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Giusto e sbagliato: dove comincia il territorio dell'errore?

La norma linguistica e la definizione del concetto di "errore"

PERCORSI Linguistica e critica letteraria La pubblicazione del presente volume è stata resa possibile grazie al contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Salerno. LEZIONI D’ITALIANO Riflessioni sulla lingua del nuovo millennio A CURA DI SERGIO LUBELLO SOCIETÀ EDITRICE IL MULINO I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it ISBN 978-88-15-25125-1 Copyright © 2014 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie INDICE Premessa, di Sergio Lubello PARTE PRIMA: SGUARDI p. 7 SULL’ITALIANO DI OGGI Dove va l’italiano? Linee di tendenza della lingua di oggi, di Paolo D’Achille 13 Italiano e dialetto oggi, di Carla Marcato 37 L’itangliano è ancora lontano? Qualche riflessione sull’influsso dell’inglese, di Sergio Lubello 63 L’italiano nella scrittura amministrativa, di Michele A. Cortelazzo 85 PARTE SECONDA: NORME E «GRAMMATICHE» DELL’ITALIANO Movimenti nella norma. Appunti per una grammatica «leggera», di Riccardo Gualdo 107 Allegro con brio. La grammatica dalla parte del parlante nell’era di Internet, di Massimo Arcangeli 135 Norma e antinorma nella lingua della narrativa contemporanea, di Maurizio Dardano 161 5 «Ti auguro tanta fortuna, ma non dov’esse esser così...»: norma liquida tra Internet e scrittura accademica, di Giuliana Fiorentino p. 181 Grammatica e modalità: un rapporto a più dimensioni, di Miriam Voghera 205 PARTE TERZA: A SCUOLA D’ITALIANO Italiano e scuola oggi. La formazione linguistica dei docenti, di Francesco Sabatini 227 Giusto e sbagliato: dove comincia il territorio dell’errore?, di Luca Serianni 235 Ancora sulla formazione degli insegnanti: speranze deluse e cattive abitudini, di Rita Librandi 247 6 LUCA SERIANNI GIuStO e SBAGlIAtO: DOVe cOMIncIA Il teRRItORIO Dell’eRRORe? Parto da un’ovvietà. Quello di «errore» non è un dato ontologico, ma storico e contestuale: l’errore varia nel corso del tempo; è condizionato dalla situazione comunicativa (scritto/parlato, formale/informale); suscita una sanzione sociale che non coincide necessariamente con le gerarchie dei linguisti. In proposito pensiamo solo all’uso dell’apostrofo o dell’accento: è deplorevole scrivere «un anima» o «citta», per carità, ed è certamente indizio o di sciatteria (se si tratta di scrizioni occasionali) o di scarsa confidenza con le convenzioni della scrittura, con tutto quello che ne deriva per il profilo culturale dello scrivente (a tacere della possibilità che, in un bambino in età scolare, non sia uno dei sintomi – certo non quello di maggiore salienza patognomonica – della dislessia). Ma si tratta in ogni modo di deflessioni che riguardano il livello più superficiale della lingua, quello dell’ortografia; un livello che, nella storia dell’italiano, è andato fissandosi solo nell’ultimo secolo: Giuseppe Verdi scriveva tranquillamente stò, fù, nò, accanto alle forme non accentate già allora prescritte dalle grammatiche. Oggi non avremmo altrettanta libertà. Quanto al variare della norma sull’asse diacronico, le classiche ricerche di Paolo D’Achille [1990] e la recente Grammatica dell’italiano antico di Salvi e Renzi [2010] ci consentono di mettere insieme un campionario di quelle che oggi costituirebbero indubbie violazioni sintattiche. Alcune di esse rappresentano un tipo che è costantemente vissuto nel parlato e ancora oggi potrebbe figurare in livelli diastraticamente, e persino diafasicamente, bassi (per esempio il che relativo indeclinato: «per farmi cosa che io non sarò mai lieta»; Boccaccio, Decameron). Altre sono oggi agrammaticali e si troverebbero solo in apprendenti stranieri o in bambini nella fase iniziale dell’acquisizione della ma235 drelingua: pensiamo al superlativo assoluto rafforzato con molto (chiaro indizio della non popolarità del tipo in issimo, non a caso assente o marginale nella morfologia di diverse lingue romanze, come francese, provenzale, romeno): «vide l’ombra sua ch’iera molto bellissima» (Novellino). Ma restringiamo il nostro orizzonte alla norma attuale. Possiamo distinguere almeno tre macrocategorie, in base alla fonte del diritto linguistico (se vogliamo insistere sulla metafora giuridica; la norma è prima di tutto quella sancita dalla legge): a) norma comunemente condivisa, perché la sua violazione non è ammessa in nessun livello della lingua, in quanto sono in gioco quelli che Michele Prandi definisce «dati non negoziabili»: il molto bellissimo appena citato o i cane; b) norma scolastica, in quanto tende a mantenere in vita (almeno nella scrittura) forme chiaramente obsolete e, in generale, tende a sanzionare il livello diafasico colloquiale, persino nei casi in cui sarebbe l’unico appropriato (come nei frequenti temi scritti che invitano l’alunno a parlare di sé: «che cosa rappresenta per te l’amicizia», «Scrivi una lettera a un compagno...»). Ho parlato, anni fa, di «norma sommersa», perché «non appare in superficie, come avviene per quel che si legge nei libri» o «si verifica nell’uso reale, parlata e scritta»; i destinatari si riducono a poche unità, ossia ai componenti di una classe scolastica, ma «l’impatto che la norma trasmessa dall’insegnante esercita sugli alunni è straordinario: al prestigio della fonte (almeno su questo particolare versante) si accompagna l’effetto della sanzione». Di qui nascono produzioni francamente incongrue, come quando una ragazzina quindicenne scrive (2005): «A me piace molto il protagonista Riccardo Scamarcio nel ruolo di Step, egli è alto, ha gli occhi verdi e i capelli mori», con l’esplicitazione di un soggetto personale nella forma canonica egli, oltretutto ridondante anche sintatticamente perché, data la coreferenza col soggetto della frase precedente, sarebbe stato meglio ometterlo. e di qui nascono anche, da parte degli insegnanti, censure non facilmente motivabili e singolarmente diffuse, come l’ostracismo ai costrutti col tu impersonale («se non trovi nulla di interessante su un canale 236 ne hai altri diciannove»), del tutto pertinenti nel registro familiare, e non solo lì («il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore» scrive Pascoli in una poesia famosa); c) norma microcomunitaria, esclusivamente orale. È esperienza comune – un tempo verificabile tipicamente per il sottouniverso maschile ma oggi sempre più evidente anche per quello femminile – che, passando dall’infanzia all’adolescenza, un bambino di estrazione borghese che fino a quel momento percepiva come norma di riferimento quella trasmessa a scuola (e magari dalla famiglia), è esposto a un’inversione di prestigio linguistico: è l’uso del «gruppo dei pari» che fa premio su altre possibili norme, con forte ricorso al dialetto, all’italiano regionale o al gergo in funzione espressiva e con compiaciute esibizioni di turpiloquio. chi si sottraesse a questa pressione sarebbe inevitabilmente emarginato se non irriso, vittima della crudeltà tipica degli adolescenti nei confronti del «diverso»: una crudeltà che, in ambienti adulti, sarebbe almeno schermata dai salutari filtri delle convenzioni sociali. Anche l’immissione nel gruppo di un ragazzo proveniente da un’altra regione può causare reazioni di rigetto, sia pure giocate sullo scherzo. un mio antico allievo (ora affermato giornalista radiofonico), che passò gli anni di scuola prima a Milano e poi, arrivato al liceo, a Roma, mi raccontò un aneddoto significativo: come tutti i milanesi o milanesizzati, questo ragazzo usava l’articolo femminile davanti al numero degli autobus; i compagni romani immancabilmente gli chiedevano, con finta nonchalance: «come sei venuto a scuola?», e alla sua risposta: «con la 90», sghignazzavano. l’atteggiamento di quei liceali era esattamente quello di puristi ortodossi: la norma è rigida e chi se ne allontana è oggetto di scherno. Dal punto di vista del livello di lingua interessato possiamo individuare altre partizioni: a) ortografia. È ormai in gran parte stabilizzata: poche le oscillazioni superstiti che suscitino dibattito (nei giornali, ma soprattutto nei blog e in genere nella rete) come l’omissione o il mantenimento dell’accento in sé quando sia seguito da stesso; del tutto inosservate altre oscillazioni, come la grafia di alcuni composti: italo-americano (con trattino), italo 237 americano (senza trattino), italoamericano (univerbato). Se qualche anno fa sembrava che l’uso delle maiuscole fosse in generale regresso, ora capita di leggere, per influsso inglese, non solo gli Inglesi, ma persino la grammatica Inglese (con l’aggettivo etnico) e l’Inglese «lingua»; b) pronuncia. Resta molto forte la caratterizzazione regionale, sia pure con picchi di riconoscibilità diversi. In generale, non c’è una forte spinta verso un «italiano senza accento» e certe pronunce marcate sono stigmatizzate, semmai, da parlanti di altre regioni: caratteristica l’insofferenza settentrionale verso pronunce romane come ['abbile] e [red'dZina] e, in generale, verso tratti propri delle varietà centro-meridionali. In ogni caso, quello dell’ortoepia è uno dei settori in cui la spinta normativa è più debole: segno evidente del fatto che, a parte frizioni interregionali vecchie e nuove, il pimento locale non compromette la comunicazione reciproca; c) morfosintassi. nella morfologia è irreversibile il declino di certe forme (vadi «vada» è il tipico contrassegno del semicolto alla Fantozzi). Se la scuola talora osteggia anche la promozione di lui, lei, loro al rango di soggetti, già da tempo acquisita nella realtà linguistica, va segnalata l’estensione di te in funzione di soggetto nelle varietà centro-settentrionali (Roma compresa): abituale nel parlato e nello scritto che, a vario titolo, si colloca in aree contigue all’oralità, dalla narrativa, all’articolo giornalistico brillante. È possibile che gli anni a venire portino a una legittimazione normativa del tipo Dillo te, se lo sai, per ora fortemente marcato in diafasia e diatopia. la lamentata «morte del congiuntivo», invece, dipende più da una percezione dei parlanti che da un effettivo abbandono di questo modo verbale, nonostante le frequenti lagnanze nei giornali, in rete e anche nella comune conversazione. Riflette da molti anni su questi temi Salvatore claudio Sgroi, che nel 2010 ha raccolto vari suoi interventi nel volume Per una grammatica «laica». Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante. Il concetto di errore viene definito essenzialmente in base a due parametri: il confinamento a classi socioculturalmente subalterne e il rischio di oscurità 238 comunicativa. non ho difficoltà ad assumere le vesti del grammatico «clericale» nel dichiarare il mio dissenso dagli assunti dell’amico Sgroi. I due criteri da lui menzionati sono certamente importanti, ma non sufficienti: conta, oltre alle indicazioni di classiche fonti della norma linguistica come dizionari, grammatiche e, soprattutto, tradizione scolastica, la reattività dei parlanti, ove sentano violato quello che m’è capitato di chiamare, ancora una volta ricalcando la terminologia giuridica, il «comune sentimento della lingua»; infine, non va sottovalutato un portato della tradizione normativa tradotto nel mondo della telematica: il correttore automatico del nostro computer o del cellulare, una volta attivata la tecnologia t9. In particolare, ho molti dubbi che sia utile il richiamo alla tradizione letteraria remota, quale che sia l’intento dell’allegazione: che la LIZ faccia emergere in Guittone d’Arezzo (o meglio nelle lezioni messe a testo dall’ediz. egidi) due esempi di scenza e coscenza [Sgroi 2010, 34] non vuol dire molto, e lo stesso varrebbe se di Guittone possedessimo l’autografo; l’ortografia dei testi volgari medievali non ha nessun rapporto con quella successiva alla fissazione della stampa e soprattutto all’assestamento compiutosi per molti microfenomeni dopo l’unità d’Italia. che l’accentazione piana, non etimologica, di gomèna e darsèna dipenda dall’allineamento alla serie delle parole in ena è innegabile; che ciò sia «del tutto “normale”» [ibidem, 39] no, almeno intendendo l’aggettivo come «conforme alla norma linguistica vigente». Finché i parlanti più sorvegliati, i dizionari generali e ortoepici manterranno o sosterranno la pronuncia con accento sulla terzultima, questa sarà quella da considerare «corretta» (del resto, anche molti parlanti pronunciano spontaneamente così; per esempio i pescatori di Gabicce, come so da persona bene informata). Se poi riuscirà a imporsi l’analogia, niente di grave: la norma cambierà, com’è accaduto per ìrrito che nessuno più pronuncerebbe alla latina irrìto e come sta accadendo per sèparo, che suonerebbe affettato per il corrente sepàro. Se posso lasciarmi andare a una confidenza: qualche anno fa praticavo e sostenevo la pronuncia valùto (con sopravvalùto e sottovalùto), ma ora sto prendendo atto che la mia piccola 239 battaglia è persa; e probabilmente, se insistessi in questa pronuncia, scorgerei nello sguardo dei miei interlocutori una sensazione di disagio: «Ma come, è un professorone e sbaglia anche gli accenti!?». Ancora. non basta che in accellerare si siano prodotti gli stessi fenomeni fonetici che hanno portato a seppellire (lat. sepelire; raddoppiamento dopo accento secondario) o, come opina giustamente Sgroi [2010, 251], a macchina (lat. machina, con raddoppiamento dopo la sillaba tonica nei proparossitoni; qui il punto di partenza dovrebbe essere naturalmente una forma rizotonica come accellera). I repertori grammaticali, i dizionari e i correttori automatici sono compatti nel rifiuto («pochi [sei] sono invece i dizionari che condannano tale uso», annota Sgroi [2010, 249]: ma conviene ricordare che nella prassi lessicografica l’omissione di una variante implica ipso facto la sua esclusione dalla norma linguistica). Gli esempi letterari remoti, come dicevo, vanno maneggiati con prudenza (e va comunque cassato un esempio moderno attinto da Sgroi nel raffinatissimo Pizzuto il quale, attribuendo accellerare a un personaggio di Signorina Rosina, «ironizza inequivocabilmente sull’approssimazione culturale della sletterata comprimaria»: Gualberto Alvino). Resterebbero i dati che emergono dagli archivi elettronici: «una sbirciatina alla pagina letteraria, il domenicale del “Il Sole 24 Ore”, nel ventennio 1983-2003, consente di individuare con qualche (spiacevole?) sorpresa non meno di 16 “pezzi” in cui ricorre il nostro tipo paradigmatico nelle diverse forme: accellerare 5 ess., accellerato agg. 4 ess., accellerazione s. f. 4 ess., accelleratore s. m. 2 ess. e persino un accellerando s. m.», osserva Sgroi [2010, 245]. Ma davvero 16 esempi dispersi in un ventennio (o anche in ventun anni, se consideriamo l’anno di partenza e quello di arrivo) vogliono dire qualcosa e possono essere interpretati diversamente da semplici refusi? un refuso, lo ribadisco, che non nasce dal capriccio, ma da una pressione fonetica attiva nel parlato (in area centro-meridionale, andrà precisato). Per taccuino Sgroi argomenta in modo convincente [2010, 253-279] la diffusione della pronuncia trisillabica tac-cui240 no, dunque con u semiconsonantica; ma nella pronuncia, dicevamo, la norma è poco operativa: una grafia tacquino, più fedele alla fonetica dominante nel parlato reale, non ha nessuna possibilità di imporsi e non bastano occasionali esempi analoghi scovati nelle pagine del giornalismo letterario (Galimberti: cospiquo, Reale: cospiquo) a coonestarla. Si tratta anche qui di isolati refusi, poco importa se dovuti al tipografo o a un lapsus degli illustri autori. Ma a questo punto è giusto porre un quesito generale: davvero la nozione di errore si identifica col pulviscolo di singole forme, o di singoli istituti grammaticali, da accettare o da respingere? non sarebbe un po’ come ridurre il latino volgare all’angusto versante dell’anonimo compilatore dell’Appendix Probi con la sua lista incardinata sull’asse giusto-sbagliato (auris non oricla e simili)? chi ha esperienza di scritture acerbe (in primo luogo gli insegnanti, dalla scuola dell’obbligo all’università) sa bene che un testo scritto può essere impeccabile (o quasi) nell’ortografia, cioè nel settore dal quale soprattutto abbiamo attinto la nostra esemplificazione, ed essere scritto clamorosamente «male». Vediamo due esempi. Il primo è una prova scritta eseguita in un corso per traduttori (2009-2010); una mia collega aveva assegnato il seguente tema: «la posizione di Arrigo castellani sui prestiti non adattati può essere considerata lungimirante alla luce dell’italiano attuale?» (ricordiamo che per il compianto linguista la salvaguardia dell’integrità dell’italiano comportava l’italianizzazione di tutti i prestiti non adattati, cioè di quelli con struttura grafico-fonetica non compatibile col tipo toscano: quindi film → filme, computer → computiere ecc.). ecco il poco promettente incipit dell’elaborato (tra parentesi quadre, in grassetto, gli interventi della correttrice; sono sottolineate le forme errate): Attualmente il tasso di forestierismi utilizzati nel lessico italiano è aumentato considerevolmente, sia dal punto di vista dello scritto sia sul piano dell’orale. castellani [non vedo il nesso], infatti, affermò che, se in una data lingua (nel nostro caso l’italiano) si introducono prestiti non adattati, questi, a loro 241 volta, mineranno la struttura del lessico. la postura del linguista, seppur anticonformista dal punto di vista dei suoi contemporanei, mirava alla salvaguardia della linguistica interna, al fine di non compromettere l’espressività [?] che caratterizza l’italiano. Si può affermare, dunque, che l’introduzione di nuovi termini, neologismi hanno lasciato spazio all’inglese [...]. c’è un solo errore di tipo ortografico (precisamente: paragrafematico): «neologismi», il tecnicismo corrispondente al generico «nuovi termini», andava tra due virgole o, meglio, entro parentesi. Ma c’è ben altro che non va. Intanto un paio di errori di merito: l’introduzione di prestiti non adattati (tipicamente terminanti in consonante, come negli esempi citati sopra, o presentanti sequenze graficofonetiche esogene come nel verbo switchare «scambiare») non minaccia la «struttura del lessico», bensì quella morfologica e, eventualmente, quella grafico-fonetica. Inoltre: è incongruo il richiamo alla «linguistica interna» (semmai: «alla struttura interna della lingua») e «l’espressività» non c’entra nulla (in entrambi i casi si tratterà di formulazioni inaccettabili che dipendono da scarsa padronanza lessicale). Il lessico viene chiamato in causa anche con «postura», sinonimo semanticamente più ristretto di posizione, con cui condivide i significati di «atteggiamento del corpo umano o di una sua parte» (la corretta postura delle dita sulla tastiera) e, raro e letterario, di «collocazione nello spazio fisico» (l’amena postura del villaggio) ma non quello di «atteggiamento mentale». clamorose, tenendo conto della brevità, le lesioni della coerenza testuale. l’affermazione di apertura è del tutto irrelata rispetto alla seconda frase, puntellata dal connettivo «infatti»; incongruo è anche il connettivo «seppur»: anche ammesso che la posizione di castellani potesse dirsi «anticonformista», questo dato non avrebbe nessun rapporto logico col contenuto della reggente. e il «dunque» conclusivo è una zeppa priva del necessario statuto inferenziale (solo nel parlato si potrebbe cominciare un qualsiasi discorso col fatismo «dunque», senza conseguenze comunicative). un banale errore morfosintattico si registra in «hanno» (il predicato concorda 242 con l’elemento semanticamente pesante, i «nuovi termini», e non col soggetto). Il testo che abbiamo appena letto rientra in una tipologia – quella delle prove scolastiche – che offre larga messe di deviazioni linguistiche: si potrebbe dire, ottimisticamente, che siamo nella fisiologia dell’apprendimento, che procede attraverso incertezze e passi falsi, non nella patologia. Vediamo allora uno scritto che proviene da un adulto, non privo come vedremo di una certa istruzione. Si tratta di un padre che si rivolge al dirigente di un ente pubblico per chiedere di riesaminare la domanda del proprio figlio (ovviamente adulto), al quale era stato rifiutato un contratto di collaborazione. ecco una porzione del testo, doverosamente censurata di qualsiasi riferimento (rappresentato sempre da un «XY»; mantengo invece tutte le caratteristiche, anche paragrafematiche, dell’originale): Dr. Prof. XY --- Sua On. Dimora ecc.mo Sig. XY, mi vedo, letteralmente, «costretto» ad effettuare questa sottospecie di «abuso» che tale, però, nOn È e nOn VuOle ASSOlutAMente eSSeRe, ma gliene chiedo, ugualmente, immenso perdono. IeRI, dopo qualche ora dall’averle spedito la lettera per la quale avevo ottenuto, dopo gli opportuni contatti telefonici, il Suo nobile beneplacito, rientrato a casa, Mio Figlio mi ha mostrato l’e-Mail inviatagli dalla Preg.ma Dr.ssa XY Resp.le Segreteria XY, qui, ad ogni buon prò, in fotocopia, allegata. cOn IMMeDIAteZZA, il prefato Figlio ha prodotto la Richiesta di ReVISIOne di cui alla cOPIA pure qui allegata, una Richiesta sulla quale non mi intrattengo visto che............. «dice tutto da sé».----------------- tale Richiesta di Revisione, è bene evidenziarlo, pur indirizzata alla S.V. ecc.ma, con Raccomandata a parte, in DAtA ODIeRnA, viene inviata alla attenzione della succitata Dr.ssa XY, così come da accordi telefonici dalla stessa avuti con Mio Figlio.-Ricollegandomi, nuovamente, alla missiva che le ho inviato IeRI, era, dunque, giusto che la tenessi «aggiornato» di tutto ciò e, pertanto, nOn Me Me VOGlIA e MI PeRDOnI AncORA per il tanto ardire, a lei, alla Sua indiscussa Autorità ma anche alla Sua certa, immensa bontà, l’Ardua Sentenza [...]. 243 Il testo suscita una sensazione di pena, prima ancora che per la lingua, per il costume culturale che ne è alla base: un adulto, al quale è stata rifiutata una richiesta dai responsabili di un ente, non trova nulla di meglio che farsi scrivere una lettera di appoggio dal papà (o forse non sa resistere all’intervento fuori tempo massimo del protettivo padre), come se non potesse e dovesse essere in grado lui stesso di far valere le proprie eventuali ragioni. Ma veniamo alla lingua. Qui la lesione principale non riguarda la testualità, ma la pragmatica. la captatio benevolentiae è talmente rozza e ingenua che probabilmente riuscirebbe inefficace anche con Mangiafoco, il quale, a «sentirsi chiamare eccellenza», «fece subito il bocchino tondo», disponendosi a prestare ascolto a Pinocchio. l’esaltazione del destinatario si accompagna a un’ostentata auto-umiliazione: per chiedere scusa dell’ardire, lo scrivente lo definisce «abuso» (come effettivamente è), ma attenua il termine con mezzi lessicali («questa specie di abuso», anzi: «sottospecie», con ulteriore intento minimizzante) e paragrafematici (le virgolette). In ogni caso non si invoca un diritto, o un presunto diritto, ma solo un atto di magnanimità del potente, richiamandosi al suo «nobile beneplacito», alla sua «indiscussa Autorità» e alla sua «immensa bontà». Ricordi scolastici (l’ardua sentenza manzoniana viene traslata dai posteri cui spetterà di pronunciarsi sulla vera gloria di napoleone alla decisione del dirigente) si combinano con cascami del linguaggio burocratico: il «prefato Figlio», «della succitata Dr.ssa» e anche il meno marcato «in DAtA ODIeRnA». l’inadeguatezza della scrittura appare anche dalla gestione dei segni paragrafematici. la lettera maiuscola non è usata solo con il consueto intento reverenziale («averle», «Suo», «lei» ecc., accanto a «gliene»), ma è estesa, ingenuamente, a parole affettivamente importanti per chi scrive: «Figlio», con tre occorrenze. Il maiuscolo ricorre anche per intere parole e porzioni di testo, con un effetto che può ricordare la scrittura prevalentemente giovanile di chat e blog, ottimamente studiata da elena Pistolesi [2004] e Mirko tavosanis [2011]. Ma naturalmente non c’è nessun rapporto tra esperienze di scrittura così diverse: il nostro 244 scrivente ricorre a sequenze del genere o con intento enfatico («nOn È e nOn VuOle ASSOlutAMente eSSeRe», «nOn Me ne VOGlIA e MI PeRDOnI AncORA») o per scandire i termini obiettivamente rilevanti della richiesta di revisione: vuoi per il merito («ReVISIOne», «cOPIA»), vuoi per la sequenza temporale in cui sono state compiute determinate azioni («cOn IMMeDIAteZZA», «In DAtA ODIeRnA», «IeRI»). Abbondano le virgolette metalinguistiche, lo strumento con cui uno scrivente impacciato cerca di legittimare l’uso di termini che avverte a ragione o a torto inappropriati (un’abitudine che non viene repressa a scuola come e quanto sarebbe opportuno): «costretto», «abuso», «dice tutto da sé», «aggiornato». Sono certo che Sgroi concorderebbe con me nel giudicare negativamente entrambe queste scritture. le ho volute proporre per due ragioni. Prima di tutto per mostrare che la nozione di errore non è un’invenzione dei grammatici, ma una realtà linguistica che compromette la tenuta di un’argomentazione (nel primo esempio) o l’efficacia di una richiesta (secondo esempio). ed è un territorio nel quale vegeta una quantità varia e diversificata di fattispecie: alcune rientrano in quelle di cui a pieno titolo deve occuparsi l’insegnamento linguistico (nell’ordine in cui ne abbiamo parlato: uso dei connettivi; appropriatezza del lessico; pragmatica e tecnica dell’argomentazione; uso di maiuscole e virgolette); per altre, meno prevedibili e sistematizzabili, può giovare solo l’esercizio diretto praticato su una gamma il più possibile varia di tipologie testuali. Ma nella mia scelta c’è anche un sovrascopo che, questa volta, il mio collega catanese non sottoscriverebbe: il suo appello all’ascolto della «grammatica inconscia» dei parlanti con funzione rassicurante può essere diseducativo, se fa passare l’idea che l’errore sia riducibile alla tirannia dei grammatici e della scuola (solo qualche volta è così) e non dipenda, piuttosto, dalla difficoltà intrinseca di trascorrere dalla naturalezza di un discorso orale alla rigidità e alle norme codificate che regolano un discorso scritto, consista esso in una prova scolastica o nell’istanza rivolta a un ente pubblico. e chi se non la scuola deve farsi carico di educare alla scrittura, anche in quello che essa significa 245 prescindendo dal canale diamesico, cioè come vettore più impegnativo e strutturato delle nostre idee? Riferimenti bibliografici Alvino, G. 2011 Recensione a Sgroi [2010], in «Studi linguistici italiani», XXXVII, pp. 312-315. D’Achille, P. 1990 Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana, Roma, Bonacci. 2010 Lingua d’oggi, in Enciclopedia dell’italiano, (diretta da Raffaele Simone), Roma, Istituto della enciclopedia Italiana, pp. 793-800. lIZ 2001 LIZ 4.0. Letteratura italiana Zanichelli, a cura di P. Stoppelli e e. Picchi, Bologna, Zanichelli. Pistolesi, e. 2004 Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms, Padova, esedra. Prandi, M. 2006 Le regole e le scelte. Introduzione alla grammatica italiana, torino, utet. Salvi, G. e Renzi, l. 2010 Grammatica dell’italiano antico, 2 voll., Bologna, Il Mulino. Serianni, l. 2007 La norma sommersa, in «lingua e Stile», XlII, pp. 283295. Serianni, l. e Benedetti, G. 2009 Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti, Roma, carocci. Sgroi, S.c. 2010 Per una grammatica «laica». Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante, torino, utet. tavosanis, M. 2011 L’italiano del web, Roma, carocci. 246