SCIENZE DELL’ANTICHITÀ
STORIA ARCHEOLOGIA ANTROPOLOGIA
14/2
(2007-2008)
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA»
DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE ARCHEOLOGICHE
E ANTROPOLOGICHE DELL’ANTICHITÀ
Direttore responsabile
Gilda Bartoloni
Direzione
M. Barbanera, B.E. Barich, G. Bartoloni, G.M. Forni, G.L. Gregori,
M. Liverani, P. Matthiae, L. Michetti, L. Nigro, C. Panella
Segretaria di redazione
I. Brancoli Verger
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA»
ATTI DEL CONVEGNO INTERNAZIONALE
SEPOLTI TRA I VIVI
BURIED AMONG THE LIVING
EVIDENZA ED INTERPRETAZIONE
DI CONTESTI FUNERARI IN ABITATO
Roma, 26-29 Aprile 2006
A cura di Gilda Bartoloni e M. Gilda Benedettini
MARIO FIORENTINI
CULTI GENTILIZI, CULTI DEGLI ANTENATI
1. Qualche osservazione preliminare – L’argomento di questo contributo è di grande interesse, ma anche difficile da sintetizzare in uno spazio limitato. Parlando di culti gentilizi la
prima domanda da porsi è: cos’era la gens? La costante attenzione di storici e giuristi verso
questa struttura sociale e giuridica, che informa di sé una parte non piccola della storia monarchica e repubblicana di Roma, è motivata dalla possibilità di capire come si formi un organismo
complesso a partire da aggregazioni più modeste, e dalla qualità delle fonti che, per la loro
lacunosità e laconicità, sollecitano la speculazione e la passione combinatoria degli studiosi.
Se si aggiunge che non pochi istituti di diritto privato (tutela degli impuberi, successione ab
intestato, gestione della terra) e pubblico (curie, plebe, clientela) sono coinvolti nei problemi
di organizzazione della gens, e che essa si situa sullo spartiacque tra discipline diverse, diritto
pubblico e privato, studi storico-religiosi, analisi, anche comparativa, delle società e delle economie antiche, e perfino filosofia politica (per quanto attiene all’origine della proprietà e dello
stato), la continuità di questo interesse risulta pienamente giustificata.
Ma qui sorge subito una difficoltà, perché le fonti che la definiscono sono tutte molto
tarde, al massimo del I secolo a.C.: quella di Q. Mucio Scevola ricordata da Cicerone, Top.,
29: «Gentiles sunt inter se qui eodem nomine sunt. Non est satis. Qui ab ingenuis oriundi sunt.
Ne id quidem satis est. Quorum maiorum nemo servitutem servivit. Abest etiam nunc. Qui
capite non sunt deminuti. Hoc fortasse satis est. Nihil enim video Scaevolam pontificem ad hanc
definitionem addidisse»; e quella di L. Cincio conservataci in un lemma dell’epitome di Paolo
Diacono, gentilis, 83 L.: «Gentilis dicitur et ex eodem genere ortus et is qui simili nomine appellatur, ut ait Cincius (fr. 21 Hu.): «Gentiles mihi sunt qui meo nomine appellantur». Entrambe,
con accenti vari, sottolineano la comunanza del nomen, che ovviamente implica la discendenza
di coloro che «eodem nomine sunt» da un capostipite comune1. Ma a noi questa definizione
non basta: si tratta di un semplice rapporto di parentela, qualitativamente analogo alla familia communi iure di cui parla Ulpiano in una definizione conservata in D. 50, 16, 195, 2, o di
1
Sul nomen gentilicium, con accenti diversi, cfr.
COLONNA 1977A, pp. 175 ss.; FRANCIOSI 1984A, pp. 3
ss. Emblematiche dell’incertezza che attanaglia i ricer-
catori sui rapporti tra struttura familiare e gentilizia
sono le antiche rassegne critiche di ZANCAN 1936-37 e
di FREZZA 1947.
988
M. Fiorentini
Sc. Ant.
qualcosa di diverso2? Se pensiamo che, secondo la famosa formula di Livio (10, 8, 9), «semper
ista audita sunt eadem penes vos auspicia esse, vos solos gentem habere» (usualmente ricordata
con il brocardo «plebeii gentem non habent»), mi pare evidente che la gens delineata nelle fonti
tardorepubblicane sia la struttura di riferimento dell’aristocrazia. Ma sappiamo che a Roma e
nel Lazio un ceto aristocratico non nasce con la città ma dopo: lo rilevano gli archeologi, che
rimarcano la profonda difformità tra una società in cui i morti sono deposti con differenze di
corredo correlate verosimilmente al prestigio e al ruolo occupato nella comunità, ipotizzati sia
in base alla diversa configurazione del cinerario (urne a capanna, urne con coperchio a forma
d’elmo, cinerari semplici), sia per le peculiarità del corredo, come le statuette che accompagnano il defunto, comunque siano da interpretare3, o i dischi di bronzo trovati in due tombe del
Foro di Cesare della fase II A, interpretati da Colonna come scudi bilobati di tipo saliare, che
fanno pensare al rango sacerdotale ricoperto in vita dai due individui4; e una società i cui morti
sono seppelliti con segni di distinzione di ricchezza non solo individuale ma di lignaggio; e
questo progressivamente già a partire dall’VIII secolo a.C.5.
Mi pare allora verosimile dedurne due forme distinte e successive di gens: una originaria,
caratterizzata da una tendenziale omogeneità sociale, in cui il prestigio è determinato dalle qualità individuali (sacerdote, pater familias, capo della comunità, guerriero, matrona), ed una successiva, che nel Lazio pare già profilarsi nel corso dell’VIII secolo, determinata da vari fattori
economici e sociali su cui non mi posso dilungare, in cui si afferma la potenza del lignaggio6.
Questo è un punto di grande incertezza nella discussione: ricordo il lavoro di Carmine Ampolo sui mutamenti sociali nel Lazio nell’VIII secolo e le accese discussioni che ne seguirono7; ma
ricordo come già Pietro De Francisci avesse insistito nel differenziare la struttura della famiglia
2
Ulpian., 46 ad edictum, D. 50, 16, 195, 2: «Communi iure dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias mortuo singuli singulas familias habent,
tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte
eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo
et gente proditi sunt». DE FRANCISCI 1959, pp. 159 ss.;
FRANCIOSI 1995, pp. 276 ss.; SERRAO 2006, p. 56.
3
Il significato delle statuette nei corredi delle
tombe laziali è vivacemente dibattuto: BIETTI SESTIERI
1992; TORELLI 1996=1997; BIETTI SESTIERI 2000, pp. 17
ss. Ai miei fini è sufficiente l’osservazione, comune ai
due autori, che le statuette sono indicative di rango,
non di lignaggio.
4
COLONNA 1991, pp. 55 ss.; DE SANTIS 2001, pp.
269 ss. Sulle differenze di rango nelle sepolture delle
prime due fasi della civiltà latina, già TORELLI 1974-75,
pp. 40 ss.
5
AMPOLO 1980; BIETTI SESTIERI 2000, pp. 15 ss.,
sulle tombe di Osteria dell’Osa; BARTOLONI 2003, pp.
93 ss.; DE SANTIS 2001, pp. 269 ss. e già TORELLI 1974-5,
pp. 41 ss.
6
A un’originaria strutturazione della gens come
«unità parentelare» tra varie familiae pare credere TORELLI 1988B, p. 241, secondo cui «più familiae possono
riconoscersi in un culto familiare e in antenati comuni, e dunque in gentes»; struttura in seguito trasformatasi in una «forma di dominio aristocratico». In linea
generale questa scansione mi pare persuasiva. Un problema ulteriore è quello dell’esistenza di un capo della
gens: senza riandare a Bonfante, LÜBTOW 1955, pp. 36
ss., la ammetteva; a mio parere è più aderente a una
struttura sociale larga come la gens, dotata di vincoli di
solidarietà ma non di gerarchia (se non forse nei fatti:
ma la struttura giuridica prescinde spesso dalla prassi), l’esclusione dell’esistenza del pater gentis durante
la vita ordinaria del gruppo; salva la sua creazione in
casi straordinari come una migrazione (esemplare il
caso di Atta Clausus) o una guerra. Ipotesi nelle quali
un capo era indispensabile. Sui mutamenti dei corredi tombali come segno delle trasformazioni sociali in
senso aristocratico AMPOLO 1972, pp. 469 ss. Il successivo AMPOLO 1984 indaga invece la veridicità delle
norme decemvirali sulle limitazioni al lusso funerario,
che giustamente l’A. ritiene del tutto veritiere.
7
AMPOLO 1970-71, pp. 37-100. Sulla questione
della possibile organizzazione gentilizia presso la plebe cfr. in senso negativo FRANCIOSI 1984C, pp. 162 ss.,
sostanzialmente accettabile nonostante qualche affer-
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Culti gentilizi, culti degli antenati
989
allargata dalla gens, e ancora prima lo stesso Edoardo Volterra avesse messo in guardia dal
ritenere la familia un gruppo «politico»8. Un altro problema di grande interesse è il carattere
rurale o cittadino della gens. Non posso dilungarmi su questo punto, ma mi pare che, se nel
periodo precivico va da sé che le gentes dovessero fondare la prosperità economica sull’appropriazione della terra, distribuendosi per pagos, la nascita della città abbia creato una situazione
inedita di fronte alla quale la risposta dei gruppi gentilizi sarà stata di continuare a controllare
le zone rurali ma inurbandosi per avvicinarsi al centro del potere, che ormai era urbano. Non
credo, infatti, a certe ricostruzioni che propongono una lotta tra poteri civici e poteri gentilizi
rimasti ostinatamente rurali, che assomiglia troppo alle vicende della lotta tra liberi comuni e
signorie feudali nell’Italia medievale, finendo per riproporre una sorta di Niebuhr aggiornato:
non dimentichiamo che, quando Atta Clauso emigra a Roma cinque anni dopo l’espulsione dei
Tarquinii, se crediamo alla cronologia di Svetonio (Tib., 1), ottiene un territorio rurale trans
Anienem per i suoi gentiles e clienti, ma viene cooptato in senato, ed il sepolcro gentilizio non
è situato nell’agro, ma sotto il Capitolium9.
In questo contesto, quale posto è occupato dal culto? Non è semplice rispondere a questa
domanda, anche perché non sfuggirà, nelle due definizioni ora ricordate, un dato abbastanza
sorprendente, l’assenza della menzione della comunanza dei sacra tra gli elementi caratterizzanti
della gens. Il che sconcerta soprattutto nella definizione di un pontefice massimo come Q. Mucio.
È un’omissione di cui è difficile dare una spiegazione esauriente, tenendo conto che il controllo
sul culto privato era, a detta di Cicerone, una delle competenze fondamentali dei pontefici.
Anche per le difficoltà ora delineate, i culti gentilizi come argomento autonomo hanno
raramente attratto l’attenzione degli storici, e a maggior ragione dei giusromanisti, che ne accennano appena come indizio del carattere di comunità politica che la gens avrebbe rivestito
fin dalle sue origini10 (ed è difficile pensare altrimenti; ma fermarsi a questa constatazione non
mi pare sufficiente a spiegarne le dinamiche interne e nei rapporti con la civitas), unitamente al
ricordo di decreta gentilicia che, in alcune prospettive critiche, dimostra un’originaria autonomia normativa delle gentes.
Anche gli storici della religione o dedicano loro solo qualche accenno sbrigativo, più attratti dai grandi sistemi cultuali pubblici e dal mai risolto problema della «religione senza miti»,
o li studiano con una prospettiva che privilegia la «funzione» che le presunte mentalità collettive delle gentes avrebbero rivestito all’interno del complessivo apparato del culto arcaico, non
mazione discutibile (come quella che fa nascere la vera
e propria Urbs «a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C.»,
ibid., p. 168). Va da sé che anch’io, come il compianto A., ritengo MÉNAGER 1980 sprovvisto di qualsiasi
plausibilità.
8
VOLTERRA 1949, pp. 521 ss.; DE FRANCISCI 1955,
pp. 137 ss.
9
La caratterizzazione «paganica» della gens è
stata sostenuta soprattutto da CAPOGROSSI COLOGNESI
1992, pp. 141 ss. Troppo caratterizzata in senso rurale
appare la gens nella ricostruzione di AMOROSO - BARBI-
2003, pp. 19 ss. Sulla migrazione dei Claudii, CACOLOGNESI 1980, pp. 48 ss.
10
Su questo punto è quasi superfluo citare Pietro Bonfante e la sua teoria della natura politica rivestita dalla gens nel periodo precivico (BONFANTE 1916).
Anche i non molti decreta gentilicia conservati dalle
fonti sembrano confermare il carattere di entità dotate di autonomia normativa, rivestito in origine dalle
gentes: MANCUSO 1988 e già VOLTERRA 1949, pp. 525 ss.
Contro la caratterizzazione «politica» della gens, già
ARANGIO-RUIZ 1914.
NA
POGROSSI
990
M. Fiorentini
Sc. Ant.
di rado elaborando sistemi religiosi e rappresentazioni partendo dal dato etimologico e linguistico e dalla comparazione storico-religiosa. Questa prospettiva evoca richiami talora espliciti,
più spesso indiretti, all’idea duméziliana secondo cui le narrazioni storiche dei primi secoli di
Roma, lungi dal contenere nuclei storici da ricavare con un paziente lavoro esegetico, costituirebbero una sorta di specchio deformato nel quale intravedere strutture, funzioni sociali e
mentalità conservatesi immutate fino almeno al IV secolo a.C. Non diversamente dai racconti
relativi ai «fatti» dei primi secoli della storia di Roma, le fonti relative ai culti gentilizi andrebbero perciò lette come eco distorta delle strutture mentali arcaiche, che poi sarebbero quelle
«archetipiche» della società indoeuropea primitiva non ancora sommerse dagli influssi etruschi
e greci, e che avrebbero, anch’esse, subíto in séguito quella sorta di «Entmythisierung» a cui,
secondo Karl Koch, ma con ben altra consapevolezza storica, sarebbe andato incontro tutto
il patrimonio mitologico romano arcaico11. Esempi illuminanti di quest’ottica mi appaiono la
«triple fondation de Rome» che Dominique Briquel collega all’ideologia trifunzionalistica di
Dumézil12; o una certa esegesi delle «leggende» dei Fabii, reinterpretate come se nascondessero caratteri sacri inalterati dalla preistoria romana (come ad es. la «ferinità dei Lucerci» o
la «fabietà come dato mitico», secondo la prospettiva di Montanari, che ritengo sprovvista di
qualsiasi plausibilità13), o del culto lupercale come se fosse la trasposizione sul piano rituale
della lotta tra il «desordre rituel» di fine anno, collegato a Fauno, ai Luperci Fabiani e quindi ai
Fabii, e l’«ordre jovien», impersonificato dalla sodalitas dei Luperci Quinctiales collegata alla
gens Quinctia, con una prospettiva calendariale proposta, sulle orme di Dumézil, da Marinella
Corsano in un pur importante contributo14. Con la prospettiva incentrata su questi temi è quasi inevitabile la sconfortata conclusione, espressa da Jörg Rüpke in un suo recente libro sulla
religione romana, secondo cui «noi non sappiamo quasi nulla dei sacra gentilicia»15. Un esito
deludente, ma forse meno drastico di quanto sia apparso allo studioso tedesco, forse troppo
condizionato dalle fonti a cui ha attinto per la sua ricerca.
Senza entrare nella controversia fra «struttura» e «funzione» (ché non mi sento all’altezza di ricoprire il ruolo di arbitro tra Lévi-Strauss e Dumézil16), personalmente trovo questo
11
KOCH 1986.
BRIQUEL 1976, pp. 145 ss.
13
MONTANARI 1976, p. 143, nota 97. La matrice
duméziliana di questa impostazione è evidente.
14
Mi riferisco allo studio, per altri aspetti importante e con molti rilievi di notevole acutezza, di
CORSANO 1977, pp. 137 ss. Particolarmente rilevante
e, a mio parere, da condividere, è la considerazione
secondo cui, nonostante i nomi gentilizi delle due
sodalità, esse non sono formate da membri delle due
gentes (o almeno non solo da loro). Anche HOLLEMAN
1976, pp. 212 ss., argomenta dalla posizione del rito
nel contesto dei Parentalia per trarne inferenze su natura e scopo. Sul punto tornerò tra breve.
15
RÜPKE 2004, p. 31, che ai culti gentilizi dedica
solo un rapido accenno, e con un’impostazione su
cui converrà, in seguito, spendere qualche parola. Né
12
più esaurienti sono le trattazioni più antiche, a partire da WISSOWA 1912, per giungere a DUMÉZIL 1977,
secondo cui la religione gentilizia si esaurisce nei
riti personali e familiari. Diversa era la consistenza
dell’indagine di DE MARCHI 1896, che al culto gentilizio dedicava un’accurata, anche se ormai molto
datata, ricerca.
16
MOMIGLIANO 1984=1988, pp. 45 ss., come
sempre lucidissimo nell’evidenziare le falle della
costruzione duméziliana. PROSDOCIMI 2002, pp. 126
ss., respinge sia la ricostruzione «trifunzionalistica»
duméziliana, sia quella strutturalista di Lévi-Strauss.
Anche se le ragioni di questo dissenso non sono ovviamente quelle che avanzerebbe un giusromanista,
esse appaiono comunque decisive (soprattutto contro Dumézil) per negare attendibilità a quelle che mi
sembrano eleganti ma inconcludenti esercitazioni
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
991
filone di studi non particolarmente attraente, direi di più, scarsamente produttivo, almeno ai
fini dello studio delle strutture giuridiche romane arcaiche, mentre mi sembra più vantaggioso
esaminare le fonti relative alla storia (e la mitistoria) delle singole gentes combinandole con
quelle sui culti, per tentare di collocare correttamente queste all’interno della società romana,
ed il culto gentilizio nel più generale contesto delle forme del culto romano.
Inoltre in dottrina non sempre la locuzione «culto gentilizio» è impiegata con proprietà.
Vi si include spesso di tutto, per esempio il culto degli antenati, che è essenzialmente culto dei
defunti. Su un piano probabilistico niente vieterebbe di classificare le cerimonie per gli antenati
come sacra gentilicia: in linea astratta si può affermare che le cerimonie funebri per gli antenati
servissero a riaffermare e consolidare i vincoli fondati sul nomen che, certificando la comune
discendenza dal capostipite, attestavano il rapporto gentilizio. Questa è, per esempio, la rappresentazione che dei Parentalia di febbraio propone Sabbatucci17. Tuttavia i modelli interpretativi devono, per quanto possibile, approssimarsi alle rappresentazioni antiche; e purtroppo
nelle classificazioni pervenuteci che, pur essendo tardorepubblicane, rispecchiano forme di
organizzazione del culto molto conservative, i culti gentilizi, inclusi tra le forme del culto privato, sono definiti semplicemente sacra pro gentibus, ossia culti officiati per la prosperità del
gruppo gentilizio nel suo insieme, come è affermato nella classificazione, forse da attribuire ad
Ateio Capitone, conservata da Festo (publica sacra, 284 L.). In essi non sono inclusi i riti per
gli antenati.
Infatti le feriae denicales sono annoverate tra le feriae privatae in un’altra classificazione riferita da Festo (privatae feriae, 282 L.: «Privatae feriae vocantur sacrorum propriorum,
velut dies natales, operationis, denecales»). Si tratta dunque di ricorrenze esclusive ad ogni
singolo soggetto, corrispondenti ai sacra pro singulis hominibus della classificazione di Capitone. Neanche le parentationes sono sacra gentilicia, come affermano ad esempio Sabbatucci e
Fraschetti sulle orme di John Scheid18. I Parentalia di febbraio, la celebrazione degli antenati
defunti, erano culti funerari privati, cui si affiancava la parentatio pubblica che apriva il novemdiale19. Sabbatucci li ha collegati alla ricognizione rituale dei iura sanguinis collegati ai vincoli
agnatizi, mentre ai riti volti a rafforzare quelli di cognatio erano riservati i Caristia (non a caso
detti anche cara cognatio) del 22 febbraio, il giorno successivo al termine del novemdiale dei
Parentalia. Ma vincoli di agnazione non vuol dire legami gentilizi, bensì rapporti di parentela
allargata ai collaterali, tanto è vero che anche nella norma delle XII Tavole relativa alla succes-
intellettuali. Contro le ricostruzioni di Dumézil si
era già pronunciato GRANDAZZI 1993. A mio parere le critiche espresse da POUCET 2000, pp. 424 ss.,
non scalfiscono la validità della presa di posizione di
Grandazzi.
17
WARDE-FOWLER 1912; SABBATUCCI 1999, pp. 58
ss.
18
SCHEID 1993, pp. 188 ss.; FRASCHETTI 1998, p.
741. Peraltro, l’A. propone su questo punto alcuni rilievi di grande interesse, come l’ipotesi che le gentes (o
meglio, le famiglie) disponessero di registrazioni delle
date di avvenimenti salienti della vita degli antenati,
per poter effettuare le parentationes. Queste registrazioni potrebbero avere costituito parte di quegli archivi privati tante volte ipotizzati dagli studiosi.
19
SABBATUCCI 1999, pp. 58 ss. Più suggestiva mi
pare la spiegazione della presenza della parentatio
pubblica attuata dalla virgo Vestalis il primo giorno
del novemdiale, come tentativo della civitas di «impadronirsi» della festività in funzione antigentilizia. Sui
riti funerari come sacra pro familiis, HARMON 1978B,
pp. 1600 ss.; KASER 1978, pp. 19 ss.
992
M. Fiorentini
Sc. Ant.
sione ab intestato (Tab. V, 4-520) la successione degli agnati è tenuta rigorosamente distinta da
quella dei gentiles. Si tratta cioè di due ordines ben distinti anche nell’assetto altorepubblicano
e quindi, a maggior ragione, in età monarchica. In più va osservato che i Caristia non erano
inseriti nel ciclo dei Parentalia ma ne rimanevano al di fuori, pur in una posizione di stretto
collegamento, per cui l’autonomia delle due feste (pur in un contesto temporale omogeneo)
ribadisce la differenza tra gli stessi vincoli di agnazione e di cognazione. Come si vede, secondo
le classificazioni romane, il culto degli antenati non è culto gentilizio.
Chiarito questo punto, che mi pare essenziale, dobbiamo porci un altro problema preliminare, quello delle fonti sui culti.
Notizie frammentarie provengono da opere sulle gentes. Di alcune di esse abbiamo i titoli:
de familiis Romanis di Valerio Messala Rufo e di T. Pomponio Attico (Corn. Nep., v. Att., 18,
2); de familiis Troianis di Varrone e un’omonima di Igino; un liber commentarius de familia
Porcia citato da Aulo Gellio (N. A., 13, 20, 17), il libellus di Q. Elogio ad Quintum Vitellium
Divi Augusti quaestorem menzionato da Svetonio (Vitell., 1, 2): tutte fonti al massimo del I
secolo a.C. Per il totale naufragio di questa letteratura è praticamente impossibile stabilire da
quali fonti tali autori abbiano tratto le notizie, e ciò ha suscitato un’ondata di diffidenza sulla
loro affidabilità: penso alla sprezzante valutazione del lavoro degli annalisti sui primi secoli di
Roma espressa da Elias Bickerman, degradato a «invenzioni per riempire i rotoli di papiro»21.
La dottrina storica francese, profondamente influenzata dallo strutturalismo di Levi-Strauss e
dal funzionalismo di Dumézil, è forse la più scettica in assoluto. È sufficiente citare il nome di
un caposcuola: Jacques Poucet. Anche Wiseman ha più volte espresso la sua critica radicale delle opere genealogiche, che ritiene invenzioni per nobilitare personaggi di dubbi natali dell’età
triumvirale o dei primi anni augustei22. Le vedute dello studioso inglese sono, a mio parere,
imprescindibili per una corretta comprensione della temperie politica e culturale che spira a
Roma dall’età mediorepubblicana; ma rischia di veicolare l’immagine di una città la cui storia
inizia nel III o al massimo nel IV secolo, come se si trattasse di una società senza memoria, che
si sveglia improvvisamente e si inventa un passato di comodo.
Questa strada può portare o alla paralisi della ricerca per mancanza di fonti affidabili,
o alla sostituzione delle «invenzioni» degli antichi con «miti» moderni, creati in base a supposizioni, ad associazioni libere tra fatti diversi, o a deduzioni fondate sul buon senso23 o
sulla logica (che è, ovviamente, quella di noi che viviamo nel nostro secolo), già combattuti
da Massimo Pallottino negli anni ’60 nella sua polemica con Gjerstad24. Se è facile sbarazzarsi
20
Tab. V, 4: «Si intestato moritur, cui suus heres
nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. 5. Si
adgnatus nec escit, gentiles familiam habento». TALAMANCA 1998. Con una prospettiva per molti versi nuova ARICÒ ANSELMO 2000, nota 88, secondo cui la norma di Tab. V, 5 non sarebbe una semplice recezione di
un antichissimo mos, ma una norma profondamente
innovativa sul sistema della successione ab intestato.
Qui mi limito a segnalare questo contributo senza poterlo ovviamente analizzare.
21
BICKERMAN 1969, pp. 399 ss.
WISEMAN 1974, pp. 153 ss. Prospettive ribadite
in WISEMAN 1983. Le ricerche di TRAINA 1993-1994
hanno in parte riabilitato queste tradizioni, riportate
a più complesse motivazioni e a memorie interne dei
gruppi gentilizi. Dinamiche già affrontate più volte da
Mario Torelli, ad es. in TORELLI 1991.
23
È il «merito» riconosciuto alle ricerche di Jacques Poucet da MEURANT 2006, p. 21 s.
24
PALLOTTINO 1963.
22
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Culti gentilizi, culti degli antenati
993
delle tradizioni dei «Familienarchive» con la condanna inappellabile di falso (per la datazione
al I secolo a.C. con l’aggravante dell’imitazione di modelli greci, come già opinava Soltau, ai
primi del Novecento, in relazione ai modelli storiografici25), io, invece, non sono mai riuscito
a districarmi da un’obiezione di fondo: in una società ristretta come quella aristocratica urbana, anche tardorepubblicana, in cui il reciproco controllo sociale doveva essere massimo per
arginare e bilanciare le spinte egemoniche delle gentes, una falsificazione grossolana sarebbe
stata accolta dagli altri casati aristocratici con disinteresse o acquiescenza26? Di questa vigilanza abbiamo esempi eloquenti: Cn. Gellio negava credibilità alle genealogie di gentes che
asserivano di discendere da Numa Pompilio che, secondo lui, non avrebbe avuto discendenza
maschile27. E i freni all’ostentazione gentilizia non si limitano alla storiografia. Livio (43, 13, 6)
menziona la reazione ai prodigi che, nel 169 a.C., accompagnarono la vigilia della terza guerra
macedonica: i decemviri sacris faciundis esclusero due prodigia dal novero di quelli per i quali
ordinarono azioni di culto, uno dei quali «quod in privato loco factum esset - palmam enatam
<in> impluvio suo T. Marcius Figulus nuntiabat». Dalla natura privata del luogo in cui si svolge
il prodigium discende la sconfessione dell’interesse statuale: trattandosi di presagio trionfale,
pare evidente che i decemviri mirassero a contrastare scalate politiche fondate su tali prodigi.
Poiché quell’anno il fratello di Figulo rivestì il consolato l’obiettivo di arginare le velleità dei
Marci, veicolate nel presagio trionfale, appare fin troppo scoperto.
Se dunque la società nobiliare romana aveva, in un certo senso, gli anticorpi per tenere a
freno le ambizioni politiche dei gruppi, non credo, con Besnier, che si debba accordare fiducia
cieca alla diffidenza manifestata da Livio e da Cicerone28. Essa è giustificata riguardo ai «falsi
triumphi, plures consulatus, genera etiam falsa et ad plebem transitiones», come afferma Cicerone (Brut., 61), ossia alla storia genealogica e di avvenimenti confluita nella seconda annalistica
e poi nella storiografia augustea: è comprensibile l’interesse che i gruppi plebei potevano avere
a vantare inesistenti origini patrizie, poi perse con un’immaginaria transitio ad plebem. Invece
le informazioni su mores, culti e rituali funerari gentilizi, essendo in linea generale «neutre», a
mio avviso dovrebbero essere vagliate con sano scetticismo ma senza pregiudizi e furori iconoclasti. Ciò non significa prendere per buoni i «fatti» narrati dalle fonti; ma studiare le tradizioni
pervenuteci, per tentare di collocarle nel loro contesto culturale e giuridico e ricostruirne la
genesi, potrà permetterci di ipotizzare con qualche verosimiglianza che almeno alcune delle
tradizioni raccolte dagli antiquari della tarda Repubblica possano provenire da archivi gentilizi
o da laudationes funebres, di cui Santo Mazzarino sottolineava la rilevanza nella trasmissione
25
SOLTAU 1909, pp. 181 ss. Opposta la valutazione di TONDO 1981, p. 18: gli storici greci, nel loro sforzo di informazione dei loro lettori, dovevano essere
particolarmente scrupolosi nel descrivere le istituzioni romane.
26
È un pensiero già espresso da GABBA 1995=
2000, p. 65.
27
Dion. Hal., 2, 76, 5: «genea;n de; katalipwvn,
wJ" me;n oiJ pleivou" gravfousin, uiJou;" tevttara" kai;
qugatevra mivan, w|n e[ti swvzetai ta; gevnh, wJ" de;
Gevllio" Gnai'o" iJstorei', qugatevra movnhn, ejx h|"
ejgevneto “Agko" Mavrkio"». Plutarco (Numa, 21, 2),
senza nominare la fonte, conferma questa differenza,
elencando anche le quattro gentes presunte discendenti di Numa: Pomponii Pinarii Calpurnii Mamerci.
Su questa polemica GABBA 1967=2000, p. 43; RUSSO
2005, pp. 16 ss.
28
BESNIER 1953, p. 9; BRUNT 1982, pp. 5 ss., è più
possibilista.
994
M. Fiorentini
Sc. Ant.
di generazione in generazione delle genealogie gentilizie, in séguito recepite in quella che il
Maestro definì incisivamente «l’età della pretesta»29. Si tratta cioè di ripensare quel criterio ermeneutico che già Pugliese Carratelli definì «pseudocritico piuttosto che ipercritico» che porta
a «diagnosi patologiche» sul grado di attendibilità delle fonti antiche30.
Un’ultima osservazione. Quando studiamo le origini di Roma è difficile sottrarsi all’impressione che la ricerca soffra di una sorta di schizofrenia: a seconda che l’analisi provenga da
un archeologo, da uno storico o da un giurista leggiamo storie radicalmente differenti, come se
provenissero da pianeti diversi. Qualche frizione, derivante dalle diverse fonti utilizzate dalle
quali vengono dedotte divergenti interpretazioni dei processi di crescita e trasformazione della
civitas, è in fondo inevitabile, perché adottando prospettive diverse è abbastanza naturale che
si ricostruiscano dinamiche diverse. Tuttavia una così totale incomunicabilità a me pare inaccettabile: la storia è una e sarebbe a mio avviso necessario tentare di avvicinare i quadri storici.
Se, studiando i corredi delle tombe dell’Orientalizzante laziale, si nota che a Decima solo nelle
tombe femminili si trovano oggetti legati al consumo del vino, prima di dedurne «il particolare
rapporto della domina con il consumo del vino»31, sarebbe necessario incrociare questo indubitabile dato archeologico con un dato giuridico, quello della lex Romuli sul divieto di bere vino
imposto alle donne (FIRA, 12, Leges regiae, Romulus 7). Così come, quando si studia la norma
decemvirale sul divieto di seppellire i defunti con oro e argento, tranne nel caso in cui essi portassero protesi dentarie d’oro (Tab. X, 8: «Neve aurum addito, at cui dentes iuncti escunt, ast im
cum illo sepeliet uretve, se fraude esto»), prima di affermare che questa norma è incompatibile
con la depressa civiltà latina del V secolo a.C.32, sarebbe opportuno verificare se per caso siano
documentate tombe con defunti con denti d’oro; e infatti almeno in un caso, a Satrico verso
la fine del VII secolo a.C., fu inumato un uomo provvisto di una protesi dentaria aurea. Già
Pietro De Francisci aveva tentato di armonizzare le testimonianze della storia delle istituzioni
romane arcaiche con quelle archeologiche33; è opportuno non perdere quella lezione di metodo.
L’incrocio delle documentazioni potrebbe contribuire a unificare interpretazioni che tendono
a divergere anche sensibilmente, fornendo immagini dei medesimi fenomeni storici discordanti
ed eccessivamente contraddittorie tra loro34.
2. Classificazioni tardorepubblicane – Sul posto occupato dal culto gentilizio all’interno delle
strutture cultuali romane disponiamo di due fonti fondamentali, entrambe conservate da Festo.
I) Fest., publica sacra, 284 L. – La prima è la notissima classificazione composta alla fine
della Repubblica o nei primi anni del principato da un anonimo, già da Reitzenstein identificato con buona plausibilità in Ateio Capitone35, e riportata da Festo (publica sacra, 284 L.=fr.
70 Suppl. Strzel.): «publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus,
pagis, curis, sacellis; at privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt».
29
MAZZARINO 1972, p. 58.
PUGLIESE CARRATELLI 1981, pp. 10 ss.
31
D’AGOSTINO 1999, p. 84.
32
ROMANO 1981.
33
DE FRANCISCI 1959; ma tutta la sua produzione
relativa ai primordia era fondata su questa impostazio30
ne di metodo, come nel precedente DE FRANCISCI 1955.
34
Fondamentali mi sembrano, a questo proposito, le «Riflessioni sul metodo» di PALLOTTINO 1993,
pp. 48 ss.
35
REITZENSTEIN 1887. Ma già MARQUARDT 1878 lo
aveva riportato al diritto pontificale.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
995
Il testo opera una rigida bipartizione tra due categorie di culti, la cui discriminante è individuata in due parametri: quello dei destinatari del culto (pro), in base al quale sono pubblici i
culti svolti in favore del popolo nel suo complesso o nelle sue partizioni, curie, montes e sacella,
mentre quelli svolti in favore dei singoli, delle famiglie e delle gentes sono privati; e quello della
provenienza del sumptus: i sacra publica sono compiuti publico sumptu. Con questa premessa
indispensabile non mi pare che Rüpke, nel suo studio già citato, abbia interpretato correttamente la fonte di Capitone, dato che individua come principale carattere distintivo la provenienza
del finanziamento per il culto, da assicurare publico sumptu: un criterio sicuramente presente
nella classificazione di Capitone, ma non quello fondamentale, anzi direi sicuramente secondario rispetto all’altro36. È necessario inoltre ribadire che il culto è pubblico se svolto in favore del
popolo, non dal popolo: i culti a cui partecipa il popolo nel suo complesso erano definiti popularia da Labeone (Fest., Popularia sacra, 298 L.=fr. 16 Hu.): «Popularia sacra sunt, ut ait Labeo,
quae omnes cives faciunt nec certis familiis adtributa sunt: Fornacalia, Parilia, Laralia, porca
praecidanea». Essi rispondevano ad un criterio del tutto diverso: quello della partecipazione di
tutti i cittadini, ciascuno nella ripartizione a cui apparteneva, ad esclusione dei culti certis familiis
adtributa. Labeone elencava infatti tra i sacra popularia i Fornacalia, culto pro curiis, i Parilia, di
cui Varrone affermava la natura al contempo pubblica e privata, i Lararia e la porca praecidanea,
tipici rituali funerari privati, familiari ma non riservati ad una sola famiglia37.
Capitone cataloga dunque come pubblici i culti celebrati non solo a vantaggio del popolo,
ma anche nelle minori articolazioni che, sotto il profilo cultuale, egli giudica autonome rispetto al populus, e che classifica seguendo un percorso discendente, dalla ripartizione maggiore
(il populus), scendendo verso quelle minori: prima cita i montes, articolazione di settori urbani
comprendente il Septimontium, che Labeone descrive come ancora vitale al suo tempo38 (sacra
36
RÜPKE 2004, p. 25: «Il più importante criterio
per distinguere i sacra publica dalle altre pratiche cultuali consiste nel guardare al finanziamento, ovvero
nella risposta alla domanda: chi paga per celebrare
questi culti?». Ovviamente l’aspetto dei destinatari
non è assente dalla visuale dell’A. tedesco: però non
occupa, come secondo me dovrebbe, il posto centrale.
Anzi, la provenienza del finanziamento non mi pare
neanche requisito fondamentale: in tal caso le opere
edificate con denaro privato non potrebbero mai essere pubbliche: e invece l’evergetismo privato che finanzia la costruzione di luoghi sacri o templi pubblici è
una delle manifestazioni peculiari della civiltà romana
fin dall’età repubblicana.
37
Sui Parilia, Varr. ap. Schol. Pers., 1, 72: «Varro
sic ait: Palilia tam privata quam publica». Pare evidente che, se questa festa veniva celebrata a livello sia
pubblico sia privato, non poteva essere definita «certis familiis adtributa». RADKE 1994, p. 57. Dal verbo
adtribuere MOMMSEN 1834, p. 10, era portato a costruire una figura di «culti gentilizi pubblici», statali
quanto alla costituzione ma affidati per la celebrazio-
ne a singole gentes. Una posizione ribadita in MOMM1887, p. 19, ove l’adtributio era interpretata come
«Verleihung». In contrario, e giustamente, DE FRANCISCI 1959, p. 170 e nota 341, faceva notare che, se la
ricostruzione mommseniana fosse stata esatta, non si
spiegherebbe la presenza della porca praecidanea che,
in quanto rito dedicato ai di parentes, appare uno dei
più tipici sacra familiaria. Sul punto cfr. anche CATALANO 1974, pp. 123 ss.
38
Fest., Septimontio, 476 L.: «Septimontio, ut ait
Antistius Labeo (fr. 14 Br.), hisce montibus feriae: Palatio, cui sacrificium quod fit, Palatuar dicitur; Veliae,
cui item sacrificium; Fagu<t>ali, Suburae, Cermalo,
Oppio, Caelio monti, Cispio monti». Labeone impiega
il tempo presente per qualificare il sacrificio palatino,
che potrebbe implicare la vitalità del rito al suo tempo.
L’interpretazione della festa è tuttora oggetto di acceso
dibattito: con pareri discordanti FRASCHETTI 1984 (ribadito in FRASCHETTI 1990, pp. 134 ss. e in FRASCHETTI
2002); CARANDINI 1997 (confermato in CARANDINI 2006).
Penso che vada abbandonata la visuale della festa come
manifestazione di una sorta di lega religiosa tra uguali,
SEN
996
M. Fiorentini
Sc. Ant.
pro montibus); poi i pagi urbani, partizioni di cui non sono chiari i rapporti con i montes, ed a
cui appartengono i Paganalia39; le curie (Fornacalia, Fordicidia e Quirinalia: sacra pro curiis); e
infine i sacra pro sacellis, in cui saranno da identificare Strenia, Volupia, Cloacina (i cui luoghi
di culto sono designati come sacella), i sacella ricordati da Varrone (L. L., 7, 84), secondo cui
«in aliquot sacris et sacellis habemus ‘Ne quod scorteum adhibeatur’, ideo ne morticinum quid
adsit», riferendosi palesemente ad una lex sacra relativa a luoghi di culto pubblici, che vieta di
insozzare materialmente (e contaminare sul piano rituale) con carogne di animali; e forse Argei.
Al contrario i culti celebrati a favore dei singoli, delle famiglie e delle gentes sono catalogati fra i
culti privati. Da notare che per i sacra privata Capitone impiega un andamento contrario a quello
adottato per i sacra publica, ascendente dal più semplice (i singuli) al più complesso (le gentes).
Qualche parola va spesa sui sacra pro sacellis. Nella presenza di questa species dei sacra
publica taluno40 ravvisava una tensione nel lemma di Capitone, per la loro eterogeneità rispetto
agli altri sacra publica che, con i sacra pro populo, pro montibus, pagis, curis fanno riferimento a
partizioni cittadine, mentre i sacella non sarebbero identificabili in nessuna di esse. Si tratta di
una critica meramente stilistica che non inficia l’importanza della fonte. Più significativo è un
altro rilievo. I sacella erano edifici cultuali generalmente di modeste dimensioni, come risulta
dalle definizioni tardorepubblicane, di Trebazio Testa riportata da Aulo Gellio (N. A., 7, 12,
5=fr. 4 Hu.) e di Verrio Flacco (sacella, 422 L.)41. Per questo erano più facilmente appropriabili
dai privati, come dimostra una serie di fonti tardorepubblicane di cui mi limiterò a segnalare
alcune più rilevanti. In una lettera del 50 a.C., M. Celio Rufo informa Cicerone (ad Fam., 8, 12,
3) di avere intrapreso un’iniziativa giudiziaria contro Ap. Claudio, fratello di Clodio: «Praeterea coepi sacellum, in domo quod est, ab eo petere». Si tratta verosimilmente di un piccolo edificio di culto che Claudio aveva accorpato alla sua abitazione. L’interpretazione più attendibile
di questo accenno sibillino è, a mio avviso, quella di Tyrrell e Purser42, secondo cui si sarebbe
trattato di un sacello pubblico illecitamente privatizzato da Claudio. Ancora più sfortunata fu
in cui ciascun villaggio conservava la sua indipendenza, come pensava ancora DE FRANCISCI 1959, pp. 479 ss.
Vi sono anche testimonianze epigrafiche di sacra pro
montibus, come il rito che si svolgeva nel sacellum attestato da una epigrafe urbana (CIL, 12, 1003=ILLRP,
698): M<ag(istri)> et flamines / montan(orum) montis / Oppi / de pequnia mont(anorum) / montis Oppi /
sacellum / claudend(um) / et coaequand(um) / et arbores / serundas / coeraverunt. Il sacellum è di pertinenza dei montani e i lavori sono finanziati a loro spese;
non credo quindi che si possa trattare di un luogo di
culto pubblico: valutando il rito che vi si svolgeva alla
stregua della classificazione di Capitone, pare evidente
che non appartenesse ai sacra pro sacellis, ma pro montibus. Sui montani montis Oppii, PALMER 1976, pp. 50
ss.; FRASCHETTI 1990, pp. 174 ss.
39
CAPOGROSSI COLOGNESI 2002, pp. 43 ss.; TARPIN 2002, pp. 186 ss.; CARANDINI 2006, pp. 140 ss. In
questa sede non posso affrontare una discussione
sull’ipotesi di SABBATUCCI 1999, pp. 41 ss., che non
esclude un’identificazione delle feriae Sementivae di
fine gennaio con i Paganalia, a cui accenna Varrone
(L. L., 6, 24). Il rapporto tra le due entità è esaminato
da FRASCHETTI 1990, pp. 173 ss.; CARANDINI 2006, pp.
140 ss., inserisce i pagi nel contesto del processo che
porta alla nascita di Roma, nel quale essi sono inseriti
come prima fase preurbana.
40
Ad es. MOMMSEN 1907, III, p. 539.
41
Au. Gell., N. A., 7, 12, 5 (= fr. 4 Hu.): «sacellum est locus parvus deo sacratus cum ara.». Fest.,
sacella, 422 L.: «sacella dicuntur loca dis sacrata sine
tecto». La marcata discrepanza tra le due fonti è risolta
da COARELLI 1983, pp. 124 ss., accordando fiducia alla
definizione di Trebazio. Non tutti i sacella che conosciamo sono a cielo aperto, mentre tutti sono provvisti di un’ara per la celebrazione del rito; alcuni ne
hanno più di una, come il sacellum Mutini Titini sulla
Velia, a cui accennerò subito. La soluzione di Coarelli
mi pare la sola accettabile.
42
TYRRELL - PURSER 1969, III, p. 268.
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Culti gentilizi, culti degli antenati
997
la sorte toccata al sacello di Mutinus Titinus, secondo un lemma di Festo (Mutini Titini, 142 L.),
«Mutini Titini sacellum fuit in Veliis, adversum murum Mustellinum in angi<portu>, de quo
aris sublatis balnearia sunt facta Cn. D<omitii> Calvini, cum mansisset ab urbe condita <ad
pri>ncipatum Augusti <…>». Anche in questo caso abbiamo lo smantellamento di un piccolo e
antichissimo luogo di culto pubblico, con la rimozione delle are in esso contenute e la trasformazione del corpo di fabbrica in balnearia privati43. Quello che può sorprendere è l’assenza
di reazione degli organi preposti alla tuitio, censori ed edili44: fenomeno che si può riportare
alla mancata elezione di censori nell’età delle guerre civili e fino al 22 d.C. Ben diversa era stata
la risposta in una situazione identica, nel pieno della Repubblica, descritta da Livio (40, 51,
2): i censori del 179 a.C. «complura sacella publicaque <loca> usu occupata a privatis publica
sacra<que> ut essent paterentque populo curarunt». Il sacellum distrutto da Domizio Calvino,
invece, non fu mai rivendicato. Così come accadde in parecchi casi ricordati da Cicerone nel
de haruspicum responsis, a partire da quelli distrutti da Sex. Atilio Serrano (de har. resp., 32:
«A Sex. Serrano sanctissima sacella suffossa, inaedificata, oppressa, summa denique turpitudine
foedata esse nescimus?»), per giungere a quello distrutto ed accorpato da Clodio alla sua casa
(de har. resp., 30: «Sequitur de locis sacris, religiosis.[…] in iis aedibus quas tu, Q. Seio, equite
Romano, viro optimo, per te apertissime interfecto, tenes, sacellum dico fuisse <et> aras. Tabulis
hoc censoriis, memoria multorum firmabo ac docebo»). C’è un’apparente contraddizione in
quanto dichiara l’oratore: prima afferma che parlerà di loca sacra e religiosa, che per loro natura non possono appartenere a nessuno, essendo cose sottratte al commercium; poi dichiara
di avere le prove di quanto ha appena affermato nelle registrazioni delle tabulae censoriae.
Poiché in esse era contenuto l’elenco di tutti i beni di cui il singolo cittadino era proprietario,
ne discenderebbe che il sacello in parola fosse di proprietà di Seio. La composizione di questa
discrepanza andrà forse cercata nel fatto che nella sua professio Seio avrà dichiarato anche tutti
i beni comunque nella disponibilità privata, indipendentemente dal loro essere in sua proprietà.
Se questa interpretazione è corretta, avremmo un caso rilevante di sacellum racchiuso in una
proprietà privata, ma aperto al culto pubblico.
Finora abbiamo visto sacella pubblici, i cui culti quindi rientrano nella species dei sacra pro
sacellis. Tuttavia le fonti ci mostrano anche sacella privati, ove si svolgevano riti non pubblici,
o addirittura sacella adibiti al culto gentilizio di diverse gentes, come ci mostra inequivocabilmente un testo di Cicerone (de har. resp., 32) secondo cui molti membri dell’ordine senatorio
eseguivano culti gentilizi a Diana in un sanctissimum sacellum sul Celicolo: «L. Pisonem quis
43
L’identificazione di Calvino con il Cn. Domizio Calvino console nel 54 a.C. e autore del restauro della Regia pontificum nel 36 a.C. (TORELLI 1984,
p. 154) è convincente. L’A. identifica l’incendio che
distrusse l’edificio poi ricostruito da Calvino con lo
stesso evento che gli avrebbe permesso di impadronirsi del sacello di Titinus. Ma Festo afferma che esso sopravvisse intatto fino <ad pri>ncipatum Augusti, una
formulazione che difficilmente si concilia con la data
dell’incendio. Può darsi pertanto che il sacello non
fosse andato distrutto nell’incendio e sia stato sman-
tellato da Calvino in seguito. Sappiamo che costui
era ancora vivo nel 21 a.C. (MÜNZER 1903, col. 1422);
potrebbe quindi avere compiuto l’empia azione poco
prima di morire. Sul rapporto tra il sacello di Titinus
e Venus Calva, e le relative implicazioni in tema di
culti gentilizi, convincentemente ipotizzati da Torelli,
qualche rilievo più sotto. Ottimi rilievi su tutto il problema in PALOMBI 1997, pp. 88 ss.
44
DE RUGGIERO 1925, pp. 148 ss.; 229 ss.; PALMER
1965, pp. 319 ss.
998
M. Fiorentini
Sc. Ant.
nescit his temporibus ipsis maximum et sanctissimum Dianae sacellum in Caeliculo sustulisse?
Adsunt vicini eius loci; multi sunt etiam in hoc ordine qui sacrificia gentilicia illo ipso in sacello
stato loco anniversaria factitarint». Va evidenziata la particolare forma di esercizio di questo
sacello di Diana: l’uso cultuale ne è aperto ad una molteplicità di gentes. Ciò significa che nessuna gens ha l’esclusiva dell’esercizio del relativo culto. Ma c’è di più: il sibillino accenno di
Cicerone parrebbe sottintendere un esercizio collettivo di questo sacello da parte dei gentiles,
ciascuno dei quali vi celebra il suo rito gentilizio45.
I sacra pro sacellis implicano un’altra difficoltà: l’attendibilità della proposta di includervi
i sacra Argeorum. L’obiezione principale consisteva nel fatto che il nome tecnico delle «cappelle» degli Argei, come risulta da Varrone, non è sacella ma sacraria46; ma Varrone, dopo aver
affermato (L. L., 5, 45) che «reliqua urbis loca olim discreta, cum Argeorum s a c r a r i a septem et viginti rell.», poco dopo (L. L., 5, 48) nomina l’«Argeorum s a c e l l u m sextum» della
regio Suburana, evidenziando una certa variabilità terminologica dei relativi luoghi di culto47.
Più interessante è il problema della determinazione della partizione cittadina alla quale essi
avrebbero afferito. Su questo punto non mi pare convincente una certa tendenza a incardinare
gli Argei nel sistema delle curie48. Se così fosse, nelle classificazioni tardorepubblicane dei sacra
essi sarebbero ricompresi nei sacra pro curiis; il che non è, dato che la processione ai sacraria è
svolta da sacerdoti pubblici (le vestali, la flaminica Dialis, i pontefici), e pertanto non coinvolge
nessuna struttura curiale. Inoltre l’incompatibilità tra il sistema degli Argei e quello delle curie
è dimostrata dall’eterogeneità dei ventisette sacraria degli Argei con le trenta curie; e inaccettabile è l’antico tentativo di «normalizzarne» il numero con le quattro regiones serviane, ipotizzando un numero di ventiquattro sacelli49; né persuasivo mi sembra il tentativo di concordare i
due numeri ipotizzando un aumento del numero delle curie da ventisette a trenta, ad opera di
Romolo: un intervento di tale importanza che, se ci fosse stato, le fonti non avrebbero mancato
di ricordarlo. Esatta, invece, la collocazione degli Argei nella fase proto-urbana, proposta da
Carandini50. A mio parere gli Argei rispecchiano una fase del popolamento antecedente non
45
Un non più recente commento all’orazione ciceroniana infila un paio di perle in relazione a questo
sacello: prima sospetta che esso sia stato «apparently
dedicated by a private person or family», poi collega la
distruzione del sacello ad una «vigorous action against
the Egyptian cults (…) destroying their altairs», vedendo una possibile connessione tra i due eventi
«especially if this cult of Diana were foreign, orgiastic,
or in any way unruly». Non riesco a vedere dignitosi e
severi membri dell’ordine senatorio compiere un culto orgiastico: LENAGHAN 1969, p. 165.
46
Così ad es. GEIGER 1920, col. 1661.
47
POE 1978, pp. 150 ss.
48
STORCHI MARINO 1995; SABBATUCCI 1999, p.
123; ma già così PALMER 1970, p. 85; p. 126, pensava
che un sacello destinato a sacrifici di famiglie (sic) nobili avrebbe potuto svolgere al meglio il suo ruolo «if
it were a sacred enclosure belonging to a curia»; GJER-
STAD 1973, p. 39. Contro il collegamento Argei-curie
si era pronunciato già MAGDELAIN 1976-77=1990, p.
172, a mio avviso correttamente, e pur nel contesto
di un’ipotesi sulla collocazione cronologica del rituale
argeo che non ritengo plausibile.
49
SAGLIO 1877, p. 404; contra SCULLARD 1981, pp.
120 ss.: PALOMBI 1997, pp. 86 ss., con una persuasiva
deduzione tratta da un’integrazione della seconda
parte di Fest., Mutini Titini, 142 L., nella quale compare un <s>extum et vicesimum (accolta anche da TORELLI 1984, p. 154), convincentemente identificato nel
ventiseiesimo sacrario argeo. Ciò ovviamente sarebbe
sufficiente a escludere che la locuzione di Varrone (L.
L., 5, 45) «Argeorum sacraria septem et viginti» possa essere considerata un errore del Reatino o, peggio,
della tradizione manoscritta (che sul passo, a quanto
mi consta, non conosce varianti testuali).
50
CARANDINI 2006, pp. 201 ss.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
999
solo alla divisione della città in quattro regiones, come affermato da Van Doren sulla scia delle
appropriate osservazioni di Collaart51, ma anche alla concentrazione della popolazione in curie. Del resto non mi pare persuasiva, nonostante la sua suggestività, la proposta di Gianfranco
Maddoli di collegare gli Argei al culto greco di He®ra Argheía introdotto durante la monarchia
etrusca52. Né tanto meno ritengo accettabile l’ipotesi formulata da Magdelain che, argomentando dalla circostanza che la processione avrebbe seguito un percorso concepito in modo
da toccare tutti i sacella di ogni regione serviana prima di passare alla seguente, deduceva la
dipendenza del rito dall’assetto quadripartito dell’Urbe serviana, e quindi la seriorità degli uni
in confronto all’altra53.
II) Fest., sacer mons, 424, 14 ss. L. – La segregazione dei culti gentilizi nell’ambito dei
culti privati, asserita nel testo di Capitone, rispecchia una fase della storia romana nella quale
le gentes, avendo perso qualsiasi rilievo ed essendo state respinte al di fuori della vita della res
publica, sono state relegate nella sfera privata, considerate tutt’al più nel contesto dei rapporti
di parentela e del diritto delle successioni54. Una prova di tale declino è unanimemente riconosciuta nella supervisione sul culto gentilizio esercitata dal collegio pontificale: un fenomeno
implicante il sostanziale venir meno dell’autonomia cultuale delle gentes.
Festo (sacer mons, 424, 14 ss. L.) riferisce una preziosissima testimonianza di questo controllo; un testo che, vorrei far notare, non è stato influenzato dalla classificazione di Capitone
essendone sicuramente anteriore: «Gallus Aelius (fr. 5 Br.) ait sacrum esse quocumque modo
[Linds.; quodcumque more Lachm.] atque instituto civitatis consecratum sit, sive aedis, sive ara,
sive signum, sive pecunia, sive quid aliud quod dis dedicatum atque consecratum sit; quod autem privati suae religionis causa aliquid earum rerum deo dedicent, id pontifices Romanos non
existimare sacrum. At si qua sacra privata succepta sunt, quae ex instituto pontificum stato die
aut certo loco facienda sint, ea sacra appellari, tamquam sacrificium; ille locus, ubi ea sacra privata facienda sunt, vix videtur sacer esse».
Una considerazione preliminare si impone: Elio Gallo cita materiali pontificali. Queste
fonti in genere hanno fino a tempi recenti sollecitato scarse attenzioni, come se i pontefici
fossero qualcosa di sostanzialmente estraneo al patrimonio della sapienza giurisprudenziale
romana: nel giusromanista essi in genere suscitano interesse solo laddove la loro attività si incontri col diritto profano, lasciando agli specialisti di storia della religione l’analisi dei responsi
pontificali in materia di culto55.
51
DOREN 1958, pp. 39 ss.; AMPOLO 1988, p. 166,
invece, ritiene gli Argei «organicamente distribuiti secondo la città delle quattro regioni» serviane; ciò che
gli suggerisce la conclusione che l’elenco, «nella forma
in cui ci è pervenuto», debba risalire ad età successiva
al VI secolo a.C. Una conclusione che mi lascia parecchi dubbi.
52
MADDOLI 1971.
53
MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 171 ss.
54
TALAMANCA 1998; MASI DORIA 1999.
55
Ad es. SCHULZ 1968, p. 19: «La storia della
scienza giuridica romana, peraltro, si occupa del diritto sacro solo in quanto il diritto sacro tocchi il profano
e presenti con il medesimo parallelismi; materia puramente di culto appartiene alla storia della religione».
Nello stesso senso mi pare caratteristico dell’atteggiamento dei giusromanisti nei confronti della giurisprudenza pontificale il sostanziale disinteresse manifestato, in un articolo peraltro di notevole spessore
critico, da WIEACKER 1986, p. 347 s. che, ricordata la
1000
M. Fiorentini
Sc. Ant.
Francesco Sini ha evidenziato bene le ragioni che hanno indotto la critica del secolo XIX,
alla quale ancora oggi in sostanza facciamo riferimento, a marginalizzare questi materiali, ritenuti appunto estranei alla nostra tradizione giuridica perché riguardanti settori diversi, come il
ius sacrum56. In realtà, l’attività dei collegi sacerdotali nel campo del diritto pubblico in età repubblicana va ricondotta alla sua reale portata, che è quella del controllo della correttezza delle
procedure dei riti. Lungi dal rilevare esclusivamente nell’ambito religioso, essa vale ad assicurare il gradimento delle divinità e, in definitiva, l’armonioso rapporto tra queste e la civitas. Si
tratta perciò di funzione strettamente collegata al diritto pubblico. La descrizione dell’attività
pubblica degli àuguri fatta da Cicerone (de leg., 2, 31) è determinante. Dal momento che quella
che i Romani chiamavano pax deorum era una componente essenziale del corretto funzionamento della civitas, i pontefici e gli àuguri erano chiamati a governare un settore fondamentale
della vita politica romana57. Mi pare che sia questo il senso più pregnante della formula, altrimenti francamente ambigua, secondo cui nell’età arcaica non si può tracciare una reale cesura
tra diritto e religione58. Vedremo in séguito come questo rilievo possa essere proficuamente
speso nell’analisi di un testo importante di Cicerone (de leg., 2, 58) relativo all’aedes Honoris
extra portam Collinam.
Nel lemma Sacer mons la citazione da Elio Gallo, finalizzata alla delimitazione della nozione di res sacra, può essere suddivisa in tre parti:
i) definizione di sacrum, limitato solo a quanto (aedis, ara, signum, pecunia, quid aliud) sia
stato consecratum atque dedicatum da un mos o da un institutum civitatis;
ii) le stesse res, se destinate dai privati suae religionis causa, non sono considerate sacrae
dai pontefici59;
iii) vi sono sacra privata che un institutum pontificum impone ai privati di compiere stato
die aut certo loco: questi sono sacra, e il locus ove si deve svolgere l’atto di culto è, pur con
qualche riserva (vix), considerato locus sacer.
profonda compenetrazione tra sacro e civile nell’esperienza romana arcaica, lamenta che i testi pontificali
«unterrichten nicht direkt über ihre (scil. dei pontefici)
Methoden und Vorstellungen zum profanen Recht: wir
können auf diese nur zurückschließen aus Sakralformeln und Sakralgutachten» (ibid., p. 348, nota 2), che
l’A. esclude dal suo esame, in quanto ritenute estranee
all’attività «profana» dei pontefici. Invece a mio parere
«Sakralformeln und Sakralgutachten» sono parte del
peculiare orizzonte giuspubblicistico romano di età
repubblicana e non possono essere messi da parte in
ossequio ad una visione liberale della separazione tra
diritto e religione (così anche VOCI 1953, p. 45). Una
nozione che, se al giorno d’oggi sarebbe del tutto auspicabile (oltre che, a torto, ritenuta pienamente realizzata), non risponde a pieno alla mappa delle strutture pubblicistiche romane, neanche di età imperiale:
figuriamoci a quelle monarchiche e repubblicane. Più
equilibrato, benché ancora orientato nel senso di nega-
re la «confusione» tra sacro e profano nelle pronunce
pontificali, RANDAZZO 2004.
56
SINI 1995, pp. 28 ss., sull’espulsione dei fragmenta extra Digesta tradita, secondo la logica costruttiva (ma meglio sarebbe dire, come fa giustamente Sini, «omissiva») del Lenel della Palingenesia Iuris
Civilis. La complessità dei materiali giuridici utilizzati
da Elio Gallo fu messa in risalto da BONA 1987, pp.
119 ss.
57
VOCI 1953, pp. 49 ss.; SINI 2002, pp. 68 ss.
58
È l’ambiguità che si riscontra in alcuni accenti
del pur denso contributo di VOCI 1953. Non ambiguo
invece FABBRINI 1968, nell’attribuire alla religio arcaica
un significato non circoscritto alla religio sepulcrorum
ma esteso a coprire tutte le manifestazioni del sacro.
Una visione confutata da Albanese: ALBANESE 1969, a
mio avviso determinante, nonostante la replica di FABBRINI 1970, pp. 197 ss.
59
ALBANESE 1969, pp. 208 ss., nota 8.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1001
Come si vede il lemma è molto più articolato di quanto sia considerato da coloro che lo
leggono come prova della pura e semplice sorveglianza del collegio pontificale sui culti privati.
Mommsen lo ritenne prova del fatto che lo stato avrebbe usato conferire culti pubblici alle
gentes, anzi, avrebbe attuato una vera e propria «Mandirung eines Geschäfts»60: un fatto non
solo inspiegabile (perché conferire un culto ad una gens invece di affidarlo a sacerdozi pubblici?), ma contraddetto proprio dal passo di Elio Gallo. In esso, infatti, i pontefici non affidano
ai privati un culto pubblico, ma accolgono culti privati nella categoria dei sacra qualora sussistano determinati requisiti, in particolare la cadenza temporale (stato die) o la determinazione
del certus locus in cui l’atto di culto deve svolgersi; ne deriva l’estensione della qualità di sacer
al locus in cui si svolge l’atto cultuale.
La considerazione più interessante mi pare però un’altra: la classificazione di Elio Gallo è
certamente anteriore a quella di Capitone, e in essa sono già menzionati i sacra privata, ancora
privi di quella caratterizzazione definitoria che contraddistingue la definizione di Capitone,
ma certamente già strutturati come «contenitore» di quelle forme del culto che non rispondono ai criteri elaborati dai pontefici per la ricomprensione nella categoria del sacrum.
Un altro rilievo mi pare di grande valore: l’esclusione di quanto i privati abbiano costituito suae religionis causa è il frutto di un intervento interpretativo dei pontefici, come appare
evidente dal verbo existimare che esprime l’autorevole pronuncia del collegio sulla soluzione
di una controversia o di un quesito portato alla sua attenzione. Infatti, non esistendo una letteratura scientifica pontificale nella quale potessero maturare opinioni sull’ambito semantico
di un termine tecnico, il verbo in parola allude all’esito dell’attività di controllo del collegio,
espresso in un decretum61.
L’intervento pontificale delineato in questi testi si era reso necessario per assicurare la
continuità di culti gentilizi che dovevano essere in immediato pericolo di estinzione. Le fonti,
almeno a partire dal II secolo a.C., sono prodighe di informazioni sugli espedienti escogitati
non solo dai privati ma anche dalla giurisprudenza cautelare dei pontefici per permettere agli
onerati di sottrarsi ad obblighi che non solo dovevano essere sentiti sempre più economicamente gravosi e costrittivi, ma, aggiungerei, nei cui confronti, per la dispersione dei gruppi
gentilizi in entità sempre meno compatte, la determinazione concreta dell’onerato doveva essere sempre più problematica. Il lungo testo del de legibus di Cicerone (2, 48-54), contenente una
serrata polemica con gli Scevola pontefici, accusati dall’Arpinate di avere, con i loro interventi
cautelari in materia di obbligati ai sacra, contribuito pesantemente al declino della religione
gentilizia, venendo sostanzialmente meno all’attività di controllo esercitata tradizionalmente
60
In realtà il pensiero di Mommsen, oltre che più
articolato di come l’ho ora presentato, ha subìto una
profonda evoluzione, dal libro giovanile sui collegia
(MOMMSEN 1834) al maturo Staatsrecht (MOMMSEN 1887).
61
Che i collegi sacerdotali dovessero non di
rado risolvere questioni attinenti alla qualificazione
pubblica o privata delle materie di loro competenza
è evidenziato dall’episodio narrato da Livio, relativo
ai decemviri sacris faciundis (43, 13, 6), cui ho accen-
nato poco sopra. Quanto alla forma assunta da questa
pronuncia pontificale, data l’espressione usata da Elio
Gallo (existimare), sarei orientato a ritenerla un decretum. Sulla differenza tra le due forme di intervento
pontificale mi pare che si sia correttamente pronunciato RANDAZZO 2004. Cfr. anche MANCUSO 1988, pp.
78 ss.; FALCONE 1991, pp. 234 ss., di cui, in assenza di
più precisi riscontri cronologici, trovo convincente la
datazione di Elio Gallo ai primi anni del I secolo a.C.
1002
M. Fiorentini
Sc. Ant.
dal collegio, appare emblematico in proposito: la penetrante lettura proposta dal compianto
Ferdinando Bona al Convegno di Copanello del 1988, che confermava con altri argomenti la
cautela verso l’attendibilità delle critiche ciceroniane manifestata da Eberhard Bruck nel suo
lavoro del 1945, mi pare la più affidante, e ad essa rinvio senz’altro62. Dirò di più: abbiamo
almeno una testimonianza quasi in presa diretta di questo fenomeno di abbandono dei sacra,
risalente alla prima metà del II secolo, l’episodio dell’espulsione di L. Veturio dal ceto degli
equites ad opera di Catone, su cui tornerò tra breve. Queste testimonianze rispecchiano dunque un’età di disgregazione progressiva della solidarietà gentilizia in materia cultuale, specchio
di un più generale fenomeno di sfaldamento della gens come struttura sociale: un fenomeno
che già nel II secolo fa avvertire i primi scricchiolii (anche se, come vedremo, lo stesso secolo
presenta episodi che ne attestano anche un’insospettata vitalità).
Nell’ottica della giurisprudenza pontificale cui accenna Elio Gallo, pertanto, tra i culti
privati è fatta una bipartizione: culti privati di stretta pertinenza privata, e culti privati che, a
séguito dell’intervento di un institutum pontificum, sono assimilati a culti pubblici. Anche in
questo secondo caso siamo in presenza di culti privati, dotati però di un grado particolare di
coercitività proprio a causa dell’institutum pontificum. Questa duplicità dei culti privati è confermata da un’analisi, necessariamente rapida, dei singoli sacra gentilicia.
3. Sacra gentilicia – Le fonti attestano l’esistenza di culti rimasti sempre nel chiuso della vita
delle gentes. Si tratta di culti e rituali che non hanno mai influenzato la vita della civitas. Tra questi
il più insolito è senz’altro quello ricordato da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 34, 137) a proposito
della gens Servilia: «Unum etiamnum aeris miraculum non omittemus. Servilia familia inlustris
in fastis trientem aereum pascit auro, argento, consumentem utrumque. Origo atque natura eius
incomperta mihi est. Verba ipsa de ea re Messallae senis ponam: “Serviliorum familia habet trientem sacrum, cui summa cum cura magnificentiaque sacra quotannis faciunt. Quem ferunt alias
crevisse, alias decrevisse videri et ex eo aut honorem aut deminutionem familiae significari”».
Il testo è così singolare da avere provocato una sorta di reazione di rigetto tra gli studiosi63.
Il motivo è evidente: Messalla descrive un rituale di pronostico celebrato in onore di un triens
sacer che, nel corso di un sacrificio annuale, viene «alimentato» con oro e argento per ottenere
un pronostico sulle sorti future della gens, da ricavare dal gradimento delle offerte manifestato
dal presunto aumento o meno delle sue dimensioni. Cosa era questo triens?
62
BRUCK 1945, pp. 6 ss.; BONA 1990, pp. 215 ss.,
con un’acuta disamina dei rapporti tra l’attività pontificale e il ius civile nell’ottica non disinteressata di
Cicerone. Che fosse l’aspetto del peso economico
connesso alla celebrazione dei riti gentilizi il maggiore
responsabile di disaffezione e tentativi di abbandono,
soprattutto al momento dell’apertura della successione, mi pare dimostrato dal criterio elaborato dai
pontefici per individuare l’obbligato ai sacra, incardinandone la trasmissione al patrimonio. È questo il
nucleo concettuale che ci trasmette Cicerone (de leg.,
2, 50): «Sed pontificem sequamur. Videtis igitur omnia
pendere ex uno illo, quod pontifi<ces> cum pecunia
sacra coniungi volunt, isdemque ferias et caerimonias
adscribendas putant». FRANCIOSI 1964.
63
Nonostante la sua lunghezza, esso non fu recepito nella raccolta di HUSCHKE (SECKEL - KÜBLER)
1908, mentre fu inserito in quella di BREMER 1896 (Br.).
Perfino un contributo che fin nel titolo riprende alla
lettera le espressioni pliniane non ha sentito la necessità di soffermarvisi: VONES 1978.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1003
Il problema è stato spesso risolto proponendo l’identificazione con una moneta della serie
enea di un terzo d’asse64. Una soluzione davvero banale, inadeguata a spiegare non solo il carattere «alimentare» del rito, non attestato in nessun altro culto, ma anche la materia del simulacro
di culto, il bronzo. Non si capisce perché i Servilii avrebbero scelto un oggetto di culto di così
scarso valore come una moneta di bronzo, per di più di una frazione ponderale. Oltre tutto,
in questo caso, il rito non potrebbe essere più antico della più antica monetazione romana in
bronzo che, anche accettando la datazione più alta, non sarebbe più antica della seconda metà
del IV secolo a.C. Invece il simulacro del culto servilio si armonizza con un periodo in cui il
bronzo era considerato materia dotata quasi di una virtù magica, a cui veniva offerto un pasto
altrettanto prezioso come oro e argento. Un parallelo potrebbe essere costituito dal divieto di
utilizzare strumenti di ferro, imposto al flamen ed alla flaminica Dialis, o dall’analogo obbligo
di impiegare solo strumenti di bronzo nei restauri del pons Sublicius, secondo una serie di testimonianze la più completa delle quali è fornita da Aulo Gellio (N. A., 10, 15)65. Già trenta anni fa
Jean Gagé aveva proposto un’interpretazione del rituale a mio avviso esatta, leggendovi un caso
rarissimo di sopravvivenza di magia dei metalli, unita ad una «éminente dignité de l’aes»66. Non
mi pare che vi sia alcun altro rituale, nelle pur variegate forme del culto romano, dotato di un
simile valore: dal punto di vista della tipologia del rito, siamo in presenza di un vero e proprio
unicum: l’identificazione con un aes signatum mi pare nel complesso la più plausibile.
Saremmo pertanto portati in piena età arcaica quando, come ricorda Varrone in un testo
proveniente da Agostino (civ. Dei, 4, 31), che pure ha sollevato non infondate perplessità, i
Romani veneravano immagini di culto aniconiche, come il lapis manalis portato in processione durante l’Aquaelicium, o il lapis silex dei feziali che, come ricorda Servio (ad Aen., 8, 641),
«antiqui Iovis signum lapidem silicem putaverunt esse», o il delubrum che, secondo un lemma
festino conservato nell’epitome di Paolo Diacono (delubrum, 64 L.) avrebbe preso nome da un
«fustem delibratum, hoc est decorticatum, quem venerabant pro deo». Questa fase storica della
religione romana ben si accorda con la grande antichità della presenza dei Servilii a Roma: essi
infatti sono menzionati da Livio (1, 30, 2) tra le gentes Albanae coattivamente trasferite a Roma
dopo la distruzione di Alba Longa ad opera di Tullo Ostilio: «principes Albanorum in patres
64
Per l’identificazione in una moneta già MOMM1860, p. 107, che collegava la notizia di Messalla
alla serie di C. Servilio del 134; DE MARCHI 1896, p.
107, che lo riferiva ad un culto familiare; H. Le Bonniec, nel commento al l. 34 della Naturalis Historia
accolta nella coll. delle Belles Lettres (p. 302); GAGÉ
1958, p. 476, richiamò l’opinione di Adrien Blanchet,
secondo cui si sarebbe trattato di «une monnaie ancienne considérée comme un souvenir sacré».
65
DE FRANCISCI 1955, pp. 119 ss.
66
GAGÉ 1976, pp. 241 ss.: si sarebbe trattato di
«survivances d’une magie des metaux rarement attestée à Rome». Ancora più ragguardevole è il rapporto
istituito dall’A. tra il bronzo dei Servilii e la riforma
monetaria di Servio Tullio, attestata da Plin., N. H.,
33, 42-47, su cui AMPOLO 1974, pp. 382 ss. Un lontano
SEN
rapporto con questo pronostico del futuro associato
all’aumento o diminuzione delle dimensioni potrebbe forse essere rintracciato in testimonianze di sortes
imminutae, come presagio di calamità, ricordate da
Livio (21, 62, 5 a Caere, scoppio della seconda guerra
punica; 22, 1, 11 a Falerii, disastri del Trasimeno e di
Canne). Si tratta di mera analogia esteriore mancando,
nel caso delle sortes, l’elemento per così dire «alimentare», essenziale nel rito servilio in quanto preliminare
al riscontro del «gradimento» dell’offerta. In FIORENTINI 1988, p. 124 s., proponevo anche due eccezionali
paralleli etnografici, tratti da VAN DER LEEUW 1975, p.
24 (pesatura annuale di una catena d’oro a Goa, ove
ogni famiglia ha oggetti di culto da cui dipende la prosperità) e p. 552, nota 50 (Ewe del Togo), interpretati
alla luce delle teorie dinamistiche di Wagenwoort.
1004
M. Fiorentini
Sc. Ant.
ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Servilios, Quinctios, Geganios, Curiatios,
Cloelios». Quale che sia il grado di attendibilità della lista liviana, l’appartenenza dei Servilii al
nucleo più antico della popolazione romana mi pare certa67, così come è innegabile che il rito
presuma un mondo ideale di pertinenza strettamente gentilizia nel quale il simulacro di bronzo
è venerato alla stregua di una divinità.
Un altro culto su cui vorrei fermare l’attenzione è quello tributato dalla gens Nautia a Minerva, la cui rilevanza è data dal fatto che vi è coinvolto il palladium: Servio (ad Aen., 5, 704) ricorda che «Nautiorum familia Minervae sacra retinebat, quod etiam Varro docet in libris quos
de familiis Troianis scripsit». Dunque, secondo Varrone, la gens Nautia avrebbe tributato un
culto a Minerva, nella rara epiclesi di Tritonia68. A lui, mi pare, si collega esplicitamente Virgilio
(Aen., 5, 704-719) nel descrivere il capostipite della gens in questi termini: «tum senior Nautes,
unum Tritonia Pallas / quem docuit multaque insignem reddidit arte / haec responsa dabat, vel
quae portenderet ira / magna deum vel quae fatorum posceret ordo». La provenienza troiana
asserita da Varrone è confermata da Dionisio di Alicarnasso (6, 69, 1): «infatti il capostipite
della loro gens Nauzio, sacerdote di Atena Poliade, era uno di coloro che con Enea allestivano
la colonia, e portava emigrando il simulacro della dea, che i membri della gens dei Nautii si
tramandarono trasferendoselo l’uno dopo l’altro»69.
Vi sono alcune discrepanze: per Dionisio il capostipite della gens, Naútios, avrebbe trasportato il palladio da Troia: è la stessa versione di Virgilio. In altre fonti, invece, lo avrebbe
ricevuto da Diomede. Anche questa seconda versione è tramandata da Servio (ad Aen., 2, 166),
che la colloca nell’ambito del viaggio di Enea (il capostipite degli Iulii) a cui il protagonista
della storia, Diomede, tenta di restituire il palladio; ma si verifica un imprevisto che consente
a Nautes di impadronirsi della statua: «transeunti per Calabriam Aeneae offerre conatus est. sed
cum se ille velato capite sacrificans convertisset, Nautes quidam accepit simulacrum: unde Minervae sacra non Iulia gens habuit, sed Nautiorum». Purtroppo stavolta Servio non ricorda il
nome dell’autore da cui ha tratto la notizia.
Questa tradizione relativa alla gens Nautia va raffrontata con quella narrata da Cassio
Emina e conservata da Solino (Coll. rer. mem., 2, 14=fr. 7 P.=fr. 8 S.): «Nec omissum sit, Aenean
aestate ab Ilio capto secunda, Italicis litoribus appulsum, ut Emina tradit, sociis non amplius
sexcentis, in agro Laurenti posuisse castra: ubi dum simulacrum, quod secum ex Sicilia advexerat, dedicat Veneri matri, quae Frutis dicitur, a Diomede Palladium suscipit, tribusque mox
annis cum Latino regnat socia potestate, quingentis iugeribus ab eo acceptis». Cassio Emina non
fa cenno alla presenza del senior Nautes di Virgilio (Aen., 5, 704)70: Enea riceve direttamente il
palladio dalle mani di Diomede. Qui non posso affrontare il problema, ben studiato da Marta
Sordi, della pluralità dei palladi, tra quello laviniate e quello romano, senza contare quello di
67
Nello stesso senso cfr. VONES 1978, pp. 3 ss.
Sulle derivazioni greche del culto di Tritonia a
Lavinio, BEARZOT 1982, pp. 43 ss.
69
Dion. Hal., 6, 69, 1: «oJ ga;r hJgemw;n aujtw'n tou'
gevnou" Nauvtio" ajpo; tw'n su'n Aijneiva/ steilavntwn th;n
ajpoikivan ei|" h\n, ∆Aqhna'" iJereu'" Poliavdo", kai; to;
xovanon ajphnevgkato th'" qea'" metanistavmeno", o{
68
diefuvlatton a]lloi par∆ a]llwn metalambavnonte" oiJ
tou' gevnou" o{nte" tou' Nautivwn».
70
Neanche le figurazioni vascolari greche raccolte da Schauenburg nel 1960 accennano a Nautes:
ZEVI 1981, pp. 145 ss. Ciò conferma l’origine gentilizia
della narrazione del senior Nautes.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1005
Fimbria71, ma rilevo che la versione anonima della tradizione nauzia pare incunearsi in quella
incentrata sulla restituzione del palladio ad Enea: Nautes si inserisce nel momento della consegna della statua, di cui si impossessa approfittando del fatto che Enea, in quel momento, è
occupato a svolgere, velato capite, un sacrificio a Venus Frutis.
Appare evidente che Virgilio e Servio (ad Aen., 5, 704) abbiano attinto al de familiis
Troianis di Varrone come fonte del racconto. Al di là di dettagli fittizi72, è ricco di significato
che Varrone trattasse di una gens ormai praticamente estinta73. L’acme dei Nautii si situa nel
V secolo a.C.: Dionisio (6, 69, 1) definisce questa gens, al tempo della secessione della plebe
del 494, «casata illustrissima»74; Livio ricorda quattro consolati dal 484 al 404; uno nel 316 e
uno nel 287, dopo di che la gens soffre un inarrestabile declino per sparire dalla vita pubblica
nel I secolo a.C.75. Per questo motivo la collocazione dell’opera varroniana proposta da Traina mi pare solo in parte convincente76: nel caso dei Nautii l’interesse di Cesare per le origini
troiane postulata dall’A. si sarebbe scontrato con una tradizione gentilizia che sottraeva alla
71
SORDI 1982, pp. 65 ss., anche in relazione
alla notizia, tramandata da Servio (ad Aen., 2, 166),
del rinvenimento del palladio da parte di Fimbria:
«quamquam alii dicant, simulacrum hoc a Troianis absconditum fuisse intra extructum parietem, postquam
agnoverunt Troiam esse perituram: quod postea bello
Mithridatico dicitur Fimbria quidam Romanus inventum indicasse: quod Romam constat advectum».
72
Bisognerebbe a mio avviso indagare meglio
i rapporti tra queste tradizioni e quelle connesse ai
nostoi, soprattutto nel punto in cui Enea viene fatto
incontrare con Odisseo sul lido laviniate. Il rapporto tra Enea e Odisseo in Italia è ambiguo: secondo
Dionisio di Alicarnasso (1, 72, 2), Ellanico descrive Enea che arriva in Italia «met∆ ÔOdussevw"»; una
tradizione, nota a Licofrone, li descrive come alleati
(se è nell’eroe greco che va identificato il misterioso
nános di Alex., 1244); ma Festo (Saturnia, 432 L.),
riporta la tradizione opposta in cui i due eroi sono
nemici: «Italici auctore Aenea velant capita, quod
is, cum rem divinam faceret in litore Laurentis agri
Veneri matri, ne ab Ulixe cognitus interrumperet sacrificium, caput adoperuit atque ita conspectum hostis evitavit». Sul percorso seguito dal mito di Enea
per giungere da Lavinio a Roma, SORDI 1989, pp. 19
ss., privilegia la «pista» etrusca a preferenza di quella
greca, riproposta ancora da BRACCESI 2000, pp. 58 ss.
con (p. 62) una rilevante interpretazione sul nános di
Licofrone, associato, oltre che a Odisseo, al Nános
re pelasgo fondatore o conquistatore di Cortona di
cui parla ancora Dionisio (1, 28, 3). Su questi problemi, AMPOLO 1992, pp. 321 ss. Sul problema dei
santuari laviniati in rapporto alle tradizioni sull’arrivo di Enea e Odisseo, anche in rapporto all’importante versione di Dionisio di Alicarnasso (1, 55, 1-2)
appresa, a suo dire, «para; tw'n ejgcwrivwn», TORELLI
1984, pp. 158 ss. Lo scetticismo dichiarato da TURCAN
1983, p. 47, sull’identificazione del tumulo scoperto
a Lavinio con l’he®rô.on di Enea di cui parla ancora
Dionisio (1, 64, 5), pur basato su reali discrepanze
tra le fonti scritte e le risultanze degli scavi, mi pare
forse troppo radicale.
73
È un rilievo simile a quello proposto da AMPOLO 1970-71, pp. 42 ss., a proposito dei Veturii e dei
Volumnii in relazione alla «saga» di Coriolano.
74
Dion. Hal., 6, 69, 1: «oijkiva lamprotavth».
75
In età imperiale è nota solo attraverso documenti epigrafici di liberti: CIL, 11, 8269, da Terracina,
menzionante un C. Nautius C. l. Trupho, fu trovata
insieme a una fistula aquaria coi nomi di Settimio Severo e Caracalla (CIL, 11, 22893): FIORENTINI 1988,
pp. 143, note 79 e 80. Condivido in pieno WISEMAN
1974, p. 157, secondo cui, dato che non conosciamo
senatori della gens dopo il 287 a.C. (mentre un’altra
gens albana, quella dei Geganii, sembra sparire anche
prima, nel IV), «the story of their Trojan origin probably goes back a long way».
76
Sulla scorta di uno studio di Toohey, TRAINA
1993-1994, p. 627, inquadra il de familiis Troianis nel
contesto della politica cesariana e del connesso «interesse di Cesare per il mito di Romolo e la leggenda
troiana». Ciò è possibile; resta però che la narrazione
varroniana sottrae agli Iulii la prerogativa del culto di
Minerva Tritonia; e va aggiunto, se la narrazione di
Servio (ad Aen., 5, 704) proviene da Varrone, con una
sorta di furto con destrezza. C’entra qualcosa la provenienza della gens, che potrebbe essere indiziata da
uno dei suoi cognomina più antichi, Rutilus / Rutulus,
portato dai consoli del 488, del 475, del 458, del 424, e
dai tr. mil. cos. pot. ?
1006
M. Fiorentini
Sc. Ant.
gens Iulia l’onore dell’introduzione del palladio a Roma. Varrone infatti attribuisce il palladio non agli Iulii ma agli oscuri, e quasi scomparsi, Nautii e, a quanto è possibile dedurre
dalle fonti, senza giustificarne il successivo passaggio da questi agli Iulii. È vero che forse a
Cesare poteva non fare ombra una gens praticamente estinta: ma in un agone politico in cui
anche le priorità temporali facevano aggio sulla potenza gentilizia, resta il fatto che Varrone
attestava come il culto di Minerva Tritonia non fosse di pertinenza degli Iulii, ma dei Nautii. Peraltro, evidenziando la precedenza storica dei Nautii sugli Iulii nel culto di Minerva,
Varrone potrebbe avere sfruttato notizie sui Nautii in funzione anticesariana, rispecchiando
i suoi trascorsi pompeiani; ma l’eventuale strumentalità della narrazione non può nascondere
che essa si deve essere basata su notizie molto più antiche, delle quali tuttavia è impossibile
stabilire la provenienza.
Un altro culto sicuramente gentilizio è quello della gens Aurelia, attestato solo in un
lemma di Festo epitomato da Paolo Diacono (Aureliam, 22 L.): «Aureliam familiam ex Sabinis oriundam a Sole dictam putant, quod ei publice a populo Romano datus sit locus in quo
sacra faceret Soli, qui ex hoc Auseli dicebantur, ut Valesii, Papisii, pro eo quod est Valerii,
Papirii».
A lungo, e anche di recente, ne è stata dichiarata la natura pubblica, congetturata sulla
base della concessione publice del locus destinato al culto77. Ma la concessione pubblica del
locus è il solo indizio che permetta di giungere a questa conclusione, mentre in contrario milita
l’osservazione che le fonti fanno frequenti riferimenti a concessioni di fondi, aree sepolcrali
individuali o collettive, case, emanate publice in favore di privati particolarmente benemeriti;
esse, tuttavia, non rimangono pubbliche ma rientrano nella piena proprietà dell’onorato. Mi
riferisco alle testimonianze relative alle case dei Valerii, note da molte fonti, e in particolare da
Asconio (in Pisonian., 13, 8 ss. Clark) e da Cicerone (de har. resp., 16); ai prata Mucia, di cui
parlano Livio (2, 13, 5) e Festo (Paul. Fest., Mucia prata, 131 L.); alla domus concessa publice
sulla Sacra via a C. Scipione Nasica Corculum, pontefice massimo dal 150 a.C., cui accenna
Pomponio (l. sing. ench., D. 1, 2, 2, 37); per non parlare del locus sub Capitolio concesso ai
Claudii come sepolcreto gentilizio78. Per nessuna di queste si parla di pagamento di un vectigal
che, fin da età repubblicana, connota l’uso privato di beni pubblici, mentre è evidente che, nei
casi ora in esame, siamo in presenza di beni che ricadono nella piena proprietà dei beneficiati.
Particolarmente significativo è quanto dichiara Cicerone (de har. resp., 16) sullo status giuridico della domus di Valerio Publicola: «P. Valerio, pro maximis in rem publicam beneficiis data est
domus in Velia publice… illi locus… illi quam i p s e p r i v a t o i u r e t u e r e t u r ». Il richiamo
alla tutela privatistica assicurata a Valerio, a prescindere dalle motivazioni che avevano spinto
77
Una rassegna critica sarebbe troppo lunga; è
sufficiente ricordare che già MOMMSEN 1834, p. 10, lo
aveva ritenuto pubblico poiché «in agro publico fieret»; e WISSOWA 1912, p. 315, aveva dichiarato la natura
pubblica del culto aurelio «ohne Zweifel». Eppure già
WILLEMS 1883, pp. 347 ss., aveva affermato che il publice del lemma festino avrebbe significato solo che
la concessione era avvenuta a spese dello stato, senza
conseguenze sul regime giuridico del locus. La natura
pubblica del culto è stata ribadita ancora più di recente da RICHARD 1976, pp. 915 ss., in un pregevole contributo che mi trova in disaccordo su questo unico,
benché centrale, punto.
78
Per un’analisi delle fonti in materia mi permetto di rinviare ancora a FIORENTINI 1988, pp. 132 ss.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1007
Cicerone a menzionare l’episodio79, vale ad assicurarci che la casa di Publicola era di pieno
diritto privato. Un regime giuridico attribuito anche alla domus di un altro membro della gens
Valeria, secondo una notizia fornita da Valerio Anziate e trasmessa da Asconio (in Pisonian.
p. 13, 8 ss. Clark): «M. Valerio Maximo, ut Antias tradidit, inter alios honores domus quoque
publice aedificata est in Palatio, cuius exitus quo magis insignis esset in publicum versus declinaretur, hoc est, e x t r a p r i v a t u m a p e r i r e t u r ». La concessione dell’area di culto agli Aurelii
segue le stesse modalità.
Abbiamo dunque una gens sabina, come i Claudii e i Valerii, che, trasferitasi a Roma, vi
ottiene un’area per la celebrazione del culto. Da notare l’etimologia del nomen gentilizio: Auselii < Sol80, come se il nome della gens derivasse dalla divinità a cui i suoi membri celebravano
il culto. È evidente che siamo nel contesto del più ristretto patrimonio cultuale gentilizio, in cui
perfino il nome si fa derivare dalla divinità a cui viene reso il culto.
Anche i Claudii avevano uno o più culti propri: lo attestano alcune testimonianze, invero
piuttosto sibilline, su un sacrificio espiatorio annuale e su un culto reso a Saturno. Sul primo ci
informa una definizione di Ateio Capitone conservata in un lemma di Festo (propudialis porcus,
274 L.): «propudialis porcus dictus est, ut ait Capito Ateius (fr. 19 Strzel.), qui in sacrificio gentis
Claudiae velut piamentum et exsolutio omnis contractae religionis est». Capitone menziona
dunque un sacrificio gentilizio nel corso del quale veniva sacrificato un porcus propudialis per
l’espiazione di una religio contracta81. La situazione alla quale si riferisce il giurista augusteo è
piuttosto oscura, e solo un esame dei termini chiave (propudialis, religio e piamentum) da lui
adoperati può consentirci di collocarla genericamente.
I primi due termini si riferiscono ad una colpa che ha dato luogo ad una rottura dei rapporti col mondo divino. Due lemmi dell’epitome di Paolo Diacono ci permettono di instradare
la discussione per tentare di comprendere la natura di questa colpa: Paul. Fest., propudium, 253
L.: «propudium dicebant, cum maledicto nudare turpitudinem volebant, quasi porro pudendam. Quidam propudium putant dici, a quo pudor et pudicitia procul sint»; e Paul. Fest., pro,
257 L.: «pro ponitur […] pro privandi facultate, ut in propudio, prohibendo, quia utrumque
abnuit in his esse pudorem potestatemque». In entrambi i testi il valore di propudium è delineato come antitetico ai valori del pudor e della pudicitia. È dunque nell’ambito del disordine
sessuale, che aveva dato luogo a una situazione permanente di contaminazione, che deve essere
collocata la religio, per purificare la quale i Claudii sacrificavano annualmente un porco.
Il termine piamentum fa invece riferimento esplicito al mezzo necessario al ristabilimento
dell’armonico rapporto con la divinità: si tratta di un piaculum, ossia di un sacrificio riparatore della contracta religio. Prosdocimi ha ben messo in luce che il piaculum può servire in una
serie molto ampia di situazioni: quando si tratta di compiere una «violenza», volontaria ma
necessaria, a un elemento naturale che potrebbe essere consacrato a qualche divinità, come un
79
Si tratta del raffronto, invero un po’ vanitoso,
tra la fonte della concessione a Valerio, a cui la casa è
donata dal popolo romano con un regime privatistico,
e quella a lui restituita grazie a responsi di aruspici e a
pronunce dei pontefici e degli auguri, e quindi dotata
di una tutela anche rituale.
80
Un’etimologia esatta: sul liber linteus di Zagabria e sul fegato di Piacenza il nome del Sole è Usil.
81
FIORENTINI 1988, pp. 185 ss.
1008
M. Fiorentini
Sc. Ant.
bosco o le messi, come ricorda Catone (agr., 134 e 139-140); o per riscattare infrazioni sociali;
o in seguito a portenta come fulmini o monstra82. Il piamentum della gens Claudia si pone in
questa funzione espiatoria, con la differenza che i piacula per i portenta e quelli catoniani sono
compiuti una tantum, quando se ne presenti la necessità; mentre quello claudio è perpetuo per
espiare una colpa inestinguibile. Se si pensa al crimine di cui la tradizione storiografica accusa
il decemviro Ap. Claudio, ossia l’oltraggio a Virginia, la sua uccisione per mano del padre, con
così tanti particolari apparentemente romanzeschi narrati da Livio (3, 48), è forte la tentazione
di collegare il porcus propudialis a questo episodio tutt’altro che edificante della storia gentilizia
dei Claudii. Ovviamente questa è solo una suggestione: mancando le controprove necessarie, la
correlazione proposta può essere ipotizzata solo in via indiziaria.
Tuttavia l’uccisione del porcus propudialis non appare l’unico atto di culto attribuito dalle
fonti alla gente Claudia. In realtà abbiamo altre fonti che ci prospettano la celebrazione di un
culto tributato dai Claudii a Saturno. Si tratta di un altro testo, molto mutilo, di Festo (<Saturno>, 462 L.): «<Saturno> sacrificium fit cap<ite aperto… > Metellus pontifex <maximus
Claudium augurem iussis>set adesse[t], ut eum <… Sul>pici Ser. f. inaug<urationi adhiberet,
Claudius excusa>ret se sacra sibi fa<miliaria esse Saturni, ob quae sibi sup>plicandum esset
capite <aperto; itaque si ad iussum > adesset, futurum, ut cum ap<erto capite inauguratio>
facienda esset, pontif<ex eum multavit>; Claudius provocavit; <populus negavit ius pon>tifici
esse, et Claudius fl<…> Saturno sacra fecit rem<…>».
Il testo, a parte le gravi lacune, pone alcuni problemi di difficile soluzione, primo fra tutti
quello della cronologia. In genere l’episodio viene datato al I secolo a.C., identificando i personaggi rispettivamente in Q. Cecilio Metello Pio e in Appio Claudio console nel 54 a.C., esperto
augure83. Il dato problematico di questa collocazione cronologica è costituito dall’appellativo di Metello: Metellus pontifex senza altre note identificative è costantemente denominato il
L. Cecilio Metello console nel 251 a.C., protagonista del famoso episodio del salvataggio del
palladio nell’incendio del tempio di Vesta che, nella ricostruzione mitistorica dell’evento, gli
sarebbe costata la vista84; e a mio parere è questa l’identificazione giusta.
Un altro punto discutibile è la qualificazione del culto come familiare. Bona, nel 1963,
l’aveva accettata senza discutere; ma già nel 1949 Volterra lo aveva, a mio avviso correttamente,
classificato come culto gentilizio85.
Un altro problema posto dal lemma festino è la collocazione temporale del sacrificio. Un
testo di Livio (43, 23, 6) potrebbe contribuire a risolvere la questione. Narrando le vicende del
82
PROSDOCIMI 2002, pp. 133 ss. Non ho la possibilità di approfondire un altro punto di una certa importanza, ossia il tipo di animale sacrificato, un porco.
FIORENTINI 1988, pp. 187 ss. Tanto meno mi posso soffermare su un’altra espressione di estremo interesse,
ossia religio contracta, una locuzione che parrebbe
situare la circostanza sul piano della produzione di
un’obbligazione, non diversamente, nel caso, da un
atto illecito. Ma il punto meriterebbe un’attenzione
particolare che in questa sede non è possibile.
83
MÜNZER 1920, p. 267, nota 1; CATALANO 1960,
p. 221; BONA 1963, p. 319, n. 18; BONA 1964, p. 81;
SZEMLER 1972, p. 175 e n. 4, senza prove, data l’episodio al 63 a.C., l’anno della morte di Metello Pio.
84
La dimostrazione è di COARELLI 1969, p. 149
nota 1, con le fonti a sostegno dell’identificazione, accettata poi da MORGAN 1973, p. 36.
85
Risp. BONA 1963, p. 319; VOLTERRA 1949, p.
526.
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Culti gentilizi, culti degli antenati
1009
primo anno di guerra contro Perseo, lo storico ricorda come i primi scontri tra l’esercito macedone e quello romano, comandato da Ap. Claudio, si svolgessero in Epiro all’inizio dell’inverno,
dopo di che, sistemate le truppe negli accampamenti invernali, «Appius nequiquam in his locis
terens tempus,… ipse Romam sacrificii causa rediit». Sarebbe suggestivo identificare il giorno di
questo sacrificio, che non può essere altro che quello menzionato da Festo, con i Saturnalia. Se
così fosse, avremmo un esempio luminoso di culto gentilizio svolto nella stessa data di quello
pubblico. Sappiamo che nel calendario romano i Saturnalia iniziavano a.d. XVI kal. Ian. Ma
il calendario repubblicano, come ben si sa, era gravemente in ritardo rispetto a quello astronomico: Derow ha dimostrato che le idi di marzo del 168 a.C. caddero il 4 gennaio dello stesso
anno, quindi 68 giorni prima della data astronomica86. Se è così, anche il solstizio invernale, e gli
stessi Saturnalia, devono essere caduti con un divario temporale simile. Tuttavia, collocando la
fine delle operazioni militari verso l’inizio di dicembre, Claudio avrebbe avuto tutto il tempo di
compiere alcune operazioni in Epiro, sistemare le truppe negli hiberna e tornare rapidamente a
Roma per celebrare il rito a Saturno negli stessi giorni della celebrazione pubblica.
Ovviamente questa interpretazione è solo congetturale; ma, se anche non possiamo identificare il giorno in cui i Claudii celebravano il loro sacrificio a Saturno con uno di quelli in
cui si svolgevano i Saturnalia, il dato più importante che emerge dal lemma di Festo è che il
sacrificio dei Claudii era compiuto secondo le stesse modalità del culto pubblico a Saturno che,
com’è fin troppo noto, veniva celebrato graeco ritu, a capo scoperto87. In altri termini il rito
gentilizio e quello pubblico si svolgevano seguendo le medesime formalità.
I culti dei Valerii e dei Fabii hanno localizzazioni note: il primo stanziato al Terentum, il
secondo sul Quirinale. Le origini mitologiche del culto praticato dai Valerii alle divinità infere
del luogo sulla riva sinistra del Tevere, successivamente trasformato nei ludi saeculares, sono
descritte da Valerio Massimo e Zosimo88; il secondo è ampiamente, benché variamente, citato
dalle fonti in rapporto all’assedio gallico di Roma.
Il culto della gens Fabia è un caso paradigmatico che ha sollevato discussioni a non finire,
per la grande quantità di argomenti correlati. Il testo fondamentale è un passo della narrazione
dell’assedio di Roma ad opera dei Galli di Brenno, trasmessaci da Livio (5, 46, 2): «Sacrificium
erat statum in Quirinali colle genti Fabiae. Ad id faciendum C. Fabius Dorsuo Gabino cinctu sacra manibus gerens cum de Capitolio descendisset, per medias hostium stationes egressus
nihil ad vocem cuiusquam terroremve motus in Quirinalem collem pervenit; ibique omnibus
sollemniter peractis, eadem revertens similiter constanti voltu graduque, satis sperans propitios
esse deos quorum cultum ne mortis quidem metu prohibitus deseruisset, in Capitolium ad suos
rediit».
86
DEROW 1973, p. 346; la tabella a p. 349, che
mostra come le calende di dicembre cadessero il 16
novembre precedente.
87
SCHEID 1995, pp. 21 ss., ritiene che l’espressione ritus graecus rimandi non alla provenienza etnica di
un culto ma solo a una modalità rituale, come quella
del compimento del rito a capo scoperto che, nel caso
di Saturno e di molte altre divinità cui si sacrificava
graeco ritu, non affonda neanche le sue origini in un
rituale effettivamente greco. Scheid rifiuta quindi la
caratterizzazione del ritus graecus come culto straniero.
88
COARELLI 1997, pp. 113 ss.; ARONEN 1989, pp.
19 ss., ipotizza che Zosimo abbia attinto dal «peri; tw'n
para; ÔRwmaivoi" eJortw'n» di Flegonte di Tralle (II secolo d.C.).
1010
M. Fiorentini
Sc. Ant.
Livio individua dunque nel sacrificio dei Fabii al Quirinale un culto gentilizio in senso
proprio (sacrificium statum genti Fabiae); dove, con statum, il Patavino sottintende la cadenza annuale del rito, che si svolge stato die (un giorno prefissato); si tratta inoltre di un rito da
svolgersi certo loco (sul Quirinale). Non mi soffermerò sul problema più dibattuto ma che,
allo stato, mi pare insolubile, vista anche l’ambiguità delle fonti su tutto l’episodio: quello
dell’identificazione della divinità cui il sacrificio era tributato89. Qui discuterò brevemente la
natura del culto. Per due volte Livio esplicitamente lo definisce gentilizio, nel luogo appena descritto e in 5, 52: «sollemne Fabiae gentis in colle Quirinali» ove, con sollemne, il Patavino usa
il termine tecnico che indica il sacrificio da compiersi ogni anno, come ricaviamo da un lemma
di Festo (Sollo, 384 L.): «sollemne quod omnibus annis praestari debet».
Ma altre fonti, descrivendo Fabio come sacerdote pubblico, postulano la natura pubblica
del rito, come in un frammento di Cassio Dione: «poiché era necessario, da parte dei pontefici,
compiere un certo sacrificio in un’altra parte della città, Cesone Fabio, a cui toccava il rituale,
discese dal Campidoglio preparato come di consueto, e attraversando le linee nemiche compì
i riti prescritti e lo stesso giorno ritornò»90. Si tratta della medesima versione che leggiamo in
Floro (1, 7, 16)91. Ne deriva che, nella variante Floro-Dione, il culto è pubblico e non gentilizio.
Non sfuggiranno le profonde divergenze di questa versione rispetto a quella liviana: qui Fabio
è un pontefice. Non credo, con Fraschetti, che la qualità di pontefice di Fabio possa conciliarsi
con la natura gentilizia del rito92: per lo storico greco il culto era di competenza dei pontefici,
non specifico dei Fabi, e Dorsuone lo compie rivestendo la carica di pontefice. Quindi, a mio
avviso, la contraddizione non è sanabile.
Ma la collazione dei testi su questo episodio offre anche di peggio: Appiano fornisce
una terza versione anche più divergente rispetto a quella di Cassio Dione, a suo dire letta
in un Cassio romano, in genere identificato con Cassio Emina: «e discese dal Campidoglio
un sacerdote, di nome Dorso, per un sacrificio annuale nel tempio di Vesta, tranquillamente portando gli oggetti sacri in mezzo ai nemici. 2. Pur vedendo che il tempio era bruciato
sacrificò nel luogo consueto… 3. … E questo afferma essere accaduto Cassio il Romano (fr.
19 P.= fr. 23 S.)»93. Qui Fabio è un sacerdote che compie un rito al tempio di Vesta; quindi,
89
Dopo GAGÉ 1966, cfr. WISEMAN 1995.
Dio Cass., fr. 25.5 B.: «ejpeidhv ti tw'n iJerw'n
ejcrh'n uJpov tw'n pontifivkwn a[lloqi pou th'" povlew"
genevsqai, Kaivswn Favbio", ou| hJ iJerourgiva iJknei'to,
katevbh te ejp∆ auJth;n ejk tou' Kapitwlivou steilavmeno"
w}sper eijwvqei, kai; dia; tw'n polemivwn diexelqw;n ta; te
nomizovmena ejpoivese kai; aujqhmero;n ajnekomivsqe».
91
Flor., 1, 7, 16 «Et stato quodam die per medias
hostium custodias Fabium pontificem ab arce dimisit»
dipende evidentemente dallo stesso ramo della tradizione che fa di Fabio Dorsuone un sacerdote pubblico.
92
FRASCHETTI 1998.
93
App., Celt., 6 Viereck-Roos: «1. kai; ti" ajpo;
tou' Kapitwlivou katevbainen iJereuv", o[noma Dovrswn
90
ejpi; ejthvsion dh; tina iJerourgivan ejn to;;n th'" ÔEstiva"
newvn stevllwn ta; iJera; dia; tw'n polemivwn eujstaqw'":
2. to;n de; newvn ejmpeprhsmevnon iJdw;n e[qusen ejpi; tou'
sunhvqou" tovpou... 3. … Kai; to;de fhsivn w|de genevsqai
Kavssio" oJ ÔRomai'o"» (fr. 19 P.=fr. 23 S.).. Partendo dalla considerazione che Kássios è frutto di correzione
testuale per un sicuramente errato Kaúsios presente
nel greco de virtutibus et vitiis del X secolo che ci ha
conservato il frammento di Appiano, FORSITHE 1990,
pp. 342 ss., propone di correggerlo in Klaúdios, ossia Claudio Quadrigario. SANTINI 1995, p. 171 s., non
si pronuncia sull’ipotesi di Forsithe. Ai fini del mio
discorso, che l’autore sia Emina o Quadrigario è indifferente.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1011
non solo un culto pubblico ma neanche svolto sul Quirinale. Non mi soffermerò sugli innumerevoli, e in gran parte infruttuosi, tentativi di comporre queste divergenze insanabili.
Ognuna delle varianti ha una spiegazione plausibile: quella di Livio serviva ad accentuare la
pietas verso un culto gentilizio, a fronte della minaccia di abbandono della città, ventilata dai
plebei, che avrebbe significato la defezione dai luoghi del culto pubblico94; l’autore citato
da Appiano forse mirava a sminuire il ruolo svolto da una casata preminente nell’episodio
dell’assedio95.
Non si può non collegare la notizia del culto gentilizio sul Quirinale ad una versione,
tramandata dal solo Dionisio di Alicarnasso (9, 19, 1), relativa al massacro dei Fabi al Cremera,
che lo stesso storico dichiara inverosimile: «Alcuni dicono che, avvicinandosi un sacrificio patrio che doveva compiere la gens dei Fabii, gli uomini uscirono per compiere i riti portando con
sé pochi clienti, ed avanzarono senza aver prima perlustrato le strade né essendosi disposti per
centurie dietro le insegne, ma tranquillamente e senza alcuna cautela, come procedendo in pace
e per terre amiche... 3. Questo racconto mi pare poco degno di fede: infatti non è credibile che
tali uomini, sotto le insegne militari, tornassero dall’accampamento in città a causa di un sacrificio senza un decreto del senato, potendo i sacri riti essere compiuti anche da altri membri più
anziani della stessa casata; e se anche tutti fossero partiti dalla città e nessuna parte della gens
fosse stata lasciata presso la sede gentilizia, è inverosimile che tutti coloro che occupavano la
fortezza ne abbiano abbandonato la difesa; infatti avrebbero potuto andare anche tre o quattro
di essi per compiere il sacrificio in favore di tutta la stirpe. Per queste cause questa narrazione
non mi sembra degna di fede»96.
Mi pare di poter dire, forse un po’ paradossalmente, che è proprio la dichiarata inverosimiglianza del lógos a indurre a dargli credito: Dionisio, infatti, gli nega attendibilità sulla base
94
Nel celebre discorso che fa pronunciare a Furio Camillo, Livio (5, 52) contrappone la cura delle
gentes verso i loro culti al pericolo di abbandono dei
luoghi sacri, se fosse stata approvata la proposta plebea di trasferire la popolazione a Veio, abbandonando
la città in rovina dopo il saccheggio gallico: «Hos omnes deos publicos privatosque, Quirites, deserturi estis?
Quam par vestrum factum [ei] est quod in obsidione
nuper in egregio adulescente, C. Fabio, non minore
hostium admiratione quam vestra conspectum est, cum
inter Gallica tela degressus ex arce sollemne Fabiae
gentis in colle Quirinali obiit? An gentilicia sacra ne
in bello quidem intermitti, publica sacra et Romanos
deos etiam in pace deseri placet, et pontifices flaminesque neglegentiores publicarum religionum esse quam
privatus in sollemni gentis fuerit?». Notevole anche la
contrapposizione tra gentilicia sacra e publica sacra et
Romanos deos, che implica l’antinomia tra le divinità
del popolo romano, a cui sono tributati sacra publica,
e quelle peculiari della gens.
95
Su alcuni spunti di polemica antigentilizia del
nobile Emina cfr. MAZZARINO 1972, pp. 302 ss.
96
Dion. Hal., 9, 19, 1: «Tine;" me;n ou\n fasin
o{ti qusiva" ejpistavsh" patrivou, h}n e[dei to; Fabivwn
ejpitelevsai gevno", oiJ me;n a[ndre" ejxh'lqon ojlivgou"
ejpagovmenoi pelavta" ejpi; ta; iJerav, kai; prohv/esan
ou[te diereunwvmenoi ta;" oJdou;" ou[te uJpo; semeiva"
tetagmevnoi kata; lovcou", rJa/quvmw" de; kai; ajfulavktw"
wJ" ejn eijrhvnh/ te kai; dia; filiva" poreuovmenoi... 3. ou|to"
me;n ou\n h|tton e{moige piqano;" faivnetai ei\nai lovgo".
ou[te ga;r eijko;" ajpo; stratopevdou qusiva" e{neka tou;"
uJpo; tai'" shmeivai" tosouvtou" a[ndra" eij" th;n povlin
ajnastrevfein a[neu yhfivsmato" boulh'", dunamevnwn
tw'n iJerourgiw'n kai; di∆ eJtevrwn ejpitelesqh'nai tw'n
metecovntwn me;n tou' aujtou' gevnou", probebhkovtwn
de; tai'" hJlikivai": ou[t∆ eij pavnte" ajpelhlu;qesan ejk
th'" povlew", kai; medemiva moi'ra tou' Fabivou gevnou"
ejn toi'" ejfestivoi" uJpeleivpeto, pavnta" eijko;" h\n
tou;" katevkonta" to; frouvrion ejklipei'n aujtou' th;n
fulakhvn: h[rkoun ga;r a[n kai; trei'" h] tevttare"
ajfikovmenoi suntelevsai peri; tou' gevnou" o{lou ta;
iJerav dia; me;n dh; tauvta" ta;" aijtiva" oujk e[doxev moi
pisto;" ei\nai oJ lovgo"».
1012
M. Fiorentini
Sc. Ant.
di argomentazioni razionali, di tattica militare o di logica comune o di procedura, come il fantomatico pse®phisma boulés che sarebbe stato necessario per tornare in città per svolgere il rito.
Mi sembra evidente che nel ragionamento dello storico greco finisce per rimanere totalmente
oscurato il carattere privato del bellum dei Fabii, che peraltro risalta particolarmente in pratica
in tutte le fonti antiche; anzi, secondo alcune suggestive ricostruzioni, si sarebbe trattato del
tentativo di incorporare permanentemente al territorio della tribus Fabia territori marginali
confinanti con Veio: una vera e propria espansione territoriale97. È soprattutto un dettaglio ad
attirare l’attenzione: quello del ritorno in massa dei membri della gens, sia gentiles sia clienti,
per il compimento del sacrificio. Un dato del genere non si accorda con la configurazione assunta dalla religione, anche privata, di età evoluta ma con quella, ancora collettiva, della gens
arcaica (almeno per come la possiamo, con molta cautela, intravedere dalle fonti), in cui gentiles
e clienti partecipano in massa alla celebrazione del culto, entro certi limiti cooperando per la
prosperità materiale e ideale del gruppo.
Più incerte, ma altrettanto significative, le notizie su un culto della gens Veturia, noto
attraverso due frammenti di un’orazione di Catone, il primo tramandato da Festo (stata sacrificia, 466 L.=ORF 8, 72), «quod tu, quod in te fuit, sacra stata, sollempnia, capite sancta deseruisti»; il secondo da Prisciano (Inst., 6, 16, p. 208 K.=ORF 8, 74): «aquam Anienem in sacrarium
inferre oportebat. non minus XV milia Anien abest».
Va in primo luogo respinta l’idea, ancora di recente affacciata, che il culto a cui accenna
Catone fosse pubblico. Mommsen lo aveva dedotto dalla locuzione capite sancta impiegata dal
Censore, e l’illazione era stata approvata dal compianto Gennaro Franciosi, ma a me pare non
aderente al tenore dei frammenti pervenuti98. Il rito invece era sicuramente privato; e questo
carattere sarebbe rafforzato se accogliamo, come secondo me è necessario, la vecchia ipotesi di
Marmorale secondo cui anche il fr. 73 Malcovati sul crepitum dei servi appartenesse all’orazione catoniana, che conterrebbe dunque la giustificazione di ordine rituale addotta da Veturio
per la commissio del rito99.
Plinio Fraccaro ipotizzò che la Voturia tribus fosse stanziata nell’agro ostiense, come era
già stato riconosciuto da Mommsen e, negli anni ’60 del secolo scorso, da Lily Ross Taylor100.
Poiché la gens Veturia eseguiva i riti con acqua dell’Aniene, ciò potrebbe alludere al trasferimento della gens dall’agro sabino, attraversato da questo fiume, ove sarebbe stata precedentemente stanziata, a quello ostiense, nel territorio successivamente occupato dalla tribù rustica
97
RICHARD 1989, pp. 68 ss.
MOMMSEN 1887, pp. 19 ss. e nota 3, confermato
in MOMMSEN 1907, p. 568, nota 1: Mommsen riteneva
che la locuzione capite sancta si riferisse alla diserzione dai culti pubblici, considerata «Kapitalklage». Da
ultimo accetta tale ricostruzione FRANCIOSI 1995, p. 29,
nota 32. Ma già WISSOWA 1912, p. 400, nota 7, aveva
respinto l’ipotesi di Mommsen, orientandosi, a mio
avviso esattamente, per la natura gentilizia del rito.
99
MARMORALE 1949, p. 95. Fest., stata sacrificia,
466 L.=ORF 8, 73: «Domi cum auspicamus, honorem
me dium immortalium velim habuisse. Servi, ancillae,
98
si quis eorum sub centone crepuit, quod ego non sensi,
nullum mihi vitium facit. Si cui ibidem servo aut ancillae dormienti evenit, quod comitia prohibere solet,
ne is quidem mihi vitium facit». Appare evidente nelle parole di Catone che un evento capace di impedire
la convocazione dei comitia non necessariamente era
idoneo a contaminare il rito privato.
100
MOMMSEN 1887, p. 165 e nota 2; ROSS TAYLOR
1960, p. 42. Qui prescindo del tutto dalla spinosa (ma
anche un po’ oziosa) questione dell’appartenenza della gens alla parte patrizia o a quella plebea della civitas.
Sul punto, SHATZMAN 1973, pp. 65 ss.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1013
che avrebbe assunto il nome gentilizio del gruppo ormai ivi stabilitosi da tempo101: un altro
cospicuo caso di mobilità orizzontale di gruppi gentilizi, come già delineata nel dossier preparato da Ampolo102. E non affronto lo spinoso problema della coppa prenestina di Vetusia, che
potrebbe invece suggerire una provenienza prenestina della stessa gens o di un suo ramo (se il
nome è latino e non etrusco, come la critica più recente è portata a credere103).
Per finire questa breve carrellata, menziono la testimonianza epigrafica del culto della gens
Iulia a Vediovis, scoperta a Bovillae e datata al II secolo (CIL, 12, 1439=ILLRP, 270), un’età in
cui gli Iulii non erano ancora al sommo della vita politica ma solo una delle gentes patrizie: in
fronte: Vediovei patrei / genteiles Iuliei; in latere dextro: [[Vedi[ov]ei]] aara; in parte postica:
leege albana dicata104.
Va rilevata prima di tutto l’importanza del luogo di ritrovamento: Bovillae è, secondo la
tradizione, la città che ha accolto i sacra di Alba dopo la distruzione, e da qui proviene un altare dedicato da una gens Albana: straordinario esempio di fossile cultuale105. In secondo luogo
sarebbe importante comprendere a quale lex Albana si riferisca la dedicazione dell’altare. Frotingham collegò la lex Albana al carattere «vulcanico» del dio, correlato a sua volta al vulcano
Albano106. A me pare piuttosto che il nesso sia da comporre proprio con l’origine albana vantata dagli Iulii e dichiarata da Livio (1, 30, 2), che elenca gli Iulii tra le gentes deportate a Roma
da Tullo Ostilio dopo la distruzione di Alba107. Questa tradizione, così, non può più essere
101
FRACCARO 1924, p. 55. Con un calcolo delle
distanze non privo di elementi congetturali (soprattutto il punto da cui partire per misurare le quindici
miglia), egli giungeva ad identificare nel X miglio della
via Ostiensis il punto approssimativo ove localizzare il
sacrario dei Veturii. Fraccaro correggeva così l’ipotesi
precedentemente formulata (FRACCARO 1911, p. 43, n.
1), secondo cui XV, presente nei codici di Prisciano,
sarebbe stato un errore per IIII. La nuova soluzione è
di gran lunga preferibile.
102
AMPOLO 1970-71, pp. 42 ss., con importanti
osservazioni sul ruolo centrale ricoperto dai gruppi
gentilizi all’interno della civitas di V secolo a.C. Rilievi di grande interesse sul tema della mobilità gentilizia in età altorepubblicana sono proposti da TORELLI
1988A, p. 66 s., ed ora da BRIZZI 2001, pp. 125 ss.
103
Mi pare che ormai l’origine latina dell’iscrizione sia stata abbandonata sin da TORELLI 1967. TORELLI 1981, pp. 135 ss., ipotizza plausibilmente un
passaggio della gens da Veio (come testimonierebbe la
presenza in quella città del veiente Mamurio Veturio)
a Preneste, e da qui a Roma. Ipotesi prospettata anche
da GRANT 1982, p. 308, per il quale l’iscrizione sulla
coppa «documenta la forma di un arcaico nome regale
veientino (sic nella trad. it.), Vetusia», ma respinta da
AMPOLO 1980, p. 176. Cfr. anche ROMANO 1988.
104
Dalle note dell’ed. ILLRP (I, p. 159) ricaviamo due dati epigrafici importanti: patrei fu «postea
additum», e il Vedi<ov>ei del lato destro, aggiunto
dal lapicida per errore, fu eraso. Soprattutto il rilievo relativo a pater come appellativo di Vediovis
è significativo perché non coevo con la dedicazione
dell’ara gentilizia. Com’è noto Tacito (Ann,. 2, 41) ci
informa che Tiberio costruirà un sacrario nei pressi
di Boville: «Fine anni arcus propter aedem Saturni
ob recepta signa cum Varo amissa ductu Germanici, auspiciis Tiberii, et aedes Fortis Fortunae Tiberim
iuxta in hortis, quos Caesar dictator populo Romano legaverat, sacrarium genti Iuliae effigiesque divo
Augusto apud Bovillas dicantur». Sulla natura ambigua della divinità, la cui rilevanza nel calendario
arcaico è comunque dimostrata dal fatto che l’atto
di culto in suo onore vi è definito come agonium,
ossia sacrificio compiuto dal rex in regia, come afferma Varrone (L. L., 6, 12, «dies agonales per quos
rex in regia arietem immolat»), MAGDELAIN 1995, pp.
18 ss.
105
Un tentativo di ricostruire un’etnologia laziale precivica a partire dalla lista di Plinio fu compiuto
da BERNARDI 1964, pp. 228 ss., ancora legato alle teorie
etniche, ma di sicuro interesse.
106
FROTINGHAM 1917, p. 376.
107
Com’è noto, la tradizione manoscritta del
passo liviano reca non Iulios ma Tullios; la correzione tuttavia pare inevitabile, dato che nessuno ha mai
pensato che i Tullii avessero origini albane. Sulla deportazione delle gentes Albanae a Roma, MAGDELAIN
1995, pp. 37 ss.
1014
M. Fiorentini
Sc. Ant.
imputata alla piaggeria di scrittori che, volendo compiacere la vanità di Cesare, proiettano nel
passato più remoto l’origine della gens in funzione encomiastica, ma appare attestata epigraficamente già nel II secolo a.C., in un’età in cui la casata degli Iulii non è ancora particolarmente
eminente.
Mommsen, che identificò la lex Albana in una regolamentazione cultuale pubblica che
perpetuava l’ancestrale rito albano, alla quale quello gentilizio si sarebbe dovuto conformare108, si era maggiormente avvicinato alla soluzione, che tuttavia non mi pare ancora soddisfacente. Infatti, dalla scarna allusione sembra di poter ricavare che il rinvio alla lex Albana
non riguardasse le modalità del rito ma quelle della dedicazione dell’ara, leege Albana dicata:
un procedimento ben noto sul piano epigrafico riguardo a luoghi di culto non solo pubblici,
ma anche privati109. Infine un altro dettaglio mi pare importante: gli Iulii non dedicano l’ara a
Roma, ove era presente un antichissimo culto pubblico di Vediovis, qualificato come agonium
ed officiato dal rex110.
Qualunque sia l’implicazione di questo rilievo, una gens stabilitasi a Roma da molti secoli,
ma con saldi legami con l’area da cui aveva tratto origine, ancora nel II secolo a.C. si richiama a
prescrizioni rituali che fanno riferimento a un centro estintosi mezzo millennio prima.
Ancora Cicerone (De har. resp., 32) ricorda come molti membri dell’ordine senatorio
eseguissero culti gentilizi a Diana in un sanctissimum sacellum sul Celicolo: «L. Pisonem quis
nescit his temporibus ipsis maximum et sanctissimum Dianae sacellum in Caeliculo sustulisse?
Adsunt vicini eius loci; multi sunt etiam in hoc ordine qui sacrificia gentilicia illo ipso in sacello
stato loco anniversaria factitarint». Questa fonte, stranamente poco utilizzata in relazione al
culto gentilizio, attesta al di là di ogni possibile dubbio come, ancora alla fine della Repubblica,
il culto gentilizio fosse diffuso nella certo non vastissima cerchia dell’aristocrazia senatoria
alla quale Cicerone si rivolge ricordando la demolizione del sacello ad opera di L. Calpurnio
Pisone Cesonino. Questo fenomeno induce a non accentuare eccessivamente la crisi del culto
gentilizio nella tarda Repubblica. Se molti sono gli episodi di diserzione dei culti privati e di
distruzione di secolari luoghi di culto, va tuttavia riconosciuto che forse i nobiles, nella vita
quotidiana, avranno perpetuato le antichissme pratiche di culto. Forse gli episodi ricordati con
indignata foga retorica da Cicerone sono solo casi isolati, che potrebbero, a contrario, confermare che, nel quotidiano, il culto gentilizio in qualche modo continuava ad essere praticato con
una certa continuità.
Tutti questi riti sono stati sempre confinati nella più ristretta cerchia gentilizia. Vi sono
invece culti che, o nella loro eziologia, o nel loro svolgimento storico, nati come culti gentilizi,
in séguito sono stati accolti come culti pubblici: il culto di Ercole all’ara maxima, che sappiamo
essere diventato pubblico solo alla fine del IV secolo, quello al Terentum dei Valerii, che si trasformerà nei ludi saeculares, o il rito svolto al tigillum sororium, collegato alla gens Horatia111.
108
MOMMSEN 1834, p. 18: «Lex sacrorum faciundorum Albano ritu, gentis Iuliae patrio».
109
Per limitarmi ad esempi di età repubblicana,
CIL, 14, 2892, da Praeneste; 11, 944, da Carpi.
110
MAGDELAIN 1995, pp. 18 ss.
111
Un altro, attestato archeologicamente, potrebbe essere il luogo di culto connesso alla villa arcaica dell’Auditorium, trasformato nel IV secolo a.C.,
stando alla valutazione di D’ALESSIO - DI GIUSEPPE
2005, pp. 15 ss.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1015
Non credo invece che in questo gruppo siano da includere i Lupercalia, dei quali sono portato
a escludere il carattere gentilizio. Su quest’ultimo mi soffermerò brevemente.
4. I Lupercalia non sono un culto originariamente gentilizio – Agli inizi stessi della città troviamo il rito più famoso e discusso della religione romana, quello dei Lupercalia. La
sua caratterizzazione gentilizia è accolta quasi unanimemente, soprattutto facendo leva sulla
circostanza che le due sodalitates che lo svolgono portano nomi gentilizi, Luperci Fabiani e
Quinctiales (o Quintiliani)112. Dirò subito che il carattere originariamente gentilizio dei Lupercalia a me non riesce convincente. Le fonti sui Lupercalia si possono suddividere in due
gruppi omogenei: quello che descrive il rito e quello che ne narra l’eziologia. I due insiemi non
si amalgamano facilmente tra loro: quello «rituale» non sembra presentare decise connotazioni
gentilizie; quello «eziologico» si appunta invece sulla rivalità tra le due sodalitates, riportata
a una sorta di gara tra i due capostipiti, Romolo e Remo, senza rendere conto dei particolari,
decisamente inconsueti, del rito. Cerchiamo di dipanare brevemente la matassa.
In un’orazione giudiziaria (pro Cael., 26) Cicerone descrive i rapporti che intercorrono tra
i membri delle due sodalitates: «Neque vero illud me commovet, quod sibi in Lupercis sodalem
esse Caelium dixit. Fera quaedam sodalitas et plane pastoricia atque agrestis germanorum Lupercorum, quorum coitio illa silvestris ante est instituta quam humanitas atque leges, siquidem
non modo nomina deferunt inter se sodales, sed etiam commemorant sodalitatem in accusando,
ut, ne quis id forte nesciat, timere videantur!». Come si vede, l’oratore colloca l’origine dei collegi lupercali all’età preurbana, quando ancora la comunità non era retta dalle leggi ed aveva caratteri talmente primitivi da non contemplare quella solidarietà che dovrebbe vincolare tra loro
i membri di qualsiasi sodalitas, ma che tra i Luperci non esisteva proprio perché essi risalivano
a un’età in cui, non essendo stata ancora fondata la città, erano ignote le relazioni tipiche di una
società civile. La cronologia preromulea è confermata dall’appellativo che Varrone (L. L., 6, 34)
attribuisce all’abitato palatino nell’ambito del rito: antiquum oppidum Palatinum significa che
il sito non è ancora stato inaugurato da Romolo; ed è significativo che alla fine della Repubblica
Varrone fosse così avvertito della precedenza cronologica dei Lupercalia da definire il Palatino
semplicemente oppidum, evitandone una caratterizzazione terminologica «urbica».
Nel discorso ciceroniano i germani Luperci alludono alle due sodalitates, ma anche ai due
germani mitici per eccellenza, Romolo e Remo, che avrebbero fondato il culto113. Ed è proprio
questo il punto che mi porta a dubitare della caratterizzazione gentilizia del rito: essa si evidenzia esclusivamente per i nomi gentilizi delle due sodalitates, ma quasi tutti i miti eziologici
attestati dalle fonti prescindono dalle gentes. Leggiamo questo lungo testo di Servio (Ad Aen.,
8, 343): «‘gelida monstrat sub rupe lupercal’ sub monte Palatino est quaedam spelunca, in qua de
112
Come MARQUARDT 1878, p. 422; WISSOWA
1912, p. 404; CORSANO 1977; DE MARTINO 1979, pp.
57 ss., e, sia pur rapidamente, CAPOGROSSI COLOGNESI
2000, che lo definisce «forse il più importante». Ma
contra, già UNGER 1881, p. 54. Un elenco che non ha la
minima pretesa di esaustività.
113
Il fatto che Cicerone parli non di due soda-
litates ma di una sola fera quaedam sodalitas non mi
pare significativo: nel contesto del brano l’oratore
non intende riferirsi alla loro organizzazione interna.
Una lettura convincente di questa testimonianza ciceroniana, e dell’inesistenza dei rapporti che normalmente legano tra loro i sodales, in FRASCHETTI 2002,
pp. 18 ss.
1016
M. Fiorentini
Sc. Ant.
capro luebatur, id est sacrificabatur: unde et lupercal non nulli dictum putant. alii quod illic lupa
Remum et Romulum nutrierit: alii, quod et Vergilius, locum esse hunc sacratum Pani, deo Arcadiae, cui etiam mons Lycaeus in Arcadia consecratus est. et dictus Lycaeus, quod lupos non sinat
in oves saevire. ergo ideo et Euander deo gentis suae sacravit locum et nominavit lupercal, quod
praesidio ipsius numinis lupi a pecudibus arcerentur. Dan.: sunt qui dicant hunc Pana Enualion,
deum bellicosum: alii Liberum patrem, eo quod capro ei fit divina res, qui est hostia Liberi propria. in huius similitudinem intecti cultores eius: cui lupercalia instituta sunt, quia deus pastoralis
est. nam Remum et Romulum ante urbem conditam lupercalia celebrasse eo quod quodam tempore nuntiatum illis sit latrones pecus illorum abigere: illos togis positis cucurrisse caesisque obviis
pecus recuperasse: id in morem versum, ut hodieque nudi currant. non nulli propter sterilitatem
hoc sacrum dicunt a Romulo constitutum, ideoque et puellae de loro capri caeduntur, ut careant
sterilitate et fecundae sint: nam pellem ipsam capri veteres februm vocabant».
Anche le varie eziologie narrate dal Servio Danielino ne collocano le origini ai primordia,
quando il Palatino è ancora un oppidum, e a quel mondo pastorale anteriore alla fondazione
della città (ante urbem conditam) in cui l’abigeato è frequente degenerando spesso in disordini.
Come si può vedere, l’ultima interpretazione proposta dal commentatore, «non nulli propter
sterilitatem hoc sacrum dicunt a Romulo constitutum», neanche si lega alla storia dei gemelli
(tanto più che vi compare solo Romolo, e non anche il fratello). Mi pare importante notare
che anche le tradizioni ricordate dai due testi serviani che collegano le due sodalitates ai mitici
gemelli, non fanno alcuna menzione dei Fabii e dei Quinctii.
Un’eziologia diversa, e a mio avviso deteriore rispetto a quella narrata dal Servio aucto, è
riportata da Valerio Massimo (2, 2, 9): «Lupercalium enim mos a Romulo et Remo inchoatus est
tunc, cum laetitia exultantes, quod his avus Numitor rex Albanorum eo loco ubi educati erant,
urbem condere permiserat sub monte Palatino […] facto sacrificio caesisque capris epularum
hilaritate ac vino largiore provecti, divisa pastorali turba, cincti obvios pellibus immolatarum
hostiarum iocantes petiverunt. Cuius hilaritatis memoria annuo circuitu feriarum repetitur».
Sembra che, nell’ansia di coprire quanto di «anticivico» è presente nel rito lupercale, Valerio
Massimo ne abbia volutamente cancellato i particolari più imbarazzanti, trasformandolo in un
innocuo gioco di giovani in preda al vino e al buon umore114: è per questo che lo ritengo deteriore rispetto alle altre versioni note.
La maggior parte delle fonti antiche relative all’origine delle due sodalitates non le collega
alle gentes: non la narrazione di Fabio Pittore, né quella di Tuberone, né quella dell’altrimenti
ignoto Boutas: testimonianze raccolte tutte da Plutarco nella biografia di Romolo (Rom., 1,
79-80). C’è invece un particolare del mito eziologico più famoso, quello di Ovidio (Fast., 2,
373-380), che non solo si riferisce sicuramente al rito ma collega esplicitamente le due sodali-
114
Dico «anticivico» nel senso messo in luce da
FRASCHETTI 2002, pp. 24 ss., facendo leva su alcuni particolari del mito eziologico, che ho definito imbarazzanti: Remo che si ciba degli exta ancora semicrudi, e
senza farne parte a Romolo e ai suoi sodales. Partendo
da questo passo WISEMAN 1995 propone una conget-
tura di grande interesse circa un’ipotetica riforma dei
collegi lupercali effettuata nel 304 a.C. da Q. Fabio
Rulliano. Tuttavia mi pare che l’A. sopravvaluti l’importanza della narrazione di Valerio Massimo; a mio
parere essa è solo una variante nettamente impallidita.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1017
tates alle gentes: è il momento in cui Romolo, dopo il massacro dei ladri di bestiame, arrivato
più tardi del fratello, si accorge che Remo e i suoi sodales, i Fabiani, hanno mangiato gli exta
senza attendere il suo ritorno: «ut rediit (scil., Remus), veribus stridentia detrahit exta / atque
ait ‘haec certe non nisi victor edet.’ / dicta facit, Fabiique simul. venit inritus illuc / Romulus
et mensas ossaque nuda videt. / r i s i t , e t i n d o l u i t F a b i o s p o t u i s s e R e m u m q u e /
v i n c e r e , Q u i n t i l i o s n o n p o t u i s s e s u o s . / forma manet facti: posito velamine currunt, / et memorem famam quod bene cessit habet».
Romolo ride e si duole: l’interpretazione razionalistica, proposta da Ovidio, immagina
che Romolo abbia, come si suol dire, fatto buon viso a cattiva sorte. Io penso, invece, che in
questa risata (che ha dato a Valerio Massimo il destro di falsificare, da bravo benpensante, tutto l’intento del rito, trasformandolo in un ingenuo gioco di primitivi «bestioni») vada sentita
l’eco lontana di un dettaglio importante del rituale descritto da Plutarco: in una prima fase, che
si svolge nelle immediate adiacenze della grotta del Lupercal, «sacrificano infatti delle capre, e
poi fatti venire presso di loro due giovani nobili, alcuni li toccano sulla fronte con un coltello
grondante di sangue, gli altri li asciugano subito con un batuffolo di lana inzuppato di latte.
Dopo essere stati asciugati, i giovani devono scoppiare a ridere»115.
Il rituale, che riusciva incomprensibile a Plutarco (che ne definiva l’aitía, in apertura di §
6, dustópaston), appare chiaramente di natura iniziatica, di morte e di resurrezione: il sangue
delle capre sacrificate porta alla vita i due giovani (che ovviamente rappresentano le due sodalitates116), e la risata che essi lanciano è la manifestazione della loro nuova vita. Ovidio ha razionalizzato questa risata, non comprendendone la vera natura di morte e rinascita117. E Ovidio e
Plutarco ci introducono al rituale.
Le fonti che si soffermano sulla funzione del rituale ne evidenziano la finalità lustrale.
La più importante è un testo di Varrone (L. L., 6, 34): «posterior (scil. mensis), ut idem dicunt
scriptores, ab diis inferis Februarius appellatus, quod tum his paren<te>tur; ego magis arbitror
Februarium a die februato, quod tum februatur populus, id est Lupercis nudis lustratur antiquum oppidum Palatinum gregibus humanis cinctum». Il Reatino contrappone due etimologie
del nome del mese di febbraio che a suo avviso sono incompatibili tra loro: quella funeraria,
giustificata dalla collocazione calendariale delle parentationes in memoria degli agnati defunti
in febbraio; e la sua («ego magis arbitror»), secondo cui il mese prende nome dal dies februatus,
ossia quello in cui si svolge il rito lupercale, fondata sulla assimilazione tra februare e lustrare.
115
Plut., Rom., 21, 6: «sfavttousi ga;r ai\ga",
ei}ta meirakivwn duoi'n ajpo; gevnou" prosacqevntwn
aujtoi'", oiJ me;n hJ/magmevnh/ macaivra/ tou' metwvpou
qiggavnousin, e{teroi d''∆ ajpomavttousin eujquv", e]rion
bebregmevnon gavlakti prosfevronte". gela'n de; dei'
ta; meiravkia meta; th;n ajpovmaxin». Il testo ovidiano
evidenzia anche un’altra fase importante del rito: il
pasto consumato vede la preminenza della sodalitas
collegata a Remo, quella dei Fabiani.
116
Così convincentemente anche FRASCHETTI
2002, p. 21. Tuttavia, secondo l’A. la risata vuole ri-
cordare il risit et indoluit di Romolo. A mio parere è
il contrario: le espressioni di Ovidio dimostrano che
egli non comprendeva la ragione della risata e tentò di
razionalizzarla.
117
Questa parte del rito potrebbe essere collegata alla particolare data in cui esso si svolge: in effetti
già COARELLI 1983, p. 276, aveva sottolineato la funzione espiatoria della festa, in quanto posta «al centro di una celebrazione dei morti, i dies parentales».
Questa funzione dei Lupercalia suona particolarmente persuasiva, visto il particolare momento dell’anno
1018
M. Fiorentini
Sc. Ant.
A me pare che l’incompatibilità sia solo apparente, e che anzi i due aspetti, funerario e lustrale,
si possano integrare tra loro. Infatti appare evidente che la seconda parte del rito, che si svolge intorno all’antiquum oppidum Palatinum, abbia una decisa connotazione propiziatoria: il
rituale di morte e rinascita dei Luperci, svolto al Lupercal, si trasmette a tutta la popolazione,
soprattutto alle donne, per procurar loro la fecondità; tanto è vero che sono loro le prime destinatarie delle frustate.
L’espressione «gregibus humanis cinctum», che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, secondo me si inscrive perfettamente in questa prospettiva: gli uomini-capri (o gli uomini-lupo,
se aveva ragione Altheim118) corrono tutto intorno alle radici del Palatino (ma, come ha sottolineato benissimo Fraschetti, al di fuori di esso, dato che la Sacra via, percorsa dai Luperci
alla base della pendice settentrionale del Palatino, è esterna al pomerio romuleo), e colpiscono
il gregge degli umani che sta all’interno del circuito percorso dai Luperci: questi, a mio avviso,
sono i greges humani di cui parla Varrone (L. L., 6, 34), e non i due gruppi di Luperci119. E
che il percorso fosse intorno al Palatino mi pare dimostrato dalla circostanza che si trattava di
una lustratio, termine di cui Macrobio (Sat., 3, 5, 7) fornisce il significato rituale, affermando
che «lustrare significat circumire»120. La finalità propiziatoria mi pare coessenziale all’intero
rito: non credo, con Wiseman121, che essa appartenga a uno strato del rito successivo a quello
lustrale.
Questa funzione propiziatoria può spiegare perché, secondo alcune tradizioni, trasmesse
nell’epitome paolina (Februarius, 75 L.), il febbraio abbia questo nome: «Februarius mensis dictus, quod tum, id est, extremo mense anni, populus februaretur, id est lustraretur ac purgaretur,
vel a Iunone Februata, quam alii Februalem, Romani Februlim vocant, quod eo mense sacra
fiebant, eiusque feriae erant Lupercalia, quo die mulieres februabantur a lupercis, amiculo Iunonis». Il lemma riporta entrambi gli aspetti del rito, sia quello espiatorio, collegato al periodo
dell’anno (extremo mense anni) in cui si svolge, sia quello propiziatorio, vòlto ad impetrare la
in cui si svolge. Tuttavia la finalità espiatoria, legata ai
morti, non mi pare alternativa a quella lustrale; anzi,
come cercherò di mostrare, le due funzioni mi sembrano complementari.
118
ALTHEIM 1956, II, p. 13, definì il rito lupercale
una «Wolfshöhle».
119
Come credeva WISEMAN 1995, p. 82. Sprovvista di qualsiasi verosimiglianza l’ipotesi di KIRSOPPMICHELS 1953, pp. 38 ss., criticata anche da ZIOLKOWSI
1998-99, pp. 198 ss., anche se qualche credito sembri
attribuire alla sua idea della corsa dei Luperci come
forma di difesa contro i possibili effetti maligni della
presenza dei morti durante il novemdiale dei Parentalia. Contro questa ricostruzione sia sufficiente rilevare che i morti a cui favore si compiono i riti parentali
non sono i «morts malfaisants» di Jobbé-Duval, ma i
parentes.
120
Nonostante HARMON 1978A, pp. 1441 ss., e
FLOBERT 1983, p. 96, ritengo inaccettabile KIRSOPPMICHELS 1953, pp. 43 ss., la quale dava eccessivo rilie-
vo al «Lupercorum per sacram viam ascensum atque
descensum» di Agostino (civ. Dei, 18, 12). Credo che
l’Ipponense si riferisse solo al settore della corsa più
frequentato dal «pubblico» e perciò percorso più
volte avanti e indietro dai Luperci lungo il tragitto in
declivio della Sacra via (su cui COARELLI 1983; FRASCHETTI 2002, p. 142, nota 50, e FIORENTINI 1988, p.
168 e nota 125). Sul percorso in declivio della Sacra
via, CARANDINI 2004, pp. 14 ss. L’interpretazione di
Michels è ora accolta da ZIOLKOWSKI 1998-99, pp. 195
ss., pur critico verso l’eccessivo rilievo concesso dalla
studiosa al passo di Agostino. Per un percorso intorno al Palatino si pronuncia anche WISEMAN 1999, p.
77, che evidenzia come lustratio «dovrebbe implicare
un percorso circolare», apportando l’uso del termine
in Catone (Agr., 141, 1), che lo fa coincidere con circumagere.
121
WISEMAN 1999, p. 78 s., che argomenta dal fatto che i Luperci battevano non solo le donne, ma tutti
coloro che incontravano.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1019
fecondità delle donne, che richiama la presenza di Iuno. Incidentalmente, dalle parole di Paolo
Diacono parrebbe che non solo i Romani, ma anche altre comunità avessero festività in onore
di questa Iuno, denominata in modo diverso che a Roma (Februalis invece che Febru® lis).
Anche Giovanni Lido ci trasmette alcune informazioni preziose, combinate ad altre confuse e forse fraintese: «il febbraio prende nome da Februa, dea così chiamata; i Romani adottarono Februa come divinità custode della purificazione delle azioni; invece Anisio, nel suo
‘Sui mesi’, afferma che Februo, in lingua etrusca, significa il mondo infero e viene venerato dai
Luperci allo scopo di aumentare i frutti. Ma Labeone afferma che febbraio prende nome dal
lutto; infatti presso i Romani il lutto si chiama feber e durante questo mese veneravano coloro
che abitavano nell’aldilà. Ma i libri pontificali chiamano il purificare februare, e Plutone Februs. Ritengono che il mese di febbraio sia consacrato ad Era per il fatto che ai fisici Era appare
essere il cielo inferiore; e la purificazione è assolutamente adatta ad esso. Si chiama però non
solo Febbraio, ma anche Februato, per il fatto che presiede ad esso, e con sacrifici vengono
adorate Februata e Februale»122.
Oltre ad alcune informazioni avvicinabili a quelle del lemma di Paolo-Festo, Lido infila
una dietro l’altra tre citazioni rare e per questo preziose (il che non significa che siano vere):
a) secondo uno sconosciuto poeta elegiaco, Anýsios, nel rito lupercale vi sarebbe una sovrapposizione lessicale etrusca: «∆Anuvsio"... Febrou'on to;n katacqovnion ei\nai th'/ Qouvskwn
fwnh'/ … levgei, kai; qerapeuvesqai pro;" tw'n Louperkw'n uJpe;r ejpidovsew" tw'n karpw'n». L’aspetto funerario, che risalta nel rapporto col katachthónion, si accompagna tuttavia, nella visuale di
Anisio, a uno propiziatorio, volto ad assicurarsi un buon raccolto, ove, più che un aspetto agrario, potrebbe vedersi un fraintendimento, o forse meglio una metafora, del «raccolto» umano propiziato alle donne in età feconda dai colpi inferti dai Luperci con l’amiculum Iunonis.
L’etimologia del febbraio dal «tòn katachthónion» non è comunque una gratuita invenzione
dell’oscuro poeta, risalendo piuttosto alla tradizione antiquaria del II secolo a.C.: Varrone (L.
L., 6, 34) ricorda come, secondo Ser. Fulvio Flacco (cos. 135 a.C.) e M. Giunio Graccano, «ab
diis inferis Februarius appellatus, quod tum his paren<te>tur»123;
b) un Labeone, che Pernice124 identificò con Cornelio Labeone, enfatizza l’aspetto espiatorio del rituale, sulla base del significato di phéber, collegato dall’erudito romano con il latino
februum, con cui era designata la striscia di pelle di capra con cui i Luperci battevano gli astanti
e soprattutto le donne;
122
Lyd., de mens., 4, 20: «Tw'/ Febrouarivw/ meniv
ajpo; Febrouva", qea'" ou{tw prosagoreuomevnh", to;
o[noma gevgonen: Febrouvan de; e[foron kaqartikh;n
tw'n pragmavtwn oiJ ÔRwmai'oi parevlabon: ∆Anuvsio"
de; ejn tw'/ peri; mhnw'n Febrou'on to;n katacqovnion
ei\nai th'/ Qouvskwn fwnh'/ levgei, kai; qerapeuvesqai
pro;" tw'n Louperkw'n uJpe;r ejpidovsew" tw'n karpw'n.
oJ de; Labew;n ajpo; tou' pevnqou" levgei klhqh'nai to;n
Febrouavrion: fevber ga;r para; ÔRwmaivoi" to; pevnqo"
prosagoreuvetai, kat∆ aujto;n de; tou;" katoicomevnou"
ejtivmwn. ajlla; mh;n kai; febroua're to; kaqa'rai ta;
pontifikavlia bibliva kalei', Fevbron to;n Plouvtwna.
to;n Febrouavrion mh'na »Hra/ ajnateqh'nai ajxiou'si
dia; to; th;n »Hran para; toi'" fusikoi'" dokei'n ei\nai
ton; u}ption ajevra: oJ de; kaqarmo;" a[ntikru" tw'/ ajevri
ajrmovdio". ouj movnon de; Febrouavrio" ajlla; kai;
Febrouavto" levgetai, dia; to; th;n touvtou e{foron,
kai; Febrouavtan kai; Febrouavlem, toi'" iJeroi'"
ajnafevresqai».
123
UNGER 1881.
124
PERNICE 1873, pp. 46 ss. Su Cornelio Labeone, BRIQUEL 1998, pp. 345 ss.
1020
M. Fiorentini
Sc. Ant.
c) un’opinione che evidentemente era supportata dai libri pontificali nei quali, a detta di
Giovanni Lido, si leggeva la stessa notizia125: «febroua're to; kaqa'rai ta; pontifikavlia bibliva
kalei', Fevbron to;n Plouvtwna», ove Plutone appare interpretatio graeca di una divinità infera
romana, forse Dite o forse Vediovis126. Ma Lido fa emergere, un po’ confusamente, anche quello propiziatorio collegato a Iuno.
In tutto questo discorso l’aspetto gentilizio rimane completamente oscurato. Il rituale è
certamente pubblico pro populo (nel senso di Capitone), e non ha niente a che fare con i Fabii
o con i Quinctii. Il mito di fondazione del rito è collegato alle due gentes da un numero relativamente ristretto di fonti: Ovidio, due lemmi festini (Paul Fest., Faviani, 78 L., e <Quintiliani
Luperci>, 308 L., come integrato da Orsini e Mueller), un riferimento poetico di Properzio (4,
1, 26), e l’origo gentis Romanorum (22, 1: «suos appellaverunt, Remus Fabios, Romulus Quintilios»). Ma l’analisi delle finalità del rito ora tentata mi porta ad escludere questa identificazione.
Il rito, come si è potuto vedere, serviva alla lustratio dell’oppidum Palatinum, con cui nessuna
delle due gentes aveva rapporti: non i Quinctii che, secondo Livio (e quindi probabilmente Varrone, che dovrebbe essere la sua fonte tramite il de familiis Troianis), hanno origine albana, da
cui furono deportati sotto Tullo Ostilio e, secondo un’ipotesi recente, potrebbero avere avuto
il loro luogo di residenza sul Celio, mentre secondo Marinella Corsano potrebbero avere avuto rapporti col Capitolium, attraverso contatti con Iuppiter127; non i Fabii, che avevano il loro
luogo di culto ancestrale sul Quirinale dove, ancora nei primi anni del IV secolo, compivano il
loro annuale sacrificio gentilizio128. Nel 1963, partendo proprio dal collegamento dei Fabii col
125
Questa testimonianza di Giovanni Lido va
aggiunta al dossier di tracce dei libri pontificum raccolto da Francesco Sini.
126
L’identificazione di Ploúto® n con Vediovis potrebbe essere suggerita dall’avvicinamento di Fauno,
la divinità a cui in primo luogo è dedicata la festa, con
Vediovis, secondo la prospettiva di KERENYI 1979, p.
87. Ciò, a parere dell’A., spiegherebbe perché Cesare
non avrebbe avuto difficoltà ad aggiungere una terza sodalitas alle due originarie: infatti Vediovis era
venerato a Boville dagli Iulii (CIL, 12, 1439=ILLRP,
270: Vediovei patrei / genteiles Iuliei / [[Vedi<ov>ei]]
aara / leege Albana dicata (FIORENTINI 1988, pp. 237 ss.,
e supra, p. 1013).
127
L’eccezionale livello delle sepolture del VII e
del VI secolo della zona lateranense, che riflette una
notevole prosperità dei gruppi ivi stanziati, induce
COLONNA 2005, p. 737, a cautamente identificarle con
quelle dei capi albani deportati a Roma da Tullo Ostilio, tra cui, come ricorda Livio (1, 30, 2) vi erano anche
i Quinctii. Quanto al legame col Capitolium, espresso
dal cognomen portato da uno dei gruppi più antichi
della gens, CORSANO 1977, pp. 146 ss., ne trae un’illazione di tipo funzionalistico (presunta «capitolinité»
della gens Quinctia) che ritengo inammissibile.
128
Notavo (FIORENTINI 1988, pp. 165 ss.) che la
prospettiva «gentilizia» lascia inesplicato un particolare che la rende inverosimile: se le due sodalitates
avessero fin dall’inizio avuto caratterizzazione gentilizia, non si riuscirebbe a spiegare la notizia, irrimediabilmente contradditoria, secondo cui i Quinctii
sarebbero stati deportati forzatamente a Roma da
Tullo Ostilio dopo la distruzione di Alba. Una composizione potrebbe essere proposta nell’immaginare
la presenza di due nuclei di Quinctii, una albana e una
romana. Ma una dispersione gentilizia per queste età
così antiche non mi pare verosimile. La contraddizione pertanto rimane e non può essere spiegata se non
escludendo l’originarietà del carattere gentilizio del
rituale. Che poi, a mio parere, non si presenta neanche
nelle età successive. Ovviamente questo rilievo si regge sul presupposto che il nome autentico della sodalitas romulea rimandi alla gens Quinctia. Ovidio usa
Quintilii, e Dionisio (3, 29, 7), nel riportare l’elenco
delle gentes coattivamente trasferite a Roma da Tullo
Ostilio, usa Kointilíous: ma il nome di questa gens ha
una formazione più recente dell’altra che, col tema in
-ali-, appartiene ad uno strato molto arcaico, di cui
fanno parte anche i nomi dei flamines (PERUZZI 1978,
p. 33 s.).
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1021
Quirinale testimoniato dal culto gentilizio di cui ci informa Livio (5, 46, 2), combinato con la
suddivisione del collegio dei Salii in due gruppi, Palatini e Collini, Arnaldo Momigliano aveva
argomentato che i Luperci avrebbero rappresentato la fusione della comunità latina con quella
sabina129. Almeno per quanto attiene al rito lupercale questa deduzione mi pare poco verosimile: in primo luogo, se i Fabii hanno rapporti accertati col Quirinale, non altrettanto si può
dire dei Quinctii per il Palatino, dato che sappiamo dalla lista liviana che, fino al regno di Tullo
Ostilio, essi erano stanziati ad Alba, donde vennero deportati dopo la sua distruzione. Inoltre,
se la suddivisione del collegio lupercale in due sodalitates rispecchia una sorta di sinecismo tra
la comunità palatina e quella collina, non si capisce perché il rito si dovesse svolgere esclusivamente attorno a uno dei due stanziamenti. In questo caso l’«evidence» invocata dal Maestro
piemontese è infondata.
Anche l’argomento onomastico, proposto da Mommsen ed accettato da larga parte della
dottrina, secondo cui l’originario carattere gentilizio del rito sarebbe provato dalla circostanza che
il prenome Kaeso sarebbe stato esclusivo delle due gentes130, è confutato dal fatto che, in età altorepubblicana, altre gentes, anche plebee, portavano questo prenome: almeno gli Acilii e i Duilii.
E allora resta da spiegare quando il carattere gentilizio si sia infiltrato nel contesto rituale. Wiseman ha proposto un momento preciso: il 304 a.C., ad opera di Q. Fabio Rulliano131.
Forse la ricostruzione di Wiseman è eccessivamente circostanziata, anche perché in una data
così bassa una riforma di questa portata non avrebbe potuto essere stata omessa dagli annali dei pontefici, da cui è difficile pensare che non sarebbe passata agli annalisti e soprattutto
agli antiquari. Tuttavia mi pare di grande interesse la prospettiva dalla quale Wiseman guarda
all’aspetto gentilizio del rito: esso sarebbe la superfetazione repubblicana di un rituale che in
origine non aveva niente di gentilizio.
Dopo questo lungo ma necessariamente sommario esame dei sacra gentilicia una conclusione si impone: da essi è totalmente estraneo l’aspetto funerario, relativo alla celebrazione
degli antenati defunti, sui quali è ora necessario brevemente soffermarsi.
5. Riti funerari – Riguardo al secondo argomento del mio esame, è inevitabile partire dalla
norma delle XII Tavole citata da Cicerone (de leg., 2, 55=X, 1): «Hominem mortuum in urbe
ne sepelito neve urito».
Cicerone aveva cura di differenziare concettualmente i verbi designanti le azioni collegate
ai due diversi rituali funerari: subito dopo avere esposto la sua opinione sulla ratio della norma
decemvirale, su cui mi soffermerò tra breve, egli (de leg., 2, 55) proseguiva: «quod autem addit
‘neve urito’, indicat non qui uratur sepeliri, sed qui humetur». Quindi, a parere dell’Arpinate,
dal momento che il testo della norma contemplava due ipotesi, sepeliri ed uri, con la prima
espressione il legislatore decemvirale si sarebbe riferito solo all’inumazione. Neve urito designa
una tipologia di cerimonia funebre diversa dall’inumazione, ossia la cremazione.
La meticolosa differenziazione dei due rituali, correttamente effettuata da Cicerone, ci introduce al problema più rilevante della norma, quello della sua ratio. Se la sua portata è oscura
129
130
MOMIGLIANO 1963, p. 99.
MOMMSEN 1864, p. 17; GAGÉ 1966, e ora WISE-
MAN
1999, p. 76.
WISEMAN 1995.
131
1022
M. Fiorentini
Sc. Ant.
ai nostri occhi, neppure i dotti Romani della fine della Repubblica capivano bene a cosa servisse. Cicerone (de leg., 2, 55) la riportava ad esigenze di sicurezza urbana, connesse alla necessità
di evitare il pericolo di incendi: «Credo vel propter ignis periculum». Il sostanziale fraintendimento dell’Arpinate è reso evidente dalla titubanza con cui egli propone la sua spiegazione.
Secondo Isidoro di Siviglia (Etym., 15, 11, 1), invece, la norma avrebbe inteso tutelare la città
dalle esalazioni prodotte dalla putrefazione dei cadaveri: «Prius autem quisque in domo sua
sepelibatur, postea vetitum est legibus, ne faetore ipsa corpora viventium contacta inficerentur».
Sia la soluzione di Cicerone, sia quella di Isidoro sono del tutto insufficienti, perché entrambe
collegate al rito prevalente ai loro tempi: la prima perché il pericolo degli incendi non spiega il
divieto dell’inumazione; quella di Isidoro, che lo giustificava con gli effetti della decomposizione dei cadaveri inumati, lascia inesplicato il divieto di cremazione132. È evidente che siamo in
presenza di spiegazioni razionalizzanti di una norma di cui non si riusciva più a comprendere
la portata. Tenterò di propore qualche rilievo tra breve.
Cicerone sapeva bene che la norma decemvirale non era stata applicata inflessibilmente.
Proprio al centro della città erano note sepolture mitiche, come la tomba di Acca Larentia al
Velabro, i doliola o i busta gallica; tutte sepolture che comunque erano esterne all’antiquum
pomerium Palatinum come, a proposito del sepolcro di Acca, afferma esplicitamente Varrone
(L. L., 6, 24); la tomba di Faustolo o di Osto Ostilio al Comizio, le ossa di Oreste, la sepoltura
di un fulmine ictus nel Volcanal, disposto da un senatus decretum, e quindi all’interno del pomerio serviano133; alcuni sepolcreti definiti familiari (credo però gentilizi) di età storica, come
quello della familia Cincia attestato in un lemma di Festo in relazione alla porta Romana134; ed
infine aree sepolcrali destinate a personaggi eccezionali e alle loro discendenze.
132
Ciononostante il fine della norma è ancora riconosciuto in esigenze di prevenzione degli incendi da ROBINSON 1977, pp. 386 ss. È evidente che
non sono d’accordo con la studiosa irlandese; né mi
convince DYCK 2003, p. 400, secondo cui, con la ratio
proposta, «Cicero clearly has no feeling for the fear
of the dead that causes them to be safely contained in
their own places well away from human habitation».
Non c’era bisogno di una norma legislativa per tenere lontani i morti dall’Urbs: ad esorcizzare la paura
dei morti, del resto, erano deputate apposite festività
come i Lemuria. La ratio di Tab. X, 1, come cercherò
di mostrare tra breve, va ricercata nella necessità di tenere separata l’area inaugurata all’interno del pomerio
dalla contaminazione rituale insita nella morte. Tende
ad accentuare il carattere preventivo della norma, pur
senza omettere che la prima finalità sarebbe stata da
ricercare in «un complesso di prescrizioni di carattere
religioso», anche MINIERI 2000, pp. 46 ss. Ringrazio
l’amico Luciano per avermi fornito l’estratto del suo
articolo.
133
Serv., ad Aen., 2, 116: «Orestis vero ossa Aricia
Romam translata sunt et condita ante templum Satur-
ni, quod est ante clivum Capitolinum iuxta Concordiae
templum». I busta gallica si trovavano, secondo Livio
(22, 14, 1), «media in Urbe»: l’Urbs repubblicana,
non quella romulea. Sta di fatto che essi erano ritenuti
collegati con l’assedio gallico, quando tutta l’area si
trovava intra pomerium. Sulla qualificazione giuridica
dei doliola, dei busta gallica e delle ossa Orestis come
res religiosae in quanto sepolture, ALBANESE 1969, pp.
215 ss., critico nei confronti di FABBRINI 1968, pp. 536
ss. La risposta di FABBRINI 1970 non mi pare efficace.
Festo (Statua, 370 L.) riporta una tradizione relativa
a un seppellimento rituale nel Volcanale: «Statua est
ludi eius, qui quondam fulmine ictus in Circo, sepultus
est in Ianiculo. Cuius ossa postea ex prodigis, oraculorumque responsis senatus decreto intra Urbem relata
in Volcanali, quod est supra Comitium, obruta sunt;
superque ea columna, cum ipsius effigie, posita est».
134
Fest., Romanam portam, 318 L.: «Romanam
portam vulgus appellat, ubi ex epistylio † defluit aqua;
qui locus ab antiquis appellari solitus est statuae Cinciae, quod in eo fuit sepulcrum eius familiae. Sed porta
Romana instituta est a Romulo infimo clivo Victoriae;
qui locus gradibus in quadram formatus est». COARELLI
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1023
A proposito di queste ultime, Cicerone (de leg., 2, 58) inizia esponendo le regole relative al
ius sepulcrorum contenute nel diritto pontificale, prosegue con quella disposta dalle leges, ossia
nelle XII Tavole (Tab. X, 1), giustificandola come misura di prevenzione degli incendi, e poi
parla delle sepolture in urbe posteriori alle XII Tavole: «Atticus. Quid quod post XII in urbe
sepulti sunt clari viri? Marcus. Credo Tite fuisse aut eos quibus hoc ante hanc legem virtutis
causa tributum est, ut Poplicolae, ut Tuberto, quod eorum posteri iure tenuerunt, aut eos si qui
hoc ut C. Fabricius virtutis causa soluti legibus consecuti sunt».
Cicerone distingue due categorie di soggetti: coloro ai quali tale onore era stato decretato prima delle XII Tavole e mantenuto per i posteri, come ai Valerii a partire da Publicola, e ai Postumii
come premio ad A. Postumio Tuberto, il dittatore vittorioso al lago Regillo nel 499 o 496, ai quali
vanno aggiunti i Claudii ricordati da Svetonio (il cui sepolcro gentilizio era probabilmente alla
pendice N del Capitolium, e perciò extra pomerium135); ed altri ai quali esso fu conferito dopo la
legislazione decemvirale, come a C. Fabrizio Luscino, il vincitore di Pirro, morto nel 275, e forse
alla sua discendenza. Conosciamo dunque almeno due gentes che seppellivano entro l’urbs in età
predecemvirale (nel Foro ed alla base della Velia; non contando la gens Cincia), ed almeno un’altra
cui questo onore fu concesso dopo. Di questi sepolcri parla Plutarco (quaest. rom., 79): «e infatti
agli altri aristocratici e comandanti decretarono che non solo loro ma anche i loro discendenti
fossero sepolti nel Foro, come a Valerio e a Fabrizio; e si afferma che, quando i loro discendenti
muoiono e vengono portati nel Foro, una torcia accesa viene posta sotto il feretro e subito rimossa,
godendo dell’onore senza provocare invidia, e così limitandosi a confermare il loro privilegio»136.
Soffermiamoci sul sepolcreto dei Valerii al piede della Velia. Il rapporto col riconoscimento reso a Publicola, risultante nelle Quaestiones Romanae, è evidenziato da Plutarco anche
nella chiusa della vita di Publicola (Popl., 23, 4): «e il popolo… votò che il corpo fosse sepolto
a spese pubbliche… 5. Fu infatti sepolto sulla base di un voto del popolo dentro la città presso
la cosiddetta Velia, in modo che il luogo di sepoltura toccasse anche a tutta la gens. 6. Ora però
nessun membro della gens vi viene più sepolto, ma conducendo il defunto lo depongono lì,
e qualcuno, presa una fiaccola accesa, ve la pone sotto per un momento e subito la toglie via,
testimoniando con questo gesto che il defunto ha il diritto di esservi seppellito ma vi rinuncia,
e in tal modo portano via il morto»137.
1983, pp. 232 ss. e nota 31, non credendo che la porta
Romana si aprisse nelle mura palatine, esprime un motivato scetticismo sulla localizzazione del sepolcro dei
Cincii all’interno del pomerio; VALVO 1990, pp. 145 ss.;
GRANDAZZI 1998. Il lemma festino parrebbe profilare diverse localizzazioni della porta: una «popolare» («vulgus appellat»), un epistilio da cui scende acqua e che gli
antichi chiamavano statuae Cinciae per la presenza del
sepolcro; ed una tecnica attribuita alla porta della cinta
romulea del Palatino aperta in fondo al clivus Victoriae.
Anche se sarebbe di estremo interesse localizzare più
precisamente questo epistilio, ai miei fini basta considerare che esso doveva comunque trovarsi fuori del pomerio palatino (ma all’interno di quello serviano).
135
COARELLI 1997, p. 255.
Plut., quaest. rom., 79: «kai; ga;r a]lloi"
ajristeu'si kai; strategoi'" e]dwkan oujk aujtou;" movnon
ajlla; kai; tou;" ajp∆ aujtwn' ejntavptesqai th'/ ajgora'/,
kaqavper Oujalerivw/ kai; Fabrikivw/: kai; fasi touvtwn
ajpogovnoi" ajpoqanou'si kai; komisqei'sin eij" ajgoravn
uJfivesqai da'/da kaiomevnhn, ejnq∆ eujqu;" ai[resqai,
crwmevnwn ajnepifqovnw" th'/ timh'/ kai; tw'/ ejxei'nai movnon
ejkbebaioumevnwn».
137
Plut., Popl., 23, 4: «oJ de; dh'mo"... ejyhfivsato
dhmosiva/ tafh'nai to; sw'ma... 5. ∆Etavfh de; kai; tw'n
politw'n yhfisamevnwn ejnto;" a{steo" para; th;n
kaloumevnhn Oujelivan, w{ste kai; gevnei pantiv th'"
tafh'" metei'nai 6. Nu'n de; qavptetai men; oujdei'"
136
1024
M. Fiorentini
Sc. Ant.
Questo ragguaglio va collazionato con una notizia fornita da Dionisio di Alicarnasso (5,
48, 3): «ma il senato, venuto a conoscenza di come le loro sostanze (scil. dei cogentiles di Publicola) fossero scarse, decise che le spese per la sua sepoltura fossero tratte dall’erario, e concesse
un luogo entro la città, nei pressi del Foro sotto la Velia ove fu cremato e sepolto, unico tra
gli uomini eminenti fino ai miei tempi; e questo luogo, come se fosse sacro, è consacrato alla
sepoltura dei suoi discendenti»138.
Dunque, con una legge comiziale per Plutarco (tw'n politw'n yhfisamevnwn) o, secondo
Dionisio, con senatoconsulto (hJ boulh; … ejyhfivsato), venne assegnato a Publicola un luogo
ai piedi della Velia ove fosse seppellito lui con la sua discendenza. A parte l’evidente iperbole
costituita dall’«unico tra gli uomini eminenti fino ai miei tempi» (almeno Silla aveva avuto lo
stesso onore), Dionisio fornisce un’indicazione significativa: Publicola fu incinerato e sepolto
nello stesso luogo: «e]nqa ejkauvqh kai; ejtavfh». Si tratta dunque d’un bustum, secondo la definizione di Festo (bustum, 29 L.): «bustum proprie dicitur locus, in quo mortuus est combustus
et sepultus (...); ubi vero combustus quis tantummodo, alibi vero est sepultus, is locus ab urendo
ustrina vocatur».
I passi di Plutarco conservano un’altra rilevantissima informazione sul rituale in uso presso i Valerii. Il rito prevalente fino al IV secolo a.C. è l’inumazione, ma i Valerii rimarranno
sempre fedeli alla cremazione, tanto che Plutarco ci trasmette una preziosa notizia (letta in
Valerio Anziate?139): il corteo si dirige nel Foro, il feretro viene deposto a terra, una fiaccola
viene accesa sotto il letto funebre e subito rimossa, dopo di che il corteo riprende il percorso
verso il sepolcreto. È ragionevole vedere in questo rito una finta cremazione svolta nello stesso
luogo ove, evidentemente prima delle XII Tavole, si svolgeva un’incinerazione autentica in
un bustum. Questo rituale sostitutivo è sicuramente databile all’età postdecemvirale quando,
in ossequio alla disposizione della norma di Tab. X, 1, il sepolcreto dei Valerii dovette essere
rimosso140.
tw'n ajpo; gevnou" komivsante" de; to;n nekro;n ejkei'
katativqentai, kai; da'/dav ti" hJmmevnhn labw;n o}son
uJphvnegken, ei\t∆ ajnairei'tai, marturovmeno" e[rgw/
to; ejxei'nai, feivdesqai de; th'" timh'", kai; to;n nekro;n
ou{tw" ajpokomivzousin».
138
Dion. Hal., 5, 48, 3: «hJ mevntoi boulh; maqou'sa
wJ" ei|cen aujtoi'" ta; pravgmata (add. ajpovro" O), ejk tw'n
dhmosivwn ejyhfivsato crhmavtwn ejpicorhghqh'nai ta;"
eij" th;n tafh;n dapavna", kai; cwrivon e]nqa ejkauvqh kai;
ejtavfh movnw/ tw'n mevcri" ejmou' genomevnwn ejpifanw'n
ajndrw'n ejn th'/ povlei suvneggu" th'" ajgora'" ajpevdeixen
uJp∆ Oujeliva": kai; e[stin w{sper iJerovn tou'to toi'" ejx
ejkeivvnou tou' gevnou" ejnqavptesqai ajneimevnon».
139
BOSCHERINI 1975, pp. 141 ss. ha escluso che la
fonte di Cicerone e Livio, che deve essere la stessa, sia
Valerio Anziate, propendendo per Calpurnio Pisone.
Valerio Anziate deve essere la fonte, ma insieme ancora a Pisone, delle versioni di Dionisio e di Plutarco
(HRR, I2, CCCXXVI ss. P.).
140
Non accettabile FRANCIOSI 1984B, pp. 52 ss.,
per il quale il rituale della torcia attesterebbe che in
origine i Valeri inumavano i loro morti, e solo in séguito sarebbero passati alla cremazione. È frutto di
un fraintendimento MANZO 1995, p. 113, nota 32,
secondo cui, oltre ad altre gentes, i Valerii «originariamente inumanti, in prosieguo di tempo accolsero
la pratica dell’incinerazione». E, soprattutto, Plut.,
Popl., 32, 5-6 non «narra che Valerio Publicola fu inumato all’interno dell’abitato nella tomba gentilizia e
poi aggiunge che, successivamente, tale pratica cadde
in disuso». Dion. Hal., 5, 48, 3 è esplicito nell’indicare che il luogo in cui Valerio fu sepolto era un bustum. Non vi fu quindi alcuna obliterazione del rito,
bensì una sua trasformazione cosciente quando il rito
da sempre seguito dai Valeri non poté più essere celebrato nel Foro: cioè dopo l’introduzione legislativa
del divieto.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1025
Sulla Velia (o alla sua base) la tradizione colloca anche la casa di Publicola che, non diversamente dal successivo locus sepulturae, le fonti, e soprattutto Asconio (in Pisonian., 13,
8 ss. Clark), rappresentano come una novità giustificata dai meriti insigni dell’onorato. È significativo che dalla stessa area provengano i frammenti di elogia dei Valerii Messallae (CIL,
12, Elogia, XL=CIL, 6, 3826 e 31618), scoperti nei pressi della Basilica di Massenzio, quindi
proprio sulla Velia. L’ipotesi che si possa trattare di tituli apposti a un monumento funerario,
enunciata da Federica Fontana141, mi pare da escludere proprio perché un sepolcro, in quel
luogo e nella tarda Repubblica, non poteva esistere. E allora si potrebbe pensare, come propone Jean-Claude Richard, a un monumento commemorativo della gens Valeria sulla collina da
sempre collegata alle memorie gentilizie142.
Tuttavia sorge spontanea la domanda se il luogo di sepoltura dei Valerii, situato anch’esso
ai piedi della Velia, come ricordano sia Dionisio («uJp∆ Oujelivan»), sia Plutarco («ejnto;" a{steo"
para; th;n kaloumevnhn Oujelivan»), non possa essere più antico di Publicola. I Valerii sono una
delle gentes maiores che, nonostante la dichiarata provenienza sabina, sarebbe giunta a Roma
con Tito Tazio, agli albori stessi dell’urbs143; Plutarco fornisce anche la presunta versione originaria del nomen: Oujevleso", che sarebbe traslitterazione greca di un latino *Velesus144. La
suggestione di associare il luogo di sepoltura a quello di abitazione è forte. Avremmo quindi
un caso esemplare di collegamento topografico tra casa dei vivi e casa dei morti, ossia un emblema anche visivo del prestigio gentilizio, entro la città ormai formata in tutte le sue articolazioni giuridiche e spaziali, anzi vicino al suo centro politico e religioso, il Foro e la Regia,
agli inizi del V secolo a.C., un’età che vede lo stanziarsi nel territorio romano di altre gentes,
come quella dei Claudii, anche ai quali viene concesso dallo stato un luogo di sepoltura presso
il Campidoglio145. E il discorso non cambierebbe, anzi si farebbe anche più stringente, se fosse
vera l’ipotesi, cautamente avanzata da Coarelli, di identificare nella domus dei Valeri la casa arcaica, scoperta da Giacomo Boni, sovrappostasi al sepolcreto adiacente al tempio di Antonino
e Faustina146.
141
FONTANA 1999, p. 301.
RICHARD 1994, p. 420.
143
Val. Max., 2, 4, 5, ne localizza la residenza
originaria «in villa sua propter vicum Sabinae regionis
Eretum».
144
Più volte: Public., 1; Numa, 5, 2. Zosim., 2, 1-3
lo chiama Oujalevsio", ossia *Valesius, che si accorda
perfettamente con la versione del nome gentilizio nota
dal lapis Satricanus che, com’è noto, è al genitivo Popliosio Valesiosio, ossia Publii Valesii. La versione del
nome tramandata da Plutarco, pertanto, se non è pura
invenzione dello storico greco (che non credo), deve
risalire ad uno strato linguistico ancora più antico della
seconda metà del VI secolo a.C. Mi pare significativa,
anche se, per quanto ne so, mai evidenziata, la coincidenza del tema Vel- della gens con quello del mons
che in séguito la accoglierà, la Velia, con la comunità
albense dei Velienses che sicuramente lo abitava (Plin.,
N. H., 3, 69), e col nome della curia probabilmente ivi
142
stanziata, la Velitia. Mi pare stimolante uno spunto di
PALOMBI 1997, p. 26, nota 65, circa un originario popolamento sabino della Velia, indiziato dall’identità del
suo nome con quello che, a dire di Dionisio di Alicarnasso (1, 20), gli Aborigeni avrebbero donato ai Pelasgi
presso Reate: una notizia forse mutuata da Varrone.
Il collegamento onomastico del monte con la gens,
che ovviamente non va interpretato come derivazione
dell’uno dall’altra, potrebbe essere un indizio a favore
dell’originaria «sabinità» della Velia.
145
Suet., Tib., 1: «locumque sibi ad sepulturam
sub Capitolio publice accepit».
146
COARELLI 1983, pp. 81 ss., che ipotizza cautamente un collegamento tra questa domus ed almeno
alcune delle tombe di bambini del sepolcreto ad essa
sottostante. PALOMBI 1997, p. 73, nota 13, non accoglie
l’ipotesi in quanto, a suo avviso, la casa dei Valeri dovrebbe trovarsi in un luogo diverso da lui identificato,
grazie a un accenno di Livio che la pone «in infimo cli-
1026
M. Fiorentini
Sc. Ant.
Tuttavia i Romani erano consapevoli che la norma decemvirale non aveva risolto una
volta per tutte il problema delle sepolture urbane. Vi sono fonti che alludono a provvedimenti
reiterativi del divieto. Il più importante è un passo di Servio (ad Aen., 11, 206): «‘finitimos
tollunt in agros’ qui enim e longinquo venerant, referri non poterant. ‘urbique remittunt’ deest
‘unicuique’. et meminit antiquae consuetudinis: nam ante etiam in civitatibus sepeliebantur,
quod postea D u e l l i o c o n s u l e s e n a t u s p r o h i b u i t e t l e g e c a v i t, n e q u i s i n u r b e
s e p e l i r e t u r».
Il testo di Servio è stato raramente esaminato147: assente dalla raccolta delle leges publicae
di Rotondi, nonostante la precisa menzione di una lex, la dottrina, dando credito a Cicerone
secondo cui il divieto era contenuto nelle XII Tavole, lo ha generalmente svalutato148. Eppure
la precisione del dato cronologico ci dovrebbe far pensare che Servio leggesse da qualche parte
che al tempo del console C. Duilio, il vincitore della battaglia navale di Lipari contro i Cartaginesi nel 260 a.C., il senato avrebbe preso una decisione rafforzata in una lex (che non può
significare altro che una legge comiziale), «ne quis in urbe sepeliretur».
Con una prospettiva esattamente rovesciata, una parte minoritaria della dottrina se ne
è servita per negare credibilità alla norma decemvirale, interpretata come anticipazione del
provvedimento citato da Servio149. Da ultimo questa lettura negativa è stata avanzata da Angela
Romano in un saggio del 1981. La ragione ne è vista dall’A. nella presunta non corrispondenza
del divieto di seppellire alle condizioni urbane del V secolo a.C.; in particolare nello scarso
pericolo che i roghi di combustione dei cadaveri avrebbero costituito per un abitato ancora
non eccessivamente denso. La norma sarebbe stata al contrario giustificata proprio a partire
dall’età mediorepubblicana, «un contesto sociale molto più evoluto ed articolato», alla quale
l’A. ascrive il divieto.
Va indubbiamente riconosciuto ad Angela Romano il merito di avere riportato l’attenzione della critica sulla testimonianza di Servio. Le motivazioni presentate dall’A. a supporto del
suo punto di vista non appaiono tuttavia condivisibili, oltretutto inserite come sono in un contesto di generale svalutazione dell’autenticità delle norme della Tab. X che appare infondato. Il
punto più criticabile del saggio di Romano è il tentativo di dimostrare l’incompatibilità di Tab.
X, 8, sul divieto di accompagnare il defunto con oro ed argento, con le condizioni economiche
vo» (2, 7, 12), con la parte bassa della cd. «scorciatoia
per le Carinae», quindi non sulla pendice della Velia
affacciata sul Foro; localizzazione che farebbe venir
meno il rapporto tra domus e sepolcro gentilizio, dato
che le fonti collocano quest’ultimo sotto la Velia, ma
al Foro.
147
ANDREUSSI 1999, p. 100, ricorda molte riprese del divieto, di Adriano, documentata da Ulpiano
(25 ad ed., D. 47.12.3.5), di Antonino Pio (SHA, Pius
12.3), dei Severi (Paul. Sent., 1, 21, 2-3: «Corpus in civitatem inferri non licet, ne funestentur sacra civitatis:
et qui contra ea fecerit, extra ordinem punitur. 3. Intra
muros civitatis corpus sepulturae dari non potest vel
ustrina fieri») e di Diocleziano (C. 3.44.12) ma non la
fonte di Servio. L’A. ha probabilmente tratto l’elenco da PALMA 1990, pp. 12 ss., che però è più completo, ricordando anche lex coloniae Genetivae Iuliae
(LXXIII=CIL, 12, 594), omessa da Andreussi. Allo
stesso modo anche VALVO 1990, pur in uno studio
specificamente dedicato alle sepolture in urbe, non ne
fa cenno.
148
Come fece DE FRANCISCI 1913, p. 34, per il
quale non si sarebbe potuto ricavare granché da un
autore non esperto di diritto come Servio.
149
Così già LAMBERT 1902; e ora ROMANO 1981,
pp. 7 ss., le cui conclusioni mi sembrano da respingere.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1027
dell’età arcaica: «Neve aurum addito, at cui dentes iuncti escunt, ast im cum illo sepeliet uretve,
se fraude esto». L’A. attribuisce il lusso funerario vietato dalla norma non all’età arcaica ma a
quella mediorepubblicana, ormai imbevuta di modelli greci150. Ancora più inverosimilmente
Romano collega le norme limitative del lusso funerario alle leggi suntuarie del II secolo. Il rilievo è identico a quello proposto da Lambert151. All’aprirsi del XX secolo una posizione come
questa poteva essere giustificata dalla poca o nessuna conoscenza della civiltà latina arcaica, ricostruita solo sulla base di supposizioni, di un evoluzionismo un po’ troppo meccanico che vedeva tutte le società antiche sottoposte a un processo di crescita lineare e costante dal primitivo
all’evoluto, e senza il supporto di prove materiali, tanto da prestar fede a testi di Cicerone (de
leg., 2, 60 ) e di Livio (34, 4, 9) che, nel lodare la semplicità dei costumi antichi, non descrivono
come era la società arcaica ma come non era la loro. Ma un punto di vista simile non può più
essere difeso dopo le spettacolari scoperte delle necropoli orientalizzanti ad Osteria dell’Osa,
alla Rustica, a Decima, alla Laurentina e in molti altri centri latini, effettuate a partire dagli anni
’70 del secolo scorso. In particolare non pare che Romano conosca il fondamentale contributo
di Giovanni Colonna152 che, al di là della difficoltà di collegare la norma decemvirale al milieu
culturale del VI secolo a.C. piuttosto che a quello assai più impoverito del V, ha dimostrato
come le tombe ricchissime del VII secolo lascino quasi repentinamente il posto, nel corso del
VI, a sepolcri quasi del tutto privi di corredo, ma non per questo da reputare poveri (le urne di
marmo greco impiegate come contenitore smentiscono questa visione). L’assenza di corredo è
quindi letta come mutamento delle usanze funerarie, a sua volta ricondotto ad un’istanza suntuaria che sarebbe ben più antica del decemvirato.
Più in generale è l’impostazione complessiva del contributo di Romano a non essere condivisibile, imperniato com’è su una valutazione evoluzionista della società romana che, partendo da
origini modeste conservatesi sostanzialmente immutate fino all’età mediorepubblicana, giunge
solo nel III secolo ad assaporare il gusto dell’opulenza grazie agli apporti del mondo ellenistico.
A parte la fiducia accordata a un testo di Servio a preferenza di una testimonianza di Cicerone
che, conoscendo molto bene le XII Tavole, sapeva quali norme provenissero dalla giurisprudenza
pontificale, quali dalla legislazione decemvirale e quali da una legge che, se avesse introdotto per
la prima volta il divieto, non avrebbe potuto essergli ignota, la motivazione che ha indotto la studiosa napoletana a negare credibilità all’origine decemvirale della norma di Tab. X, 1, «alla luce
di considerazioni d’ordine pratico», ruota tutta sull’implausibilità della norma, letta in funzione
anti-incendio. In realtà la norma non aveva sicuramente questa funzione, rispondendo piuttosto
alla necessità, di natura prettamente rituale, di osservare una tassativa separazione dello spazio
150
Romano considera assurda la norma che
consente di conservare al cadavere gli eventuali denti
d’oro: ma che la pratica delle protesi auree fosse in uso
è dimostrato proprio dalle tombe: BAGGIERI 1998, pp.
321 ss. data il cranio da Satrico tra il VII e il VI secolo,
quindi proprio in età monarchica.
151
LAMBERT 1902.
152
COLONNA 1977B, pp. 132 ss. TOHER 1986, pp.
301 ss., non condivide l’interpretazione della normati-
va contenuta in Tab. X come «consolidazione» di una
regola di tipo consuetudinario più antica di almeno un
secolo. Ma i suoi argomenti, in parte formatisi su un
esame comparativistico con la legislazione suntuaria
greca, non mi appaiono sempre convincenti. ALBANESE
1998, pp. 397 ss., prospetta proprio la finalità di limitazione delle spese e soprattutto della habrosýne, su
cui AMPOLO 1972, pp. 472 ss.
1028
M. Fiorentini
Sc. Ant.
inaugurato entro il pomerio-urbs (che in origine coincidono) da quello, per sua natura contaminante, destinato alla morte153. Un rapporto che, per quanto impallidito, è presente ancora in un
passo delle Pauli Sententiae, testo giuridico la cui prima stesura è sicuramente databile agli anni
tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C. (1, 21, 2-3): «Corpus in civitatem inferri non licet, ne
funestentur sacra civitatis: et qui contra ea fecerit, extra ordinem punitur. 3. Intra muros civitatis
corpus sepulturae dari non potest vel ustrina fieri»154. Il testo non collega il divieto di sepoltura
con lo spazio inaugurato dell’Urbs, ma comunque con la necessità di evitare di funestare il culto
pubblico cittadino, corrompendolo col contatto con la morte. L’antitesi tra spazio sacro della
civitas e carica contaminante della morte è espressa recisamente.
Con quanto detto finora sul rapporto di totale incompatibilità tra spazio della città e spazio
della morte, si può dire che il divieto di seppellimento entro il pomerio non solo non sia posteriore alle XII Tavole, ma sia certamente addirittura anteriore al V secolo a.C. e coessenziale con
la stessa fondazione dell’Urbs, in quanto direttamente conseguente alla natura inaugurata dello
spazio urbico. La norma decemvirale non risponde a esigenze pratiche ma esclusivamente rituali,
ormai incomprensibili agli stessi Romani colti dell’età tardorepubblicana, come appare evidente
dal parere espresso in modo così esitante da Cicerone («credo vel propter ignis periculum»)155.
Per questo la scansione temporale proposta da Carmine Ampolo nel 1988, secondo cui
solo nel VII secolo a.C. si può avere una vera città, non mi pare del tutto aderente a quanto prospettano le fonti. Ampolo esclude che lo spostamento del sepolcreto del Foro, trasferito nelle aree marginali (soprattutto all’Esquilino), debba essere interpretato come liberazione dello
spazio urbico dal contatto con la morte, e perciò fosse finalizzato alla «creazione di un centro
politico-religioso»156, dal momento che le aree così guadagnate furono occupate da case private, capanne accanto alle quali erano situate sepolture dei bambini. L’argomento mi pare fallace
poiché lo spostamento della necropoli non ha una semplice funzione di razionalizzazione dello
spazio urbano, ma proprio quello di separare lo spazio inaugurato dallo spazio dell’impurità
proprio della morte, come affermato molto bene da Magdelain157. Pertanto fondazione della
città, pomerio ed espulsione dei sepolcreti dalla città devono essere collegati tra loro. E torniamo a Servio Onorato.
Nella divergenza tra la norma delle XII Tavole e la legge del 260 a.C. attestata da Servio, la
sola alternativa possibile non è quella proposta da Angela Romano, e neanche quella pur ingegnosamente prospettata da Michael Crawford, secondo cui Servio avrebbe fatto confusione tra
il C. Duellius console del 260 e il K. Duilius decemviro158. Ma, a parte la considerazione che
153
Sul tema dello spazio inaugurato qualche breve rilievo nel paragrafo seguente.
154
CTh., 1, 4, 2 afferma che nelle controversie
la citazione delle Pauli Sententiae è sempre ammessa.
SEEK 1919, p. 178, la data al 27 settembre 328, sicuro
terminus ante quem per la composizione dell’opera.
Su P. S., 1, 21, 2-3, LICANDRO 1991, p. 213 nota 30, anche in relazione a Serv., Ad Aen., 11, 206.
155
Pertanto non mi sento di condividere neanche
l’affermazione che ROMANO 1981, p. 12, avanza senza
motivazione, secondo cui «Nulla d’altra parte induce
a ritenere che tale testimonianza (scil. il passo di Servio
sulla legge del 260 a.C.) si riferisca a un secondo intervento dopo quello decemvirale». Tanto più che, nel
corso del saggio, ella tratta della «necessità di ribadire
il divieto nelle età successive» (ibid., pp. 15 ss.).
156
AMPOLO 1988, p. 161.
157
MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 155 ss.
158
CRAWFORD 1996, II, p. 704, che parla di un testo
«garbled». La precisione del dettaglio della titolatura
di C. Duellius come console mi fa dubitare dell’ipotesi di Crawford. Inoltre è difficile che un autore così a
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1029
sarebbe strano che una norma decemvirale fosse ricordata sotto il nome di un singolo decemviro (e neanche il più prestigioso: perché K. Duilio e non Ap. Claudio?), invece che di tutto il
collegio, l’argomento su cui si basa Crawford per negare fiducia al testo serviano non pare irresistibile: «under the Republic the senate was not able lege cavere». A mio avviso, invece, Servio
adombra, con una formulazione scorretta ma comprensibile, considerato lo iato temporale
che lo separa dall’episodio di Duellio (sei secoli), un tipico modus operandi del senato in età
mediorepubblicana: emanazione di un senatoconsulto che dà incarico ai consoli di proporre al
popolo una legge comiziale. Farò solo un esempio comparativo, la procedura di emanazione
della lex Claudia de sociis descritta da Livio (41, 9, 9): «legem dein de sociis C. Claudius tulit
<ex> senatus consulto». Il senato emana un senatoconsulto in cui è contenuto l’ordine, impartito ai consoli, di proporre ai comizi una certa legge159.
E allora, se il rituale sostitutivo compiuto dai Valerii nel Foro parrebbe documentare
l’avvenuto spostamento dei sepolcri in ottemperanza al divieto disposto dalle XII Tavole, quale può essere stata la motivazione che spinse il senato a reiterare, nel 260 a.C., il divieto di
seppellire in Urbe? Non ho una risposta, ma penso che la soluzione debba essere ricercata
contestualizzando la legge nell’età in cui fu emanata, la prima metà del III secolo a.C., anzi,
gli anni in cui Roma era impegnata nella prima guerra contro Cartagine per il dominio sul
Mediterraneo. Münzer aveva congetturato che essa avesse risposto a finalità per così dire punitive nei confronti dei plebei Fabricii160. L’ipotesi non mi convince: che quindici anni dopo
la concessione di un tale onore verso un soggetto sì plebeo, ma anche vincitore di Pirro, il
senato potesse revocarlo apparentemente senza motivo, non mi pare plausibile; tanto più che
non pare che la lotta politica vedesse soccombere questa gens nella prima metà del III secolo.
È vero che Fabrizio non era andato esente da biasimo soprattutto per la vicenda della legione
campana a Reggio161, mentre l’apparente generalità della disposizione si puo’ spiegare con la
necessità di non violare la norma decemvirale che vietava di promulgare leggi dirette contro
un singolo cittadino («privilegia ne inroganto», su cui ci informa Cicerone [de leg., 3, 11=Tab.
IX, 1]); e peraltro, avendo presumibilmente le altre gentes già rimosso i sepolcri dal Foro, il
vero destinatario avrebbe potuto essere proprio Fabrizio. Ma preferisco orientarmi verso una
diversa spiegazione, una motivazione legata ai progetti di monumentalizzazione del Foro, in
parte realizzati proprio da Duilio, con l’erezione della colonna rostrata, ed ai lavori di risistesuo agio coi materiali arcaici come Servio potesse fare
confusione non solo fra decemviri e consoli, ma anche
tra un Kaeso e un Caius. Tuttavia anche DYCK 2003, p.
400, ritiene la testimonianza di Servio «garbled». L’A.
propone un’alternativa: «Otherwise it may be an instance of a new law reviving one that had fallen into
desuetude». Anche questa ipotesi della ripetizione di
una legge di cui si fosse perso il ricordo non mi sembra
appagante: a mio parere si tratta sì della reiterazione
della norma decemvirale, ma non in quanto fosse caduta in desuetudine, come cercherò di mostrare tra breve.
Del resto la desuetudine delle norme decemvirali risponde sempre ad un modello che prevalentemente fa
riferimento all’attività di interpretazione creatrice dei
pontefici, come dimostrò già WIEACKER 1986, ed ora
FRANCHINI 2005. Di tutta questa problematica niente
traspare nella frase, un po’ incidentale, di Dyck.
159
Sono numerosi gli esempi di una procedura
siffatta: ROTONDI 1912, p. 280. Anche per ROMANO
1981, p. 12, Servio si sarebbe riferito ad «una delibera
del senato trasfusa in una legge pubblica».
160
Secondo MÜNZER 1909, col. 1937, la legge citata da Servio avrebbe costituito un «nachträglicher
Protest des Senats gegen diese Auszeichnung eines Plebeiers». Il senato era già pieno di membri di famiglie
plebee. Non si vede perché avrebbe dovuto combattere uno dei suoi membri più encomiabili.
161
Sul punto indispensabile CASSOLA 1962.
1030
M. Fiorentini
Sc. Ant.
mazione del Comizio intrapresi forse da M. Valerio Massimo Messalla, datati da Coarelli agli
anni tra il 263 e il 252 a.C.162.
Ma forse è possibile fornire una proposta alternativa alle due ora enunciate. Non conosciamo il luogo preciso del sepolcro di Fabrizio: sappiamo solo che era situato nel Foro, il
luogo centrale della vita politica cittadina, in cui le ambizioni di primato dei singoli e delle
famiglie si confrontavano non solo con gli strumenti usuali della politica, ma anche con l’esibizione della potenza gentilizia. Può darsi allora che con la legge del 260 ricordata da Servio
si volesse precludere per il futuro l’uso funerario del Foro in funzione celebrativa di fasti non
solo gentilizi ma soprattutto personali. Le fonti descrivono i modi bizzarri e appariscenti con
cui Duilio sottolineava l’eccezionalità della posizione raggiunta con la vittoria sui Cartaginesi163. In altri termini, secondo questa ipotesi che prospetto come assolutamente congetturale,
nel 260 il senato avrebbe sollecitato la rogazione della legge per osteggiare non la memoria di
Fabrizio, ormai morto da quindici anni, ma le eventuali pretese di Duilio di essere sepolto nel
Foro, come avevano ottenuto altri viri triumphales prima di lui.
Qualunque sia la soluzione del problema sollevato dalla legge del 260, si può dire che
con essa si afferma definitivamente una concezione dello spazio cittadino come luogo dei vivi,
come territorio della politica dal quale la potenza gentilizia, esibita nelle forme ancora arcaiche
del rituale funerario e della deisidaimonía, viene per sempre espulsa per far posto ai simboli
collettivi dell’incipiente potere della Repubblica imperiale.
6. Urbs – Il testo decemvirale e quello di Servio (ad Aen., 11, 206) sono di enorme importanza anche riguardo al problema dell’estensione spaziale dell’Urbs. Quanto in proposito ha osservato di recente Carandini mi sembra pienamente sottoscrivibile: fino a Servio Tullio pomerio
e Urbs coincidono, per cui è del tutto naturale il divieto di seppellire in Urbe (anziché intra pomerium), perché lo spazio coperto dall’Urbs è lo stesso di quello inaugurato164. Già Magdelain
aveva richiamato, a questo proposito, una etimologia di urbs elaborata da Pomponio (lib. sing.
ench., D. 50, 16, 239, 6): urbs ab urbo appellata est: urbare est aratro definire: la definitio con
l’aratro consiste appunto nella delimitazione del pomerio165. La divaricazione inizierà quando
i due spazi non coincideranno più, ossia quando Servio Tullio erigerà la sua cinta muraria e al
contempo estenderà il pomerio a tutto lo spazio racchiuso da essa, tranne l’Aventino che, interno alle mura, resterà esterno al pomerio fino a Claudio, come afferma alla fine della Repubblica
M. Valerio Messalla Rufo, citato da Aulo Gellio (N. A., 13, 14, 5, 6=fr. 3 Hu.).
162
COARELLI 1985, p. 20: nel 263 Messalla celebra
un trionfo, nel 252 ricopre la censura e dunque, secondo Coarelli, potrebbe avere «dedicato come censore le
opere appaltate dopo il trionfo del 263». Quanto a C.
Duilio, Tac., Ann., 2, 43, attesta l’edificazione dell’aedes Iani nel Foro Olitorio su sua iniziativa.
163
Val. Max., 3, 6, 4: «C. autem Duellius, qui primus navalem triumphum ex Poenis retulit, quotienscumque <publice> epulatus erat, ad funalem cereum
praeeunte tibicine et fidicine a cena domum reverti
solitus est, insignem bellicae rei successum nocturna
celebratione testando».
164
CARANDINI 2006. Sulla perdurante efficacia
del divieto in età imperiale, STROSZECK 2001.
165
MAGDELAIN 1976-77=1990, pp. 158 ss., e nota
18. Non mi convince, invece, lo scetticismo del Maestro francese riguardo al pomerio palatino: gli indizi
sulla sua effettiva esistenza sono più che consistenti;
lo stesso testo di Tacito (Ann., 12, 24), così maltrattato dalla critica (ad es. da MAGDELAIN 1976-77=1990,
pp. 161 ss.) è coerente in sé: COARELLI 1983, pp. 262
ss.; CARANDINI 2006, pp. 235 ss. Il rapporto tra urbs
e urvus è espresso anche da Varrone (L. L., 5, 143):
CATALANO 1978, pp. 440 ss.
14, 2007-2008
Culti gentilizi, culti degli antenati
1031
La determinazione dell’estensione spaziale dell’Urbs comporta però una complicazione,
costituita da un decretum pontificale di età ignota riportato da Cicerone (de leg., 2, 58): «Sed
<ut> in urbe sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum collegio, non esse ius in loco publico
fieri sepulcrum. Nostis extra portam Collinam aedem Honoris. Aram in eo loco fuisse memoriae
proditum est. Ad eam cum lamina esset inventa, et in ea scriptum [lamina], ‘Honoris’, ea causa
fuit <ut> aedis haec dedicare<tur>. Sed quom multa in eo loco sepulcra fuissent, exarata sunt.
Statuit enim collegium locum publicum non potuisse privata religione
o b l i g a r i».
Il testo è importante perché, ancora una volta, permette di osservare, in controluce, il
collegio pontificale nella sua attività di organo risolutore di situazioni controverse, con alcuni
rilevanti risultati interpretativi166. L’intervento fu motivato dal rinvenimento di una lamina di
bronzo con inciso il nome di una divinità, Honos, nell’area di un sepolcreto situato all’esterno
della porta Collina. Cicerone attesta che, pur in assenza di edifici sacri, permaneva il ricordo
che nella zona era esistita un’ara («aram in eo loco fuisse memoriae proditum est»). A questo
punto sorge il problema del conflitto tra locus sacer e necropoli, risolto dal collegio ordinando
la demolizione dei sepolcri. L’ordine è motivato dal decreto secondo cui «locum publicum non
potuisse privata religione obligari», da cui deriva «non esse ius in loco publico fieri sepulcrum»167.
Due sono i punti rilevanti (e problematici) per il nostro discorso.
Il primo concerne il collegamento tra l’ordine di demolizione del sepolcreto e la norma
decemvirale. In effetti, Cicerone impernia il decretum pontificale su Tab. X, 1: «così come la
legge (scil. delle XII Tavole) vieta il seppellimento in urbe, così il collegio pontificale decretò».
Il problema è determinato dal valore dato dal collegio alla parola urbs. Come afferma esplicitamente l’oratore, l’area in cui si trovavano i sepolcri era situata extra portam Collinam: quindi,
al di fuori delle mura repubblicane. Perché giustificare il decreto con una norma che aveva valore intra urbem, ma si potrebbe dire in senso ancora più restrittivo, intra pomerium? Non so
rispondere con sicurezza a questa domanda, che non mi risulta sia mai stata posta in relazione
a questa testimonianza dell’attività dei pontefici; ma mi parrebbe di poter cautamente dire che
anche in questo caso ci troviamo di fronte a una di quelle decisioni in cui il collegio ha mani166
Eppure, nonostante la sua indubbia rilevanza
anche nell’ambito del diritto privato, questo decretum pontificale non ha attirato l’attenzione di autori
che si sono cimentati proprio con l’attività decretale
dei pontefici: mi riferisco in particolare a CRAWFORD
1989, pp. 93 ss., che lo discute ma in un altro contesto;
mentre avrebbe potuto essere assunto come terminus
post quem per il processo che condurrà, già alla fine
della Repubblica, ad enucleare le varie categorie di res;
in particolare non viene evidenziato quello che a mio
parere è l’elemento più rilevante del decretum, ossia
che un’area riservata ad una divinità non viene dai
pontefici definita locus sacer bensì locus publicus; e a
RANDAZZO 2004.
167
Fuorviante DE VISSCHER 1963, p. 361, secondo cui la consultazione dei pontefici fu occasionata
dalla scoperta «des vestiges d’un temple dans la zone
cimétériale de l’Esquilin (sic)», da cui l’A. inferiva
che l’intervento dei pontefici era richiesto quando
«surgit un conflit entre le caractère religieux qui, par
nature, appartient à tout tombeau, et le caractère public du terrain qu’il occupe». A parte il lapsus sulla
localizzazione del sepolcreto (l’Esquilino invece del
Quirinale), e l’inesattezza delle «vestigia del tempio»
(non di resti dell’edificio si trattava, ma di una lamina
di bronzo da cui i pontefici dedussero la verità del
ricordo dell’antica esistenza del luogo di culto, che
evidentemente era però scomparso da lungo tempo),
non è rilevata la discrasia tra la qualità di locus sacer
che l’area avrebbe dovuto rivestire e la definizione di
locus publicus ad essa attribuita dalla pronuncia pontificale.
1032
M. Fiorentini
Sc. Ant.
polato la norma per gli scopi che si era prefisso, ossia l’edificazione del tempio, ottenuta con
una interpretazione creativa e libera, e francamente un po’ spregiudicata della legge. Ma forse è
possibile un’altra spiegazione che non coinvolga l’onorabilità interpretativa dei pontefici.
A ben vedere, l’incardinamento della decisione pontificale nella norma decemvirale non
è contenuto nel decreto ma è opera di Cicerone. Può darsi quindi che i pontefici avessero
semplicemente deciso che, essendo uscita dal terreno, in forma di lamina iscritta, la prova che
l’area era stata un tempo consacrata ad Honos, conformemente a quanto era tramandato dalla
memoria pubblica, i sepolcri dovessero essere rimossi. Per qualche motivo che non sono in
grado di afferrare, Cicerone avrebbe collegato il decreto al divieto di seppellimento in Urbe. E
questa osservazione ci introduce al secondo problema posto dal decreto pontificale, che attiene
alla qualificazione del luogo.
Noi, con le categorie elaborate dalla scienza giuridica classica in materia di classificazione
delle res, ci aspetteremmo che un luogo in cui sorge un edificio sacro fosse definito locus sacer.
Invece i pontefici non così lo definiscono, ma publicus. Una qualificazione che appare abbastanza sorprendente, e che non mi pare giustificabile con una presunta seriorità dell’enucleazione della nozione di locus sacer rispetto alla pronuncia pontificale, benché non sia ben nota la
data della dedicazione della aedes Honoris extra portam Collinam, che tuttavia viene collocata
da Coarelli nel corso del III secolo a.C.168.
Il nucleo della pronuncia pontificale è dunque costituito dalla massima «locum publicum
non potuisse privata religione obligari». Sulla qualificazione del locus mi soffermerò più tardi.
Per ora ritengo utile confrontare la massima pontificale con i più tardi materiali giurisprudenziali relativi alle res sacrae. Mi riferisco in particolare ad un testo di Marciano, giurista attivo
nella tarda età severiana, contenuto in D. 1, 8, 6, 3. Mettiamo i due testi a confronto:
Cic., de leg., 2, 58: «Sed <ut> in urbe
sepeliri lex vetat, sic decretum a pontificum
collegio, non esse ius in loco publico fieri
sepulcrum… Statuit enim collegium locum
publicum non potuisse privata religione
obligari».
168
SCICHILONE 1961, p. 54; RICHARDSON JR. 1992,
s.v. Honos, Aedes, pp. 189 ss. (ma riporta in modo
errato l’iscrizione menzionata da Cicerone, come
Domina Honoris, secondo la lettura di Hülsen, che
riteneva il secondo lamina, presente nel testo, corruzione di Domina; ma la lettura esatta fu accertata
da Vahlen); PALOMBI 1996, p. 30 s. Com’è noto il terminus ante quem della aedes Honoris extra portam
Collinam è fornito da CIL, 12, 31=6, 3692, Bicoleio
V(ibi) l(ibertus) Honore / donom dedet mereto, variamente datata: la datazione più alta è stata proposta,
proprio al III secolo a.C., da COARELLI 1972, p. 56,
Marcian., 3 inst., D. 1, 8, 6, 3: «Sacrae
autem res sunt hae, quae publice consecratae
sunt, non private: si quis ergo privatim sibi
sacrum constituerit, sacrum non est, sed
profanum. semel autem aede sacra facta
etiam diruto aedificio locus sacer manet».
nota 51. PLATNER - ASHBY 1929 la definirono solo «archaic inscription» senza ulteriori approfondimenti, ma
anch’essi datarono l’edificazione del tempio nel corso
del III secolo a.C. Un problema che lascio agli archeologi è l’armonizzazione di questa testimonianza letteraria con le risultanze di un recente scavo effettuato
in Via Goito, che ha restituito tre tombe di età repubblicana obliterate, secondo gli scavatori, nel corso del
II secolo a.C. Il luogo di queste tombe è molto vicino
a quello più o meno individuabile dal passo ciceroniano. Sullo scavo cfr. la relazione preliminare di MENGHI
et al. 2006, pp. 1 ss.
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Culti gentilizi, culti degli antenati
1033
Marciano, discutendo della categoria delle res sacrae, enuncia due regole:
a) appartiene alla categoria delle res sacrae solo quanto sia stato sottoposto ad un cerimoniale pubblico, identificato da Marciano nella consecratio169; quanto sia stato consacrato
privatamente non è res sacra;
b) il locus, una volta che sia stato consacrato, rimane tale anche se l’edificio sacro costruitovi sopra sia andato distrutto: «semel autem aede sacra facta etiam diruto aedificio locus sacer
manet».
È difficile sottrarsi all’analogia tra la regula iuris enunciata da Marciano e la situazione
che diede origine alla pronuncia pontificale ricordata da Cicerone (de leg., 2, 58). Se infatti
quest’ultima, esplicitamente, non si esprime sul rapporto tra il locus e la costruzione privata che
lo abbia in séguito occupato, la regola enunciata nel III secolo d.C. da Marciano la contiene necessariamente: uno spazio attribuito alla divinità non può mai più essere restituito ai rapporti
negoziali privati, a meno che il suo carattere di locus sacer non venga rimosso con opportune
cerimonie. Ciò implica che, se anche un privato occupasse l’area sacra, questa non potrebbe
divenire di sua proprietà con l’usucapione perché, come afferma Gaio, giurista di età antonina
(4 ad ed. provinc., D. 41, 3, 9): «Usucapionem recipiunt maxime res corporales, exceptis rebus
sacris, sanctis, publicis populi Romani et civitatium, item liberis hominibus». Le cose sottratte al
commercium privato non possono essere mai oggetto di usucapione.
La situazione dell’area immediatamente esterna alla porta Collina era leggermente diversa
perché, non sorgendovi attualmente alcun edificio sacro, era stata occupata da un altro genere
di cose sottratte al commercium, le sepolture (ossia res religiosae). Il collegio pontificale le racchiude in una qualifica particolare, quella della privata religio. Per i giuristi i luoghi attribuiti
alla privata religio dei sepolcri erano comunque, al pari delle res sacrae e di quelle sanctae, cose
extra commercium e anche extra patrimonium, sottoposte quindi allo stesso regime di sottrazione ai rapporti negoziali privati. I pontefici, invece, dovevano risolvere un problema diverso,
ossia a quale situazione attribuire priorità, tra le res religiosae e le sacrae: e risolsero il dilemma
costruendo una diversificazione tra la privata religio collegata ai sepolcri e la natura opposta
rivestita dall’area sacra. Credo che sia per questo motivo che quest’ultima viene definita «locus
publicus»: per sottolineare la differenziazione tra una destinazione comunque privata, quella
della privata religio afferente ai sepolcri ed alla celebrazione dei riti funerari, per loro natura
racchiusi nella sfera privata, in onore dei parenti defunti, e la destinazione pubblica, ossia rivolta alla collettività dei cives, propria di uno spazio dedicato a una divinità.
7. Conclusioni – Come abbiamo potuto vedere dalla rapida rassegna qui effettuata, a Roma
il culto gentilizio non si identifica mai col culto degli antenati: esso è sempre culto di divinità, a
volte del tutto peculiari a singole gentes (come il triens dei Servilii), talora uguali a quelle pubbliche, tanto che l’identità del culto si estende a quella del rito, come avviene per i Claudii, che sa169
Questa regola risponde ai profondi mutamenti procedurali intervenuti col Principato: in età
repubblicana la sola consecratio sarebbe stata insufficiente a fondare la natura di locus sacer, in quanto
era necessario un ulteriore atto, la dedicatio. I rapporti
tra queste due formalità solenni variarono nel tempo:
FIORENTINI 1988, pp. 327 ss., con discussione dei testi
fondamentali in materia, di Cicerone (de dom., 127) in
confronto a Livio (9, 46, 7); TATUM 1993.
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M. Fiorentini
Sc. Ant.
crificano a Saturno allo stesso modo dei sacerdoti pubblici, cioè capite aperto; ma si tratta sempre
di rituali propri, talora svolti in luoghi distinti e peculiari della gens (come forse vale per i Fabii al
Quirinale), talaltra in luoghi di culto aperti ad una molteplicità di gentes, come avviene nel sacellum Dianae del Celicolo nel I secolo a.C., su cui ci informa Cicerone (de har. resp., 32).
I culti funerari, invece, rimandano ad una diversa sfera: quella delle parentationes, delle
cerimonie annuali di celebrazione degli agnati defunti. Chiaramente esse hanno sempre avuto
lo scopo di onorare il defunto: addirittura si potrebbe risalire agli stessi albori della civiltà
latina, se fossero esatte le interpretazioni delle figurazioni presenti sulle pareti di alcune urne
a capanna villanoviane, che sembrano rappresentare personaggi che danzano in vario modo
intorno al defunto, o seduti al banchetto funebre170. Questi rituali non sono sacra gentilicia
ma privatae feriae, come risulta evidente dalle classificazioni tardorepubblicane che abbiamo
esaminato all’inizio: in quella probabilmente di Capitone confluita in Festo (publica sacra, 284
L.), i sacra gentilicia sono definiti sacra pro gentibus e non comprendono i riti funerari che, in
un altro lemma festino (privatae feriae, 282 L.), sono classificati tra le privatae feriae171. Sotto
questo aspetto la connotazione gentilizia del culto funerario si lascia cogliere solo riguardo
alla celebrazione del nomen che, come è noto, è uno degli elementi qualificanti la solidarietà
gentilizia, secondo la visuale, ormai pesantemente appannata, che della gens avevano gli esperti
tardorepubblicani172.
Le fonti sui culti e sui sepolcri gentilizi, che ho così cursoriamente citato, ci mostrano
una capillare occupazione del suolo da parte dei nuclei gentilizi. Molte delle manifestazioni
della vita gentilizia all’interno dell’urbe sono funzionali all’ostentazione della potenza gentilizia: penso alla descrizione polibiana del funerale aristocratico, ancora nel II secolo a.C., con
gli antenati che accompagnano il defunto al sepolcro, in persona dei familiari travisati con le
maschere funebri degli avi173: una glorificazione «tragica» della potenza gentilizia, secondo il
grande affresco tracciato da Santo Mazzarino nel suo Pensiero storico classico, ma anche una
trasposizione funeraria della celebrazione del trionfo, secondo la geniale interpretazione di
Angelo Brelich174. Ma questa è ormai la nobilitas patrizio-plebea nata dal compromesso del
367 a.C., i cui riti funerari Polibio finalizzava alla deisidaimonía suscitata da questi spettacoli
nella plebe, e non so quanto ci possa dire dei rituali funebri delle gentes arcaiche: forse l’analisi
dei sepolcreti e delle raffigurazioni sui cinerari ci può orientare più di quanto non facciano le
fonti scritte.
170
JANNOT 2002, pp. 3 ss. L’A. ipotizza che
queste immagini di danze rappresentassero rituali di
eroizzazione del defunto. Se ciò fosse vero, avremmo
già in età villanoviana l’immagine visiva di una prima
differenziazione sociale, non legata a disparità di rango ma di funzione all’interno del gruppo. Sulle «figure
sedute» delle urne villanoviane, MENICHETTI 1994, pp.
28 ss.; TORELLI 1996=1997.
171
Fest., publica sacra, 284 L.: «publica sacra,
quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro
montibus, pagis, curis, sacellis; at privata, quae pro sin-
gulis hominibus, familiis, gentibus fiunt». Fest., privatae feriae, 282 L.: «Privatae feriae vocantur sacrorum
propriorum, velut dies natales, operationis, denecales».
Su questi testi cfr. supra, pp. 994 ss.
172
Cfr. le due definizioni di Cicerone (Top., 29)
e di L. Cincio trasmessa da Festo (gentilis, 83 L.), esaminate supra, pp. 987 ss.
173
Del tutto condivisibile, sul punto AMPOLO
1980, pp. 186 ss.
174
Risp. MAZZARINO 1972; BRELICH 1938, pp. 189
ss.
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Culti gentilizi, culti degli antenati
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L’autonomia cultuale delle gentes in età arcaica e repubblicana non si scontra, ma si integra
nella struttura cittadina, della quale esse erano la spina dorsale; e il punto di mediazione tra le
due strutture è costituito dalle curie. Nella classificazione tardorepubblicana trasmessa da Festo e attribuita a Capitone (publica sacra, 284 L.) i culti delle curie sono qualificati sacra publica,
confermando la natura pubblica di questa partizione cittadina; ma i culti delle gentes, le quali
costituiscono l’ossatura (benché non l’unica componente) delle curie, sono esclusi dai culti
pubblici. Allora, sul piano del culto, i gentiles assumono una duplice fisionomia: come membri
delle curie partecipano ai riti comuni (Fornacalia e Fordicidia) che, essendo feriae conceptivae,
ogni curia celebra in una data particolare (e questo pare dimostrare l’originaria indipendenza
delle curie tra loro); in quanto membri delle gentes celebrano riti propri, che rimangono circoscritti e riservati ai cogentiles. Da questo punto di vista si può dire che il culto gentilizio sia un
aspetto particolare di quel processo di ascesa sociale che consente ad alcuni gruppi di differenziarsi dal resto della comunità curiale: il gruppo inizia a distanziarsi socialmente dai curiales,
con cui comunque continua a intrattenere i rapporti sociali e di culto: parallelamente a questo
processo di affermazione di rango avviene un processo di autonomizzazione del culto, che
rende ancora più riconoscibile il ruolo autonomo che la gens ha acquisito.
È con l’ampliamento dell’aristocrazia ad opera dei Tarquini prima, e poi con l’ingresso
della plebe nel centro del potere politico che la civitas cessa di essere la somma di solidarietà
gentilizie rappresentata dalle curie, per diventare qualcosa di più complesso, per la necessità
di mediare tra le gentes e le esigenze di soggetti privi della struttura gentilizia (plebeii gentem
non habent).
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ZSS: Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte.
SUMMARY
Sacra gentilicia are a main evidence of gentes’ originary autonomy within the civitas. An analysis of the
sources about several cults held by main gentes in Republican age confirms the internal charachter of the
gentilician cult, often strenghtened by myths about origins of the rituals going back to the oldest stage of
the roman religious tradition. Nevertheless any attempt to include funerary rites among the gentilician
cult should be refused, since they commemorate the defunct ancestors, and only the agnates, but don’t
purpose to ensure the union of the various families bearing the same nomen gentilicium. Informations
about gentilician burials should be compared with those about distinguished subjects of republican history buried inside the pomerium. Such analysis may help to solve open questions about the problems
of sacred urban space, relationships between pomerium and Urbs and the various ways of urban space
occupation.