Davide Bordini
Immagine e oggetto
La camera chiara di Roland Barthes e il
realismo fotografico
1
2
INDICE
INTRODUZIONE.................................................................. 7
CAPITOLO PRIMO
LA
ROLAND BARTHES: ESPOSIZIONE ED
ENUCLEAZIONE DEI TEMI PRINCIPALI.................................... 11
CAMERA CHIARA DI
1. Le considerazioni preliminari di Barthes..........................11
1.1 “La fotografia si sottrae”..............................................11
1.2 Il referente aderisce......................................................13
1.3 Fotografia e Morte....................................................... 17
2. Studium e punctum............................................................ 19
2.1 Lo studium................................................................... 20
2.2 L’immagine pungente.................................................. 23
3. Il realismo di Barthes........................................................ 28
3
3.1 Il noema della fotografia..............................................28
3.2 La fotografia come emanazione...................................29
4. Il Tempo dell’immagine fotografica..................................32
4.1 Fotografia e Morte alla luce delle considerazioni sul
nuovo punctum...................................................................33
4.2 Allucinazione e follia...................................................35
5. La fotografia del Giardino d’Inverno............................... 38
CAPITOLO SECONDO
BARTHES E IL REALISMO FOTOGRAFICO..........................41
1. Le premesse del discorso di Barthes................................. 41
1.1 Ancora sulla fotografia come allucinazione................ 42
1.2 Le premesse realiste di Barthes .................................. 46
2. La fotografia come medium trasparente...........................49
2.1 Fotografia: immagine e strumento...............................51
2.2 Vedere e vedere-attraverso-una-fotografia.................. 54
2.3 Trasparenza e rappresentazionalismo.......................... 58
2.4 Barthes e Walton.........................................................59
3. La teoria causalista dell’immagine fotografica................ 61
4
CAPITOLO TERZO
CONSIDERAZIONI CRITICHE................................................ 67
1. Ricapitolazione dei punti fondamentali della teoria realista
dell’immagine fotografica..................................................... 67
1.1 Genesi dell’immagine: causalismo.............................. 67
1.2 Percezione dell’immagine: trasparenza....................... 69
2. La genesi meccanica dell’immagine: dubbi e critiche...... 71
2.1 Il fotografo: una figura “pericolosa”............................71
2.2
Automatismo
della
riproduzione
e
ruolo
del
fotografo.............................................................................74
2.3 Il ruolo del fotografo nella genesi della fotografia...... 77
3. La percezione dell’immagine: dubbi e critiche................. 83
CONCLUSIONI..................................................................89
IMMAGINI....................................................................... 93
BIBLIOGRAFIA.................................................................99
5
6
INTRODUZIONE
“Nei confronti della fotografia ero colto da un desiderio ‘ontologico’:
volevo sapere ad ogni costo che cos’era ‘in sé’, attraverso quale
caratteristica essenziale essa si distingueva dalla comunità delle
immagini.”1 Con queste parole Roland Barthes, ne La camera chiara,
introduce la propria ricerca sul medium fotografico e sulla natura
dell’immagine fotografica. Sapere che cos’è “in sé”, che cosa
contraddistingue queste immagini così particolari, che fin dal loro
anno di nascita (il 18392) suscitarono meraviglia, scalpore e dibattito:
questo è ciò che motiva le intenzioni dell’autore. Un desiderio
ontologico, appunto, e in senso forte; una ricerca improntata
sull’immagine fotografica stessa.
Una tale urgenza può essere facilmente esplicitata con una breve e
preliminare ricognizione sulle domande che la fotografia medesima
pone. E’ un’immagine come tutte le altre? Pare di no, e allora che
1
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. Renzo Guideri,
Einaudi, Torino 1980 e 2003, p. 5.
2
In realtà la prima fotografia fu scattata da Daguerre nel 1838, tuttavia venne resa
pubblica l’anno successivo. Per questo motivo uso come data il 1839.
7
cos’ha di così particolare? Che cosa la differenzia da un quadro – se
qualcosa che la differenzia vi è?
E’ immagine ma, al tempo stesso, sembra superarne i limiti;
sembra porci di fronte la realtà stessa, in virtù di una “oggettività”
particolare che pare appartenerle per essenza; ma in forza di che cosa
reclama il diritto a una maggiore oggettività? Che cosa ci sbalordisce
tanto di fronte a una fotografia? E ancora: che cosa vediamo,
realmente, di fronte a una fotografia?
Lo stupore che, nel 1839, colpì i primi increduli spettatori delle
immagini di Daguerre non scompare del tutto neppure ai giorni nostri,
per quanto sia stato reso più lieve dall’abitudine. Noi stessi oggi, come
quelli in passato, ci sorprendiamo rapiti osservando una fotografia.
Uno stupore che lo stesso Barthes non riesce a nascondere, ad
esempio, di fronte alla fotografia del fratello di Napoleone. Scrive
infatti: “sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore.”3 Una
frase suggestiva, e indicativa di quale sia la potenza che la fotografia
può mettere in campo, e di quale ricezione lo spettatore ne abbia:
“vedo gli occhi che videro l’Imperatore”, gli occhi di suo fratello
Girolamo: essi sono qui presenti di fronte a me, ora. Ma le cose
stanno realmente così? Davvero è lecito affermare la presenza hic et
nunc di ciò che la fotografia ritrae? Questo è un problema complesso.
Esso coinvolge il rapporto tra immagine fotografica e referente. Ci
porta, però, anche ad interrogarci su che cosa si veda in
una
fotografia, su che tipo di percezione ne abbiamo e se sia legittimo dire
3
Ibidem.
8
che essa presenta delle sue proprie peculiarità. Insomma, si fa strada il
problema dello spettatore e del suo modo di porsi di fronte
all’immagine fotografica. Si pensi, inoltre, ad un uso molto
particolare, che della fotografia è tipico. A tutti è capitato di mostrare
ad altri un parente, un amico, un conoscente, i propri genitori tramite
una foto. “Ecco mia madre”, e si mostra l'immagine, come se questa
potesse sostituire la presenza della persona in questione; come se ci
fosse tra la persona e quel ritratto fotografico un rapporto di
interscambiabilità; come se la fotografia “facesse le veci visive” – mi
si passi l’espressione – di chi in quel momento è assente e non può
essere presentato di persona. Ebbene, ancora domande: che cosa fa sì
che ci sentiamo autorizzati a mostrare una foto invece delle persone
“in carne e ossa”? Di nuovo ci si interroga sul rapporto immagineoggetto. Bisognerà determinare la natura di tale relazione per far luce
sulla fotografia e comprendere che cosa la rende particolare o sui
generis – se una tale cosa vi è – e che cosa la accomuna alle altre
immagini – se qualcosa che la accomuna alle altre immagini vi è.
Insomma, per sapere che cos’è una fotografia bisogna anche capire in
quale relazione sta con il proprio referente.
E, tuttavia, in tutto questo non bisogna scordare che esiste un
soggetto che guarda la fotografia: che cosa vede? Come dirige il suo
sguardo su di essa? In ragione di cosa, per tornare all’esempio di
prima, accetta l’interscambiabilità di fotografia e persona? Anche da
queste considerazioni si deve passare per tentare di dare una
caratterizzazione dell’immagine fotografica. Infatti come potrebbe
9
esserci una fotografia senza nessuno che la guarda, che la osserva,
qualcuno che decide di puntare su di essa il proprio sguardo e di farlo
in un certo modo, per un certo fine, a partire da certi presupposti? In
breve: a chi è diretta la fotografia se non allo sguardo di uno spettatore
per cui e a cui essa si manifesta, a cui essa si dà e si rende visibile?
Oggetto di questo lavoro sarà sviluppare questi interrogativi e
mostrare le diverse soluzioni possibili. In particolare, verrà affrontata
la
risposta
realista
al
problema
dell’immagine
fotografica.
Fondamentale, per iniziare, sarà il saggio già citato di Roland Barthes:
La camera chiara. Avendone illustrato i nodi fondamentali, si
evidenzieranno le connessioni che esso presenta con il realismo
fotografico per poi trarre un bilancio critico, valutando, infine, se le
risposte che Barthes e i realisti forniscono siano sempre accettabili, o
piuttosto presentino dei limiti in alcuni punti specifici e debbano
quindi essere integrate o corrette.
10
CAPITOLO PRIMO
LA
CAMERA CHIARA DI
ROLAND BARTHES:
ESPOSIZIONE
ED ENUCLEAZIONE DEI TEMI PRINCIPALI
1. Le considerazioni preliminari di Barthes
Le pagine iniziali de La camera chiara sembrano prive di un unico
filo conduttore; la trattazione appare guidata più dall’impressionismo
che da una serrata logica argomentativa, e le considerazioni sono più
simili ad annotazioni – del resto non bisogna dimenticare il sottotitolo
del libro: Nota sulla fotografia.
1.1 “La fotografia si sottrae”
Barthes stesso è forse spiazzato dalla natura dell’oggetto di cui si sta
occupando. In questo senso è significativa ed emblematica la frase che
troviamo nella prime righe della annotazione 2: “la Fotografia si
sottrae”.4 Si sottrae nel senso che sembra quasi impossibile applicare
le consuete categorie d’analisi di fronte ad un’immagine fotografica,
4
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. cit., p. 6.
11
la quale si comporta da “anguilla”: sfugge, cioè, alle classificazioni
canoniche quali quelle empiriche (Professionisti/Dilettanti); quelle
retoriche
(Paesaggi/Oggetti/Ritratti/Nudi);
quelle
estetiche
(Realismo/Pitturalismo). Queste sembrano tutte distinzioni che si
fermano alla superficie. Forse non è incasellando la fotografia in uno o
più di questi contenitori che riusciremo a coglierne l’essenza. Al più
potremo scriverne la storia, oppure descrivere quale sia il rapporto tra
medium fotografico e società (facendone quindi una sociologia), o
ancora darne una caratterizzazione estetica. Ma quanto ci interessa
non è niente di tutto questo: ciò che vogliamo è un’indagine teoretica
sull’immagine fotografica; vogliamo indagarne l’essenza, trovare ciò
che resta al fondo di qualunque mutamento. Vogliamo cogliere la
fotografia per ciò che essa è.
Una tale attitudine a eludere qualsiasi classificazione deve essere
giustificata in qualche modo: da cosa può dipendere questo caos?
Leggiamo direttamente Barthes: “in primo luogo, scoprii questo. Ciò
che la Fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta:
essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi
esistenzialmente […] essa è il Particolare assoluto, la Contingenza
suprema, spenta e ottusa, il Tale (la tale foto e non la Foto), in breve,
la Tyche, l’Occasione, l’Incontro, il Reale.”5
Ecco il motivo per cui la fotografia sfugge alla classificazione: essa è
il particolare in quanto riproduzione di questo momento, di questa
5
Ibidem.
12
persona, di questo oggetto. Dunque, sembra più appropriato parlare di
fotografie piuttosto che della Fotografia.
1.2 Il referente aderisce
Viene alla luce, già da queste prime parole di Barthes, qualche
elemento del suo modo d’intendere il rapporto tra immagine
fotografica e oggetto: un rapporto che si caratterizza a parte obiecti.
Una foto è legata al proprio referente tanto che, per esistere, non può
farne a meno. Il legame tra i due è così saldo e intimo che ogni singola
immagine fotografica non è tanto esempio della Fotografia, quanto
riproduzione di questo oggetto – se non, addirittura, il farsi presente
hic et nunc dell’oggetto stesso. Se volessimo esprimerci secondo
Aristotele, potremmo dire che una fotografia è una sostanza
individuale (assolutamente individuale), un tovde ti, ed è tale in virtù
dell’oggetto che raffigura: questo è la sua forma, senza sarebbe vuota.
Ecco ciò che fa della fotografia contingenza, ciò che la rende un
incontro tra macchina e cosa: essa non sarebbe nulla senza l’oggetto
che mostra, che “addita”.6 Ma egli non si limita a sottolineare
qualcosa, che sembra piuttosto evidente, come la mera necessità che
esista un oggetto da riprodurre perché vi sia una fotografia. Egli si
spinge oltre: carica il discorso puntando sull’aderenza di foto e
referente. Non c’è distacco tra i due elementi, l’immagine fotografica
è la loro unità indissolubile: un sinolo – per citare di nuovo Aristotele.
6
Alla fotografia, secondo Barthes, appartiene un linguaggio deittico, dice infatti: “non
è altro che un canto alternato di ‘Guardi’, ‘Guarda’, ‘Ecco qua’ […] Ecco perché,
quanto più è lecito parlare di una foto, tanto più mi sembrava improbabile parlare
della Fotografia.”(Ivi, p. 7.)
13
“Si direbbe che la fotografia porti sempre il suo referente con sé, tutti
e due contrassegnati dalla medesima immobilità amorosa e funebre, in
seno al movimento; essi sono appiccicati l’uno all’altra.”7 Barthes
pone una sorta di condizionale: se c’è una fotografia necessariamente
c’è il referente – e questo pensiero, come si vedrà, leggermente
modificato, sarà fondamentale.
E’, ora, il caso di chiedersi che cosa si veda guardando
un’immagine fotografica. Ebbene, secondo Barthes, si vede non la
fotografia, bensì l’oggetto. E’ come se quella scomparisse nel
momento in cui dà a vedere ciò che raffigura; è come se si facesse da
parte: “una foto è sempre invisibile.”8
Tutto ciò lascia molto ad intendere su quale sia la posizione del
semiologo francese. Egli sembra davvero affermare il fatto che la
fotografia presentifichi l’oggetto che raffigura. Nulla è ancora
esplicito, e quindi bisogna andare cauti, ma la sensazione che si
insinua in noi, a questo punto, è che l’idea dell’autore sia che una
fotografia (o comunque certe fotografie) vada oltre la mera
riproduzione. Molti elementi concorrono a supportare questa idea e, in
particolare, il fatto che egli punti così decisamente sulla invisibilità
della fotografia a favore della piena visibilità del referente; ma anche
accentuare in maniera così forte il ruolo chiave dell’oggetto spinge in
quella direzione: una direzione che, fin da queste prime battute,
appare, al di là di tutto, realista, per quanto una esplicita presa di
posizione nel senso del realismo non sia ancora avvenuta – ma non
7
8
Ibidem.
Ivi, p. 8.
14
tarderà troppo a venire. L’affermazione per cui “la fotografia è il
Reale” non lascia molto spazio ad equivoci. Si tratta, però, di capire in
che senso è “reale”, che cosa nell’immagine fotografica conferisce una
tale virtù.
Sicuramente il procedimento chimico-fisico, che sta alla base della
produzione delle fotografie, è un elemento che non può essere
trascurato: la macchina fotografica è la causa efficiente dell’immagine
fotografica. Non possiamo dimenticare che una fotografia è il risultato
dell’imprimersi della luce su determinate sostanze chimiche, e questo
la rende – per usare le parole dello stesso Barthes – “rivelazione
chimica dell’oggetto.”9 Sembra che la cosa fotografata e la luce,
letteralmente, facciano l’immagine. Ecco, allora, che il sospetto di un
Barthes realista viene alimentato ulteriormente da affermazioni come
quella appena citata. Questa, infatti, non è che una riproposizione
della teoria causalista10 dell’immagine fotografica, secondo cui è
l’oggetto a causare la fotografia, riflettendo nell’obbiettivo i raggi di
luce che si imprimono sulla pellicola grazie ad un procedimento fotochimico. Correlato di tale teoria è il ruolo marginale attribuito al
fotografo: egli c’è ma è – per così dire – una “causa seconda”, tanto
che Barthes avrà a dire: “l’organo del fotografo non è l’occhio […] ma
il dito: ciò che è legato allo scatto dell’obbiettivo, allo scorrimento
metallico delle lastre”,11 come se, appunto, il ruolo del fotografo fosse
9
Ivi, p. 11.
Per una buona esposizione della teoria causalista dell’immagine fotografica si veda
Jonathan Friday, Aesthetics and photography, Ashgate, Burlinghton 2002, pp. 40-45.
11
R. Barthes, op. cit., p. 17.
10
15
di registrare; come se il fotografo fosse il mezzo che permette alla
fotografia di compiersi: colui che fornisce l’occasione, rendendo
possibile quella sorta di “miracolo” foto-chimico. Tutto ciò non è
assolutamente cosa da poco, e Barthes non è così ingenuo da
sottovalutare la figura del fotografo. Rimane, comunque, il fatto che
quest’ultimo sembri oscurato dal ruolo decisamente più attivo
attribuito all’oggetto e alla luce: l’uso dell’espressione “rivelazione”
non può, infatti, avere un significato neutro.12
Queste considerazioni sono note a margine del testo. Come detto
l’autore tace, per ora, rispetto a questi temi, li sospende nel territorio
del non-detto, alla ricerca di un punto di vista sulla fotografia. In
questa prima parte, potremmo dire, Barthes si muove cercando. E così
si interroga sui diversi tipi di esperienza possibile dell’immagine
fotografica, in relazione al tipo di pratica di cui essa può essere
oggetto. La domanda è: in quanti e quali modi possiamo porci rispetto
alla fotografia? Essi sono tre, e in particolare: il fare, modo
dell’Operator – cioè il fotografo; il subire, modo dello Spectrum –
cioè colui che è fotografato; il guardare, modo dello Spectator – cioè
lo spettatore, colui che guarda.
Il primo – il modo dell’Operator – è solo accennato, in quanto,
dice Barthes, non gli appartiene: egli non è un fotografo – neppure per
diletto – e, pertanto, non conosce la particolare esperienza che questi
12
Ovviamente il realismo di Barthes non si ferma a questa considerazione, più
complesso e profondo è il suo ragionamento, e il nostro percorso necessita di molti
elementi ancora. Tuttavia quello appena citato ci pare un buon elemento per una
lettura de La camera chiara come di un testo che si muove a partire da presupposti
realisti.
16
fa della fotografia. Gli altri due sono, invece, noti e per questo
approfonditi.
E’ interessante sottolineare, a margine, il fatto che proprio la
pratica del fotografare sia solo nominata, solo accennata. Ad uno
sguardo più attento tale silenzio – e proprio su questo punto –
insospettisce un po’: perché subire una foto e guardare una foto
meritano più attenzione che non il fatto di scattarla? Ciò avviene
davvero unicamente in ragione del fatto che Barthes non sia fotografo,
oppure
c’è
dell’altro?
Liquidare
la
questione,
affermando
semplicemente di non poterne parlare a causa della propria
inesperienza in materia, pare una mossa poco convincente. D’altronde
non dire spesso può essere un modo per parlare: spesso significa
molto. E in particolare, glissare su questa materia probabilmente lascia
intravedere un’idea precisa: di nuovo il fatto che, secondo Barthes,
quello del fotografo, in fondo, non sia un ruolo così determinante. Il
dubbio
è,
allora,
che
tacere
sull’Operator
non
significhi
semplicemente – e ingenuamente – sottovalutarlo, quanto piuttosto,
puntare coscientemente sulla sua marginalità.
1.3 Fotografia e Morte
L’esperienza dell’essere fotografato è affrontata parlando della posa di
fronte all’obbiettivo, in attesa che avvenga lo scatto. “Non appena io
mi sento guardato dall’obbiettivo, tutto cambia: mi metto in
atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo,
17
mi trasformo anticipatamente in immagine.”13 L’esperienza della posa
è un’esperienza di dissociazione, in cui l’“io”14 avverte una frattura tra
sé e l’immagine che di sé troverà dopo lo scatto. L’“io”, così
mutevole, sempre in movimento, sempre diverso, viene reso immobile
e statico, fissato nell’immagine di un corpo, di un volto, di
un’espressione: il ritratto fotografico coglierà al massimo un aspetto,
ma difficilmente la totalità della persona (“ahimè sono condannato
dalla fotografia ad avere un’espressione”15). L’“io” fotografato, e reso
immagine, fa esperienza dell’alterità osservandosi nel ritratto che di
lui fa il fotografo. Da qui, appunto, l’esperienza di dissociazione. Così
facendo “la fotografia trasformava il soggetto in oggetto, e anzi, se mi
è dato di dire, in oggetto da museo.”16 La posa ingenera un senso di
inautenticità, di impostura, di artefatto: è come se mi vedessi in quel
rettangolo e tuttavia non mi riconoscessi. Questo avviene perché,
posando, non faccio altro se non tentare di imitarmi, di mimare me
stesso,
alla
ricerca
continua
di
quell’espressione,
di
quell’atteggiamento che riassuma la polivocità del mio “io”. Ma ciò è
quasi sempre in vano. L’essere fotografato mi consegna al momento
stesso in cui divengo da soggetto oggetto e, in questo modo, faccio
una micro-esperienza della morte: “io divento veramente spettro”17
(ecco lo Spectrum). Le parole di Barthes a questo proposito sono
molto significative e suggestive: “ciò che vedo è che io sono diventato
13
R. Barthes, op. cit., p. 12.
Il termine “io” è usato direttamente da Barthes.
15
R. Barthes, op. cit., p. 13.
16
Ivi, p. 15.
17
Ibidem.
14
18
Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona; gli altri – l’Altro –
mi espropriano di me stesso, fanno di me, con ferocia, un oggetto, mi
hanno in loro mano, a loro disposizione, sistemato in uno schedario,
pronto per tutte le sottili manipolazioni”.18
Più avanti Barhes dirà che la Morte è l’ei[doV della fotografia,19
cioè la sua forma, il suo aspetto. La fotografia è, infatti, statica, ferma
come un corpo senza vita. L’immagine fotografica – si dice in genere
– fissa l’istante, ferma il momento: estrae cioè quanto ritrae dal flusso
dinamico degli eventi, proprio come la Morte ci porta al di fuori della
vita.20
2. Studium e punctum
Per quanto riguarda l’esperienza dello Spectator è necessario un
discorso a parte, in quanto questo tema coinvolge due concetti
fondamentali per l’analisi di Barthes: il concetto di studium e quello di
punctum. L’interrogativo da cui si parte in questo caso è: cosa fa sì
che una fotografia attiri il nostro interesse? E questo interesse di che
natura è?
Barthes risponde soggettivamente. La trattazione che egli fa di
questi argomenti ha sempre come inizio la sua esperienza personale:
egli usa se stesso come “mediatore per tutta la Fotografia”,21 questo è
18
Ivi, p. 16.
19
Ivi, p. 17.
20
Le considerazioni sul rapporto Morte-fotografia, che qui vengono solo accennate, si
riveleranno molto importanti, ma per affrontarle davvero in profondità si dovrà
procedere ancora nell’analisi delle considerazioni barthesiane.
21
R. Barthes, op. cit., p. 10.
19
l’unico appiglio che ha in questo momento per tentare di far luce sul
problema. La risposta allora prende le mosse da quelle fotografie che
per lui esistono, e cioè – cito una sua espressione – da quelle
fotografie che gli “avvengono”.22 “Il principio di avventura mi
permette di fare esistere la Fotografia. Viceversa, senza avventura,
niente foto.”23 Cosa significa tutto ciò? Significa che una fotografia è
significativa per me, e pertanto deve possedere un quid che mi anima:
una certa qualità – di cui non sappiamo ancora nulla – che in qualche
modo la rende presente alla mia coscienza e fa sì che io la guardi, in
virtù di quel qualcosa di speciale che essa possiede e altre non
possiedono, e che, per questo, è unico: è solo di quella foto.24 Così
ogni fotografia che mi colpisce – che “mi avviene” – avrà il suo quid
particolare, che appartiene solo a lei e a nessun’altra. Ma, allora, cosa
mi colpisce? Cosa produce questa reazione in me? Inizia a questo
punto
una
sorta
di
fenomenologia
dell’interesse
suscitato
dall’immagine fotografica.
2.1 Lo studium
Vi è una prima specie d’interesse, quello suscitato e supportato dal
sapere e dalla cultura che ognuno di noi possiede. Una foto può
stimolarmi in quanto tocca la sfera delle mie conoscenze: le accresce,
le conferma, le smentisce. Questo è quanto Barthes chiama studium,
22
Questo utilizzo del verbo “avvenire” è di Barthes (ivi, p. 21).
Ibidem.
24
Per quanto riguarda quest’ordine di considerazioni si veda anche Jean-Paul Sartre,
Immagine e coscienza, tr. it. Enzo Bottasso, Einaudi, Torino 1978, citato direttamente
da Barthes.
23
20
“che non significa, per lo meno come prima accezione, ‘lo studio’,
bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta
d’interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità. E’
attraverso lo Studium che io m’interesso a molte fotografie.”25 In
breve, in questa prospettiva, una fotografia è un oggetto interessante
per ciò che riguarda il mio sapere.
Grazie allo studium, vado incontro alle intenzioni dell’Operator.
Dice Barthes: “riconoscere lo Studium, significa fatalmente coincidere
con le intenzioni del fotografo, entrare in armonia con esse,
approvarle, disapprovarle, ma sempre capirle, discuterle dentro di me,
poiché la cultura (da cui deriva lo studium) è un contratto stipulato tra
i creatori e i consumatori.”26 E questo è già un approccio di tipo
intellettuale: voglio sapere qualcosa dalla fotografia che ho di fronte,
la interrogo quasi come fosse un libro – forse in modo diverso, ma
sempre con il medesimo fine. Ciò che mi sprona è conoscere. Così mi
metto dal punto di vista del fotografo, cerco di capire cosa ricerca,
cosa mi vuole mostrare e quali sono le sue idee su ciò che mi mette di
fronte; ma tutto ciò accade affinché io ricavi qualcosa dalla fotografia
che sto guardando. E il fotografo sa tutto questo: i suoi scatti hanno un
destinatario, si rivolgono a uno spettatore e la sua pratica tiene conto
di tutto ciò. Ecco il “contratto” tra creatori e consumatori. E’ in questo
modo che la fotografia assume delle funzioni e, pertanto, la sua
significatività precipua sarà connettere l’oggetto fotografato alla
cultura e alla società. In matematica la funzione è una sorta di “ponte”
25
26
R. Barthes, op. cit., p. 27.
Ivi, p. 29.
21
tra due insiemi. Il medesimo avviene per la fotografia: un ponte tra
l’oggetto e la comunità, cioè tra contenuto del messaggio e il suo
destinatario. Il fine della produzione di fotografie è, alla luce di tutto
questo, un fine sociale e culturale. Le immagini fotografiche, intese in
questo senso, sono oggetti culturali che mi danno informazioni e che
io interrogo a questo fine: ricavare da loro un sapere.27
Nell’ambito dello studium l’immagine è filtrata dalla cultura, sia
dal punto di vista dell’Operator, sia dal punto di vista del fruitore.
Dire che la fotografia ha un fine socio-culturale significa affermare
che essa diviene veicolo per un senso: essa suggerisce una lettura della
cosa che rappresenta, ovvero riconduce l’oggetto all’interno di
determinate coordinate culturali che lo rendono leggibile. Ma la lettura
stessa che dell’oggetto dà il fotografo è, talvolta – per chi ne ha le
competenze – leggibile. Considerare il modo in cui il referente è
rappresentato in foto, cioè nientemeno che lo stile dell’autore,
significa consegnare la fotografia alla sfera dell’arte e, quindi, avere
nei suoi confronti un approccio estetico; il che, però, non è altro se
non una specie particolare che fa capo a quel genere di cui si è parlato
in precedenza: l’interesse culturale.
Non si deve, però, dimenticare che Barthes parla dell’immagine
fotografica come del particolare. In che modo, dunque, il particolare
esprime l’universale? In che modo veicola il senso? Tramite ciò che
viene definito “maschera” – prendendo in prestito questo termine da
27
Per ciò che riguarda i rapporti tra cultura e fotografia si veda anche R. Barthes, “Il
messaggio fotografico” e “Retorica dell’immagine”, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi
critici III, tr. it. Carmine Bonacasa, Giovanni Bottiroli, Gian Paolo Caprettini, Daniela
De Agostini, Lidia Lonzi, Giovanni Mariotti, Einaudi, Torino 1985 e 2001.
22
Calvino.28 “Dal momento che ogni foto è contingente (e per ciò stesso
fuori senso), la Fotografia può significare (definire una generalità)
solo assumendo una maschera. Questa è la parola che giustamente
Calvino usa per designare ciò che fa d’un volto il prodotto di una
società e della sua storia.”29 La maschera rende l’individuo exemplum
di una tipologia. Essa è possibile a partire dallo sguardo sociale e
culturale sulla fotografia, in quanto caratterizza ciò che è fotografato a
partire da elementi socio-culturali, e in virtù di questi elementi rende
universale il particolare, cioè lo connota. Frequentemente capita,
guardando gli scatti dei grandi fotografi, di trovarsi di fronte a
maschere, a tipi sociali, più che a volti. L’esempio di Barthes è il
ritratto di William Casby fatto da Richard Avedon (fig. 1),30 nel quale
verrebbe messa a nudo l’essenza della schiavitù. Ma, di nuovo, per
comprendere tutto ciò, ho bisogno di una cultura, e non solo: tutto ciò
mi parla della cultura e della società, e in questo modo mi faccio idee
sul mondo: metto alla prova e accresco il mio sapere. Ecco lo studium.
2.2 L’immagine pungente
Altra cosa è il punctum, questo “viene a infrangere (o anche a
scandire) lo studium.”31 L’analisi della parola stessa ci può soccorrere
per cercare di comprendere che cosa Barthes voglia dire. Il termine
28
Italo Calvino, “L’avventura di un fotografo”, in Gli amori difficili, Einaudi, Torino
1970.
29
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. cit., p. 35.
30
Tutte le illustrazioni delle opere citate sono raccolte nella sezione “Immagini” alle
pp. 75-79.
31
Ivi, p. 28.
23
“punctum” ci suggerisce l’idea di una puntura, di un piccolo taglio,
come se vi fosse nell’immagine un quid che ne lacera l’unità
dall’interno. L’immagine “ferita” appare, dunque, duale, laddove
l’immagine che appartiene alla sfera dello studium è unaria. Cosa
significa tutto ciò? Significa che il punctum è elemento di rottura
dell’unità compositiva di una fotografia – cioè di una foto concepita
secondo il classico principio dell’unità della composizione.
Il punctum è molto più di un semplice colpo di scena, che colpisce
ma non dura. Proprio come un taglio esso lascia il segno: una sorta di
cicatrice nella memoria.32 La differenza fondamentale tra studium e
punctum è la medesima che sussiste tra interesse e amore.33 Molte
fotografie sono interessanti ma non rimangono per tutta la vita, durano
solo per il tempo della visione; altre, invece, le amiamo e continuiamo
ad averle presenti come se fossero davanti a noi, anche quando
chiudiamo gli occhi.
Il punctum è un elemento casuale, non voluto dal fotografo, e
dipende, piuttosto, dal soggetto che guarda la foto. Pertanto non è
possibile darne una definizione universale.
Non tutte le fotografie hanno un punctum; inoltre esso è, in ogni
fotografia che lo possiede, qualcosa di differente: qualcosa che
dipende dalla contingenza di quell’immagine e dall’incontro tra
quell’immagine e lo spettatore. E’ quest’ultimo – e nessun altro – a
32
Una buona immagine per raffigurare l’effetto del punctum sullo spettatore questa
sensazione potrebbe essere il quadro di René Magritte La memoria. Ovviamente un
tale accostamento rimane a livello di suggestione.
33
Cfr. R. Barthes, op. cit., p. 29.
24
essere
“punto”
dalla
fotografia,
perciò
da
lui
dipenderà
l’individuazione dell’elemento pungente. Il punctum appare come un
qualcosa di instabile, all’interno dell’immagine fotografica, capace di
condurla oltre i suoi confini socio-culturali. Non dipendendo dal
fotografo, sfugge alle intenzioni di quello e, così facendo, sottrae la
fotografia alla sfera della cultura per portarla altrove. La foto, in
questo modo, non è più solo un’immagine codificata, inserita in
determinate coordinate culturali – cosa che la rendeva interessante ma
quasi artificiale, quasi inautentica. Ora, in virtù della casualità del
punctum, la fotografia è riconsegnata alla propria contingenza, cui era
stata sottratta affinché veicolasse un senso.
Leggiamo quanto dice Barthes a proposito di un fotografia di
Kertész che raffigura un violinista tzigano e un bambino (fig. 2):
una fotografia di Kertész (1921) ritrae un violinista tzigano, cieco,
guidato da un bambino; ora ciò che io vedo, attraverso questo
“occhio che pensa” e che mi fa aggiungere qualcosa alla foto, è la
strada in terra battuta; la conformazione di quella strada mi dà la
certezza d’essere in Europa centrale; io colgo il referente (qui,
veramente, la fotografia supera se stessa: non è forse questa la sola
prova della sua arte? Annullarsi come medium, non essere più un
segno, bensì la cosa stessa?), riconosco, con tutto me stesso, i borghi
che ho attraversato in occasione di passati viaggi in Ungheria e in
Romania.34
La strada in terra battuta è il punctum. Questo particolare,
assolutamente marginale, arriva a riempire di sé la foto, fino al punto
di restituirle un nuovo aspetto. La strada in terra battuta è un fuori34
Ivi, p. 47.
25
campo: non è, specificamente, nelle intenzioni di Kertész; il soggetto
– il fuoco – è altrove: sono il violinista e il bambino. Eppure questo
particolare, sfuggendo alle intenzioni del fotografo, è quanto conduce
l’immagine al di là del suo essere totalmente cercata, totalmente
voluta in ogni suo dettaglio e, quindi, anche costruita. Il codice
culturale passa in secondo piano a favore della componente più
pienamente analogica della foto: la presentificazione della cosa stessa.
Ecco, allora, ciò che mi colpisce, ciò che mi punge: ho di fronte il
referente, qui e ora – nel caso della foto di Kertész: mi trovo in Europa
centro-orientale.
Ritorna il discorso iniziale sulla invisibilità della fotografia e sulla
piena visibilità del referente. Le fotografie che appartengono alla sfera
dello studium “mostrano il trucco”: la fotografia, in qualche modo, si
vede. Il punctum, invece, fa letteralmente scomparire la fotografia
come medium lasciando emergere il referente.
Barthes sta scoprendo pian piano le sue carte. Il concetto di
punctum insiste sull’idea di fotografia come contingenza e come
particolare, rafforzandola e sottolineando il fatto che esistono alcune
fotografie – le più significative oltretutto – che riescono ad andare al
di là di qualunque possibile artefatto, di qualsiasi costruzione. Il
rapporto tra contingenza e realtà è fondamentale, in questo senso. Il
punctum, infatti, suggerisce una maggiore autenticità, in quanto
elemento casuale, proprio perché la realtà è piena di elementi
contingenti, casuali, “fuori-fuoco”. Esattamente come la realtà si
impone, nonostante il nostro volere, così nella fotografia il referente si
26
impone, nonostante il volere del fotografo, che non può piegare
totalmente a suo piacimento la materia che fissa nell’immagine.
Qualcosa deve sfuggire alla costruzione della scena che lui ha in
mente: non tutto ha – né può avere – un posto e un ruolo predefinito;
laddove tutto è costruito rimane, comunque, un elemento di casualità
che interferisce con la costruzione e la mette in crisi.35
Il punctum è, allora, centrale nell’indagine di Barthes – nella
prospettiva di legare immagine fotografica e realtà – essendo segno
del fatto che, al di là di qualunque volontà del fotografo, al di là di
qualunque connotazione e funzione culturale, la fotografia non può
esimersi dal cogliere quello che c’è, e dal coglierlo tutto: anche il
sovrabbondante, che esula dai piani del fotografo. Presupposto di un
tale ragionamento è il fatto che la fotografia sia, come già detto,
“rivelazione chimica dell’oggetto” e, pertanto, che essa sia fatta più
dalla luce e dalla macchina che dal fotografo. Dice Barthes: “la
veggenza del Fotografo non consiste tanto nel ‘vedere’ quanto
piuttosto nel trovarsi là.” Di nuovo, il fotografo appare “causa
seconda”: rende possibile il miracolo della fotografia, ma non ne è
l’artefice principale. Sembra più una componente passiva. Il punctum
35
Da qui passa secondo molti la differenza tra fotografia e pittura. Quest’ultima
sarebbe, fondamentalmente, un manufatto, espressione di ciò che l’artista pensa del
mondo e quindi risultato di un procedimento crativo-interpretativo; la prima, invece,
legata alla realtà da un vincolo di causalità, sarebbe espressione del modo in cui il
mondo è stato in un particolare tempo e luogo. Per queste considerazioni rimando a
Jonathan Friday, Aesthetics and Photography, Ashgate, Burlington 2002, pp. 37 e
segg. Più in generale per ciò che riguarda i rapporti tra fotografia e pittura si vedano:
Heinrich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze, tr. it. Chiara Spallino
Rocca, Bollati Boringhieri, Torino 1992 e 2002, e Aaron Scharf, Arte e fotografia, tr.
it. Laura Lovisetti Fua, Einaudi, Torino 1979.
27
non è merito suo. Egli, semplicemente, si trova nel posto giusto al
momento giusto.
3. Il realismo di Barthes
3.1 Il noema della fotografia
La tematica del rapporto tra immagine e referente, che in fotografia
pare essere davvero sui generis, si pone chiaramente nel discorso di
Barthes all’inizio della seconda parte de La camera chiara. Ora viene
esplicitato quanto precedentemente rimaneva solo sottointeso.
Innanzitutto viene fornita una definizione di referente: “non già la
cosa facoltativamente reale a cui rimanda un’immagine o un segno,
bensì la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi
all’obbiettivo, senza cui non vi sarebbe fotografia alcuna.”36 Queste
parole sono molto interessanti perché confermano la necessità del
referente affinché vi sia una fotografia. La pittura, ad esempio, non lo
esige come strettamente necessario. Nel caso di un quadro, infatti, ciò
che l’immagine raffigura si riferisce a qualcosa – nella misura in cui
l’immagine è immagine-di-qualcosa – ma ciò che viene raffigurato
può essere frutto dell’immaginazione del pittore, oppure può non
essere fisicamente di fronte a chi la sta dipingendo.
La fotografia non ammette questo tipo di rapporto con l’oggetto:
essa è vincolata alla realtà di quest’ultimo. Può riprodurre qualcosa se
e solo se questo esiste, se e solo se il referente è stato di fronte
all’obbiettivo. Questo è il fondo del realismo di Barthes. Non solo la
36
R. Barthes, op. cit., pp. 77-78.
28
fotografia riproduce il reale, ma la fotografia c’è in quanto il suo
oggetto è stato realmente di fronte all’obbiettivo. Che vi sia l’oggetto,
dunque, per l’immagine fotografica, non è solo vincolo per la
raffigurazione, ma vera e propria condizione di esistenza. E,
d’altronde, il fatto che vi sia una fotografia di qualcosa indica
immediatamente che quel qualcosa è realmente stato.
Nello stesso istante in cui vedo l’oggetto riprodotto in foto, ne
percepisco la realtà. Ciò che lo spettatore intenziona, in una fotografia
è, prima di tutto, la referenza (la fotografia attesta). Il correlato
intenzionale di questo atto – il noema – è il fatto che l’oggetto è stato
realmente là, di fronte all’obbiettivo. Dice, infatti, Barthes: “il nome
del noema della Fotografia sarà quindi: ‘E’ stato’”.37
Da notare è il tempo verbale utilizzato: non “è”, ma “è stato”. La
fotografia non parla di un’esistenza al presente, bensì al passato, e si
riferisce, precisamente, al momento in cui il referente stava di fronte
all’obbiettivo, pronto per essere fotografato. Detto dal punto di vista
del tempo il noema della fotografia è, allora, nient’altro che “la posa”,
e cioè il fatto che qualcosa si è posto di fronte all’obbiettivo.
3.2 La fotografia come emanazione
Il background teorico di queste considerazioni è facilmente
individuabile: l’immagine fotografica è il risultato di un processo fotochimico, è causata dall’oggetto e dalla luce; senza un tale processo di
riflessione non vi può essere la fotografia; ma, ancora prima, senza
37
Ivi, p. 78.
29
l’oggetto non può esserci alcuna riflessione. Il rapporto immagineoggetto è, dunque, racchiuso in un vincolo di causalità: l’oggetto
causa la fotografia. E, proprio come a partire da un effetto posso
risalire alla causa, così a partire dall’immagine fotografica posso
risalire all’oggetto e alla sua esistenza reale. Dice Barthes, in maniera
molto significativa: “in latino ‘fotografia’ potrebbe dirsi: ‘imago lucis
opera expressa’; ossia: immagine rivelata, ‘tirata fuori’, ‘allestita’,
‘spremuta’ (come il succo d’un limone) dall’azione della luce.”38 La
perifrasi latina da sola potrebbe valere come dichiarazione teorica: la
luce fa la fotografia. Ma il passo più significativo, in questo senso, è il
seguente:
si dice sovente che a inventare la fotografia (trasmettendole
l’inquadratura, la prospettiva albertiana e l’ottica della camera
obscura) siano stati i pittori. Io invece dico: sono stati i chimici. Infatti
il noema ‘E’ stato’ non è stato possibile che dal giorno in cui una
circostanza scientifica (la scoperta della sensibilità alla luce degli
alogenuri d’argento) ha permesso di captare e di fissare direttamente i
raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è
letteralmente un’emanazione del referente.39
Da sempre esiste un dibattito in merito ai rapporti tra pittura e
fotografia.40 Prendere posizione a favore di una discontinuità tra le
due, laddove molti la pensano in maniera opposta, ha un preciso
significato, e cioè: privilegiare la componente chimico-fisica e
38
Ivi, p. 82.
Ivi, p. 81.
40
Anche per questo rimando alle opere già citate di Schwarz e Scharf e inoltre a
Charles Baudelaire, “Il pubblico moderno e la fotografia” in Scritti sull'arte, tr. it.
Giuseppe Guglielmi e Ezio Raimondi, Einaudi, Torino 1992, pp. 217-222.
39
30
meccanica della fotografia, a scapito della componente creativa
impersonata dal fotografo; e tutto ciò va nella direzione del realismo e
del causalismo. Poco più avanti Barthes noterà, quasi en passant, che
la
fotografia
può
essere
considerata
come
un’immagine
ajceiropoivhtoV, cioè non fatta da mano umana. Ora, questa
affermazione, che può apparire marginale, è invece carica di
significato e merita un po’ di attenzione. Secondo la fede cristiana,
infatti, l’immagine ajceiropoivhtoV è la Sindone di Torino:
quell’immagine, cioè, che non fu disegnata, ma che il corpo stesso di
Gesù lasciò impressa sul sudario in cui si trovava avvolto, dopo che fu
deposto dalla croce. A partire da qui trae origine la tradizione
figurativa delle icone bizantine (e poi di quelle russe), le quali nascono
come riproduzioni di quel prototipo e, perciò, si propongono come
ajceiropoihvtai, codificando uno stile il più possibile impersonale, che
mimi le fattezze del modello originario.
Pare delinearsi un’interessante analogia: come nell’icona il pittore
non deve inventare nulla, ma semplicemente riprodurre l’immagine
che Cristo stesso diede di sé – l’icona, infatti, impone al pittore di
annullare la propria individualità – così nella fotografia il fotografo
non interviene, ma funge da mezzo, fa in modo che la luce possa
creare l’immagine.
L’analogia tra foto e Sindone, in quest’ottica, è davvero forte. Si
potrebbe, addirittura, fare un parallelo puntuale tra le due: il corpo
31
morto di Gesù sarebbe l’oggetto; il sangue la luce; il sudario la
pellicola; e, naturalmente, la Sindone la fotografia.41
Al di là delle suggestioni, accostare fotografie, icone e Sindone ha
un senso ben preciso: calcare la mano, ancora di più, da un lato sul
rapporto di causalità tra referente e immagine, dall’altro sul ruolo
marginale del fotografo. Inoltre questo discorso ben si adatta all’idea
di fotografia come “emanazione del referente”, espressione che ha una
valenza duplice: sottolineare l’impersonalità del processo di
produzione dell’immagine fotografica e conferire a quest’ultimo una
valenza quasi miracolosa, magica (la fotografia è “una magia, non
un’arte”42).
4. Il Tempo dell’immagine fotografica
Il realismo di Barthes non è, però, solo causalismo. Egli, infatti,
sottolineando la forza documentativa della fotografia, sostiene che
essa proviene non soltanto da una sua maggiore virtù analogica – il
che pare essere innegabile e, tuttavia, non sufficiente. La questione
non è tutta riducibile al fatto che una foto riproduca l’oggetto più
fedelmente di quanto facciano un dipinto o un disegno. Il punto
centrale è, di nuovo, il noema: il fatto che necessariamente l’oggetto è
stato di fronte all’obbiettivo. Il senso di realtà supportato dalla
fotografia è, innanzitutto, questa certezza di un’esistenza passata.
41
Per le considerazioni sulle icone rimando a Paolo Spinicci, Lezioni sul concetto di
raffigurazione, CUEM, Milano 2003, pp. 238-261 e a Pavel Florenskij, Le porte
regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano 1977 e 2004.
42
R. Barthes, op. cit., p. 89.
32
L’oggetto è stato, e il suo essere stato è qui e ora davanti a me. Dice
Barthes:
“L’importante
è
che
la
foto
possieda
una
forza
documentativa, e che la documentatività della Fotografia verta non già
sull’oggetto, ma sul tempo. Da un punto di vista fenomenologico,
nella Fotografia il potere di autentificazione supera il potere di
raffigurazione.”43
La fotografia non si limita a copiare, a riprodurre il reale, ma fa di
più: in qualche modo essa lo ripresenta, ne registra l’essenza visiva e
la ripropone allo spettatore differita nel tempo. Parla al presente di un
contenuto passato. L’oggetto è qui, ma in che modo? Potremmo dire:
è qui “al passato”; è qui il suo passato: quel momento in cui è stato di
fronte all’obbiettivo. Sembra quasi che la fotografia ci mostri un
fantasma: uno spettro. E non a caso è proprio questo il nome usato da
Barthes per chiamare il referente di una foto: lo Spectrum.
4.1 Fotografia e Morte alla luce delle considerazioni sul nuovo
punctum
L’immagine fotografica crea una lacerazione nel continuum
temporale, spezza lo stile costitutivo dell’esperienza, il fluire di
ritenzione e protensione. “Essa non è minimamente protesa […].
Immobile, la Fotografia rifluisce dalla presentazione alla ritenzione.”44
Non c’è avvenire, solo un ristagno di presente e passato. Ecco,
dunque, da dove proviene quel particolare senso di staticità; ecco cosa
avvicina la fotografia alla Morte: il senso “macabro” di un essere43
44
Ivi, pp. 89-90.
Ivi, p. 90.
33
senza-futuro. L’unica cosa a disposizione è un “è stato” ormai non più
modificabile.
Si affaccia, dunque, un nuovo punctum “che non è più di forma,
ma d’intensità, è il Tempo, è l’enfasi straziante del noema (‘è stato’),
la sua raffigurazione pura.”45 Tra i molti esempi che propone Barthes,
uno in particolare può essere interessante: il Ritratto di Lewis Payne di
Alexander Gardner (1865) (fig. 3).
L’immagine presenta un condannato a morte. Noi sappiamo che è
già morto, in quanto l’evento si è consumato più di un secolo fa.
Eppure vederlo di fronte a noi ora, da vivo, confonde il piano
temporale e ci porta pensare al fatto che, in quel momento in cui è
stato ritratto, stava per morire. Ecco questo nuovo punctum: una vera
e propria “vertigine”.46 Di fronte al Ritratto di Lewis Payne diciamo,
con Barthes: “è morto e sta per morire”.
45
Ivi, p. 95.
Il termine “vertigine” è usato da Barthes (ivi, p. 96). Può essere interessante trarre
spunto da questa parola per una breve riflessione rispetto al vocabolario delle
espressioni barthesiane. Esse sono, senza dubbio, fortemente espressive; tuttavia una
tale espressività sembra caricare il discorso e portarlo all’estremo. Non è un caso che
questi termini compaiano in relazione a nodi cruciali. Sono espressioni forti che
suggellano idee forti, come quelle de La camera chiara. Da un lato è possibile parlare
di vertigine a partire da una precisa idea di fotografia che, a sua volta, rende possibile
una precisa idea del tempo nella fotografia; dall’altro esprimersi così ha la funzione di
caricare il discorso, quasi a dar più vigore alle idee stesse che in esso si portano
avanti. In tal modo si costituisce una sorta di “linguaggio tecnico” barthesiano con la
duplice caratteristica di essere spiegabile e di spiegare e con una sua propria coerenza
interna, ma anche criticabile dall’esterno. Il termine “vertigine” ha, dunque, un posto,
una funzione e una ragione ben precisi nell’economia del discorso di Barthes, perciò,
in sede espositiva, si è deciso di riportarlo citandolo.
46
34
In generale in ogni fotografia, secondo il semiologo francese, si
ripropone questa “catastrofe”,47 indipendentemente che il soggetto sia
o non sia morto. In ogni fotografia aleggia un senso di morte, e questo
accade a causa della posa – e cioè del fatto che il referente si è posto
di fronte all’obbiettivo: il fatto che quello è stato. Ma, appunto, un tale
essere stato risulta assoluto,48 immodificabile e senza futuro: il
referente appare, allora, come un cadavere, come uno spettro. Il
soggetto diviene oggetto ed è fissato per sempre nell’attimo in cui si è
fermato di fronte alla macchina fotografica. E non solo: dal punto di
vista dello spettatore la Morte si dà nella forma dell’esperienza stessa
della perdita.
Fotografia e Morte sono in uno stretto rapporto, dunque, sancito
dal modo in cui la fotografia esprime il Tempo. Il paradosso è che
l’immagine fotografica è viva, nel senso che mi anima – si ricordi
quanto si diceva sul “principio di avventura” – ma, insieme, mi
presenta la Morte, essendo la sua temporalità rappresa e ferma.
4.2 Allucinazione e follia
Da tutto ciò discende l’idea di fotografia come allucinazione – e non
illusione. La fotografia è allucinata perché pone di fronte ai miei occhi
il reale privato della sua esistenza materiale. L’oggetto non c’è, ma la
grande capacità dell’immagine fotografica è proprio questa: renderlo
presente al passato. Dire che la fotografia è allucinazione presuppone
47
Il termine “catastrofe” è usato da Barthes (ibidem). Anche in questo caso valgono le
considerazioni fatte a proposito dell’uso di “ vertigine” nella nota precedente.
48
Barthes dice: “il passato assoluto della posa (aoristo)” (ibidem).
35
il fatto che non si veda la fotografia di qualcosa, ma la cosa stessa qui
ed ora. L’allucinazione è, infatti, la percezione di qualcosa che non
c’è; l’illusione è, invece, un sottile e tacito gioco di equivoci tra lo
spettatore e l’immagine. Guardando una fotografia lo spettatore non
equivoca, è certo di quanto sta vedendo: non pensa ad un inganno
percettivo. Secondo Barthes egli non vede l’immagine, ma il referente.
La pittura, inversamente, può essere illusionista: essa gioca con lo
spettatore illudendolo che quanto è raffigurato non sia immagine ma
reale. La fotografia – sostiene Barthes – è “falsa a livello della
percezione”49 ma non ingannevole. Ed è falsa proprio perché mostra la
cosa in assenza della cosa stessa – proprio come una allucinazione.
Vedo il referente, eppure quello non c’è, perché si trova in un passato
assoluto, irrecuperabile. Ma neppure su questo mi inganna la
fotografia, in quanto essa da subito mi parla al passato e mi dice il
tempo corretto della cosa, perciò è “vera a livello del tempo”.50
Solo se la fotografia viene intesa come “emanazione” sono
possibili tali considerazioni, poiché è in virtù di questa sua
caratteristica che essa è in grado di presentificare l’oggetto, di
riprodurlo reale qui ed ora. L’immagine fotografica non è un trompe
l’oeil, ma la riproduzione nell’adesso di un oggetto che è stato nel
passato; è l’emanazione del suo aspetto visibile impressa su carta fotosensibile in forza di un procedimento foto-chimico. La fotografia non
illude, mostra.
49
50
Ivi, p. 115.
Ibidem.
36
L’allucinazione getta luce sull’idea barthesiana di fotografia come
medium folle. Essa pone, infatti, lo spettatore in un rapporto folle con
l’oggetto: da un lato mostra come presente ciò che è solo al passato,
dall’altro insinua un impulso d’amore – che Barthes chiama
precisamente “Pietà” – verso ciò che è morto o sta per morire. In
quest’ottica, attribuire funzioni alla fotografia significa sottrarla alla
follia,
renderla
comprensibile:
“farla
rinsavire”51
ricontestualizzandola, dandole un ruolo nella società.
A questo proposito può essere utile citare un altro saggio di
Barthes intitolato Il messaggio fotografico e contenuto in L’ovvio e
l’ottuso. Qui si dice:
La fotografia traumatica è quella su cui non vi è nulla da dire: la fotochoc è, per la sua struttura, insignificante: nessun valore, nessun
sapere, al limite nessuna categorizzazione verbale può aver presa sul
processo istituzionale del significato. Si potrebbe immaginare una
sorta di legge: più il trauma è diretto, più la connotazione è difficile; o
ancora: l’effetto “mitologico” di una fotografia è inversamente
proporzionale al suo effetto traumatico. Perché? Il fatto è che, al pari
di ogni significazione ben strutturata, la connotazione fotografica è
un’attività istituzionale. In rapporto alla società come un tutto, la sua
funzione è di integrare l’uomo cioè di rassicurarlo.52
E così la fotografia può essere arte, documento, testimonianza,
ornamento, non importa. Ciò che conta davvero è che sia rassicurante,
che la sua vena folle sia mitigata. L’arte, dunque, non è qualcosa che
51
L’espressione è di Barthes (ivi, p. 117).
Id, “Il messaggio fotografico”, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, tr. it. cit., p.
21.
52
37
ha a che fare con l’essenza primaria dell’immagine fotografica, ma è
solo un modo di connotarla, un modo di includerla nell’ambito della
cultura, conferendole il ruolo di veicolo per un senso, dandole una
funzione sociale. E’ una via per rendere comprensibile – e quindi
rassicurante – una fotografia: “ammorbidita” dalla connotazione la sua
essenza puramente denotativa passa in secondo piano; il “trauma” –
che altro non è se non una anticipazione del concetto di punctum –
viene così assorbito, per quanto non del tutto cancellato. Esso, infatti,
rimane sullo sfondo come portato incancellabile dell’essenza
puramente denotativa dell’immagine fotografica. La follia della
fotografia si fonda, dunque, proprio su questo nucleo analogico che le
appartiene essenzialmente in quanto attestazione d’esistenza, in
quanto riproduzione e presentificazione del reale.
5. La fotografia del Giardino d’Inverno
Vi è una fotografia la cui presenza aleggia attraverso tutta la seconda
parte de La camera chiara. Essa è molto particolare perché ritrae la
madre di Barthes, morta da poco. Leggiamo le sue toccanti parole:
Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo
guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia
madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del
volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. Era una fotografia
molto vecchia. Cartonata, con gli angoli mangiucchiati, d’un color
seppia smorto, essa mostrava solo due bambini in piedi, che facevano
gruppo, all’estremità d’un ponticello di legno in un Giardino
d’Inverno col tetto a vetri. Mia madre aveva allora (1898) cinque anni,
suo fratello sette. […] Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia
madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue
38
mani, il posto che essa aveva docilmente occupato senza mostrarsi e
senza nascondersi, la sua espressione infine, che la distingueva, come
il Bene dal Male, dalla bambina isterica, dalla smorfiosetta che gioca
all’adulta, tutto ciò formava l’immagine d’una innocenza assoluta (se
si vuole accogliere questa parola nella lettera della sua etimologia, la
quale è ‘Io non so nuocere’), tutto ciò aveva trasformato la posa
fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva affermato per
tutta la vita: l’affermazione d’una dolcezza53.
Parlare di questa fotografia ha un senso particolare, in quanto può
essere assunta come esempio paradigmatico di tutte le considerazioni
barthesiane. Nella foto del Giardino d’Inverno l’autore “ritrova” la
propria madre, dopo averla cercata attraverso innumerevoli immagini.
Nessuna di queste, però, era in grado di restituire la verità della donna
scomparsa: tutte la raffiguravano, ma nessuna sapeva parlarne –
potremmo dire. E qui sorge una prima considerazione: per quanto la
fotografia mostri il reale, non è detto che sia in grado di portarne alla
luce la verità. Quest’ultima, infatti, si nasconde oltre l’aspetto visibile;
va cercata, appunto, in un particolare che la può fare emergere. E così
è nella fotografia del Giardino d’Inverno: quell’aria di “innocenza
assoluta” è ciò che permette all’essenza della madre-bambina di
rivelarsi. Ed è significativo, in questo senso, il fatto che il
riconoscimento avvenga grazie ad una foto non recente, come a
marcare il fatto che la verità e l’identità non hanno a che vedere, più di
tanto, con l’apparenza sensibile. Il riconoscimento non passa, infatti,
per Barthes, dalla somiglianza fisica. Si pensi a quanto si diceva
rispetto alla posa: la fotografia mi condanna ad avere un’espressione,
53
Id, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. cit., pp. 69-70.
39
mi rende oggetto. Tutte le fotografie restituiscono la mia apparenza
sensibile, poche la mia verità. Viene in mente una frase di
Machiavelli: “ognuno vede ciò che tu pari, pochi sentono quello che tu
sei.” Utilizzando un linguaggio “geometrico” potremmo anche dirla
così: a molte fotografie manca la dimensione della profondità; esse
sono superficiali, mostrano l’apparenza, ma non l’essenza. E, tuttavia,
alcune sono in grado di “pungere” (nei due sensi di punctum di cui si è
parlato). La fotografia del Giardino d’Inverno appartiene a questa
categoria e, perciò, confonde realtà e verità. In che senso? Le due
cose, abbiamo visto, dovrebbero andare separate in quanto l’una – la
realtà, il noema della fotografia – si coglie nella percezione, tenendo
aperti gli occhi; l’altra – la verità, l’essenza di chi è fotografato – si
coglie secondo Barthes, quasi paradossalmente, ad occhi chiusi, cioè
nel ricordo.54 Alcune fotografie sanno cogliere l’essenza di chi
presentano e, dunque, oltre a mostrare il referente sono in grado di
parlarne. A chi, però, sanno parlare? A chi conosce chi è raffigurato in
foto; infatti solo chi già conosce può riconoscere. Ecco, forse, il
motivo per cui mai ci viene mostrata la fotografia del Giardino
d’Inverno: a noi non direbbe nulla.
54
Gli echi proustiani di queste considerazioni sono piuttosto evidenti. Addirittura, su
questo, i due autori potrebbero essere perfettamente sovrapponibili. Per uno studio più
approfondito sulla tematica della fotografia in Barthes e Proust (anche per la
bibliografia) rimando a Sara Guindani, Lo stereoscopio di Proust. Fotografia, pittura
e fantasmagoria nella Recherche, Mimesis, Milano 2005, pp. 21-32.
40
CAPITOLO SECONDO
BARTHES E IL REALISMO FOTOGRAFICO
1. Le premesse del discorso di Barthes
Dopo aver esposto e analizzato i nodi del ragionamento barthesiano
sulla fotografia, è il caso di riflettere sui suoi presupposti, già in parte
evidenziati e, tuttavia, non ancora approfonditi.
Barthes non discute mai le proprie convinzioni di fondo,
semplicemente le enuncia e le assume, per poi costruire il proprio
discorso. Ora, dunque, si tratta non più di esporre i contenuti de La
camera chiara, ma di metterne in risalto le idee di fondo,
approfondendole e cercando di inserirle nell’ottica più ampia della
prospettiva realista sulla fotografia – prospettiva di cui lo stesso
Barthes si dice un sostenitore. Tutto ciò non senza aver prima
mostrato chiaramente quale sia la connessione tra le conclusioni, cui il
semiologo francese perviene, e le sue premesse di matrice realista.
41
1.1 Ancora sulla fotografia come allucinazione
Una buona via per iniziare può essere quella dell’exemplum: scegliere
un caso emblematico che permetta, in seguito, al discorso di prendere
una piega più generale. In questo senso si rende interessante e utile
una analisi più approfondita di quanto è stato detto in merito alla
fotografia come allucinazione, e, conseguentemente, di quale sia la
portata di questa considerazione all’interno del discorso.
L’accostamento di fotografia e allucinazione costituisce una delle
conclusioni più forti e significative a cui giunge Barthes. Si tratta
inoltre di una considerazione di notevole densità teorica e in grado di
condensare in sé un po’ tutto il discorso de La camera chiara – quasi
un simbolo. Pertanto una analisi attenta di questo punto permetterebbe
di mettere in luce chiaramente le premesse barthesiane e il loro senso.
Recuperiamo un passo importante: “la Fotografia diventa allora per
me un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a
livello della percezione, vera a livello del tempo.”55
E’ il caso di riflettere. Allucinazione è, riducendo ai minimi
termini, la percezione di qualcosa che non c’è. Potremmo proporre un
esempio. Sono nel deserto, assetato e senza acqua; in lontananza vedo
un’oasi, mi dirigo verso quel punto lontano dove spero di trovare
riposo e refrigerio; ma, una volta lì, mi accorgo che non c’era niente di
quanto avevo visto, eppure io ero del tutto sicuro di non ingannarmi.
Ecco una allucinazione. Cosa significa tutto ciò in relazione a una
fotografia? Significa che quando ho di fronte una foto, secondo
55
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it cit., p.115.
42
Barthes, faccio un’esperienza paragonabile a quella del miraggio
dell’oasi nel deserto: vedo chiaramente di fronte a me come reale
qualcosa che di fronte a me non è, qualcosa che non c’è. Come nel
deserto sono sicuro che poco più avanti ci sarà dell’acqua – tanto da
correre all’impazzata in direzione di quella – così nella visione
dell’immagine fotografica sono certo di avere davanti qui e ora il
paesaggio, la cosa o la persona ritratta nella fotografia. Questo è il
punto centrale: il contenuto della mia percezione è, in quel momento,
reale per me. Se così non fosse, non vi sarebbe allucinazione.
Ma vi è un secondo punto da aggiungere, altro perno fondamentale
del discorso di Barthes: si tratta della temporalità. Io ho di fronte ora
qualcosa che viene raffigurato irrimediabilmente al passato. Io vedo
qui qualcosa che qui non è – e con ciò non s’intende unicamente dire
che non è fisicamente presente. Da un punto di vista del tempo, infatti,
la questione può essere messa in questi termini: il referente della
fotografia non è mai stato qui. La temporalità propria della fotografia
è tipicamente quella che esprime un passato assoluto irrecuperabile.
Così, ad esempio, vedo quella fotografia di Alexander Gardner che
ritrae il condannato a morte Lewis Payne, ed egli è davanti a me,
seduto sulla sedia mentre attende di essere giustiziato. Lo guardo,
penso al fatto che è un condannato a morte; forse rifletto sulla sua
condizione, provo pena per lui, e penso al fatto che sta per morire.
Ma, contemporaneamente, sopraggiunge in me tutto il senso del
paradosso celato in una tale situazione: Lewis Payne è già morto, è
già stato giustiziato. Quella fotografia, infatti, è stata scattata nel 1865.
43
Nel 1865 egli era seduto su quella sedia, e non ora. La potenza
dell’immagine fotografica, allora, è concentrata in tale capacità: saper
riportare quel momento del 1865 nel 2006, lasciando tuttavia le due
temporalità distinte: comunicanti eppure separate. Nel 2006, vedo
Lewis Payne mentre stava per morire nel 1865. Quell’atto si è già
consumato. La fotografia non riporta in vita chi è defunto,
semplicemente me lo mette di fronte adesso: me lo mostra proprio
come era in quel momento, in quella posa colta prima che morisse nel
1865. Per assurdo, potrei incaponirmi e tentare di tutto per salvarlo –
persino cercando di mobilitare un movimento d’opinione contro la
pena capitale – eppure tutto ciò non servirebbe a nulla. Purtroppo egli
è già irrimediabilmente morto, e ogni volta che guarderò
quell’immagine, egli sarà sempre già morto. La fotografia non fa altro
che aprire una “lacerazione”56 nel velo della storia, mostrandomi un
passato che rimane tale: non più modificabile, assoluto e già
compiuto. Posso solo guardarlo comparire di fronte ai miei occhi,
senza poter in alcun modo interagire – e questo, forse, è uno dei sensi
in cui potremmo dire che la fotografia è piatta.
La follia che Barthes attribuisce all’immagine fotografica nasce
proprio da queste considerazioni: aver di fronte qualcosa che in realtà
non è per nulla di fronte a me, ma si trova in un altrove temporale. E,
tuttavia, è così reale da attrarmi verso di sé, come per farsi toccare,
salvo poi sottrarsi e mostrarsi, finalmente, per ciò che è: una superficie
56
Si ricordi a tal proposito il discorso che Barthes fa in merito al tempo come nuovo
punctum.
44
piatta che documenta un’esistenza passata.57 E in questa caratteristica
è riscontrabile ciò che può ricondurre la fotografia all’allucinazione: il
portato di realtà che la accompagna. Potremmo nuovamente riproporre
l’esempio del miraggio nel deserto: quando vedo l’oasi all’orizzonte
non so affatto che quell’oasi non c’è. Ho bisogno di arrivare sul posto
e lì constatare, mio malgrado, che si trattava davvero soltanto di una
allucinazione. Ma io non corro là per verificare se il contenuto della
mia percezione è vero o falso, questo non avrebbe senso. Non dubito
assolutamente che sia vero, e non ho motivi per dubitare. L’oasi l’ho
vista, la percezione è avvenuta realmente. Il punto non è se ho
percepito o meno, ma se quanto ho sicuramente percepito esiste o
meno: se esiste allora non è allucinazione, in caso contrario lo è.
Dunque solo lo sviluppo dell’intero decorso percettivo – che
conferisce senso ad ogni singola percezione – può smascherare
un’eventuale allucinazione. Non vi è nulla nella singola percezione
che mi possa suggerire se ciò che ho di fronte è o non è una
allucinazione. Finché è salva la coerenza del decorso non ho ragione
di mettere in dubbio quanto percepisco; finché il contenuto di una
percezione non è smentito da un’altra percezione esso è reale per me –
e d’altronde che motivo avrei per dubitare?58
57
Si veda rispetto a ciò quanto viene detto ne La camera chiara a proposito della
“Pietà”. Cfr. R. Barthes, op cit., pp. 116-117.
58
Il discorso è da in quadrare nell’ottica più ampio di ciò che viene definito come il
problema del rapporto fra immanenza del dato percettivo e trascendenza dell’oggetto
esterno. Si tratta di una questione molto complessa che non si può trattare in questa
sede. Per i nostri scopi è sufficiente quanto detto. Rimando per considerazioni più
articolate e dettagliate a Paolo Spinicci, Percezioni ingannevoli, CUEM, Milano 2005
(in particolare pp. 75-97). Si veda anche Edmund Husserl, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it. Vincenzo Costa,
45
Pertanto Barthes può giungere a queste conclusioni in virtù della
sua concezione realista della fotografia, poiché è possibile affiancare
immagine fotografica e allucinazione solo se la prima si comporta
come la seconda, consentendomi di credere, fino a prova contraria,
che ho realmente di fronte l’oggetto che sto vedendo: solo se ho una
presunzione di realtà rispetto a ciò che percepisco. Dire che la
fotografia è allucinazione pare, allora, un altro modo per riaffermare e
ribadire che essa è analogon assoluto: presentificazione davanti allo
spettatore del reale passato. Legando il discorso ad un esempio ormai
noto, si potrebbe dire così: guardando la fotografia di Lewis Payne, ho
di fronte proprio Lewis Payne. Il tutto è in perfetto accordo con il
discorso sull’aderenza del referente e l’invisibilità della fotografia:
essa scompare per mostrare l’oggetto che raffigura, il quale a sua volta
conquista la piena e totale visibilità.59
1.2 Le premesse realiste di Barthes
Il cammino che conduce Barthes a parlare di allucinazione potrebbe
essere allora schematizzato come un percorso attraverso alcuni nodi
fondamentali, che possiamo ricostruire in questo modo:
•la fotografia è “imago lucis opera expressa”, è emanazione del
reale: l’immagine è prodotta dalla luce e da una macchina che
Einaudi, Torino 1965 e 2002.
59
E’ interessante notare come il discorso sulla invisibilità della fotografia e
l’accostamento all’allucinazione si alimentino a vicenda. Da un lato, infatti, solo se la
fotografia si ritrae per mostrare l’oggetto può essere allucinatoria; dall’altro,
viceversa, dire che la fotografia è allucinazione accresce in maniera suggestiva la
forza dell’idea che essa, in qualche modo, scompaia come medium per lasciar spazio
al proprio referente.
46
registra il dato reale, il quale, a sua volta, si impone all’obbiettivo,
senza possibilità di modificazione; la fotografia è l’immagine
ajceiropoivhtoV;
•in virtù di questa capacità analogica assoluta, la fotografia mostra
il proprio referente sottraendosi alla vista dello spettatore: la
fotografia dà a vedere nascondendosi, è invisibile e perciò
permette la piena visibilità di ciò che riproduce;
•pertanto la fotografia è analogon: essa presentifica l’oggetto di
fronte allo spettatore e ne documenta l’esistenza;
•la sua documentatività è però al passato, essa dice che qualcosa è
stato in un dato momento di fronte all’obbiettivo, affermando, al
contempo, la realtà dell’oggetto e il suo passato, mostrandolo:
questo è il suo noema;
•l’essenza della fotografia è tutta racchiusa in questa capacità di
certificare l’esistenza passata del proprio referente: non è, dunque,
in senso primario, né arte né raffigurazione, ma documento.
Da questi nodi fondamentali si giunge alle considerazioni finali. Date
queste premesse, infatti, è possibile parlare sia del tempo
dell’immagine fotografica come vertigine sia della fotografia come
allucinazione e quindi come follia.60
Baricentro del discorso barthesiano sono le riflessioni sul noema,
sull’“è stato”, nodo fondamentale che lega assieme i due fili del
discorso: quello sulla documentatività e quello sulla temporalità.
60
Qui non si sostiene che quelle premesse implichino necessariamente tali
conclusioni. Il discorso è, piuttosto l’inverso: vogliamo mostrare come, date
determinate conclusioni, le premesse che le sostengono siano quelle indicate.
47
Eppure anche a queste considerazioni, in qualche modo, si arriva; per
quanto cruciali esse non possono essere considerate come il punto
zero dell’argomentazione: necessitano, infatti, di presupposti. Vi è, per
così dire, un “prima” teorico.
Proviamo a richiamare due passi significativi. Innanzitutto la
definizione di referente: “non già la cosa facoltativamente reale a cui
rimanda un’immagine o un segno, bensì la cosa necessariamente reale
che è stata posta dinnanzi all’obbiettivo, senza cui non vi sarebbe
fotografia alcuna”.61 E poi, rispetto al noema:
nella Fotografia […] io non posso mai negare che la cosa è stata là.
Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. E siccome
tale costrizione non esiste che per essa, la si deve considerare, per
riduzione, come l’essenza stessa, come il noema della fotografia. Ciò
che io intenzionalizzo in una foto (non parliamo ancora del cinema),
non è l’Arte e neppure la Comunicazione, ma la Referenza che è
l’ordine fondatore della Fotografia. Il nome del noema della
Fotografia sarà quindi: ‘E’ stato’”.62
Il condizionale è chiaro: se c’è una fotografia il referente
necessariamente è stato. D’altronde ciò che per prima cosa, ed
essenzialmente, colgo in una fotografia altro non è se non il rapporto
di referenza, la testimonianza dell’esistenza certa dell’oggetto
raffigurato: una foto innanzitutto mi mostra ciò. Questo è chiaramente
il nucleo del discorso. Il tutto rimane, però, come una sorta di
principio formale, possibile a partire da una certa idea della fotografia.
Non è difficile accorgersi del fatto che per poter parlare così Barthes
61
62
R. Barthes, op. cit., pp. 77-78.
Ivi, p. 78.
48
deve già essere un realista. Qui egli sta semplicemente enunciando il
proprio realismo, ne sta dando una sistemazione formale, niente di
più. Potremmo dire: la vera partita si gioca altrove. Ciò che ci preme a
questo punto, allora, non è più limitarci ad enunciare una presa di
posizione – peraltro abbastanza nitida e netta; piuttosto, ci interessa
comprenderne le ragioni: tematizzarla, cercando di individuare ciò che
la supporta. Che cosa, dunque, rende possibile l’affermazione sul
noema?
Per rispondere a questa domanda bisogna fare riferimento ai primi
due passaggi del discorso barthesiano: la fotografia come emanazione
del referente e la piena visibilità di quest’ultimo, di contro al fatto che
la foto che lo dà a vedere rimanga invisibile. Iniziamo proprio da qui.
2. La fotografia come medium trasparente
Per cominciare a riflettere più approfonditamente è opportuno leggere
di nuovo le parole de La camera chiara:
una fotografia […] dice: questo, è proprio questo, è esattamente così!
Ma non dice nient’altro; una foto non può essere trasformata (detta)
filosoficamente, essa è interamente gravata dalla contingenza di cui è
l’involucro trasparente e leggero […]. Si direbbe che la Fotografia
porti sempre il suo referente con sé, tutti e due contrassegnati dalla
medesima immobilità amorosa o funebre, proprio in seno al mondo in
movimento; essi sono appiccicati l’uno all’altra.63
Il senso di questo discorso è chiaro. La fotografia, innanzitutto, mostra
il proprio referente, lo pone di fronte allo spettatore: il suo è un
63
Ivi, pp. 6-7. Per le parole “trasparente” e “appiccicati” il corsivo è mio.
49
linguaggio deittico. Essa non può mai essere slegata da ciò che dà a
vedere; se così fosse sarebbe vuota. Pertanto porta sempre con sé
l’oggetto che riproduce. Ma Barthes dice di più. Infatti, non si limita a
sostenere che, in quanto immagine, anche una foto è sempre
immagine-di-qualcosa; egli punta il dito su una declinazione
particolare del rapporto immagine-oggetto che pare appartenere
unicamente alla fotografia, e cioè: l’aderenza del referente. La
fotografia scompare per poter mostrare. Potremmo anche dire: non si
vede l’immagine, ma solo l’oggetto.64
Ad un primo sguardo sembra davvero che le cose stiano così: la
fotografia pare realmente sui generis; davvero pare portare con sé
tutto il peso del paradosso di essere al contempo immagine e referente.
Il suo vincolo con la realtà appare innegabile, e tanto forte da
sembrare inscindibile. Ad un dipinto non attribuiremmo, viceversa,
tali virtù. L’immagine pittorica rimane, in ogni caso, raffigurazione.
Di fronte ad un quadro come la Veduta di Delft di Ian Vermeer (fig.
4), ad esempio, non diremmo, guardandolo, di avere davanti proprio la
cittadina olandese di Delft – al più ne avremo l’illusione, ma si tratta
di un breve gioco di equivoci. L’immagine, in questo caso, si vede e
non scompare.
Una tale distinzione è sicuramente supportata dal senso comune, e
tuttavia rimane oscura nelle sue ragioni. Ed è questo che ora dobbiamo
indagare. A tal fine hanno un certo interesse le argomentazioni di
64
A tal proposito si veda anche R. Barthes, “Il messaggio fotografico”, in L’ovvio e
l’ottuso. Saggi critici III, tr. it. cit. (in particolare pp 5-10). Qui la fotografia viene
definita “un messaggio senza codice” (p. 7).
50
Kendall L. Walton, il quale nel saggio Transparent pictures: on the
nature of photographic realism sostiene che la fotografia sia un
medium trasparente.
2.1 Fotografia: immagine e strumento
Il primo passo da compiere è chiarire cosa significhi realismo
fotografico. Spesso, infatti, quest’ultimo è inteso in termini di maggior
precisione figurativa, ovvero: le fotografie garantirebbero una
riproduzione più fedele e precisa. Una differenza di intensità, dunque,
rispetto alla pittura che porterebbe a una differente qualità di
immagini. Dice Walton:
photographic images easily can seem to be what painters striving for
realism have always been after. But “photographic realism” is not
very special if this is all there is to it: photographs merely enjoy more
of something which other pictures possess in smaller quantities. These
differences of degree, moreover, are not differences between
photographs as such and paintings and drawings as such. Paintings
can be as realistic as the most realistic photogaphs, if realism resides
in subtleties of shading, skillful perspective, and so forth; some indeed
are virtually indistinguishable from photographs.65
Il discorso è chiaro: realismo deve essere inteso in un senso altro
da quello figurativo. Se la questione fosse solo questione di grado,
allora i quadri iper-realisti, imitando e raggiungendo la precisione
fotografica, potrebbero essere considerati fotografie, eppure ciò non
accade: un dipinto rimane un dipinto.
65
Kendall L. Walton, “Transparent pictures: on the nature of photographic realism”,
Critical inquiry, vol. 11, n° 2, December 1984, p. 249.
51
Secondo Walton per venire a capo del problema è necessario
riflettere sul vedere: deve esserci una qualche connessione tra il nostro
modo di percepire il mondo e la fotografia – connessione che,
evidentemente, non sussiste allo stesso modo tra un dipinto e il
mondo. La questione del realismo fotografico ruota, forse, attorno alla
percezione.
Le fotografie, infatti, non sono immagini ordinarie. Esse sono uno
strumento; costituiscono un vero e proprio supporto alla vista:
attraverso di esse vediamo il mondo. Questo è l’approccio
fondamentale per cogliere la reale differenza di genere tra immagini
fotografiche e immagini pittoriche: guardando una fotografia abbiamo
di fronte l’oggetto stesso.66 Questo il significato della definizione di
medium trasparente. Leggiamo infatti:
painting and drawing are techniques for producing pictures. So is
photography. But the special nature of photography will remain
obscure unless we think of it in another way as well – as a
contribution to the enterprise of seeing. The invention of the camera
66
Difficile non scorgere in queste considerazioni forti assonanze tra Barthes e Walton.
D’altronde sono entrambi realisti e la teoria della fotografia come medium trasparente
è un tentativo di indicare come vada inteso il realismo fotografico. Walton cita da
L'ontologia dell'immagine fotografica, addirittura in epigrafe al testo, un celeberrimo
motto di André Bazin – che tradotto in inglese suona “the photographic image is the
object itself” (ivi, p. 246). E parte del saggio si occupa proprio di trovare un senso
possibile a partire dal quale leggere l’affermazione di Bazin – affermazione che
potrebbe essere sottoscritta appieno da Barthes. Ovviamente in questa sede cerchiamo
le connessioni teoriche tra due pensatori, nell’ottica di fare luce sull’approccio realista
al problema dell’immagine fotografica. Non si vuole, dunque, supporre nessuna
influenza – diretta o indiretta – di Walton su Barthes, dal momento che ciò sarebbe
impossibile, anche solo per una mera questione cronologica: il saggio del primo è del
1984, mentre La camera chiara è del 1980. Semplicemente l’uno aiuta a chiarire la
prospettiva dell’altro ed entrambi ci danno una mano ad osservare meglio il realismo
fotografico.
52
gave us not just a new method of making pictures and not just pictures
of a new kind: it gave us a new way of seeing.67
E più avanti:
photography is an aid to vision also, and an especially versatile one.
With the assistence of the camera, we can see not only around corners
and what is distant or small; we can also see into the past. […]
Photographs are transparent. We see the world through them. I must
warn against watering down this suggestion, against taking it to be a
colourful, or exaggerated, or not quite literal way of making a
relatively mundane point. I am not saying that the person looking at
the dusty photographs has the impression of seeing his ancestors – in
fact, he doesn’t have the impression of seeing them “in the flesh”,
with the unaided eye. I am not saying that photography supplements
vision by helping us to discover things that we can’t discover by
seeing. Painted portraits and linguistic reports also supplement vision
in this way. Nor my point is that what we see – photographs – are
duplicates or doubles or reproductions of objects, or substitutes or
surrogates for them. My claim is that we see, quite literally, our dead
relatives themselves when we look at photographs of them.68
Da queste parole emerge chiaramente come la fotografia sia intesa
davvero più come strumento che come immagine in senso
tradizionale. Non a caso viene accostata agli specchi, ai telescopi, agli
occhiali.69 Pare, controintuitivamente, che abbia più a che spartire con
questi che con la pittura. Il fatto che la macchina fotografica produca
immagini si trova, così, relegato in secondo piano. L’accento deve,
invece, cadere sul ruolo di medium proprio della fotografia, in quanto
supporto alla vista – il che procede evidentemente nella direzione di
67
Ivi, p. 251.
Ivi, pp. 251-252.
69
Questi sono, infatti, tutti media trasparenti.
68
53
ridimensionarne la portata figurativa. Di nuovo: l’immagine
fotografica è sui generis, e solo se viene intesa in tal modo – e cioè
come mezzo per vedere – può essere compresa realmente in se stessa
e, dunque, nella differenza qualitativa che la separa da un dipinto.
2.2 Vedere e vedere-attraverso-una-fotografia
In questa prospettiva va collocata anche l’indagine sulla connessione
tra percezione di una fotografia e percezione del mondo. Se guardare
una fotografia del proprio padre significa vederlo – in senso letterale –
bisogna in qualche modo dar conto di ciò individuando quell’elemento
che accomuna il vedere al vedere-attraverso-una-fotografia. Abbiamo
bisogno, dunque, di chiarire quali siano le condizioni necessarie e
sufficienti per poter dire che siamo in contatto percettivo con un
oggetto. Successivamente verificheremo se tali condizioni siano
soddisfatte anche dalla fotografia. Se lo sono, allora avremo un buon
argomento per sostenere che chi vede una foto letteralmente vede il
referente.
Innanzitutto, secondo Walton, vi è il fatto che la visione è il
risultato di un processo causale in cui ciò che vediamo dipende dal
modo in cui il mondo è. Chiediamoci allora se la fotografia si trova
rispetto al mondo in un rapporto di questo tipo. La risposta è
affermativa. In quanto riproduzione meccanica della cosa, sulla scorta
di un processo foto- chimico, essa dipende dal mondo. Precisamente si
trova con esso in una relazione causale. Come l’esperienza visiva è
causata dall’oggetto esterno, e da esso dipende, così la fotografia.
54
Leggiamo infatti: “to perceive things is to be in contact with them in a
certain way. A mechanical connection with something, like that of
photography, counts as contact, whereas a humanly mediated one, like
that of painting, does not.”70
La prima condizione è, dunque, soddisfatta. Su questo punto è
centrata anche la differenza essenziale che separa immagine
fotografica e immagine pittorica. Quest’ultima infatti, in quanto
manufatto e non riproduzione meccanica, non dipende strettamente
dalla realtà; viceversa è immaginata e realizzata da un pittore, il quale
può partire dal mondo per individuare il proprio soggetto e dipingere
il quadro, ma non è vincolato in questo senso. Egli è liberissimo di dar
sfogo alla propria fantasia, senza troppi legami con ciò che c’è o ciò
che non c’è. In ogni caso, anche in presenza del più realista dei quadri,
questo sarebbe il prodotto della tecnica di un artista e non la
registrazione dell’impressione di raggi luminosi su una pellicola
fotosensibile. Viene da dire: sarebbe, irrimediabilmente, un’immagine
ceiropoivhtoV
e non ajceiropoivhtoV. La pittura non si trova rispetto al
mondo, dunque, in una relazione di dipendenza diretta. Mancando la
prima condizione possiamo già concludere che vedere un quadro non
è assimilabile al vedere – o anche: non si vede attraverso un quadro.
Tutto ciò non è, però, sufficiente. Non basta quanto detto finora per
descrivere appieno cosa significhi essere in contatto percettivo con un
oggetto. E’ necessaria una seconda condizione. Altra proprietà
dell’esperienza visiva, infatti, è quella di non modificare le
70
K. Walton, op. cit., p. 269-270.
55
somiglianze strutturali degli oggetti, essendo, al contrario, in grado di
conservarle. I casi di confusione percettiva costituiscono un buon
esempio per illustrare meglio le ragioni di questo discorso. Spesso
scambiamo una cosa per un’altra. Ora, come potremmo confonderci se
gli oggetti non si somigliassero e noi non fossimo in grado di cogliere
tali somiglianze? Inoltre, non sempre è possibile la confusione; essa
sussiste solo in presenza di una reale somiglianza. Possiamo
scambiare un albero di ciliegio per un albero di pesco, o – se siamo
botanici poco esperti – per qualsiasi altra specie di alberi o addirittura
di piante; ma non possiamo assolutamente, di fronte ad un albero
(qualsiasi), credere di aver davanti un asino o un cavallo. Né possiamo
scambiare un albero reale per la parola “albero”. E questo significa
proprio che il linguaggio non conserva le strutture intuitive della realtà
– del resto ciò è abbastanza comprensibile, dal momento che il
linguaggio è un sistema segnico. La nostra percezione, invece, si
comporta in modo opposto: coglie perfettamente le somiglianze e le
restituisce. In questo senso percepiamo il mondo come esso è. Così
Walton:
there are important corrispondences between the way we perceive […]
and the way the world really is (or the way we think of it as being, but
I will postpone this caveat temporarily). I do not mean that the results
of perception conform to facts about the world, that things have the
properties we perceive them to have. Nor do I mean that our percepts
or sense-data resemble what they are percepts or sense-data of. Rather,
the structure of the enterprise of perceiving bears important analogies
to the structure of reality. In this sense we perceive the world as it is.71
71
Ivi, p. 271.
56
Abbiamo detto che vedere la fotografia di un albero non è leggere
su un foglio la parola “albero”; l’immagine fotografica, infatti,
conserva le somiglianze tra gli oggetti: non modifica la struttura
intuitiva della realtà, anzi la ripropone. Pertanto soddisfa anche la
seconda condizione.
Possiamo,
dunque,
concludere
che
vedere-attraverso-una-
fotografia e vedere possiedono le medesime condizioni essenziali,
pertanto sono messi da Walton sullo stesso piano: entrambi ci
pongono in contatto percettivo con l’oggetto. Dire che la fotografia è
un medium trasparente significa questo.72 Essa si lascia attraversare
dal nostro sguardo e ci dà a vedere l’oggetto che mostra, proprio nel
modo in cui lo vedremmo se si trovasse ora di fronte a noi. In questo
consiste il suo realismo, un realismo non tanto figurativo o
rappresentativo. Piuttosto l’immagine fotografica presenta il reale in
quanto condivide con la percezione ordinaria le medesime strutture di
72
Bisogna notare come Walton dica apertamente: “to be transparent is not necessarily
to be invisibile. We see photographs themselves when we see through them” (ivi, p.
252). Sostenere che la fotografia è un medium trasparente, dunque, non significa
affermare che essa scompaia per far spazio al proprio referente. Possiamo vedere la
fotografia e attraverso di essa l’oggetto, la trasparenza non è in contraddizione con
ciò. In questo senso potrebbe sembrare che la teoria di Walton si discosti dal
ragionamento di Barthes, dal momento che quest’ultimo sostiene l’invisibilità della
foto. Tuttavia, quella del semiologo francese appare, piuttosto, come
l’estremizzazione di una posizione che è la stessa di Walton; posizione che affonda le
proprie radici nel realismo fotografico e che sostiene che l’immagine fotografica
ponga di fronte allo spettatore l’oggetto stesso come se fosse percepito nella
percezione ordinaria del mondo. Parlare di trasparenza o di invisibilità implica una
semplice differenza di gradazione nel tono del discorso, ma non nella sua sostanza. E’
chiaro che, dei due, chi porta la posizione più forte è Barthes, ma una tale forza non
implica una differenza di fondo in ciò che si intende dire. Il punto rimane sempre il
medesimo: guardo una fotografia, vedo il referente.
57
fondo. In sostanza: vediamo-attraverso-una-fotografia come vediamo
la realtà.
2.3 Trasparenza e rappresentazionalismo
Non è difficile comprendere come la posizione di fondo rispetto al
vedere – e alla percezione in generale –, da cui Walton muove per le
proprie considerazioni e argomentazioni, sia una posizione di tipo
rappresentazionalista. Egli stesso, del resto, enuncia chiaramente le
proprie convinzioni proprio all’inizio del saggio, allorché dibatte una
possibile obiezione concernente il fatto che il vedere ordinario sarebbe
diretto, mentre una fotografia chiamerebbe in causa una percezione
indiretta della cosa e, pertanto, i due non sarebbero assimilabili.
Leggiamo:
I don’t mind allowing that we see photographed objects only
indirectly, though one could maintain that perception is equally
indirect in many other cases as well: we see objects by seeing mirror
images of them, or images produced by lenses, or light reflected or
emitted from them […]. One is reminded of the familiar claim that we
se directly only our own sense-data or images on our retinas. What I
would object to is the suggestion that indirect seeing, in any of these
cases, is not really seeing, that all we actually see are sense-data or
images or photographs.73
Dunque, il fatto che la visione della cosa sia indiretta non
costituisce un problema. In fondo – ci viene detto – ciò che vediamo
direttamente, in ogni caso, sono solo e unicamente sense-data, ovvero
73
K. Walton, op. cit., p. 253.
58
dati sensoriali – l’immagine retinica. Pertanto un vero e proprio
contatto diretto con l’oggetto percepito non si dà mai: la percezione è
sempre mediata. La visione è perciò sempre indiretta: non vediamo la
cosa, ma rappresentazioni della cosa. Tutto ciò significa che già la
nostra percezione ordinaria ha, in qualche modo, la forma della
percezione di immagini; si tratta solo di comprendere quali immagini
possano essere poste sullo stesso piano dei dati sensoriali. Da qui
l’assimilazione tra vedere e vedere-attraverso-una-fotografia, avendo
mostrato che la fotografia possiede le medesime caratteristiche delle
normali immagini percettive, e cioè soddisfa quelle due condizioni
necessarie e sufficienti per poter dire che si è in contatto percettivo
con qualcosa. Il gioco di Walton è facile: per mostrare la vicinanza tra
vedere letteralmente un oggetto e vedere-attraverso, si serve di quella
teoria della percezione che più intende il dato percettivo come
un’immagine, e cioè il rappresentazionalismo.
2.4 Barthes e Walton
La posizione di Barthes ci appare forse più chiara. E, a partire da
quanto detto fino ad ora, possiamo in qualche modo rendere ragione
del differente modo in cui fotografia e pittura ci presentano l’oggetto.
Abbiamo chiarito un senso possibile per il presupposto barthesiano
della trasparenza propria dell’immagine fotografica. D’altronde
sarebbe difficile leggere una tale proposta in maniera differente.
Il ragionamento del semiologo francese non s’incentra tanto sulla
percezione; la sua è una ricerca sulla fotografia stessa: un’indagine
59
ontologica – secondo le sue parole. Ma ancora una volta, e
tipicamente, egli presuppone – delle considerazioni sull’immagine,
infatti, non possono eludere una posizione in merito alla percezione –
e tuttavia non discute i presupposti. Espressioni quali “il referente
aderisce” o “l’immagine fotografica scompare”, infatti, sottointendono
un preciso modo di pensarla rispetto a come si guarda una foto e,
soprattutto, rispetto a cosa si vede attraverso di essa; un modo che,
però, rimane inindagato. Potremmo allora dire che di una tale indagine
ci siamo occupati noi, giungendo alla conclusione che sostenere la
trasparenza
della
fotografia
implica
una
posizione
rappresentazionalista in materia di percezione.
Per quanto estremizzato, il discorso barthesiano condivide i
presupposti di Walton, tanto che entrambi giungono a sostenere
sostanzialmente la stessa cosa: guardo una fotografia e vedo il
referente. E non solo. La posizione è la medesima anche rispetto alla
peculiare natura dell’immagine fotografica in quanto immagine. Essa
è, infatti, per entrambi, sui generis: la sua essenza non è raffigurativa
(o artistica); né il suo realismo è semplicemente definibile in termini
di precisione riproduttiva. Barthes dice: “ciò che io intenzionalizzo in
una foto (non parliamo ancora del cinema), non è l’Arte e neppure la
Comunicazione, ma la Referenza che è l’ordine fondatore della
Fotografia. Il nome del noema della Fotografia sarà quindi: ‘E’
stato’”.74 E Walton: “photography is an aid to vision also, and an
especially vesatile one. With the assistence of the camera […] we can
74
R. Barthes, op. cit., p. 78.
60
also see into the past.”75 Ed è proprio in ragione del fatto che la
fotografia ripropone le medesime caratteristiche della percezione
ordinaria che il soggetto che guarda può dire che l’oggetto è stato
sicuramente di fronte all’obbiettivo, e può ritenere di averlo di fronte
qui ed ora. E’ solo estremizzando questo discorso che è possibile
sostenere che la fotografia sia allucinazione.
3. La teoria causalista dell’immagine fotografica
Alle conclusioni cui siamo giunti bisogna aggiungere ancora qualcosa.
Infatti, se è vero che, per poter fare quel tipo di considerazioni sul
noema, Barthes ha bisogno della premessa sulla trasparenza,
altrettanto importante è quanto dice in merito al processo foto-chimico
che produce la fotografia. I passi che a questo alludono, nel testo,
sono davvero molti. Forse il più significativo è:
si dice sovente che a inventare la fotografia (trasmettendole
l’inquadratura, la prospettiva albertiana e l’ottica della camera
obscura) siano stati i pittori. Io invece dico: sono stati i chimici. Infatti
il noema ‘E’ stato’ non è stato possibile che dal giorno in cui una
circostanza scientifica (la scoperta della sensibilità alla luce degli
alogenuri d’argento) ha permesso di captare e di fissare direttamente i
raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è
letteralmente un’emanazione del referente.76
La macchina e la luce sono, dunque, quelle componenti
fondamentali che realizzano la fotografia nell’incontro con un oggetto
75
76
K. Walton, op. cit., p. 251.
R. Barthes, op. cit., p. 81.
61
che necessariamente deve esistere e trovarsi di fronte all’obbiettivo.
Sono i chimici ad aver inventato la fotografia. Essa è una sorta di
“miracolo” foto-chimico – “è una magia, non un’arte”,77 è
“emanazione” del proprio referente: immagine ajceiropoivhtoV o, alla
latina, “imago lucis opera expressa”. La luce e non la mano, questo il
senso di tali considerazioni. Il fotografo, come già detto, appare
davvero ridimensionato. Egli è legato allo scatto, deve solo saper
sfruttare un’occasione che si dà. Sembra avere il solo merito di portare
con sé la macchina fotografica.
Già abbiamo notato come lo sfondo teorico di tali considerazioni
sia il causalismo, e cioè l’idea per cui la fotografia sia letteralmente
causata dall’impressione della luce che l’oggetto riflette e che va ad
imprimersi sulla pellicola foto-sensibile. Si tratta, ora, di indagare più
a fondo tale posizione, in quanto costituisce l’altro presupposto
fondamentale barthesiano.
Una buona descrizione è fornita da Jonathan Friday nel suo libro
Aesthetics and photography: “light reflected from objects is focused
through the lens and exposed to chemically coated cellulose before
undergoing a complex chemical process, the end result of which is a
photograph – a static record of reflected light at an instant in time.”78
Prima conseguenza di tale posizione teorica è la differenza – ormai
consueta – tra pittura e fotografia. L’una è essenzialmente un
manufatto, e cioè il risultato dell’intersecarsi su una superficie di un
insieme di linee e colori, ad opera di un pittore. L’altra, al contrario, è
77
78
Ivi, p. 89.
Jonathan Friday, Aesthetics and photography, Ashgate, Burlington 2002, p. 38.
62
– per citare nuovamente Barthes – “lucis opera expressa” e, pertanto,
risultato di un processo causale che, una volta innescato, non richiede
interventi esterni.
Ma c’è di più. Il causalismo sostiene che proprio in virtù di quel
rapporto di causalità diretta tra oggetto e immagine – caratteristico
della fotografia – è possibile affermare che il referente di una foto è
sempre un qualcosa di reale, che si trovava in un particolare momento
nel tempo di fronte all’obbiettivo. Proprio ciò che Barthes chiama
noema. Di fronte ad una fotografia – sostiene Barthes –
intenzionalizzo la referenza. L’immagine fotografica, cioè, assicura
che ciò che mi dà a vedere è stato, ed è stato proprio così come lo
vedo: la sua funzione primaria è la documentatività.
Quella appena descritta è, inoltre, la medesima teoria di cui si
avvale Walton discutendo la prima delle due condizioni che pone.
Infatti fotografia e percezione ordinaria condividono la dipendenza
naturale dalla realtà. La posizione causalista, allora, è premessa
necessaria anche al discorso sulla trasparenza: le due questioni sono
strettamente intrecciate. Restando nell’ambito della percezione,
secondo il causalismo è possibile dare una descrizione “geometrica”
di ciò che vediamo in una fotografia. La relazione causale rende la
fotografia una proiezione di un oggetto del mondo sulla superficie
piana della pellicola. In breve: è possibile stabilire una corrispondenza
tra ogni singolo punto dell’immagine e ogni punto dello spazio reale
raffigurato in essa. La fotografia sarebbe, allora, un sistema di
proiezione uniforme e determinato di ogni punto di luce riflessa dagli
63
oggetti reali su una pellicola foto-sensibile: una sorta di mappatura
della luce. A tal proposito dice Friday:
a good starting point is to note that the causal relation at the heart of
the photographic medium is one that depicts the real world by means
of a determinate and uniform point-to-point projection from objects in
the world on the flat surface of the film. By ‘determinate and uniform’
I mean that the system of projection can be given a relatively simple
geometrical description in terms of straight lines drawn from points in
the three-dimensional space of the real world on to a flat twodimensional surface. If we think of this system of projection a
mapping relation, what photograph maps is the intensity and
frequencies of light reflected off the surface of objects by
transforming these light-values into the contrasting tones and colours
of the photographic image. The causal processes of photography exist
to create pictures that map point of light in this way.79
Ecco in che senso la luce fa la fotografia; ecco un senso possibile
per la definizione latina di Barthes “imago lucis opera expressa”.
Secondo la teoria causalista è dunque questa la capacità essenziale
dell’immagine fotografica: essere in grado di registrare i valori stessi
della luce, riproponendoli al nostro sguardo di spettatori, fissati sulla
pellicola. Insomma, i nostri occhi percepiscono la medesima intensità
e frequenza luminosa sia in presenza dell’oggetto sia di fronte ad una
fotografia di quell’oggetto, pertanto vedono la stessa cosa.
Il realismo fotografico di Barthes è racchiuso in ciò che egli
chiama noema: una foto riproduce il reale, ovvero un oggetto che
sicuramente è stato d fronte all’obbiettivo in un determinato tempo,
mostrandolo ora così come esso era. L’essenza dell’immagine
79
Ivi, p. 41.
64
fotografica è, innanzitutto, allora, documentazione di un’esistenza al
passato. La certezza dell’“è stato” è possibile in ragione di più fattori:
la genesi meccanico-causale della fotografia unita alla sua precisione
analogica e alla sua capacità di riproporre i medesimi dispositivi che
entrano in gioco nella percezione visiva ordinaria del mondo –
potremmo parlare, in questo senso, di una duplice analogia: verso
l’oggetto e verso il soggetto. Attraverso una fotografia vedo la cosa
proprio come la vedrei se fosse qui ed ora di fronte a me. E un tale
discorso – abbiamo visto – chiama in causa, a proprio supporto, un
orizzonte teorico più ampio che è quello appena esplorato dei luoghi
tradizionali della teoria realista dell’immagine fotografica, non
appartenenti
al
solo
Barthes:
casualismo,
trasparenza
e
rappresentazionalismo.
65
66
CAPITOLO TERZO
CONSIDERAZIONI CRITICHE
1. Ricapitolazione dei punti fondamentali della teoria realista
dell’immagine fotografica
Abbiamo inquadrato le considerazioni de La camera chiara nell’ottica
più ampia della teoria realista dell’immagine fotografica, cercando
una cornice possibile per le affermazioni barthesiane. La nostra analisi
ci ha portato a individuare due nodi fondamentali: trasparenza e
causalismo – detti à la Barthes: aderenza ed emanazione.
1.1 Genesi dell’immagine: causalismo
Delle due il causalismo funge da primum logico. Che questo sia il
caposaldo effettivo di un discorso realista in merito alla fotografia
appare evidente dalle stesse argomentazioni che il realismo pone. Il
suo baricentro teorico, infatti, non è occupato tanto dalla virtù
analogica del mezzo, ma dalla sua capacità di dire che quanto
riproduce è sicuramente stato. Ciò che caratterizza l’immagine
67
fotografica è proprio la sua dipendenza causale da quell’oggetto che
essa porta con sé e mostra, e che è il suo referente.
L’esistenza della cosa fotografata è condizione di esistenza per la
fotografia stessa. E questo proprio in ragione del processo che genera
la foto: una genesi legata al mezzo meccanico che raccoglie la luce
riflessa dall’oggetto e le permette di imprimersi sulla pellicola fotosensibile; una genesi condivisa tra chimica, ottica e meccanica.
Insomma, senza oggetto da fotografare non si dà alcuna fotografia.
Autentificazione innanzitutto, in quanto il processo da cui una foto
trae origine è vincolato all’esistenza dell’oggetto. In secondo luogo
fedeltà: la macchina fotografica, infatti, non può esimersi dal cogliere
tutto quanto ha di fronte a sé, sempre in ragione di quella relazione
causale che la vincola al proprio referente. La fotografia, dunque,
appare per sua stessa natura impossibilitata a omettere; è fedele alle
cose che riproduce in quanto da esse dipende, in quanto ad esse deve
la propria esistenza.
La macchina fotografica può essere indirizzata. Ma, una volta
scelto il soggetto, riproduce tutto ciò che si dispone all’interno del
frame dell’obbiettivo – ritroviamo qui il discorso di Barthes sul
punctum. L’oggetto si impone e detta la propria riproduzione. Questo
significa che il rapporto tra l’immagine e il referente si caratterizza a
parte obiecti. Il pittore può tacere, ancor di più uno scrittore. Non il
fotografo.
Ovviamente sostenere che la macchina fotografica è fedele a ciò
che ha di fronte porta anche a sostenere che l’immagine da essa
68
prodotta sia la più obiettiva possibile: non potendo tacere, infatti, essa
non può mentire non solo sull’esistenza ma neppure sull’apparenza di
ciò che ci mostra; come coglie tutti gli oggetti che si pongono di
fronte all’obbiettivo, così può cogliere tutti i particolari di ogni
singolo oggetto, garantendo la riproduzione perfetta. Ma la precisione
assoluta – o presunta tale – della fotografia rimane un corollario. Il
punto nevralgico è il vincolo causale tra immagine e oggetto.
Ogni teoria realista non può prescindere da questo, in quanto ogni
teoria realista è, al fondo, causalista. Il condizionale “se c’è una foto
necessariamente il referente è stato” può essere infatti visto come una
applicazione del principio di causalità secondo cui ad ogni causa
segue un effetto, il che significa dire: dato un effetto necessariamente
esiste la causa che l’ha prodotto. Detto altrimenti: ogni effetto
documenta l’esistenza di una causa, cioè rimanda alla propria causa. E
proprio questo avviene con la fotografia: essa sempre rinvia
all’oggetto esterno a sé che riproduce. La sua essenza sta in tale
rimando causale al proprio referente. Perciò essa documenta; perciò in
essa intenzionalizziamo la referenza. La sua genesi ottico-chimicomeccanica funge da garanzia.
1.2 Percezione dell’immagine: trasparenza
Tuttavia ciò non è sufficiente – e a questo punto interviene il discorso
sulla trasparenza. Infatti il realismo non si limita a sostenere il potere
di autentificazione della fotografia; tale teoria afferma anche che ciò
che si vede guardando una fotografia altro non è se non l’oggetto
69
stesso. Ricordiamo, a tal proposito, la tesi di André Bazin, il quale
sostiene l'identità di immagine e oggetto.80
Walton s’incarica di gettare luce su questa tesi, individuando un
senso possibile entro cui inserirla. Egli trova una via nell’analisi della
percezione, sostenendo la sovrapponibilità di vedere in senso letterale
e vedere-attraverso-una-fotografia, sulla scorta di una premessa
rappresentazionalista. La fotografia sarebbe, dunque, un’immagine sui
generis: un vero e proprio mezzo di supporto alla visione; uno
strumento che condivide la medesima natura delle lenti e degli
specchi: un medium trasparente, appunto, cioè un medium che si lascia
attraversare dallo sguardo dello spettatore e non ne altera la
percezione del mondo, anzi la conserva restituendo il percepito così
come esso è – o meglio, è stato. La fotografia riproduce il referente in
ragione di quel rapporto causale che la lega ad esso, ma riproduce
anche i dispositivi che mi permettono di percepire il mondo così come
lo percepisco, perciò guardando una fotografia vedo l’oggetto stesso.
Chiudendo il capitolo secondo si è parlato, in questo senso, di
analogia verso l’oggetto e verso il soggetto.
Parlando, dunque, della percezione dell’immagine in termini di
trasparenza e leggendone la genesi alla luce del causalismo la teoria
realista dà una descrizione della fotografia come impronta e non come
80
“L'obiettivo solo ci dà dell'oggetto un'immagine capace di smuovere, dal fondo del
nostro inconscio, questo bisogno di sostituire all'oggetto più che un calco
approssimativo: l'oggetto stesso, ma liberato dalle contingenze temporali. L'immagine
può essere sfocata, deformata, scolorita, senza valore documentario, ma essa proviene
attraverso la sua genesi dall'ontologia del modello; essa è il modello.” (André Bazin,
“Ontologia dell’immagine fotografica” in Che cos’è il cinema?, tr. it. Adriano Aprà,
Garzanti, Milano 1973, p. 7).
70
raffigurazione; come documento e non come arte. Percezione e genesi
dell’immagine saranno, allora, anche i punti sui cui ragionare per
trarre un bilancio critico di quanto afferma Barthes e, più in generale,
la posizione realista.
2. La genesi meccanica dell’immagine: dubbi e critiche
2.1 Il fotografo: una figura “pericolosa”
Prendiamo nuovamente le mosse da La camera chiara. Barthes,
parlando delle tre pratiche di cui la fotografia può essere oggetto,
afferma:
una di queste tre pratiche mi era preclusa e io non dovevo cercare di
interrogarla: non sono un fotografo, neanche dilettante […].
Tecnicamente parlando la fotografia sta nel punto d’incontro di due
procedimenti assolutamente distinti; il primo è di ordine chimico: è
l’azione della luce su determinate sostanze; il secondo è di ordine
fisico: è la formazione dell’immagine attraverso un dispositivo ottico.
Avevo l’impressione che la Fotografia dello Spectator avesse
essenzialmente origine, se così si può dire, dalla rivelazione chimica
dell’oggetto (di cui ricevo differiti i raggi), e che viceversa la
Fotografia dell’Operator fosse legata alla visione delimitata dal buco
della serratura della camera oscura. Ma di quella precisa emozione (o
di quella essenza), non avendola mai provata, non potevo parlare; non
potevo unirmi alla schiera di quanti (i più) parlano della Fotosecondo-il-Fotografo. Io avevo a mia disposizione solo due
esperienze: quella del soggetto guardato e quella del soggetto
guardante.81
81
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it. cit., pp. 11-12.
71
Il passo è significativo, e non solo perché mostra piuttosto
chiaramente il pensiero dell’autore in merito al processo che origina la
fotografia, definita come “punto d’incontro” tra chimica e fisica. Vi è
qualcosa in più: emerge una precisa idea rispetto al ruolo del
fotografo. Egli è, per Barthes, una “causa seconda”, laddove luce e
macchina sono la “causa prima”. Ma ciò non è tutto. Il semiologo
francese, infatti, oltre ad attribuire all’Operator un ruolo marginale,
decide apertamente di non analizzare la pratica specifica del
fotografare. In breve: egli individua il fare come uno tra i modi
possibili di rapportarsi alla fotografia, per poi dire che di questo non si
occuperà, perché non ne ha mai fatto esperienza in prima persona.
Forse tale silenzio non è senza significato. Dobbiamo chiederci se
un discorso sulla fotografia può davvero permettersi di non parlare di
chi le fotografie le fa; se davvero è legittimo non considerare la figura
del fotografo. Pare proprio di no. E, allora, perché Barthes su questo
punto tace? Perché liquida così velocemente quello che, al contrario,
dovrebbe essere uno dei perni centrali di una analisi sulla fotografia?
Del resto altro è attribuire al fotografo un ruolo secondario, altro è non
parlarne affatto.
Tacere sull’Operator significa rimarcare, una volta di più, la sua
estraneità all’essenza dell’immagine fotografica: la pratica del fare
una fotografia sarebbe qualcosa di esterno alla natura della fotografia
stessa. Se, infatti, quest’ultima è intesa innanzitutto come documento,
allora appare chiaro che la personalità del fotografo non è qualcosa
che incide significativamente sull’immagine. Ciò che conta realmente
72
è l’imporsi dell’oggetto e il suo imprimersi sulla pellicola fotosensibile grazie all’azione della luce: questa è l’essenza della
fotografia; qui si raccoglie tutta la sua magia; qui sta tutta la sua
portata reale. L’incontro tra natura e macchina è il dato centrale.
L’uomo resta ai margini di un tale processo. Egli è sempre e
comunque spettatore, con diversi gradi di passività. Senza fisica e
chimica non vi è fotografia; senza il referente non vi è fotografia.
Richiamiamo a tal proposito un passo più volte citato:
si dice sovente che a inventare la fotografia (trasmettendole
l’inquadratura, la prospettiva albertiana e l’ottica della camera
obscura) siano stati i pittori. Io invece dico: sono stati i chimici. Infatti
il noema ‘E’ stato’ non è stato possibile che dal giorno in cui una
circostanza scientifica (la scoperta della sensibilità alla luce degli
alogenuri d’argento) ha permesso di captare e di fissare direttamente i
raggi luminosi emessi da un oggetto variamente illuminato. La foto è
letteralmente un’emanazione del referente.82
Se l’essenza della fotografia fosse racchiusa nella figura del
fotografo, allora essa sarebbe altro: pittura o arte, poiché creatività e
manipolazione sono per essenza appannaggio di quelle. Ma la
fotografia non è nulla di tutto ciò: essa documenta, certifica un “è
stato”; essa è un fatto scientifico e non artistico. Ciò che distingue una
fotografia da un quadro è, allora, proprio la sua genesi meccanica, a
fronte di una manuale. Pertanto ciò che conta è il mezzo; il fotografo
non istituisce la differenza tra pittura e fotografia: non è colui che ne
individua la particolarità. Al contrario è una figura ambigua, che può
82
Ivi, p. 81.
73
ancora instillare qualche dubbio sulla demarcazione netta tra arte e
fotografia: egli non permette di separare i due ambiti, ma li lascia in
una zona di opacità e di indifferenza. Perciò considerare il fotografo
non serve e forse è addirittura fuorviante. Egli è una figura
“pericolosa”.
2.2 Automatismo della riproduzione e ruolo del fotografo
La strada che Barthes sceglie di seguire è, dunque, quella di escludere
la figura dell’Operator dal processo genetico di una foto, puntando sul
lato fisico-chimico-meccanico. La genesi meccanico-causale è ciò che
suggella la natura analogica e l’essenza documentativa del medium
fotografico. Non a caso, infatti, giungerà il paragone con la Sindone di
Torino e la definizione di fotografia come immagine ajceiropoivhtoV,
come emanazione e come magia: tutti termini spersonalizzanti, che
insistono sulla dipendenza dell’immagine dall’oggetto che raffigura.
Il realismo compie la medesima operazione, ovviamente con
sfumature diverse in relazione agli autori. In genere la figura del
fotografo non viene del tutto eliminata dal discorso, tuttavia rimane
comunque fortemente ridimensionata: la differenza rispetto a La
camera chiara è solo di intensità, ma non di sostanza. Il punto rimane
sempre il medesimo: la relazione causale che lega una fotografia al
proprio referente, la natura meccanica del processo genetico
dell’immagine fotografica. Possiamo citare degli esempi. Innanzitutto
Bazin:
74
per quanto abile sia il pittore, la sua opera sarà sempre ipotecata da
una soggettività inevitabile. Sussiste un dubbio a causa della presenza
dell’uomo. Di fatto, il fenomeno essenziale nel passaggio dalla pittura
barocca alla fotografia non risiede nel perfezionamento materiale […]
ma in un fatto psicologico: la soddisfazione completa del nostro
appetito d’illusione mediante una riproduzione meccanica da cui
l’uomo è escluso. La soluzione non era nel risultato ma nella genesi.83
Nell’articolo On the nature of photography così si esprime Rudolf
Arnheim: “all I have said derives ultimately from the fundamental
peculiarity of the photographic medium: the physical objects
themselves print their image by means of the optical and chemical
action of the light”84 che conferisce all’immagine fotografica “an
authenticity from which painting is barred by birth.”85
Stanley
Cavell
nel
saggio
The
world
viewed
sostiene:
“photography overcame subjectivity in a way undreamed of by
painting, one which does not so much defeat the act of painting as
escape it altogether: by automatism, by removing the human agent
from the act of reproduction.”86
L’automatismo della riproduzione – proprietà della sola fotografia
– permette di superare la soggettività e di assurgere ad un livello di
oggettività che non ha eguali. La conseguenza ulteriore di questo
ragionamento è escludere la fotografia dalla sfera delle raffigurazioni
83
A. Bazin, op. cit., pag. 6.
Rudolf Arnheim, “On the nature of photography”, Critical inquiry, 2, September
1974, p. 155.
85
Ivi, p. 154.
86
Stanley Cavell, The world viewed, New York, 1971, p. 23. Citato in Joel Snyder
and Allen Neil Walsh, Photography, vision and representation in Critical inquiry,
vol. 2, No. 1., Autumn 1975, p. 145.
84
75
– cosa che sostiene lo stesso Barthes: “da un punto di vista
fenomenologico, nella Fotografia il potere di autentificazione, supera
il potere di raffigurazione.”87 Sostanzialmente: se guardando una foto
vedo l’oggetto, non posso vedere una raffigurazione; se davvero la
fotografia presentifica, allora essa non può essere arte, in quanto l’arte
raffigura – cioè interpreta – e trasfigura, traduce quanto riproduce
secondo un codice, all’interno di determinate coordinate culturali.
Mentre l’immagine fotografica, in quanto “messaggio senza codice”,88
non può fare altro che ripresentare, porre la cosa davanti agli occhi.
Il discorso ci riconduce alla vecchia contrapposizione artefotografia, secondo cui alla prima apparterrebbe la sfera della
creatività e della raffigurazione, mentre alla seconda quella della
realtà, della copia e del documento. Ma davvero l’unica possibilità
della fotografia è la via della documentazione?
La considerazione che si attribuisce al ruolo del fotografo è
centrale in tutto ciò. Puntare sulla genesi meccanica dell’immagine
contribuisce a renderlo marginale, per non dire addirittura ad
escluderlo dal processo generativo di una fotografia. L’accento è posto
sul lato impersonale, sulla macchina, a tal punto da far sembrare
quella dell’Operator una figura accessoria.
87
88
R. Barthes, op. cit., pp. 89-90.
Questa è la definizione che Barthes dà ne L’ovvio e l’ottuso.
76
E’ innegabile che la fotografia implichi l’ottica e la chimica,89 così
come innegabile è il fatto che, perché vi sia una fotografia, è
necessario che l’oggetto che essa riproduce esista e si trovi di fronte
all’obbiettivo al momento dello scatto. Tuttavia, possiamo davvero
affermare che la “veggenza” del fotografo – per dirla con Barthes – sia
tutta solo “nel trovarsi là”? Quello dell’Operator è realmente un ruolo
legato più al semplice scatto che non al vedere? Il suo organo è il dito
o l’occhio? La domanda di fondo è, dunque: quanto incide il fotografo
sulla genesi dell’immagine fotografica?
2.3 Il ruolo del fotografo nella genesi della fotografia
Si pensa sempre
che ciò che viene strappato al tempo
89
Potrebbe essere interessante chiedersi se la chimica e l’ottica non entrino in gioco
anche nella pittura. Del resto i pigmenti – che siano olii, tempere o acquerelli – cosa
sono se non composti chimici? E, inoltre, un colore non è definibile in termini di
lunghezza d’onda e spettro, quindi in termini di ottica? In un certo senso, allora, anche
la pittura è una questione di chimica e fisica. E’ evidente che non è così. La pittura è
una pratica complessa, una tevcnh, e va oltre il mero fatto chimico-fisico. Anche la
fotografia evidentemente è possibile solo a partire da un momento storico preciso in
cui si danno conoscenze tecnico-scientifiche tali da poter permettere quel tipo di
riproduzione. E, nonostante ciò, non si può ridurre l’avvento della fotografia, e la sua
portata storico-artistica, a un mero fatto di innovazione tecnologica. Il discorso è
sicuramente più complesso e investe da un lato la storia della scienza, ma dall’altro la
storia dell’arte. E forse è proprio dall’incontro di arte e scienza che è necessario
partire per una ricerca eziologica sulla fotografia. Dice Heinrich Schwarz:
“nell’Ottocento, la conoscenza dei fenomeni e dei processi naturali divenne la
preoccupazione maggiore sia dell’arte sia della scienza […]. Sia l’arte sia la scienza si
propongono di svelare i segreti della natura attraverso una sorta di registrazione
oggettiva dei fenomeni visibili e, in questo senso, l’interazione tra la volontà creativa
dell’artista e la sete di conoscenza dello scienziato ha favorito l’invenzione della
fotografia intesa come nuovo mezzo di visualizzazione e riproduzione dei fenomeni.”
(Heinrich Schwarz, Arte e fotografia. Precursori e influenze, Bollati Boringhieri, tr. it.
Chiara Spallino Rocca, Torino 1992 e 2002, p. 12).
77
si trovi davanti alla macchina fotografica.
Ma non è del tutto vero.
Fotografare è un atto bidirezionale:
in avanti e all’indietro.
Certo, si procede anche “all’indietro”.
[…] Una fotografia è sempre un’immagine duplice:
mostra il suo oggetto
e – più o meno visibile –
“dietro”,
il “controscatto”:
l’immagine di colui che fotografa
al momento della ripresa.90
Queste parole di Wim Wenders sono molto significative, in quanto
propongono una prospettiva differente – e non a caso sono di un
regista. Esse iniziano ad insinuare dei dubbi rispetto alla marginalità
del ruolo di chi scatta la fotografia. Ci presentano, infatti, l’immagine
fotografica come duplice: da un lato essa mostra l’oggetto, dall’altro
lascia intendere la presenza delle scelte di un fotografo. Fotografia,
dunque, non solo come frammento di realtà ma anche come
“immagine di colui che fotografa”, come immagine che dà a vedere
una soggettività oltre che un’oggettività.
Forse, sulla scorta di queste affermazioni di Wenders, vale la pena
di considerare maggiormente l’atto del fotografare, facendo ciò che
Barthes non fa: tentare di osservare la fotografia dal punto di vista del
suo lato attivo, quello del fare. Fotografia, allora, non solo come
immagine, ma anche come operazione, come tecnica e come prassi.
90
Il passo di Wim Wenders citato è tratto da Claudio Marra, Le idee della fotografia.
La riflessione teorica dagli anni sessanta a oggi, Bruno Mondadori, Pavia 2001, pp.
316-317.
78
Può essere utile richiamare il saggio di Heinrich Schwarz Arte e
fotografia, qui leggiamo:
fotografare può essere qualcosa di più dell’atto di azionare un
dispositivo meccanico, e una fotografia non è soltanto la replica di un
frammento di realtà visibile. Se così non fosse, come sostiene chi si
accosta a questa attività del tutto unica in modo superficiale o
polemico, allora ogni differenza sarebbe da imputare al congegno o
all’apparecchio fotografico e la rappresentazione finale sarebbe
soltanto un facsimile. Ma noi sappiamo che non è così e che
innumerevoli fotografie scattate nelle medesime condizioni ottiche
non daranno mai risultati identici. Sappiamo anche che la
rappresentazione fotografica non ha mai raggiunto, né ha mai
seriamente mirato a raggiungere, un livello di identificazione col
proprio soggetto tridimensionale tale da rendere pressoché impossibile
la distinzione tra il modello e la sua riproduzione.91
Dunque il fotografo conta. E non solo nel senso banale per cui è
necessario il dito di una mano per azionare una macchina che da sola
non scatterebbe alcuna foto. Il peso del fotografo è visibile nel
risultato stesso, nell’immagine – ritroviamo quello che sosteneva
Wenders. Fotografare, infatti, significa innanzitutto scegliere un
soggetto possibile; significa ritagliare una porzione di realtà, e proprio
quella e non un’altra. La scelta può avvenire per i motivi più disparati,
e tuttavia rimane una scelta. E chi opera questa selezione, chi sceglie
dove indirizzare la macchina è il fotografo. Fra le migliaia di soggetti
possibili, egli decide di fotografare questo – la macchina è un potente
strumento, ma proprio in quanto mezzo ha bisogno di essere
91
H. Schwarz, op cit., p. 3.
79
indirizzata verso un punto specifico dello spazio, poiché da sola non
può farlo. Inoltre lo scatto avviene ora e non in un altro momento. La
responsabilità del contenuto, le coordinate spazio-temporali di una
fotografia, dunque, sono appannaggio del fotografo e di nessun altro.
Egli detta e impone alla macchina ciò che essa deve riprodurre. Egli la
usa, la impiega per avere una fotografia di questo e non di altro. Tutto
ciò significa già incidere sull’immagine e sulla sua genesi. E questo è
un primo importante punto.
Ma la scelta del soggetto di una fotografia può essere considerata
un fattore esterno all’immagine in quanto tale. Chiediamoci, allora, se
il fotografo può incidere anche sull’immagine stessa, al di là della
decisione in merito al contenuto.
In genere si ritiene che la macchina fotografica imponga pesanti
costrizioni alla creatività umana e a chi la usa. E proprio questa è una
delle argomentazioni su cui fa leva il realismo quando parla di genesi
meccanica dell’immagine: la macchina e la luce fanno la fotografia.
Bazin si esprime così: “per la prima volta, un’immagine del mondo
esterno
si
forma
automaticamente
senza
intervento
creativo
dell’uomo, secondo un determinismo rigoroso.”92
Il
pennello
sembra
lasciare
più
libertà
e
più
spazio
all’immaginazione. Un quadro è, in fondo, un manufatto. E certo è
vero che il pennello si usa in maniera differente da una macchina
fotografica, come è vero che l’attività del fotografo è vincolata
all’esistenza reale di un soggetto da riprendere. Ma l’immaginazione
92
A. Bazin, op. cit., p. 7.
80
non è l’unica cifra della creatività, e, oltretutto, immaginare non
necessariamente significa creare ex novo o, addirittura, ex nihilo.
L’immaginazione spesso prende le mosse da qualcosa di esistente per
modificarlo, trasfigurarlo, trasformarlo. Insomma, immaginare può
significare anche vedere altrimenti.
La fotografia permette tutto ciò. Un uso sapiente del mezzo, infatti,
concede la possibilità di scegliere come il soggetto che si vuole
fotografare potrà apparire. Usare un tipo di obbiettivo piuttosto che un
altro; scegliere una certa esposizione alla luce; scattare la foto in una
certa ambientazione, ad una particolare ora del giorno – ecco come si
può incidere sull’immagine. Già il punto di vista che si decide di
adottare, la prospettiva su ciò che s’intende fotografare, sono modi per
influenzare la forma stessa dell’immagine, oltre che il suo contenuto.
Anche la maggior obiettività possibile, è una scelta. La fotografia
come documento, come reportage, è una opzione possibile, non
l’unica possibile; un modo di fare foto, non l’unico modo.
Dice Schwarz:
non è quindi l’idea creativa in quanto tale a subire delle restrizioni,
bensì le possibilità creative, campo nel quale il fotografo si trova ad
agire con delle restrizioni. La macchina fotografica può essere
paragonata a un imbuto attraverso il quale può passare ogni liquido
che provenga dal cielo o dalla terra, ma in cui si deve sempre seguire
lo stesso percorso, dalla lente al negativo. Tuttavia il fotografo,
indirizzando quest’asse in una direzione prescelta all’interno
dell’infinito campo d’azione in cui egli può muoversi, compie la parte
più importante ed essenziale dell’atto creativo. […] La fotografia non
è condannata ad essere un prodotto ibrido, a metà strada tra la pittura e
81
un processo meccanico senza essere mai né l’una né l’altra. Al
contrario: rispettando i limiti del mezzo, non esistono restrizioni per
l’immaginazione e la capacità creativa del fotografo.93
Pennello e macchina fotografica sono due strumenti diversi che
implicano pratiche diverse e limitazioni diverse. Ma conoscere una
pratica, possederla, significa anche saper piegare quegli strumenti per
i propri fini e interagire con i limiti imposti dai “ferri del mestiere” per
trasformarli in possibilità. Il limite è, infatti, l’altra faccia della
possibilità – la colomba di Kant è, in questo senso, l’esempio più
classico possibile e tuttavia assolutamente valido. Escludere, dunque,
l’immaginazione e la creatività dalla fotografia solo in virtù dei limiti
della macchina, senza vedere le possibilità creative che un sapiente
utilizzo di quella comporta, significa vedere un unico aspetto del
problema. Altrettanto vale per il discorso in merito alla genesi
dell’immagine. E’ chiaro, a questo punto, che non si può non tenere
conto del ruolo che il fotografo riveste in quel processo, a fronte delle
potenzialità reali che ha di incidere sia sul contenuto sia sulla forma
dell’immagine.
Con Wenders possiamo allora dire che il rimando della fotografia è
duplice: al referente e all’Operator. Non solo essa ci dice che un
oggetto è stato di fronte all’obbiettivo, ma anche che qualcuno ha
scattato la fotografia, e questo è quanto sposta l’immagine fotografica
dalla pura analogia, dall’obiettività verso la sfera della raffigurazione
e della soggettività.
93
H. Schwarz, op. cit., pp. 5-6.
82
3. La percezione dell’immagine: dubbi e critiche
E’ ora il caso di considerare l’altro nodo: quello della percezione. Si è
visto come Barthes parli di aderenza del referente, e di fotografia
come “involucro trasparente”. Guardando una fotografia non vedo
l’immagine, ma solo ciò che essa riproduce. Perciò essa presentifica;
perciò si può parlare di allucinazione; perciò si può dire che la
fotografia è un “messaggio senza codice”. Essa riproduce l’oggetto
catturandone la piena essenza visiva per metterla di fronte allo
spettatore, il quale non vede altro se non la cosa stessa. La fotografia
si ritrae per mostrare; nel momento stesso in cui dà a vedere si fa da
parte. Ciò che percepiamo è l’oggetto stesso, e nient’altro.
Le considerazioni di Walton gettano luce su come tutto ciò sia
possibile. L’analogia dell’immagine fotografica non è solo rispetto
all’oggetto, ma anche rispetto alle stesse condizioni di possibilità del
vedere. E questo è l’affondo più forte che egli propone. La fotografia
mostra rispettando, salvaguardando e riproponendo le medesime
strutture di fondo della percezione visiva. Perciò essa è trasparente,
perciò attraverso di essa vediamo l’oggetto e non una mera immagine
della cosa. La fotografia è, dunque, uno strumento per vedere nel
passato. Essa supera la raffiguratività tipica dell’immagine per essere
documento. Anche la via dell’analisi percettiva ci riconduce, dunque,
al medesimo risultato: fotografia come documento.
Abbiamo già notato come il discorso di Walton sia apertamente
fondato su una premessa rappresentazionalista. Questa teoria afferma
che il dato percepito è già immagine: immagine retinica in un rapporto
83
di dipendenza causale con il mondo esterno, proprio come l’immagine
fotografica è causalisticamente dipendente dall’oggetto che raffigura.
E quest’ultimo passo è decisivo. Infatti non tutte le immagini sono
assimilabili a quelle retiniche. Per la foto, tuttavia, l’accostamento è
possibile, proprio in virtù del rapporto causa-effetto che la origina.
Essa è paragonabile all’immagine retinica, sia in quanto immagine, sia
in quanto prodotta da un oggetto esterno. L’occhio e l’obbiettivo sono,
allora, due dispositivi che funzionano allo stesso modo: raccolgono la
luce riflessa per formare un’immagine.
Già abbiamo avanzato dubbi e critiche rispetto alla genesi
meccanico-causale dell’immagine fotografica, sottolineando il ruolo
del fotografo. In breve: il processo che conduce alla formazione di una
fotografia non può essere descritto semplicemente in termini
causalistici, poiché non è esaurito dalla componente della macchina
fotografica – è, quindi, qualcosa di più complesso di un mero rapporto
causa-effetto.
Ma anche valutando in termini meramente causalistici la genesi di
una fotografia, rimangono dei dubbi. Si tratta infatti di capire se
realmente il vedere-attraverso-una-fotografia possa essere considerato
alla stessa stregua del vedere letterale. Questo è il punto. La domanda
allora sarà: davvero la percezione visiva consta di immagini?
Se così fosse la percezione sarebbe una mera sommatoria di
momenti percettivi isolati: una successione di singole unità discrete.
Ma ciò non si dà. La percezione, infatti, è continua – proprio per
questo motivo diciamo di vedere aspetti di un unico oggetto. Come
84
potremmo avere coscienza dell’identità dell’oggetto, infatti, se
avessimo una mera collezione di immagini? Riconosciamo l’unità
perché vi è un decorso in cui, al variare del punto di vista, si dà
qualcosa che non varia: un’unità di fondo, che noi siamo in grado di
cogliere.
Ogni immagine è autosufficiente, conchiusa in se stessa e, quindi,
satura di senso. La percezione intesa come decorso, invece, implica
che sia lo sviluppo di quest’ultimo a fornire un senso ad ogni singola
manifestazione della cosa. Non vediamo semplicemente il fronte, la
costa o il retro di un libro, come se fossero scollegati tra loro: vediamo
un libro intero che si dà per aspetti. E diciamo che ha una forma sua
propria ben precisa; e tutto ciò perché sappiamo che ogni aspetto, che
di volta in volta cogliamo, non esaurisce tutte le manifestazioni
possibili della cosa. Gli oggetti hanno, infatti, delle forme obiettive
che trascendono l’immanenza del singolo dato percettivo e che non
coglieremo mai con un singolo atto. E solo in quanto la percezione è
un decorso che si dà nel tempo possiamo avere coscienza di tali forme
obiettive che, pertanto, ci assicurano sul fatto che ciò che vediamo non
è solo una sequenza di immagini distinte. La nostra capacità di fornire
al decorso un’unità di senso mostra che la percezione è un continuo
variare a partire da uno sfondo comune, e non la giustapposizione di
singole immagini.
Inoltre il fatto che pensiamo a una fotografia come a una porzione
del mondo, sottointende proprio che nella percezione ordinaria
facciamo esperienza delle cose non da un solo angolo visuale, ma
85
variando continuamente il punto di vista e avendo coscienza della
forma completa dell’oggetto.94
Ci sarebbe, poi, da notare che il vedere non si dà mai separato dagli
altri sensi, il che significa ulteriormente che non possiamo porre sullo
stesso piano percezione d’immagine e percezione ordinaria:
l’immagine estrapola dal contesto e per questo stesso fatto modifica le
condizioni di senso a partire da cui ci rivolgiamo all’oggetto
riprodotto. Il frame, la cornice di una fotografia – e di tutte le
immagini – comporta uno iato, una separazione tra lo spazio interno
all’immagine e lo spazio esterno. Per quanto Barthes la definisca
come “messaggio senza codice” o “involucro trasparente”, una
fotografia ha una sua presenza materiale e fisica; possiede dei limiti
ben precisi che si vedono: inizia e finisce. Possiamo osservare
fotografie all’interno di un album o in una cornice oppure tenendole in
mano; ma né l’album, né la cornice, né la mano scompaiono quando
guardiamo la foto, anzi abbiamo piena coscienza del fatto che ci sono.
Insomma, l’immagine fotografica non ha il potere di occultare né il
proprio sostrato materiale né ciò che sta al di fuori di essa, e il fatto
stesso che vi sia un contesto all’interno del quale l’immagine viene
percepita contribuisce a far sì che quanto vediamo riceva proprio il
senso dell’immagine.
Potremmo porci, non senza un po’ d’ironia e gusto del paradosso,
una domanda strana e chiederci, dunque, perché non faremmo mai il
94
Per una discussione più accurata e approfondita rimando a Paolo Spinicci,
Percezioni ingannevoli, CUEM, Milano 2005 (in particolare pp. 25-32) e Giovanni
Piana, Elementi di una dottrina dell’esperienza. Saggio di filosofia fenomenologica,
CUEM, Milano 2005 (in particolare pp. 21-33).
86
caffè con la fotografia di una caffettiera. Ebbene, per quanto un tale
quesito appaia senza senso – o perlomeno inutile – tuttavia anch’esso,
se letto nel senso dovuto, può mostrare qualcosa di interessante.
Consideriamo
innanzitutto
perché
suona
così
paradossale.
Essenzialmente per il fatto che, nella nostra esperienza quotidiana del
mondo, non ci accade mai di scambiare l’oggetto fotografia-di-unacaffettiera per l’oggetto caffettiera. E questo può già dirci molto.
Infatti significa che siamo in grado di porci nei confronti dell’una cosa
e dell’altra in un modo diverso e adeguato a ciascuna delle due; ma
perché ciò si realizzi la nostra percezione nei due casi deve essere
diversa. L’oggetto richiede sempre da parte nostra una risposta
commisurata ad esso, e il fatto che una tale risposta ci sia denota che
vediamo una differenza. Sappiamo, dunque, di trovarci di fronte a
cose diverse in ragione del fatto che vediamo diversamente. Non
avrebbe senso – e sarebbe sbagliato – negare che guardando una foto
di una caffettiera vediamo in essa una caffettiera. Ma, appunto, qui è
la differenza decisiva: vediamo in essa l’immagine di una caffettiera e
non attraverso di essa la caffettiera.
La percezione d’immagine implica riconoscimento di qualcosa in
altro, laddove la percezione ordinaria riconosce l’oggetto in quanto
tale, in se stesso. Ciò suggerisce che la materialità di una fotografia
non può scomparire del tutto: essa, infatti, possiede un suo sostrato
fisico e reale fatto di carta impressionata, che noi cogliamo e che
rimane sempre sullo sfondo della nostra percezione, supportando il
riconoscimento dell’oggetto riprodotto, e anzi rendendolo possibile.
87
Questo significa vedere – e riconoscere – qualcosa in altro. Il nostro
sguardo, pertanto, non attraversa la fotografia come attraversa una
lente, dal momento che non vediamo oltre la fotografia ma vediamo la
fotografia – con la sua materialità cartacea e i limiti spaziali che le
impone il suo frame – e in essa ciò che mostra. Potremmo dire: il
nostro sguardo non attraversa l’immagine, si ferma sull’immagine.
Ecco il motivo per cui vi è differenza tra vedere una caffettiera
reale
e
vedere
una
fotografia-di-una-caffettiera:
guardando
quest’ultima non possiamo non scorgere anche il sostrato materiale
che supporta l’immagine, cioè la fotografia come oggetto reale del
mondo che ha una sua presenza fisica tra le altre cose. Percepire una
fotografia significa proprio questo: cogliere insieme la carta e
l’immagine su di essa impressa; significa percepire un mediatore che
restituisce l’oggetto nella forma della raffigurazione e della copia –
più o meno realistica, ma sempre copia – laddove nella percezione
ordinaria non si dà mediazione.
88
CONCLUSIONI
Concludendo può essere significativo richiamare il caso border-line
dell’iper-realismo – proposto dallo stesso Walton – per leggerlo in
maniera un po’ differente. Se, infatti, da un lato esso mostra che non si
può porre la differenza tra un quadro e una fotografia su un piano di
capacità analogica, dall’altro ciò significa anche che non vi è una reale
differenza fenomenologica tra un’immagine fotografica e un dipinto: i
quadri di Chuck Close (fig.5) sono indistinguibili da una fotografia,
questo è l’unico dato fenomelogico che possiamo rilevare. Pertanto
nulla nell’immagine ci garantisce di avere di fronte una fotografia e
non un quadro realizzato con una tecnica tale da poter imitare le
fotografie. Ma questo significa anche che la nostra percezione
dell’immagine non può variare nei due casi, dal momento che c’è la
possibilità dell’inganno.
89
Quadri e foto, dunque, da un punto di vista fenomenologico, non
appartengono a due generi differenti ma si collocano, ciascuno con la
propria specificità, all’interno della famiglia delle immagini e come
tali vanno trattate. Quando guardiamo una fotografia la guardiamo
come un’immagine: riconosciamo in essa qualcosa, ma non vediamo
la cosa attraverso di lei.
Il realismo della fotografia è un effetto di realtà, un’apparenza di
maggior aderenza al vero della raffigurazione ottenuto in ragione di un
determinato mezzo – la macchina fotografica – che rende possibile
quel risultato e quel tipo di raffigurazione. Ma, di fronte ad una foto,
la prima cosa a cui pensiamo non è che il referente è stato, né che il
passato si fa presente davanti ai nostri occhi; e non lo pensiamo poiché
non lo vediamo, dal momento che nell’immagine non vi è nulla che
assicura sull’esistenza di ciò che è riprodotto – potremmo, infatti,
sempre trovarci di fronte a un quadro iper-realista. Ciò che Barthes
chiama il noema della fotografia interessa il concetto di fotografia, il
quale senza dubbio implica l’esistenza necessaria dell’oggetto. Il
concetto, però, non incide assolutamente sul dato fenomenologico
primario, che è quello di avere di fronte e vedere un’immagine, una
raffigurazione di qualcosa – il che non implica, di per sé, un richiamo
immediato all’esistenza dell’oggetto esterno che viene raffigurato.
Non è senza senso, però, il fatto di avvertire una maggior oggettività
in una fotografia. Il problema è che questa presunzione si dà allo
spettatore insieme alla consapevolezza di trovarsi davanti ad una
immagine. Un conto, è sostenere di avere di fronte una raffigurazione
90
realista, altro è dire di vedere la realtà attraverso un’immagine, come
si vede la realtà attraverso un paio di occhiali – o addirittura di avere
la cosa stessa presente qui e ora
Ma, allora, in ragione di cosa accettiamo che ci venga mostrata una
fotografia invece della persona stessa? Proprio in virtù del fatto che
sappiamo che si tratta di una fotografia e, quindi, che è accettabile
sostenere e pensare che quell’immagine darà giustizia pienamente
delle sembianze di quella persona senza, tuttavia, farla apparire per
magia in carne e ossa davanti a noi. Si può ragionevolmente dire che
quella è una raffigurazione aderente al vero, proprio perché la
fotografia riproduce questo: l’aspetto visivo di ciò che raffigura. Non
si può dire, invece, che la fotografia rende presente ciò che è stato
altrove e in un altro tempo. Vedere una fotografia è comunque una
seconda scelta, un ripiego: significa sopperire ad una assenza.
Ma non è tutto. Importante è anche notare che lo spettatore sa
quale tipo di fotografia ha davanti. Cioè, sa che non tutte le fotografie
sono realizzate per il medesimo fine, non tutte sono foto-tessera o foto
di reportage. L’intento del fotografo è differente a seconda dell’effetto
che egli vuole ottenere in relazione all’uso che della fotografia si farà,
e questo incide su come disporrà della macchina fotografica e, quindi,
sul risultato. Le fotografie di Nadar non sono assimilabili alle foto da
carta d’identità o da passaporto; il fine è diverso. Il fotografo che
conosce il proprio strumento, che padroneggia la tecnica della
fotografia ottiene proprio il risultato che cerca, in questo sta la sua
arte. Potremmo dire: la fotografia è arte se il fotografo decide che lo
91
sia. Il mezzo meccanico non esclude, come abbiamo visto, la
creatività. Il mezzo meccanico per rendere al massimo delle sue
potenzialità ha bisogno dell’incontro con l’uomo. Anzi la fotografia è
racchiusa in questo incontro. Una parte non pesa più dell’altra:
entrambe sono necessarie. E il vero problema del realismo è questo:
considerare solo l’aspetto meccanico. Il punto è che dietro l’obbiettivo
c’è un occhio umano, e considerare la fotografia come fare non
significa non dar peso alla componente meccanica, ma riabilitare
quella umana. Tra immagine e oggetto, dunque, tertium datur, ed è il
fotografo. E questo dato è ciò che riporta la fotografia dalla macchina
all’uomo, dalla sfera della mera causalità a quella della cultura.
92
IMMAGINI
Fig. 1.–Richard Avedon, William Casby, nato schiavo, 1963.
93
Fig. 2.–André Kertész, La ballata del violinista, 1921, Abony, Ungheria.
94
Fig. 3.–Alexander Gardner, Ritratto di Lewis Payne, 1865.
95
Fig. 4.–Ian Vermeer, Veduta di Delft, olio su tela, 1660-61, Mauritshuis, L'Aia.
96
Fig. 5.–Chuck Close, Self portrait, acrilico su tela, 1968, Walker Art Center,
Minneapolis.
97
98
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103
104
La camera chiara (1980), l’ultimo saggio scritto da Roland
Barthes (Cherbourg 1915 – Parigi 1980) prima di morire, è
innanzitutto un testo che cerca una risposta alla domanda “che
cos’è la fotografia?”.
Le tesi forti proposte dal semiologo francese e il suo stile, mai
così evocativo e sfuggente, costituiscono l’input iniziale per una
più ampia riflessione attorno alla teoria realista dell’immagine
fotografica e alla fotografia stessa – “medium bizzarro” che
pare intrattenere una relazione privilegiata ed esclusiva con il
reale.
In quest’ottica La camera chiara si presenta non solo come
testo in cui recuperare la specificità del realismo barthesiano;
ma anche come luogo dove emergono affinità teoriche tra
Barthes e altri pensatori realisti con i quali, in questo lavoro, si
propone un confronto, alla ricerca di una via possibile per
gettare un po’ di luce sulla fotografia.
Davide Bordini, nato a Milano nel 1982, si è laureato nel 2006
con Paolo Spinicci in Filosofia Teoretica all’Università Statale di
Milano.
105