe essere un indizio a favore dell’originaria «sabinità» della Velia. 145 Suet., Tib., 1: «locumque sibi ad sepulturam sub Capitolio publice accepit». 146 COARELLI 1983, pp. 81 ss., che ipotizza cautamente un collegamento tra questa domus ed almeno alcune delle tombe di bambini del sepolcreto ad essa sottostante. PALOMBI 1997, p. 73, nota 13, non accoglie l’ipotesi in quanto, a suo avviso, la casa dei Valeri dovrebbe trovarsi in un luogo diverso da lui identificato, grazie a un accenno di Livio che la pone «in infimo cli- 1026 M. Fiorentini Sc. Ant. Tuttavia i Romani erano consapevoli che la norma decemvirale non aveva risolto una volta per tutte il problema delle sepolture urbane. Vi sono fonti che alludono a provvedimenti reiterativi del divieto. Il più importante è un passo di Servio (ad Aen., 11, 206): «‘finitimos tollunt in agros’ qui enim e longinquo venerant, referri non poterant. ‘urbique remittunt’ deest ‘unicuique’. et meminit antiquae consuetudinis: nam ante etiam in civitatibus sepeliebantur, quod postea D u e l l i o c o n s u l e s e n a t u s p r o h i b u i t e t l e g e c a v i t, n e q u i s i n u r b e s e p e l i r e t u r». Il testo di Servio è stato raramente esaminato147: assente dalla raccolta delle leges publicae di Rotondi, nonostante la precisa menzione di una lex, la dottrina, dando credito a Cicerone secondo cui il divieto era contenuto nelle XII Tavole, lo ha generalmente svalutato148. Eppure la precisione del dato cronologico ci dovrebbe far pensare che Servio leggesse da qualche parte che al tempo del console C. Duilio, il vincitore della battaglia navale di Lipari contro i Cartaginesi nel 260 a.C., il senato avrebbe preso una decisione rafforzata in una lex (che non può significare altro che una legge comiziale), «ne quis in urbe sepeliretur». Con una prospettiva esattamente rovesciata, una parte minoritaria della dottrina se ne è servita per negare credibilità alla norma decemvirale, interpretata come anticipazione del provvedimento citato da Servio149. Da ultimo questa lettura negativa è stata avanzata da Angela Romano in un saggio del 1981. La ragione ne è vista dall’A. nella presunta non corrispondenza del divieto di seppellire alle condizioni urbane del V secolo a.C.; in particolare nello scarso pericolo che i roghi di combustione dei cadaveri avrebbero costituito per un abitato ancora non eccessivamente denso. La norma sarebbe stata al contrario giustificata proprio a partire dall’età mediorepubblicana, «un contesto sociale molto più evoluto ed articolato», alla quale l’A. ascrive il divieto. Va indubbiamente riconosciuto ad Angela Romano il merito di avere riportato l’attenzione della critica sulla testimonianza di Servio. Le motivazioni presentate dall’A. a supporto del suo punto di vista non appaiono tuttavia condivisibili, oltretutto inserite come sono in un contesto di generale svalutazione dell’autenticità delle norme della Tab. X che appare infondato. Il punto più criticabile del saggio di Romano è il tentativo di dimostrare l’incompatibilità di Tab. X, 8, sul divieto di accompagnare il defunto con oro ed argento, con le condizioni economiche vo» (2, 7, 12), con la parte bassa della cd. «scorciatoia per le Carinae», quindi non sulla pendice della Velia affacciata sul Foro; localizzazione che farebbe venir meno il rapporto tra domus e sepolcro gentilizio, dato che le fonti collocano quest’ultimo sotto la Velia, ma al Foro. 147 ANDREUSSI 1999, p. 100, ricorda molte riprese del divieto, di Adriano, documentata da Ulpiano (25 ad ed., D. 47.12.3.5), di Antonino Pio (SHA, Pius 12.3), dei Severi (Paul. Sent., 1, 21, 2-3: «Corpus in civitatem inferri non licet, ne funestentur sacra civitatis: et qui contra ea fecerit, extra ordinem punitur. 3. Intra muros civitatis corpus sepulturae dari non potest vel ustrina fieri») e di Diocleziano (C. 3.44.12) ma non la fonte di Servio. L’A. ha probabilmente tratto l’elenco da PALMA 1990, pp. 12 ss., che però è più completo, ricordando anche lex coloniae Genetivae Iuliae (LXXIII=CIL, 12, 594), omessa da Andreussi. Allo stesso modo anche VALVO 1990, pur in uno studio specificamente dedicato alle sepolture in urbe, non ne fa cenno. 148 Come fece DE FRANCISCI 1913, p. 34, per il quale non si sarebbe potuto ricavare granché da un autore non esperto di diritto come Servio. 149 Così già LAMBERT 1902; e ora ROMANO 1981, pp. 7 ss., le cui conclusioni mi sembrano da respingere. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1027 dell’età arcaica: «Neve aurum addito, at cui dentes iuncti escunt, ast im cum illo sepeliet uretve, se fraude esto». L’A. attribuisce il lusso funerario vietato dalla norma non all’età arcaica ma a quella mediorepubblicana, ormai imbevuta di modelli greci150. Ancora più inverosimilmente Romano collega le norme limitative del lusso funerario alle leggi suntuarie del II secolo. Il rilievo è identico a quello proposto da Lambert151. All’aprirsi del XX secolo una posizione come questa poteva essere giustificata dalla poca o nessuna conoscenza della civiltà latina arcaica, ricostruita solo sulla base di supposizioni, di un evoluzionismo un po’ troppo meccanico che vedeva tutte le società antiche sottoposte a un processo di crescita lineare e costante dal primitivo all’evoluto, e senza il supporto di prove materiali, tanto da prestar fede a testi di Cicerone (de leg., 2, 60 ) e di Livio (34, 4, 9) che, nel lodare la semplicità dei costumi antichi, non descrivono come era la società arcaica ma come non era la loro. Ma un punto di vista simile non può più essere difeso dopo le spettacolari scoperte delle necropoli orientalizzanti ad Osteria dell’Osa, alla Rustica, a Decima, alla Laurentina e in molti altri centri latini, effettuate a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. In particolare non pare che Romano conosca il fondamentale contributo di Giovanni Colonna152 che, al di là della difficoltà di collegare la norma decemvirale al milieu culturale del VI secolo a.C. piuttosto che a quello assai più impoverito del V, ha dimostrato come le tombe ricchissime del VII secolo lascino quasi repentinamente il posto, nel corso del VI, a sepolcri quasi del tutto privi di corredo, ma non per questo da reputare poveri (le urne di marmo greco impiegate come contenitore smentiscono questa visione). L’assenza di corredo è quindi letta come mutamento delle usanze funerarie, a sua volta ricondotto ad un’istanza suntuaria che sarebbe ben più antica del decemvirato. Più in generale è l’impostazione complessiva del contributo di Romano a non essere condivisibile, imperniato com’è su una valutazione evoluzionista della società romana che, partendo da origini modeste conservatesi sostanzialmente immutate fino all’età mediorepubblicana, giunge solo nel III secolo ad assaporare il gusto dell’opulenza grazie agli apporti del mondo ellenistico. A parte la fiducia accordata a un testo di Servio a preferenza di una testimonianza di Cicerone che, conoscendo molto bene le XII Tavole, sapeva quali norme provenissero dalla giurisprudenza pontificale, quali dalla legislazione decemvirale e quali da una legge che, se avesse introdotto per la prima volta il divieto, non avrebbe potuto essergli ignota, la motivazione che ha indotto la studiosa napoletana a negare credibilità all’origine decemvirale della norma di Tab. X, 1, «alla luce di considerazioni d’ordine pratico», ruota tutta sull’implausibilità della norma, letta in funzione anti-incendio. In realtà la norma non aveva sicuramente questa funzione, rispondendo piuttosto alla necessità, di natura prettamente rituale, di osservare una tassativa separazione dello spazio 150 Romano considera assurda la norma che consente di conservare al cadavere gli eventuali denti d’oro: ma che la pratica delle protesi auree fosse in uso è dimostrato proprio dalle tombe: BAGGIERI 1998, pp. 321 ss. data il cranio da Satrico tra il VII e il VI secolo, quindi proprio in età monarchica. 151 LAMBERT 1902. 152 COLONNA 1977B, pp. 132 ss. TOHER 1986, pp. 301 ss., non condivide l’interpretazione della normati- va contenuta in Tab. X come «consolidazione» di una regola di tipo consuetudinario più antica di almeno un secolo. Ma i suoi argomenti, in parte formatisi su un esame comparativistico con la legislazione suntuaria greca, non mi appaiono sempre convincenti. ALBANESE 1998, pp. 397 ss., prospetta proprio la finalità di limitazione delle spese e soprattutto della habrosýne, su cui AMPOLO 1972, pp. 472 ss. 1028 M. Fiorentini Sc. Ant. inaugurato entro il pomerio-urbs (che in origine coincidono) da quello, per sua natura contaminante, destinato alla morte153. Un rapporto che, per quanto impallidito, è presente ancora in un passo delle Pauli Sententiae, testo giuridico la cui prima stesura è sicuramente databile agli anni tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. (1, 21, 2-3): «Corpus in civitatem inferri non licet, ne funestentur sacra civitatis: et qui contra ea fecerit, extra ordinem punitur. 3. Intra muros civitatis corpus sepulturae dari non potest vel ustrina fieri»154. Il testo non collega il divieto di sepoltura con lo spazio inaugurato dell’Urbs, ma comunque con la necessità di evitare di funestare il culto pubblico cittadino, corrompendolo col contatto con la morte. L’antitesi tra spazio sacro della civitas e carica contaminante della morte è espressa recisamente. Con quanto detto finora sul rapporto di totale incompatibilità tra spazio della città e spazio della morte, si può dire che il divieto di seppellimento entro il pomerio non solo non sia posteriore alle XII Tavole, ma sia certamente addirittura anteriore al V secolo a.C. e coessenziale con la stessa fondazione dell’Urbs, in quanto direttamente conseguente alla natura inaugurata dello spazio urbico. La norma decemvirale non risponde a esigenze pratiche ma esclusivamente rituali, ormai incomprensibili agli stessi Romani colti dell’età tardorepubblicana, come appare evidente dal parere espresso in modo così esitante da Cicerone («credo vel propter ignis periculum»)155. Per questo la scansione temporale proposta da Carmine Ampolo nel 1988, secondo cui solo nel VII secolo a.C. si può avere una vera città, non mi pare del tutto aderente a quanto prospettano le fonti. Ampolo esclude che lo spostamento del sepolcreto del Foro, trasferito nelle aree marginali (soprattutto all’Esquilino), debba essere interpretato come liberazione dello spazio urbico dal contatto con la morte, e perciò fosse finalizzato alla «creazione di un centro politico-religioso»156, dal momento che le aree così guadagnate furono occupate da case private, capanne accanto alle quali erano situate sepolture dei bambini. L’argomento mi pare fallace poiché lo spostamento della necropoli non ha una semplice funzione di razionalizzazione dello spazio urbano, ma proprio quello di separare lo spazio inaugurato dallo spazio dell’impurità proprio della morte, come affermato molto bene da Magdelain157. Pertanto fondazione della città, pomerio ed espulsione dei sepolcreti dalla città devono essere collegati tra loro. E torniamo a Servio Onorato. Nella divergenza tra la norma delle XII Tavole e la legge del 260 a.C. attestata da Servio, la sola alternativa possibile non è quella proposta da Angela Romano, e neanche quella pur ingegnosamente prospettata da Michael Crawford, secondo cui Servio avrebbe fatto confusione tra il C. Duellius console del 260 e il K. Duilius decemviro158. Ma, a parte la considerazione che 153 Sul tema dello spazio inaugurato qualche breve rilievo nel paragrafo seguente. 154 CTh., 1, 4, 2 afferma che nelle controversie la citazione delle Pauli Sententiae è sempre ammessa. SEEK 1919, p. 178, la data al 27 settembre 328, sicuro terminus ante quem per la composizione dell’opera. Su P. S., 1, 21, 2-3, LICANDRO 1991, p. 213 nota 30, anche in relazione a Serv., Ad Aen., 11, 206. 155 Pertanto non mi sento di condividere neanche l’affermazione che ROMANO 1981, p. 12, avanza senza motivazione, secondo cui «Nulla d’altra parte induce a ritenere che tale testimonianza (scil. il passo di Servio sulla legge del 260 a.C.) si riferisca a un secondo intervento dopo quello decemvirale». Tanto più che, nel corso del saggio, ella tratta della «necessità di ribadire il divieto nelle età successive» (ibid., pp. 15 ss.). 156 AMPOLO 1988, p. 161. 157 MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 155 ss. 158 CRAWFORD 1996, II, p. 704, che parla di un testo «garbled». La precisione del dettaglio della titolatura di C. Duellius come console mi fa dubitare dell’ipotesi di Crawford. Inoltre è difficile che un autore così a 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1029 sarebbe strano che una norma decemvirale fosse ricordata sotto il nome di un singolo decemviro (e neanche il più prestigioso: perché K. Duilio e non Ap. Claudio?), invece che di tutto il collegio, l’argomento su cui si basa Crawford per negare fiducia al testo serviano non pare irresistibile: «under the Republic the senate was not able lege cavere». A mio avviso, invece, Servio adombra, con una formulazione scorretta ma comprensibile, considerato lo iato temporale che lo separa dall’episodio di Duellio (sei secoli), un tipico modus operandi del senato in età mediorepubblicana: emanazione di un senatoconsulto che dà incarico ai consoli di proporre al popolo una legge comiziale. Farò solo un esempio comparativo, la procedura di emanazione della lex Claudia de sociis descritta da Livio (41, 9, 9): «legem dein de sociis C. Claudius tulit <ex> senatus consulto». Il senato emana un senatoconsulto in cui è contenuto l’ordine, impartito ai consoli, di proporre ai comizi una certa legge159. E allora, se il rituale sostitutivo compiuto dai Valerii nel Foro parrebbe documentare l’avvenuto spostamento dei sepolcri in ottemperanza al divieto disposto dalle XII Tavole, quale può essere stata la motivazione che spinse il senato a reiterare, nel 260 a.C., il divieto di seppellire in Urbe? Non ho una risposta, ma penso che la soluzione debba essere ricercata contestualizzando la legge nell’età in cui fu emanata, la prima metà del III secolo a.C., anzi, gli anni in cui Roma era impegnata nella prima guerra contro Cartagine per il dominio sul Mediterraneo. Münzer aveva congetturato che essa avesse risposto a finalità per così dire punitive nei confronti dei plebei Fabricii160. L’ipotesi non mi convince: che quindici anni dopo la concessione di un tale onore verso un soggetto sì plebeo, ma anche vincitore di Pirro, il senato potesse revocarlo apparentemente senza motivo, non mi pare plausibile; tanto più che non pare che la lotta politica vedesse soccombere questa gens nella prima metà del III secolo. È vero che Fabrizio non era andato esente da biasimo soprattutto per la vicenda della legione campana a Reggio161, mentre l’apparente generalità della disposizione si puo’ spiegare con la necessità di non violare la norma decemvirale che vietava di promulgare leggi dirette contro un singolo cittadino («privilegia ne inroganto», su cui ci informa Cicerone [de leg., 3, 11=Tab. IX, 1]); e peraltro, avendo presumibilmente le altre gentes già rimosso i sepolcri dal Foro, il vero destinatario avrebbe potuto essere proprio Fabrizio. Ma preferisco orientarmi verso una diversa spiegazione, una motivazione legata ai progetti di monumentalizzazione del Foro, in parte realizzati proprio da Duilio, con l’erezione della colonna rostrata, ed ai lavori di risistesuo agio coi materiali arcaici come Servio potesse fare confusione non solo fra decemviri e consoli, ma anche tra un Kaeso e un Caius. Tuttavia anche DYCK 2003, p. 400, ritiene la testimonianza di Servio «garbled». L’A. propone un’alternativa: «Otherwise it may be an instance of a new law reviving one that had fallen into desuetude». Anche questa ipotesi della ripetizione di una legge di cui si fosse perso il ricordo non mi sembra appagante: a mio parere si tratta sì della reiterazione della norma decemvirale, ma non in quanto fosse caduta in desuetudine, come cercherò di mostrare tra breve. Del resto la desuetudine delle norme decemvirali risponde sempre ad un modello che prevalentemente fa riferimento all’attività di interpretazione creatrice dei pontefici, come dimostrò già WIEACKER 1986, ed ora FRANCHINI 2005. Di tutta questa problematica niente traspare nella frase, un po’ incidentale, di Dyck. 159 Sono numerosi gli esempi di una procedura siffatta: ROTONDI 1912, p. 280. Anche per ROMANO 1981, p. 12, Servio si sarebbe riferito ad «una delibera del senato trasfusa in una legge pubblica». 160 Secondo MÜNZER 1909, col. 1937, la legge citata da Servio avrebbe costituito un «nachträglicher Protest des Senats gegen diese Auszeichnung eines Plebeiers». Il senato era già pieno di membri di famiglie plebee. Non si vede perché avrebbe dovuto combattere uno dei suoi membri più encomiabili. 161 Sul punto indispensabile CASSOLA 1962. 1030 M. Fiorentini Sc. Ant. mazione del Comizio intrapresi forse da M. Valerio Massimo Messalla, datati da Coarelli agli anni tra il 263 e il 252 a.C.162. Ma forse è possibile fornire una proposta alternativa alle due ora enunciate. Non conosciamo il luogo preciso del sepolcro di Fabrizio: sappiamo solo che era situato nel Foro, il luogo centrale della vita politica cittadina, in cui le ambizioni di primato dei singoli e delle famiglie si confrontavano non solo con gli strumenti usuali della politica, ma anche con l’esibizione della potenza gentilizia. Può darsi allora che con la legge del 260 ricordata da Servio si volesse precludere per il futuro l’uso funerario del Foro in funzione celebrativa di fasti non solo gentilizi ma soprattutto personali. Le fonti descrivono i modi bizzarri e appariscenti con cui Duilio sottolineava l’eccezionalità della posizione raggiunta con la vittoria sui Cartaginesi163. In altri termini, secondo questa ipotesi che prospetto come assolutamente congetturale, nel 260 il senato avrebbe sollecitato la rogazione della legge per osteggiare non la memoria di Fabrizio, ormai morto da quindici anni, ma le eventuali pretese di Duilio di essere sepolto nel Foro, come avevano ottenuto altri viri triumphales prima di lui. Qualunque sia la soluzione del problema sollevato dalla legge del 260, si può dire che con essa si afferma definitivamente una concezione dello spazio cittadino come luogo dei vivi, come territorio della politica dal quale la potenza gentilizia, esibita nelle forme ancora arcaiche del rituale funerario e della deisidaimonía, viene per sempre espulsa per far posto ai simboli collettivi dell’incipiente potere della Repubblica imperiale. 6. Urbs – Il testo decemvirale e quello di Servio (ad Aen., 11, 206) sono di enorme importanza anche riguardo al problema dell’estensione spaziale dell’Urbs. Quanto in proposito ha osservato di recente Carandini mi sembra pienamente sottoscrivibile: fino a Servio Tullio pomerio e Urbs coincidono, per cui è del tutto naturale il divieto di seppellire in Urbe (anziché intra pomerium), perché lo spazio coperto dall’Urbs è lo stesso di quello inaugurato164. Già Magdelain aveva richiamato, a questo proposito, una etimologia di urbs elaborata da Pomponio (lib. sing. ench., D. 50, 16, 239, 6): urbs ab urbo appellata est: urbare est aratro definire: la definitio con l’aratro consiste appunto nella delimitazione del pomerio165. La divaricazione inizierà quando i due spazi non coincideranno più, ossia quando Servio Tullio erigerà la sua cinta muraria e al contempo estenderà il pomerio a tutto lo spazio racchiuso da essa, tranne l’Aventino che, interno alle mura, resterà esterno al pomerio fino a Claudio, come afferma alla fine della Repubblica M. Valerio Messalla Rufo, citato da Aulo Gellio (N. A., 13, 14, 5, 6=fr. 3 Hu.). 162 COARELLI 1985, p. 20: nel 263 Messalla celebra un trionfo, nel 252 ricopre la censura e dunque, secondo Coarelli, potrebbe avere «dedicato come censore le opere appaltate dopo il trionfo del 263». Quanto a C. Duilio, Tac., Ann., 2, 43, attesta l’edificazione dell’aedes Iani nel Foro Olitorio su sua iniziativa. 163 Val. Max., 3, 6, 4: «C. autem Duellius, qui primus navalem triumphum ex Poenis retulit, quotienscumque <publice> epulatus erat, ad funalem cereum praeeunte tibicine et fidicine a cena domum reverti solitus est, insignem bellicae rei successum nocturna celebratione testando». 164 CARANDINI 2006. Sulla perdurante efficacia del divieto in età imperiale, STROSZECK 2001. 165 MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 158 ss., e nota 18. Non mi convince, invece, lo scetticismo del Maestro francese riguardo al pomerio palatino: gli indizi sulla sua effettiva esistenza sono più che consistenti; lo stesso testo di Tacito (Ann., 12, 24), così maltrattato dalla critica (ad es. da MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 161 ss.) è coerente in sé: COARELLI 1983, pp. 262 ss.; CARANDINI 2006, pp. 235 ss. Il rapporto tra urbs e urvus è espresso anche da Varrone (L. L., 5, 143): CATALANO 1978, pp. 440 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1031 La determinazione dell’estensione spaziale dell’Urbs comporta però una complicazione, costituita da un decretum pontificale di età ignota riportato da Cicerone (de leg., 2, 58): «Sed <ut> in urbe sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum collegio, non esse ius in loco publico fieri sepulcrum. Nostis extra portam Collinam aedem Honoris. Aram in eo loco fuisse memoriae proditum est. Ad eam cum lamina esset inventa, et in ea scriptum [lamina], ‘Honoris’, ea causa fuit <ut> aedis haec dedicare<tur>. Sed quom multa in eo loco sepulcra fuissent, exarata sunt. Statuit enim collegium locum publicum non potuisse privata religione o b l i g a r i». Il testo è importante perché, ancora una volta, permette di osservare, in controluce, il collegio pontificale nella sua attività di organo risolutore di situazioni controverse, con alcuni rilevanti risultati interpretativi166. L’intervento fu motivato dal rinvenimento di una lamina di bronzo con inciso il nome di una divinità, Honos, nell’area di un sepolcreto situato all’esterno della porta Collina. Cicerone attesta che, pur in assenza di edifici sacri, permaneva il ricordo che nella zona era esistita un’ara («aram in eo loco fuisse memoriae proditum est»). A questo punto sorge il problema del conflitto tra locus sacer e necropoli, risolto dal collegio ordinando la demolizione dei sepolcri. L’ordine è motivato dal decreto secondo cui «locum publicum non potuisse privata religione obligari», da cui deriva «non esse ius in loco publico fieri sepulcrum»167. Due sono i punti rilevanti (e problematici) per il nostro discorso. Il primo concerne il collegamento tra l’ordine di demolizione del sepolcreto e la norma decemvirale. In effetti, Cicerone impernia il decretum pontificale su Tab. X, 1: «così come la legge (scil. delle XII Tavole) vieta il seppellimento in urbe, così il collegio pontificale decretò». Il problema è determinato dal valore dato dal collegio alla parola urbs. Come afferma esplicitamente l’oratore, l’area in cui si trovavano i sepolcri era situata extra portam Collinam: quindi, al di fuori delle mura repubblicane. Perché giustificare il decreto con una norma che aveva valore intra urbem, ma si potrebbe dire in senso ancora più restrittivo, intra pomerium? Non so rispondere con sicurezza a questa domanda, che non mi risulta sia mai stata posta in relazione a questa testimonianza dell’attività dei pontefici; ma mi parrebbe di poter cautamente dire che anche in questo caso ci troviamo di fronte a una di quelle decisioni in cui il collegio ha mani166 Eppure, nonostante la sua indubbia rilevanza anche nell’ambito del diritto privato, questo decretum pontificale non ha attirato l’attenzione di autori che si sono cimentati proprio con l’attività decretale dei pontefici: mi riferisco in particolare a CRAWFORD 1989, pp. 93 ss., che lo discute ma in un altro contesto; mentre avrebbe potuto essere assunto come terminus post quem per il processo che condurrà, già alla fine della Repubblica, ad enucleare le varie categorie di res; in particolare non viene evidenziato quello che a mio parere è l’elemento più rilevante del decretum, ossia che un’area riservata ad una divinità non viene dai pontefici definita locus sacer bensì locus publicus; e a RANDAZZO 2004. 167 Fuorviante DE VISSCHER 1963, p. 361, secondo cui la consultazione dei pontefici fu occasionata dalla scoperta «des vestiges d’un temple dans la zone cimétériale de l’Esquilin (sic)», da cui l’A. inferiva che l’intervento dei pontefici era richiesto quando «surgit un conflit entre le caractère religieux qui, par nature, appartient à tout tombeau, et le caractère public du terrain qu’il occupe». A parte il lapsus sulla localizzazione del sepolcreto (l’Esquilino invece del Quirinale), e l’inesattezza delle «vestigia del tempio» (non di resti dell’edificio si trattava, ma di una lamina di bronzo da cui i pontefici dedussero la verità del ricordo dell’antica esistenza del luogo di culto, che evidentemente era però scomparso da lungo tempo), non è rilevata la discrasia tra la qualità di locus sacer che l’area avrebbe dovuto rivestire e la definizione di locus publicus ad essa attribuita dalla pronuncia pontificale. 1032 M. Fiorentini Sc. Ant. polato la norma per gli scopi che si era prefisso, ossia l’edificazione del tempio, ottenuta con una interpretazione creativa e libera, e francamente un po’ spregiudicata della legge. Ma forse è possibile un’altra spiegazione che non coinvolga l’onorabilità interpretativa dei pontefici. A ben vedere, l’incardinamento della decisione pontificale nella norma decemvirale non è contenuto nel decreto ma è opera di Cicerone. Può darsi quindi che i pontefici avessero semplicemente deciso che, essendo uscita dal terreno, in forma di lamina iscritta, la prova che l’area era stata un tempo consacrata ad Honos, conformemente a quanto era tramandato dalla memoria pubblica, i sepolcri dovessero essere rimossi. Per qualche motivo che non sono in grado di afferrare, Cicerone avrebbe collegato il decreto al divieto di seppellimento in Urbe. E questa osservazione ci introduce al secondo problema posto dal decreto pontificale, che attiene alla qualificazione del luogo. Noi, con le categorie elaborate dalla scienza giuridica classica in materia di classificazione delle res, ci aspetteremmo che un luogo in cui sorge un edificio sacro fosse definito locus sacer. Invece i pontefici non così lo definiscono, ma publicus. Una qualificazione che appare abbastanza sorprendente, e che non mi pare giustificabile con una presunta seriorità dell’enucleazione della nozione di locus sacer rispetto alla pronuncia pontificale, benché non sia ben nota la data della dedicazione della aedes Honoris extra portam Collinam, che tuttavia viene collocata da Coarelli nel corso del III secolo a.C.168. Il nucleo della pronuncia pontificale è dunque costituito dalla massima «locum publicum non potuisse privata religione obligari». Sulla qualificazione del locus mi soffermerò più tardi. Per ora ritengo utile confrontare la massima pontificale con i più tardi materiali giurisprudenziali relativi alle res sacrae. Mi riferisco in particolare ad un testo di Marciano, giurista attivo nella tarda età severiana, contenuto in D. 1, 8, 6, 3. Mettiamo i due testi a confronto: Cic., de leg., 2, 58: «Sed <ut> in urbe sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum collegio, non esse ius in loco publico fieri sepulcrum… Statuit enim collegium locum publicum non potuisse privata religione obligari». 168 SCICHILONE 1961, p. 54; RICHARDSON JR. 1992, s.v. Honos, Aedes, pp. 189 ss. (ma riporta in modo errato l’iscrizione menzionata da Cicerone, come Domina Honoris, secondo la lettura di Hülsen, che riteneva il secondo lamina, presente nel testo, corruzione di Domina; ma la lettura esatta fu accertata da Vahlen); PALOMBI 1996, p. 30 s. Com’è noto il terminus ante quem della aedes Honoris extra portam Collinam è fornito da CIL, 12, 31=6, 3692, Bicoleio V(ibi) l(ibertus) Honore / donom dedet mereto, variamente datata: la datazione più alta è stata proposta, proprio al III secolo a.C., da COARELLI 1972, p. 56, Marcian., 3 inst., D. 1, 8, 6, 3: «Sacrae autem res sunt hae, quae publice consecratae sunt, non private: si quis ergo privatim sibi sacrum constituerit, sacrum non est, sed profanum. semel autem aede sacra facta etiam diruto aedificio locus sacer manet». nota 51. PLATNER - ASHBY 1929 la definirono solo «archaic inscription» senza ulteriori approfondimenti, ma anch’essi datarono l’edificazione del tempio nel corso del III secolo a.C. Un problema che lascio agli archeologi è l’armonizzazione di questa testimonianza letteraria con le risultanze di un recente scavo effettuato in Via Goito, che ha restituito tre tombe di età repubblicana obliterate, secondo gli scavatori, nel corso del II secolo a.C. Il luogo di queste tombe è molto vicino a quello più o meno individuabile dal passo ciceroniano. Sullo scavo cfr. la relazione preliminare di MENGHI et al. 2006, pp. 1 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1033 Marciano, discutendo della categoria delle res sacrae, enuncia due regole: a) appartiene alla categoria delle res sacrae solo quanto sia stato sottoposto ad un cerimoniale pubblico, identificato da Marciano nella consecratio169; quanto sia stato consacrato privatamente non è res sacra; b) il locus, una volta che sia stato consacrato, rimane tale anche se l’edificio sacro costruitovi sopra sia andato distrutto: «semel autem aede sacra facta etiam diruto aedificio locus sacer manet». È difficile sottrarsi all’analogia tra la regula iuris enunciata da Marciano e la situazione che diede origine alla pronuncia pontificale ricordata da Cicerone (de leg., 2, 58). Se infatti quest’ultima, esplicitamente, non si esprime sul rapporto tra il locus e la costruzione privata che lo abbia in séguito occupato, la regola enunciata nel III secolo d.C. da Marciano la contiene necessariamente: uno spazio attribuito alla divinità non può mai più essere restituito ai rapporti negoziali privati, a meno che il suo carattere di locus sacer non venga rimosso con opportune cerimonie. Ciò implica che, se anche un privato occupasse l’area sacra, questa non potrebbe divenire di sua proprietà con l’usucapione perché, come afferma Gaio, giurista di età antonina (4 ad ed. provinc., D. 41, 3, 9): «Usucapionem recipiunt maxime res corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis populi Romani et civitatium, item liberis hominibus». Le cose sottratte al commercium privato non possono essere mai oggetto di usucapione. La situazione dell’area immediatamente esterna alla porta Collina era leggermente diversa perché, non sorgendovi attualmente alcun edificio sacro, era stata occupata da un altro genere di cose sottratte al commercium, le sepolture (ossia res religiosae). Il collegio pontificale le racchiude in una qualifica particolare, quella della privata religio. Per i giuristi i luoghi attribuiti alla privata religio dei sepolcri erano comunque, al pari delle res sacrae e di quelle sanctae, cose extra commercium e anche extra patrimonium, sottoposte quindi allo stesso regime di sottrazione ai rapporti negoziali privati. I pontefici, invece, dovevano risolvere un problema diverso, ossia a quale situazione attribuire priorità, tra le res religiosae e le sacrae: e risolsero il dilemma costruendo una diversificazione tra la privata religio collegata ai sepolcri e la natura opposta rivestita dall’area sacra. Credo che sia per questo motivo che quest’ultima viene definita «locus publicus»: per sottolineare la differenziazione tra una destinazione comunque privata, quella della privata religio afferente ai sepolcri ed alla celebrazione dei riti funerari, per loro natura racchiusi nella sfera privata, in onore dei parenti defunti, e la destinazione pubblica, ossia rivolta alla collettività dei cives, propria di uno spazio dedicato a una divinità. 7. Conclusioni – Come abbiamo potuto vedere dalla rapida rassegna qui effettuata, a Roma il culto gentilizio non si identifica mai col culto degli antenati: esso è sempre culto di divinità, a volte del tutto peculiari a singole gentes (come il triens dei Servilii), talora uguali a quelle pubbliche, tanto che l’identità del culto si estende a quella del rito, come avviene per i Claudii, che sa169 Questa regola risponde ai profondi mutamenti procedurali intervenuti col Principato: in età repubblicana la sola consecratio sarebbe stata insufficiente a fondare la natura di locus sacer, in quanto era necessario un ulteriore atto, la dedicatio. I rapporti tra queste due formalità solenni variarono nel tempo: FIORENTINI 1988, pp. 327 ss., con discussione dei testi fondamentali in materia, di Cicerone (de dom., 127) in confronto a Livio (9, 46, 7); TATUM 1993. 1034 M. Fiorentini Sc. Ant. crificano a Saturno allo stesso modo dei sacerdoti pubblici, cioè capite aperto; ma si tratta sempre di rituali propri, talora svolti in luoghi distinti e peculiari della gens (come forse vale per i Fabii al Quirinale), talaltra in luoghi di culto aperti ad una molteplicità di gentes, come avviene nel sacellum Dianae del Celicolo nel I secolo a.C., su cui ci informa Cicerone (de har. resp., 32). I culti funerari, invece, rimandano ad una diversa sfera: quella delle parentationes, delle cerimonie annuali di celebrazione degli agnati defunti. Chiaramente esse hanno sempre avuto lo scopo di onorare il defunto: addirittura si potrebbe risalire agli stessi albori della civiltà latina, se fossero esatte le interpretazioni delle figurazioni presenti sulle pareti di alcune urne a capanna villanoviane, che sembrano rappresentare personaggi che danzano in vario modo intorno al defunto, o seduti al banchetto funebre170. Questi rituali non sono sacra gentilicia ma privatae feriae, come risulta evidente dalle classificazioni tardorepubblicane che abbiamo esaminato all’inizio: in quella probabilmente di Capitone confluita in Festo (publica sacra, 284 L.), i sacra gentilicia sono definiti sacra pro gentibus e non comprendono i riti funerari che, in un altro lemma festino (privatae feriae, 282 L.), sono classificati tra le privatae feriae171. Sotto questo aspetto la connotazione gentilizia del culto funerario si lascia cogliere solo riguardo alla celebrazione del nomen che, come è noto, è uno degli elementi qualificanti la solidarietà gentilizia, secondo la visuale, ormai pesantemente appannata, che della gens avevano gli esperti tardorepubblicani172. Le fonti sui culti e sui sepolcri gentilizi, che ho così cursoriamente citato, ci mostrano una capillare occupazione del suolo da parte dei nuclei gentilizi. Molte delle manifestazioni della vita gentilizia all’interno dell’urbe sono funzionali all’ostentazione della potenza gentilizia: penso alla descrizione polibiana del funerale aristocratico, ancora nel II secolo a.C., con gli antenati che accompagnano il defunto al sepolcro, in persona dei familiari travisati con le maschere funebri degli avi173: una glorificazione «tragica» della potenza gentilizia, secondo il grande affresco tracciato da Santo Mazzarino nel suo Pensiero storico classico, ma anche una trasposizione funeraria della celebrazione del trionfo, secondo la geniale interpretazione di Angelo Brelich174. Ma questa è ormai la nobilitas patrizio-plebea nata dal compromesso del 367 a.C., i cui riti funerari Polibio finalizzava alla deisidaimonía suscitata da questi spettacoli nella plebe, e non so quanto ci possa dire dei rituali funebri delle gentes arcaiche: forse l’analisi dei sepolcreti e delle raffigurazioni sui cinerari ci può orientare più di quanto non facciano le fonti scritte. 170 JANNOT 2002, pp. 3 ss. L’A. ipotizza che queste immagini di danze rappresentassero rituali di eroizzazione del defunto. Se ciò fosse vero, avremmo già in età villanoviana l’immagine visiva di una prima differenziazione sociale, non legata a disparità di rango ma di funzione all’interno del gruppo. Sulle «figure sedute» delle urne villanoviane, MENICHETTI 1994, pp. 28 ss.; TORELLI 1996=1997. 171 Fest., publica sacra, 284 L.: «publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curis, sacellis; at privata, quae pro sin- gulis hominibus, familiis, gentibus fiunt». Fest., privatae feriae, 282 L.: «Privatae feriae vocantur sacrorum propriorum, velut dies natales, operationis, denecales». Su questi testi cfr. supra, pp. 994 ss. 172 Cfr. le due definizioni di Cicerone (Top., 29) e di L. Cincio trasmessa da Festo (gentilis, 83 L.), esaminate supra, pp. 987 ss. 173 Del tutto condivisibile, sul punto AMPOLO 1980, pp. 186 ss. 174 Risp. MAZZARINO 1972; BRELICH 1938, pp. 189 ss. 14, 2007-2008 Culti gentilizi, culti degli antenati 1035 L’autonomia cultuale delle gentes in età arcaica e repubblicana non si scontra, ma si integra nella struttura cittadina, della quale esse erano la spina dorsale; e il punto di mediazione tra le due strutture è costituito dalle curie. Nella classificazione tardorepubblicana trasmessa da Festo e attribuita a Capitone (publica sacra, 284 L.) i culti delle curie sono qualificati sacra publica, confermando la natura pubblica di questa partizione cittadina; ma i culti delle gentes, le quali costituiscono l’ossatura (benché non l’unica componente) delle curie, sono esclusi dai culti pubblici. Allora, sul piano del culto, i gentiles assumono una duplice fisionomia: come membri delle curie partecipano ai riti comuni (Fornacalia e Fordicidia) che, essendo feriae conceptivae, ogni curia celebra in una data particolare (e questo pare dimostrare l’originaria indipendenza delle curie tra loro); in quanto membri delle gentes celebrano riti propri, che rimangono circoscritti e riservati ai cogentiles. Da questo punto di vista si può dire che il culto gentilizio sia un aspetto particolare di quel processo di ascesa sociale che consente ad alcuni gruppi di differenziarsi dal resto della comunità curiale: il gruppo inizia a distanziarsi socialmente dai curiales, con cui comunque continua a intrattenere i rapporti sociali e di culto: parallelamente a questo processo di affermazione di rango avviene un processo di autonomizzazione del culto, che rende ancora più riconoscibile il ruolo autonomo che la gens ha acquisito. È con l’ampliamento dell’aristocrazia ad opera dei Tarquini prima, e poi con l’ingresso della plebe nel centro del potere politico che la civitas cessa di essere la somma di solidarietà gentilizie rappresentata dalle curie, per diventare qualcosa di più complesso, per la necessità di mediare tra le gentes e le esigenze di soggetti privi della struttura gentilizia (plebeii gentem non habent). Riferimenti bibliografici ALBANESE 1969: B. 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ZSS: Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. SUMMARY Sacra gentilicia are a main evidence of gentes’ originary autonomy within the civitas. An analysis of the sources about several cults held by main gentes in Republican age confirms the internal charachter of the gentilician cult, often strenghtened by myths about origins of the rituals going back to the oldest stage of the roman religious tradition. Nevertheless any attempt to include funerary rites among the gentilician cult should be refused, since they commemorate the defunct ancestors, and only the agnates, but don’t purpose to ensure the union of the various families bearing the same nomen gentilicium. Informations about gentilician burials should be compared with those about distinguished subjects of republican history buried inside the pomerium. Such analysis may help to solve open questions about the problems of sacred urban space, relationships between pomerium and Urbs and the various ways of urban space occupation.