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Walter Benjamin e il Surrealismo

Tesi di Laurea Magistrale

Capitolo I Walter Benjamin: dai primi saggi all'incontro con il Surrealismo - Questioni preliminari: Filosofia e Critica La mole di testi che costituisce l'Opera omnia, in molti casi frammentaria e in gran parte postuma, di Walter Benjamin, ha resistito e resiste ad ogni tentativo di collocazione esclusiva nell'inventario classico delle forme di sapere. Il motivo di tale inafferrabilità va ricercato probabilmente nel fatto che gli scritti dell'autore tedesco sconfinano puntualmente in ambiti disciplinari differenti, ma anche, dato sicuramente più rilevante ai fini della ricerca, nella inseparabilità di quei diversi ambiti ai fini di una comprensione totale del suo pensiero. Risulta in sintesi evidente, accostandosi alla produzione benjaminiana, l'estrema diversità dei temi e delle questioni trattate, ma risulta anche chiara anche la natura funzionale di questa complessità ai fini di un metodo decisamente personale e pertanto “incollocabile”. Nonostante questa considerazione, sarebbe tutt'altro che corretto vedere nel critico berlinese un pensatore, per così dire, “pindarico”, oscuro o addirittura ermetico. Non si può neanche negare che si tratti di un autore che, nonostante gli interessi multidisciplinari, mantenga nella sua impostazione una forte coerenza di fondo, ma sarebbe impossibile, o quantomeno avventuroso, tentare di sintetizzare dal complesso dei testi benjaminiani, comprensivo di appunti di lavoro, raccolte di scambi epistolari, frammenti e citazioni, una dottrina sistematica e autoconclusiva. Le tensioni presenti nel testo benjaminiano, tra campi d'analisi e contesti apparentemente inconciliabili, non gettano quasi mai le basi per una costruzione dottrinale sistematica, che possa permettere di incastonare, in un struttura progettata ad hoc, teorie e concetti al fine di spiegare una serie di ipotesi preliminari validanti un vero e proprio sistema di pensiero. In particolare nella produzione del primo Benjamin confluiscono elementi differenti: ad esempio l'idealismo tedesco di Fichte e Schlegel, Kant e il neokantismo di Hermann Cohen, l'esperienza della Jugendbewegung di Gustav Wyneken, il romanticismo in 1 particolare nelle figure di Goethe e Novalis, la lirica di Hölderlin e Rilke, le riflessioni sul diritto e sul mito, fino al rapporto con il messianesimo ebraico, al cui interessamento concorre significativamente l'incontro, a Berlino nel 1915, con Gershom Scholem, con cui stringerà una sodale amicizia durata fino alla morte 1. Questi elementi sono sviluppati per poi essere ripresi, rielaborati e fatti propri, per così dire filtrati, in una sintesi che contemporaneamente li discerne e li unifica. Discorso a parte va fatto per la produzione successiva al saggio sul barocco2, soprattutto quindi per gli scritti redatti dalla metà degli anni '20, in cui le fonti iniziali del critico tedesco vengono filtrate ulteriormente attraverso una particolare lettura del marxismo alla luce degli sviluppi storici di quegli anni, ed anche attraverso l'incontro con i temi delle avanguardie artistiche europee, in particolare con le tematiche del Surrealismo. La critica ha spesso sottolineato come questi due periodi fossero a tal punto discernibili che si potrebbe porre uno spartiacque tra un primo ed un secondo Benjamin. Tuttavia anche la questione relativa ad una ipotetica “svolta”, che sarebbe da rintracciare proprio a partire dall'incontro con il comunismo alla metà degli anni '20, rimane problematica. Da un lato è possibile parlare di uno slittamento degli interessi di Benjamin: da un ambito più strettamente filosofico e in confronto soprattutto con Kant, con l'idealismo di Fichte filtrato attraverso l'idealismo magico di Novalis, e il romanticismo di Goethe, ad un interesse più strettamente politico connotato da un atteggiamento che si potrebbe definire materialista (vedremo poi come e in che senso Benjamin potrà dirsi “materialista storico”), in un confronto sempre più serrato con il marxismo ortodosso e con le intuizioni politiche delle avanguardie artistiche e letterarie del primo '900. D'altro canto non è possibile parlare decisamente di una Kehre concettuale, come nel caso di autori più sistematici, dove il cambio di direzione nel pensiero è guidato da un rifiuto o da una radicale revisione degli assunti di base del proprio sistema filosofico. Nella produzione pur diversificata di saggista, critico letterario, filosofo teoretico e talvolta anche narratore, permangono sempre dei temi e degli atteggiamenti critici che non permettono, se non in senso puramente didascalico, di operare una cesura critica netta tra una prima ed una seconda fase del pensiero di Benjamin. Per questi motivi, qui solo menzionati, la sua figura è stata, non senza ragioni, quella di 1 Per un'approfondimento della questione ebraica in Scholem, anche in relazione a Benjamin: cfr. G. SCHOLEM, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Adelphi, Milano, 1998; G.SCHOLEM, Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, Adelphi, Milano, 1992. 2 Cfr. W. BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), trad. it. Il dramma barocco tedesco, a cura di G. SCHIAVONI, Einaudi, Torino, 1999. 2 un autore enigmatico e impenetrabile. Potrebbe essere letta come una testimonianza in questo senso la vicenda relativa alla pubblicazione delle Opere Complete: da un lato l'edizione tedesca dei Gesammelte Schriften3, curata da Rolf Tiedemann ed Hermann Schweppenhäuser, allievi di Theodor W. Adorno (assieme a Scholem erede, in senso letterale, dei testi, dei manoscritti, oltre che della fiducia di Benjamin), presenta una catalogazione su base tematico-formale che, nonostante l'indiscussa importanza, fa dibattere ancora oggi per l'inadeguatezza di tale impostazione ai fini di una comprensione effettiva del pensiero e del metodo benjaminiani; dall'altro lato, l'edizione italiana, interrotta e poi ripresa dall'editore Einaudi e curata da Giorgio Agamben, cui si deve il recupero ancora oggi di manoscritti importanti, riprendeva i testi dell'edizione tedesca, ma proponeva una catalogazione su base strettamente cronologica, scelta che implicitamente affermava la necessità di poter attingere ad una produzione quanto più fedele al reale sviluppo del pensiero del critico tedesco4. La versione italiana più recente, curata da Enrico Ganni5 e ricalcata sull'impostazione cronologica di Agamben, mostra inoltre come nello stesso arco di tempo la produzione di Benjamin spaziasse dal saggio filosofico al saggio di critica letteraria, dall'annotazione diaristica al commento a testi altrui, dall'aforisma alla citazione, spaziando tra autori e tematiche di natura anche considerevolmente diversa. Si presenta quindi come effettivamente problematica la catalogazione della costellazione degli scritti benjaminiani, sia se affrontata nei parametri della cronologia che in quelli della separazione tematica. Il fatto che la Filosofia, in nome di una naturale affinità o di una presunta onnicomprensività, possa rivendicare una sorta di primato o di priorità nello studio di Benjamin, è un dato valido finché si tratti di uno studio filosofico che non sia alla ricerca di una sistematizzazione, o che quantomeno non richieda, al pensiero di un autore, una determinata leggibilità all'interno di una determinata tradizione, o una metodica, propedeutiche al titolo di “dottrina filosofica” o a quello di “critica letteraria”. Piuttosto in Benjamin persiste una forza critica tesa a scardinare la separazione netta degli ambiti disciplinari, così come le definizioni stesse di dottrina filosofica o di critica. Questi due piani anzi – dottrina e critica – vengono a sovrapporsi, e comprendere in che modo si realizza questa dinamica può forse aiutare nell'approccio 3 Cfr. W. BENJAMIN, Gesammelte Schriften, in VIII voll., a cura di R. TIEDEMANN, H. SCHWEPPENHÄUSER, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1972-1989. 4 Riguardo alla storia della ricezione di Benjamin in Europa: cfr. AA.VV., Walter Benjamin et Paris., a cura di H.WISMANN, Les Éditions du Cerf, Paris, 1986. In particolare: cfr K.GARBER, Réception de Benjamin., pp. 982-994. 5 Cfr. W. BENJAMIN, Opere complete, in IX voll., a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2001-2012. 3 ad un autore che, per quanto fosse più o meno vicino alle concezioni e alle tematiche delle cerchie intellettuali da lui frequentate nel tempo6, mantenne degli elementi di originalità irrinunciabili, relativi proprio alla concezione del fare filosofico, che permettono di stendere una linea rossa che idealmente percorre tutta la sua produzione. Per trovare una definizione pregnante dell'elemento metodologico fondamentale, ovvero il concetto radicale di critica come filosofia, che attraversa l'opera di Benjamin, può essere utile rivolgersi preliminarmente ad un testo che è già un punto di arrivo e una summa dei concetti espressi in testi precedenti, quello cioè su Le Affinità elettive7 di Goethe, pubblicato tra il 1924 e il 1925 sulla rivista “Neue Deutsche Beiträge” di Hugo von Hofmannstahl. Il testo si apre con una metafora da cui scaturisce una riflessione metodologica, sui modi di avvicinamento ad un'opera letteraria, distinti in critica e commento. La critica cerca il contenuto di verità di un opera d'arte, il commentario il suo contenuto reale. Il rapporto fra i due determina quella legge fondamentale della letteratura per cui, quanto più significativo è il contenuto di verità di un'opera, tanto più strettamente e invisibilmente esso è legato al contenuto reale.8 Queste due modalità di lettura di un'opera si presentano quindi come inizialmente complementari, ma la loro capacità esplicativa nel tempo si differenzia, poiché il contenuto reale, argomento del commento, si fa più appariscente, nel senso che la sua forma ed il suo messaggio immediato rimangono costanti, laddove il contenuto di verità, quello che cioè riguarda l'inespresso, il “mediato” o il recondito dell'opera, si sbiadisce con il tempo e va sempre di nuovo ricostruito9. Ciò che Benjamin intende per contenuto di verità presenta allo stesso tempo i caratteri del residuo e del sostanziale: è allo stesso tempo ciò che va recuperato dell'opera e ciò che deve concernere la ricerca del critico, in quanto materia nascosta alla prima lettura operata dal commento. Per 6 Casi emblematici sono quelli del rapporto con Adorno e la Scuola di Francoforte, o con la Jugendbewegung di Wyneken, suo professore ad Haubinda. 7 Cfr. W. BENJAMIN, Die Wahlverwandtschaften (1924-1925), trad. it. Le Affinità elettive, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., a cura di R. SOLMI, Einaudi, Torino, 2006, pp. 163-243. 8 Ivi, p. 163. 9 A tal proposito Benjamin si serve di un'altra immagine, che introduce la questione della storicità dell'opera e del rapporto del critico con essa proprio nel contesto della sua temporalità: « Si può paragonare il critico al paleografo davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è ricoperto dai segni di una scrittura più forte che si riferisce ad esso. Come il paleografo deve cominciare dalla lettura di quest'ultima, così il primo atto del critico ha da essere il commento.», Ivi, p. 164. La natura di ciò che Benjamin chiama alternativamente «il contenuto di verità dell'opera» o anche «la verità dell'opera», sarà più chiara alla luce di quanto segue, in particolare relativamente al saggio sulla critica e a quello sul linguaggio. 4 ragioni tecniche, o meglio empiriche, la lettura di un'opera deve passare attraverso l'immagine che si presenta più distinta – il contenuto reale, l'aspetto evidente del testo – e in questo senso la verità dell'opera d'arte si costituisce, in quanto prodotto della critica, come oggetto di una mediazione, tra ciò che l'opera esprime nella sua realtà empirica e ciò che da quel testo il critico deve recuperare. Già in questo passaggio è possibile notare come la concezione benjaminiana di critica si proietta entro un orizzonte etico, nel senso che ciò che, in ultima istanza, guida il critico, è una responsabilità morale, nei confronti dell'opera come nei confronti della tradizione. Il critico si fa carico di una missione etica nel momento in cui si appresta a desumere, dal contesto formale di un'opera – come anche delle opere relative ad una corrente di pensiero – un discorso che possa revitalizzare la verità della stessa, rendendola sempre di nuovo utilizzabile. La separazione nel tempo di contenuto reale e contenuto di verità non determina solo il rapporto tra i due, ma grazie alla critica, determina il meccanismo di storicizzazione dell'opera. Il gesto del critico, cui spetta il compito di rinnovare costantemente il segreto costituito dal contenuto di verità che nel tempo continua ad infossarsi, deve diradare l'evidenza schiacciante del contenuto reale, superare in un certo senso il gesto del commentatore, per poter storicizzare l'opera, mettendo in relazione il passato – fissato nel contenuto reale dell'opera – e il presente sempre rinnovabile della stessa. Se il commento restituisce sempre una visione preliminare e si trova a precedere necessariamente la critica, che poggia quindi anche sul commento stesso, questa deve operare una maggiore approssimazione all'oggetto della propria analisi, superando la prima distanza che è quella temporale. La dinamica di commento e critica viene illustrata, come è frequente in Benjamin, attraverso un'immagine 10. Se si vuol concepire, con una metafora, l'opera in sviluppo nella storia come un rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l'alchimista. Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l'altro solo la fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve del vissuto.11 Da un lato il commentatore appare impegnato a raccogliere la verità esteriore del legno 10 La seguente argomentazione deve la sua impostazione ad un importante testo critico, occasionalmente citato nella presente trattazione: cfr. B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, Cronopio, Napoli, 2009. In particolare cfr. La chimica del testo, cit. pp. 25-54. 11 W. BENJAMIN, Le Affinità elettive, cit. p. 164. 5 arso e della cenere, che restano a testimoniare del contenuto reale dell'opera – l'aspetto empirico, la forma e l'argomento manifesti nel testo -, dall'altro l'interesse precipuo del critico è quello di cogliere le determinazioni essenziali, la pura fiamma, che a ben vedere rappresenta ciò che brucia l'opera stessa come elemento estraneo, distinto dall'immediatezza del contenuto reale e dal presente del contesto culturale dell'opera. Lo sforzo interpretativo proprio della critica, è processo ermeneutico che differisce dalla semplice analisi dei resti – il legno e la cenere -, non solo perché legge tra le righe del testo traendone un testo nuovo, ma anche perché tale processo,pienamente creativo, è attivo nella combustione dell'opera stessa. Il critico, come l'alchimista, ricerca in questo processo – la fiamma, il rogo sempre rinnovabile dell'opera - il segreto costituito dal contenuto di verità. L'alchimista, come il critico, tesaurizza il segreto della fiamma per poi sintetizzarlo in una combustione sempre rinnovabile, anche a distanza di tempo. Con questa metafora Benjamin afferma innanzitutto il rapporto di natura gerarchica, ai fini della conoscenza, di commento e critica, che ribalta innanzitutto la visione classicista dell'opera d'arte, per cui l'apparenza dell'opera conteneva in se tutte le determinazioni della stessa; in secondo luogo viene implicitamente affermata la natura fondativa del commento, cui il critico deve rifarsi poiché è a partire dalla forma esplicita dell'opera che va ricercata la chiave di accesso per un secondo livello di lettura, quello inerente alla verità della stessa. Il commentario risulta una fase necessaria, ma la critica soltanto ha la prerogativa conclusiva di riportare in vita la fiamma che brucia l'opera, o meglio la capacità di discernere dal contenuto reale dell'opera un contenuto di verità per mostrarne la natura sempre, potenzialmente, ardente di verità. Seguendo l'argomentazione di Moroncini potremmo dire: Se il rapporto fra i due è quello espresso dall'immagine del rogo, ciò significa che la verità mira a bruciare il contenuto reale, non ad esibirvisi. Essi dunque già divergono all'origine, ed è lo scarto che separa, da sempre, il doppio livello del contenuto dell'opera, che decide della sua storicità successiva. Contro una interpretazione 'classicista' dell'arte, secondo la quale la verità si cala integralmente nell'apparenza – ciò che costituisce l'archetipo della bellezza in generale – Benjamin introduce la discontinuità nel seno stesso dell'opera: verità e contenuto sono si in relazione, ma non coincidono.12 12 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit. p. 27. 6 Se da un lato la metafora del rogo è funzionale a spiegare la separazione e il meccanismo di articolazione del commentario in critica, la metafora, già citata in nota, del critico come paleografo, restituisce l'immagine dell'interazione tra i due tipi di attività riflessiva. Dei testi che il decifratore prende in considerazione, quello manifesto recante il contenuto reale dell'opera sta davanti a quello di verità come un velo che lo custodisce nascondendolo. Al critico non si presenta il contenuto di verità pienamente visibile, ma l'opacità di quest'ultimo coperto dalla struttura manifesta del contenuto reale. Tuttavia ciò non implica che la verità alberghi fuori di esso, nella visione dell'idea o nella purezza della parola: essa, al contrario, è iscritta radicalmente nel contorno figurale e nella materialità della scrittura. Non è il testo il resto di una verità altra dalla sua esistenza materiale, ma esso stesso è l'opera in quanto attraversato dalla medesima scissione che contraddistingueva quest'ultima: verità e contenuto sono due scritture che, a pari titolo, compongono il testo.13 L'attività del critico, ancora una volta, non può prescindere da quella del commentatore, ma, nella visione del critico come paleografo, è forse meglio rappresentata la stretta correlazione che esiste a questo punto tra l'una e l'altra attività. Il critico che ricerca il contenuto di verità del testo come uno studioso di civiltà preistoriche i fossili, deve decifrare un testo il cui linguaggio ambiguo sembra celare un sotto-testo da liberare. Eppure la strada per la sua intima comprensione non sta solo nello spolverare il reperto per catalogarlo esattamente in un inventario tipologico, ma nel ripercorrerlo nella sua complessità, ricostruirlo nella sua struttura interna, sapendo che il contenuto di verità iscritto in tale documento non risiede solo nell'oggetto ma anche nella relazione di questo con il presente, il tempo della critica 14. Tale documento deve essere reso utilizzabile ai fini di una ricostruzione o di una nuova nascita del contenuto di verità dell'opera. In questa metafora il commentatore partecipa della stessa dignità conoscitiva del critico, ed è anzi il buon critico a dover scindere la sua natura in una duplice e sinergica di commentatore e critico. 13 Ivi, p. 28. 14 In questo contesto si inserisce la questione relativa alla responsabilità del critico nei confronti della storia, e quindi alla moralità stessa del gesto critico. Il rapporto che una critica così concepita instaura con i fenomeni, così come con le opere d'arte, implica l'accettazione di un peso, di un destino, che è quello di secernere costantemente la verità dei fenomeni. 7 Così il critico è colui che riesce a vedere il testo sbiadito in quello manifesto e il rosso della brace nel legno della cenere.15 Il testo sul romanzo di Goethe solleva quindi, oltre ai problemi specifici di interpretazione sul significato letterario e storico dell'opera, un problema di ordine terminologico riguardante la differenza tra commento e critica, e un problema di ordine metodologico, che è quello che riguarda il discernimento di contenuto reale e contenuto di verità. Se da un lato la definizione di un rapporto più o meno gerarchico tra commentario e critica decide dell'impostazione metodica del decifratore, dall'altro non esaudisce i significati della distinzione tra contenuto reale e contenuto di verità. Nello sviscerare il contenuto complessivo dell'opera il critico compie un'operazione che è anche differente da quella della semplice deduzione. Si tratta di un'opera differente, che se da un lato distrugge l'opera scomponendone il contenuto reale ed immediato, dall'altro sintetizza ad un livello superiore il contenuto dell'opera, che diventa allo stesso tempo fonte della critica e punto cardine di una nuova riflessione. Tuttavia ancora non è possibile definire propriamente il contenuto di verità, o meglio la verità dell'opera prodotta dal critico accorto, come Benjamin lo concepisce. Se la critica è la fiamma che brucia il contenuto reale dell'opera, in questa cancellazione si trasforma il senso stesso della cosa osservata. L'oggetto dell'analisi, l'opera letteraria, sta nei confronti del critico benjaminiano più come un'entità creaturale che come un oggetto di scienza. Questa cosa che semplicemente esiste esige che il pensiero la abiti, e solo in questa permanenza, abitando l'opera e mettendo da parte la distinzione di oggetto analizzato e soggetto analizzante, la riflessione può porsi all'ascolto della verità stessa dell'opera. In un saggio del 1995 Fabrizio Desideri scrive, riguardo a questo necessario abbandono del pensiero nella cosa: Le reti delle ipotesi vanno gettate sempre di nuovo. Il pensiero deve riflettersi interamente nel problema o nell'oggetto in cui “sprofonda”. Di qui il suo carattere immanentemente critico: quello di un sapere alla seconda potenza che nasce dall'esercizio della riflessione. [… ]. La verità, così, si può intendere come quel riguardo per e dalle cose che sta nel trapassare del pensiero in esse: nell'assumerne la figura. Insieme al senso delle cose stesse muta così in Benjamin anche il senso stesso della verità, diviene qualcosa di figurale: una concrezione immaginale che si 15 Ivi, p. 29. 8 forma solo nella relazione tra la cosa stessa e il pensiero che vi abita16. La verità dell'opera si trasforma in una relazione, quella tra il pensiero e la verità stessa, il cui carattere transitivo informa di se il pensiero che la abita. L'operazione, che inizialmente era della critica, quella cioè di indagare il contenuto di verità dell'opera, si trasforma in una operazione più profonda, che rivaluta il principio stesso di critica come riflessione alla seconda potenza, come pensiero cioè del pensiero stesso in relazione a se, attraverso l'opera. Allora la capacità del pensiero nel trarre dall'opera una verità starà nella capacità di immedesimarsi, di farsi opera viva del pensiero stesso, attraverso una disposizione all'ascolto della verità transitiva che il testo cela mostrandosi 17. Il rapporto della critica al testo non è quindi quello di uno studio all'interno di determinati parametri conoscitivi. Non si costituisce come una critica dal punto di vista di una tecnica o di un metodo prestabiliti, nel senso che non pone come imprescindibile la distanza tra un soggetto – il critico – e ed un oggetto rappresentato dall'opera stessa. In questo senso il modello della critica benjaminiano ha un riferimento dichiarato nella filosofia del romanticismo, in particolare negli scritti di autori anch'essi poco sistematici come Tieck, Friedrich Schlegel, nel concetto di Kunstkritik così come nella concezione, riferita a Novalis, della filosofia come critica radicale. Per comprendere tale legame è necessario fare un passo indietro, dal punto di vista cronologico, nell'opera di Benjamin, andando a ritrovare le origini del suo concetto di critica, o quanto meno la base teorica da cui parte la sua elaborazione di un proprio concetto di critica, in uno scritto del 1919, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco18. Già alcuni anni prima del saggio goetheiano, in quella che è la sua dissertazione di laurea all'Università di Berna, Benjamin tentava un'indagine sul modo in cui la nozione di critica si configurava nel pensiero del romanticismo tedesco 19. Non si tratta di una 16 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., cit., pp. 311-312. 17 « Il carattere transitivo della verità sta in uno con quello del pensare stesso. Un pronto disporsi del pensiero ad ascoltarne il ritmo, a percepire gli echi che come onde si riverberano dalle cose. Il senso del conoscere pare così, per Benjamin, assumere piuttosto una dimensione acustica che quella tradizionale della visione. », Ivi, p. 313. A proposito della dimensione acustica di questo senso del conoscere in Benjamin: cfr. H. ARENDT, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940., Mondadori, Milano, 1993. 18 Cfr. W. BENJAMIN, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), trad. it. Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di G. AGAMBEN, Einaudi, Torino, 1982. 19 La seguente argomentazione deve la sua impostazione ad un testo critico, citato altrove nella presente trattazione: cfr. G. ZUCCARINO, Critica e commento: Benjamin, Foucault, Derrida., Graphos, Genova, 2000. In particolare: cfr., La fiamma e la cenere, cit., pp. 13-40. 9 ricerca di stampo storico-letterario, quanto di una ricerca di natura più filosofica e speculativa. Il presupposto di Benjamin è che il concetto romantico di critica è basato innanzitutto su basi gnoseologiche, ovvero riguarda innanzitutto il meccanismo del pensiero e della conoscenza. La questione della critica d'arte, sollevata in particolare da Schlegel e Novalis, in opposizione sia a Fichte che al classicismo di Winckelmann, che allo spirito Sturm und Drang di autori loro contemporanei, conduce Benjamin all'elaborazione di un proprio concetto di critica radicale. Solo con i romantici l'espressione «critico d'arte» (Kunstkritiker) si contrappone definitivamente a quella più vecchia di «giudice d'arte» (Kunstrichter). Si mise così da parte l'idea di un seder a giudizio davanti alle opere d'arte, di una sentenza fissata su leggi scritte o non scritte […].20 Il concetto di critica d'arte viene illustrato alla luce delle teoria della conoscenza della natura di Novalis, e nelle definizioni che ne da Schlegel. Benjamin cerca di cogliere, attraverso le tesi dei due, una linea guida da cui poter desumere la propria concezione, che si vedrà pienamente realizzata nel saggio già menzionato su Goethe. La particolare impostazione dei romantici consiste in un ampliamento delle tesi di Fichte sul processo della riflessione nella costruzione dell'esperienza del mondo. La riflessione è innanzitutto auto-riflessione, nel senso che il pensiero appare intento a pensare riflettendosi infinitamente in se stesso. Tale processo si tramuta per i romantici in un processo di riflessione infinita, dove il pensiero pensa nient'altro che se stesso attraverso una serie crescente di gradi di trasparenza, che conducono ad una comprensione sempre maggiore dell'infinito, «fino alla più alta chiarezza dell'assoluto» 21. Il processo riflessivo così interpretato segna un distacco dalla relativa finitezza dell'approccio idealista, in particolare in relazione a Fichte 22. Per i romantici l'attività della riflessione rappresenta «la cellula germinale di ogni conoscenza»23 e nella visione di Schlegel e Novalis non esisterebbe in ogni caso un oggetto inerte di cui il soggetto dovrebbe prendere possesso con la conoscenza, ma viene introdotta una riflessività connaturata all'oggetto stesso che in virtù di questa sua riflessività comunica con il soggetto in un senso nettamente differente da quello idealista. Si potrebbe dire che nel concetto di Kunstkritik si realizza il distacco dei 20 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 47 21 Ivi, p. 26. 22 Per un approfondimento dell'argomentazione, ridotta qui al minimo necessario: cfr. C. CESA, Introduzione a Fichte, Laterza, Bari, 2008. 23 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 49. 10 romantici, inaugurato già dall'idealismo e da Fichte, dall'impostazione kantiana della conoscenza. Se nella visione di Novalis «tutto ciò che si può pensare pensa a sua volta»24, viene a cadere ogni relazione rigida e univoca tra soggetto e oggetto e si parla piuttosto di unità riflettenti, che stabiliscono tra di oro una relazione di conoscenza ed interazione reciproci. Dal punto di vista del concetto di critica, le unità riflettenti costituite dal critico e dal testo interagiscono secondo un simile meccanismo. Come l'osservazione o l'esperimento nelle scienze naturali hanno, secondo i romantici, il compito di destare l'auto-riflessione nell'oggetto, così la critica mette in atto un analogo processo nei riguardi dell'opera […]. Il critico, che stimola ed eleva la riflessione interna all'opera e assolutizza quest'ultima rapportandola all'infinità dell'arte, viene dunque ad assumere, come dice Novalis, il ruolo di «autore ampliato» o di «istanza superiore che riceve la cosa già elaborata 25 dall'istanza inferiore». Così come per Novalis, non vi è opposizione in Benjamin tra il lavoro del critico e quello dell'autore stesso, ma anzi la critica è sempre una lettura talmente partecipe da sembrare immedesimata nella forma stessa dell'opera spiegata. Attraverso l'approfondimento del momento riflessivo presente nell'opera d'arte il critico gli da egli stesso compimento, e lo spazio intertestuale tra l'opera d'arte e la critica della stessa viene ad annullarsi, così come in Schlegel, dove «la poesia può essere criticata solo con la poesia […] e la critica poetica vorrà formare ancora una volta il già formato, compirà l'opera, la ringiovanirà, le darà nuova forma» 26. Da un lato viene ridotto il ruolo valutativo e onnicomprensivo della critica, poiché entrare in quella sorta di comunicazione con l'opera che è il processo critico richiede all'opera stessa un portato di contenuto e verità che inneschi la relazione critica. Dall'altro Benjamin utilizza il concetto schlegeliano di ironia come forma d'arte per rivalutare la portata conoscitiva della critica in ogni caso, e lo fa evidenziando che se nell'ironia schlegeliana è in atto una distruzione artistica dell'opera stessa, una simile ironia, a livello oggettivo e metodologico, si ritrova nelle modalità della critica, che dissolve nel suo percorso la forma dell'opera per trasformarla da «opera singola» a «opera d'arte assoluta»27. 24 Cfr. NOVALIS, Frammenti, 172, in Opere, a cura di G. CUSATELLI, Guanda, Milano, 1982, p. 305. 25 G. ZUCCARINO, La fiamma e la cenere, cit., p. 21. 26 Cfr. F. SCHLEGEL, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. SANTOLI, Sansoni, Firenze, 1967, p. 41. 27 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 79. 11 Proprio da Schlegel, Benjamin desume l'idea di un arte assoluta, nel senso che non si condensa nelle singole opere ma nell'intera costellazione dell'opera d'arte come idea trascendente l'opera empiriche. In questo contesto la critica assume un ruolo complementare e addirittura fondamentale per il compimento dell'opera stessa. L'ideale romantico di un'opera d'arte assoluta si compie solo grazie all'opera della critica. Si potrebbe dire con Moroncini: Non esiste prima l'opera e poi, come dato accidentale a cui l'opera viene a convalidare la scelta di uno specifico apparato teorico, l'interpretazione, ma l'opera e la sua interpretazione sono inscindibilmente unite. L'interpretazione è ciò che permette il compimento della verità dell'opera, compimento forse infinito, ma che procede dal senso dell'opera stessa.28 Il gesto critico si configura come pensiero che compartecipa del pensiero dell'opera. Il critico sprofonda interamente nel testo, e la conoscenza dell'opera diventa una coscienza alla seconda potenza dell'opera stessa. In questo contesto il contenuto formale, o per dirla con il saggio su Goethe, il contenuto reale dell'opera, partecipa dello stesso pensiero della critica e attraverso di essa accede al suo significato proprio e superiore di contenuto spirituale trascendente l'opera empirica. Lo spazio del pensiero, nella “fluidità” con cui viene inteso nel saggio sulla critica romantica, non può definirsi entro la contrapposizione rigida di un soggetto, che indaga attraverso determinate forme a priori un prefissato spazio del conoscibile, e un oggetto, la cui intima conoscibilità è preclusa ad una razionalità definita dalle forme a priori del pensiero. Nella visione di Benjamin il compimento della critica come filosofia a venire sta nello scoprire uno spazio di conoscenza, e quindi un modo di esperire la realtà, sospeso in una sfera neutra tra soggetto ed oggetto. Questa sfera di neutralità è rappresentata dal linguaggio. Il continuum dell'esperienza ha il suo correlato espressivo nella sfera della lingua. E solo nel medium del linguaggio si stringe il nodo filosofico del rapporto tra critica ed esperienza. Dal lato del pensiero, l'esperienza della cosa sarà esperienza di quanto in essa vi è di comunicabile: sarà esperienza della cosa nel linguaggio.29 28 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 32. 29 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., cit., p. 314. 12 Questo ci permette di risalire, tornando ancora indietro nel tempo fino al 1916, ad un abbozzo di teoria del linguaggio in Benjamin. Il breve saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo30, espone una teoria del linguaggio che si distacca sia dalla concezione, definita «borghese», che attribuisce alla parola un carattere del tutto convenzionale e formale, sia dalla concezione, definita «mistica», che mira a cogliere nell'espressione e nella parola l'essenza della cosa nominata. La tesi iniziale è così espressa: Ogni manifestazione della vita spirituale umana può essere concepita come una sorta di lingua, e questa concezione dischiude – come ogni metodo veritiero – ovunque nuovi problemi.31 Nella lingua si comunica lo spirito della cosa in sé. La comunicazione dell'essenza spirituale della cosa è immediata, ed è allo stesso tempo il punto medio necessario grazie al quale l'opera può farsi contenuto spirituale. E la facoltà comunicativa della lingua così intesa non si arresta alla semplice espressione dell'uomo, ma si estende ad ogni oggetto della realtà sensibile. Non vi è cosa evento o cosa nella natura animata o inanimata che non partecipi in qualche modo della lingua, poiché è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio contenuto spirituale. E la parola «lingua», in questa accezione, non è affatto una metafora. Poiché è una conoscenza pienamente oggettiva che non possiamo concepire nulla che non comunichi nell'espressione la sua essenza spirituale; il grado maggiore o minore di coscienza con qui questa comunicazione è apparentemente (o realmente) congiunta non cambia nulla al fatto che non possiamo rappresentarci in nessuna cosa una completa assenza di linguaggio.32 Attraverso questo testo è già possibile cogliere l'influenza della filosofia romantica che si riproporrà soprattutto fino al saggio su Goethe. In particolare il saggio sul linguaggio opera, sulla scia anche degli studi sulla qabbalah propiziati dal sodalizio con Scholem, una particolare sintesi tra romanticismo e misticismo ebraico, aprendosi ad una serie di tematiche che, come è frequente in Benjamin, filtrano i testi attraverso una sintesi critica. In questo caso i numi tutelari sono da un lato Hamann, per quanto riguarda la 30 Cfr. W. BENJAMIN, Über die Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1991), trad. it. Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., cit., pp. 5370. 31 Ivi, p. 53. 32 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., cit., p. 316. 13 teoria del linguaggio strettamente intesa; dall'altro, la componente ebraica del testo deve le sue argomentazioni innanzitutto ad Abraham Abulafia, filosofo mistico attivo in area spagnola nella seconda metà del XIII secolo, che aveva contrapposto nel suo sistema, passato alla storia come qabbalah mistica, una «via profetica dei nomi» alla rabbinica «via delle Sefiroth»33. Dai romantici, e in particolare da Schlegel, Benjamin desume invece la convinzione che il linguaggio sia andato nella storia a corrompersi rispetto ad un momento originario in cui non vi sarebbe stata scissione tra il linguaggio e la verità stessa, convinzione che appunto genera in Schlegel quella tensione dell'arte romantica verso una forma assoluta, cui si è menzionato parlando del saggio sulla critica. La pars costruens del discorso, se così si può dire, si avvale ancora una volta dello studio dei cabalisti medievali, secondo i quali il linguaggio umano (in particolare la lingua ebraica in quanto più prossima ad una ipotetica lingua originaria), si fa specchio dello spirito del mondo e si plasma sul linguaggio di Dio, quello della creazione, di cui conserverebbe un'impronta remota ma rinnovabile attraverso la lettura per gradi che si applica all'esegesi della Torah e dei testi sacri. Come sintetizza Schiavoni: La lingua appare a Benjamin dotata di una sua dimensione segreta, non comunicabile, di un nucleo cioè che rappresenta qualcosa d più di una semplice comunicazione o della pura espressione, qualcosa dunque capace di farsi veicolo di alterità rispetto al linguaggio quotidiano o a quello letterario stesso.34 In accordo con il pensiero medievale ebraico, Benjamin sostiene che la visione del linguaggio come medium di un contenuto spirituale sia da ricercare nella sua origine di «pura lingua» o di una «lingua dei nomi» la cui prerogativa è quella di nominare le cose. In questo senso è al verbo creatore di Dio che si riferisce l'ideale di una lingua incorrotta. Innanzitutto, tale forma del linguaggio si distingue decisamente da quella forma del linguaggio, definita “borghese”, in cui la lingua mantiene i soli caratteri di strumento comunicativo tra un messaggio ed un destinatario. Solo la lingua, quella del paradiso terrestre, è in grado di sviluppare un linguaggio la cui unica natura sia quella di nesso spirituale con le cose, analogamente al linguaggio divino della creazione, che appunto crea le cose nominandole. La corruzione cui il linguaggio va incontro nel 33 Per un approfondimento della tematica ebraica nella teoria linguistica di Benjamin si confronti il testo già citato di Scholem, nota 1. Per una contestualizzazione relativamente più ampia del tema all'interno della biografia di Benjamin: cfr. G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità.,Einaudi, Torino, 2001, in particolare pp. 52-62. 34 Ivi, p. 59. 14 tempo presente è appunto quella della diaspora linguistica generata dalla “cacciata” dall'Eden. Tale decadimento si esprime attraverso la frammentazione biblica delle lingue nella torre di Babele. Sicché dalla purezza della lingua pura, che come quella divina, nominando crea, il linguaggio umano sprofonda in una conoscenza, quella cui seduce il serpente biblico, che è senza nome. La natura stessa ha perso la sua lingua paradisiaca, il mutismo della natura si esprime in un muto lamento per una comunicazione non più articolabile attraverso un linguaggio puro. La confusione babelica delle varie lingue storiche sancisce la gravità dello iato con lo stato paradisiaco in un antagonismo irriducibile tra «nomi» e «parole», emergendo in tutto il suo potere demonico.35 La teoria del linguaggio di Benjamin sta in questo senso, tesa dialetticamente tra l'elevatezza del concetto di nome, lingua immediatamente creativa e comunicante, che si da nella sua «intatta nobiltà denominativa», e le lingue del tempo presente, che vivono nella dimenticanza della propria origine. In questo contesto, ancora una volta, il ruolo della critica è quello di purificare le lingue corrotte, o ricercare l'origine delle cose «e di servirsi di esse come se il passato e il presente recassero la segnatura o la traccia per redimere il futuro del linguaggio stesso»36. Non si tratta qui, di riscoprire eventuali residui “adamitici” , irrimediabilmente perduti, nelle lingue codificate, ma di indirizzare il pensiero verso la consapevolezza dell'irrimediabile perdita, in uno sforzo che si vuole comunque indefinito, ma che non può tuttavia mai raggiungere la purezza della lingua originaria. Nel linguaggio di Benjamin: La lingua non viene elevata a rivelazione dell' Essere […], essa non dispone di alcuna “forza nominale intatta”, che sarebbe disponibile per il pensiero in modo che questo possa “riconquistarla” […]. La filosofia diventa teologia negativa: non può avere la presunzione di “parlare rivelando”, ma può soltanto custodire nel rivelato il ricordo della rivelazione.37 Tale rivelato è ciò che per Benjamin costituisce il medium della lingua, ovvero l'essere immediato del contenuto spirituale contenuto nella comunicazione. Nella lingua, e più precisamente nel nome delle cose, splende un riflesso del verbo creatore. Il testo 35 Ibidem. 36 Ivi, p. 61. 37 W. BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, cit., p. 57. 15 benjaminiano risulta di difficile lettura, soprattutto al lettore che ignori il dettaglio della teoria cabalistica del linguaggio, proprio riguardo alla possibilità, da parte del linguaggio umano di cogliere, dopo la caduta costituita dalla diversificazione delle lingue, un barlume del nome che Dio ha impresso alle cose nel processo della creazione38. L'ebraismo peculiare di Benjamin, allevato in una famiglia di cosiddetti “ebrei assimilati”, costituisce una tematica che non è possibile sviluppare pienamente in questa trattazione, poiché la comprensione profonda di una materia, in vero estremamente specialistica, potrebbe gettare una luce diversa laddove appare nel testo benjaminiano. Ciò che è forse più importante ai fini della presente ricerca è cercare di sintetizzare, a partire dagli scritti finora analizzati, un concetto coerente di critica, che permetta di affrontare dei saggi successivi. L'enigmatico «nome divino» del saggio sul linguaggio, la cui intuizione renderebbe evidente il contenuto cristallino ed originario della cosa, dell'oggetto, dell'opera, va inteso come il marchio di verità che Dio ha impresso alle cose nel verbo creatore; la lingua dell'uomo è in un oblio costante della propria origine. Al critico che indaga entro tale frattura è possibile ritrovare una relazione entro questi due livelli soltanto aprendosi all'ascolto di quella che Benjamin stesso definisce evocativamente magia – si potrebbe parlare di una “relazione immateriale” – operante tra la lingua pura e le lingue babeliche, e tra la lingua stessa dell'uomo e le cose. Tale relazione è considerata da Benjamin alla stregua di un a priori dell'esperienza: l'immagine del critico che si pone nel solco che separa linguaggio della creazione e linguaggio del creato, a cercare di ricostruirne il nesso intimo, coincide con quella del soggetto la cui esperienza del mondo si presenta come ricostruzione dei nessi esistenti tra uno strato originale e recondito, ed una dimensione temporalmente determinata, quale quella dei fenomeni o del tempo che li consuma, e che ne rende necessaria una ricostruzione. Il fondamento linguistico dell'esperienza del mondo presuppone uno spirito che percorre il mondo stesso, e questo spirito è essenzialmente linguaggio. In questo senso l'indagine critica tra linguaggio divino e linguaggio umano, che si articola entro l'esperienza, costituisce la sostanza stessa, il telos concettuale dello scritto sul linguaggio. La missione del critico, che sta nel rendere giustizia alla verità dell'opera, coincide con il destino dell'essere umano, la cui responsabilità storica è quella di rendere giustizia ai fenomeni. In questo passaggio concettuale risulta forse 38 Più in generale nel contesto dello scritto sul linguaggio si affacciano prepotentemente tematiche riprese dalla teologia e dalla mistica ebraica. In questo passaggio si è preferito incentrare il discorso continuando una definizione del concetto di critica. Per un approfondimento della questione legata alla teoria cabalistica del linguaggio si rimanda al testo già citato di Scholem, nota 1. 16 comprensibile come l'interesse di Benjamin si sposti, a seguito di anni travagliati come quelli della prima guerra mondiale, entro l'ambito più stringente, eppure celato in quanto menzionato finora, della teoria politica. -Linguaggio, mito, violenza Il problema del linguaggio e della sua duplice natura, da un lato divina e da un lato umana, si ripropone in un contesto allargato, quello più strettamente politico della violenza e del diritto. Proprio negli anni del primo dopoguerra, potremmo dire che lo sforzo di Benjamin si concentra nel tentativo di orientare la sua ricerca, finora condotta su una linea più strettamente metodologica e intrecciata con motivi teologici, nel senso di una riflessione complessiva sul concetto di storia, la cui matrice si vuole di natura etica e politica. In un certo senso si potrebbe dire che il tentativo di Benjamin concerne la possibilità di attivare le potenzialità politiche implicite nel concetto di critica elaborato a partire dal saggio sul romanticismo. Nelle lettere di quegli anni indirizzate a Scholem ritroviamo testimonianze in cui lo stesso Benjamin dichiarava di apprestarsi ad un ampio studio di natura politica: nel programma della Politik si inseriscono inizialmente uno scritto, andato perduto, su La vera politica (Die wahre Politik) , una critica filosofica del romanzo Lesabéndio di Paul Scheerbart, una corposa serie di frammenti (tra cui anche, si suppone, quello riferito con il nome di Kapitalismus als Religion, trattato in seguito) ed un saggio sulla Demolizione della violenza (Abbau der Gewalt)39. Di questo progetto l'unico testo pubblicato in vita risulta un saggio, appunto, Per la critica della violenza40 del 1921, uscito nel terzo numero dell' “Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, che era stato diretto da Werner Sombart e poi da Heinrich Braun. In questo scritto Benjamin approfondisce ancora il problema del linguaggio, interrogandosi innanzitutto sulla violenza in rapporto alla comunicazione, e sul significato del linguaggio del diritto così come del verbo che impone la giustizia divina. Proprio sulla contrapposizione tra diritto e giustizia si gioca il saggio sulla violenza. 39 Per i riferimenti interni all'opera di Benjamin risultano illuminanti i carteggi, soprattutto con Scholem e con Adorno. A tal proposito, per un approfondimento: cfr. W. BENJAMIN, Lettere (1913-1940), a cura di A. MARIETTI, Einaudi, Torino, 1978. 40 Cfr. W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt (1921), trad. it. Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti., cit., pp. 5-30. 17 Innanzitutto va notato come il termine “Gewalt” del titolo tedesco (Zur Kritik der Gewalt) non trova forse, nella semplice accezione di “violenza”, un corrispettivo adeguato. In una accezione più ampia il termine può essere reso, a seconda dei contesti, anche semplicemente come “autorità” o “potere”. L'analisi si pone quindi non solo come una demolizione della violenza in ogni caso, ma anche come una ricognizione intorno al significato stesso dell'autorità e del potere statale – o potremmo dire più precisamente dell'ordinamento giuridico – dal punto di vista filosofico. Benjamin evidenzia innanzitutto come una critica della violenza sia possibile proprio laddove, nel campo del diritto, coincidono la dimensione etica e quella politica. Dal punto di vista del giusnaturalismo, la violenza è un prodotto naturale, il cui impiego non solleva direttamente un problema nel momento in cui vi siano fini giusti a giustificarla. Alla violenza come dato naturale si oppongono le tesi della filosofia positiva, che vuole la violenza e l'autorità come dati storici: su una base storica, la violenza si distingue, per il diritto positivo, in violenza sancita come potere e violenza non sanzionata. Le due scuole di pensiero si incontrano però in un punto decisivo: il diritto naturale così come il diritto positivo considerano il mezzo necessario a raggiungere un fine giusto come legittimo in ogni caso. Tendono ad unificare, e in questo senso a “non criticare”, la dinamica di mezzo-fine, come originariamente inscindibile. Il diritto naturale tende a «giustificare» i mezzi con la giustizia dei fini, il diritto positivo a «garantire» la giustizia dei con la legittimità dei mezzi. L'antinomia si rivelerebbe insolubile ove si dimostrasse che è falso il comune presupposto dogmatico, e che mezzi legittimi da una parte e fini giusti dall'altra sono fra loro in contrasto irriducibile. Ma non si potrà mai arrivare a questa comprensione finché non si abbandoni il circolo e non si pongano criteri reciprocamente indipendenti per fini giusti come per mezzi legittimi.41 Al centro dell'indagine benjaminiana si pone pertanto il problema della legittimità di determinati mezzi costituiti dalla violenza. Una critica del genere non può essere costruita secondo i canoni di una logica giusnaturalistica o positiva, ma può costituirsi solo all'interno di una filosofia critica che ne analizzi il fondamento, per così dire, dall'esterno, cioè da una chiarificazione preliminare del termine di legittimità. Per il giusnaturalismo la differenza tra violenza legittima ed illegittima ricade nella 41 Ivi, p. 6. 18 distinzione tra scopi giusti e scopi ingiusti, ma tale critica, a posteriori, non valuta mai preliminarmente la legittimità immediata del mezzo. Tale concezione di violenza fa da sfondo alla fase del Terrore durante la Rivoluzione Francese. Per il diritto positivo ogni potere esistente e consolidato porta una sorta di attestato, quello della durata, che ne giustifica a certe condizioni la legittimità. La questione della legittimità o illegittimità della violenza nel contesto del diritto positivo si traduce nella distinzione di due tipi di violenza: una violenza non sanzionata giustificata da fini naturali, e una violenza sancita come potere, giustificata da fini giuridici, che è anche la violenza che sanziona, tramite l'apparato giuridico, la violenza dei singoli come recante offesa all'ordinamento costituito. Il riconoscimento di un potere costituito si attua, concretamente, nella sottomissione passiva dei singoli rispetto alla violenza ordinatrice che genera diritto, e nella sottomissione tacita ad una forma di violenza, quella che conserva l'ordinamento, che impedisce la prevaricazione della violenza a fini naturali. I fini naturali sono quelli che mancano di una legittimazione storica, ovvero di un apparato giuridico che costituisca quella violenza come violenza legittima. La distinzione che Benjamin coglie tra la violenza sanzionante e quella non sancita si traduce nella distinzione tra una violenza che pone diritto o una violenza che conserva diritto. La violenza che pone è quella che sta all'origine del diritto giuridico degli stati. La sottomissione dei soggetti consiste nell'alienazione dei propri fini naturali in quanto, presi singolarmente e perseguiti coerentemente con violenza, mirano a rovesciare l'ordinamento giuridico. In sostanza tutti i fini naturali dei singoli sono in collisione con l'ordinamento giuridico nel momento in cui sono perseguiti con violenza. L'interesse dello Stato, in questo senso del diritto costituito in generale, è quello di salvaguardare, attraverso la monopolizzazione dei fini giuridici – e della violenza consumata in questa funzione –, se stesso contro dei fini naturali che mirano a sostituire ai fini giuridici vigenti un nuovo ordinamento. L'ordine costituito deve mettere in atto un meccanismo di coercizione o di violenza che conservi lo stato di cose vigente. Lo Stato teme la violenza, soprattutto laddove questa violenza ad esso antagonista interviene a mettere in dubbio un intero ordinamento giuridico. Oppure, potremmo dire, teme semplicemente che la violenza pur contenuta di un fine naturale singolo possa diventare pericolosa qualora si costituisca come proposta di un nuovo ordinamento giuridico. È il caso della lotta di classe, in cui un tipo di violenza che originariamente reclama determinati diritti all' interno di un ordinamento giuridico, si trasforma in una violenza la cui proposta ultima è quella di rovesciare l'ordinamento vigente, il quale nelle sue istituzioni non può neutralizzare 19 completamente la potenziale violenza rivoluzionaria ma solo gestirla attraverso il potere relativamente arbitrario della polizia. Questa agisce secondo i principi della sicurezza e della salvaguardia, come strumento della violenza che conserva diritto. Benjamin sottolinea come il potere della polizia non abbia sostanza, sia quasi del tutto arbitrario, nel senso che non è identico alla legge e non è neanche la sua applicazione, quanto un'istituzione preventiva che in quanto tale, dal punto di vista tecnico, non ha nessuna necessità sostanziale in uno stato democratico. La violenza della lotta di classe, come violenza che pone, o mira a porre diritto, ha invece legittimità e sostanza non dissimili dalla forma di violenza costituita che si cerca di rovesciare, e si propone pertanto come unica alternativa possibile, qualora condotta secondo il giusto criterio. La classe operaia organizzata è oggi, accanto agli stati, il solo soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza. Una considerazione che ha facilitato al potere statale la concessione del diritto di sciopero, quando ormai non si poteva più evitare.42 Da un punto di vista storico il saggista tedesco si affida, per accennare a quelli che potrebbero essere mezzi puri della politica, in analogia al mezzo puro per eccellenza – il linguaggio ovvero il mezzo da cui la violenza è totalmente epurata -, alle argomentazioni di Sorel nelle sue Réfléxions sur la violence43. Questi distingue due tipi diversi di sciopero: lo «sciopero generale politico» e lo «sciopero generale proletario». Il primo manifesta innanzitutto la volontà di un rafforzamento dello Stato, nel senso che si propone una modificazione del diritto che integri le istanze dello sciopero. Rispetto a questo, lo sciopero generale proletario, si pone come obiettivo quello opposto di distruzione dell'ordine statale, poiché si oppone direttamente alla logica della sottomissione implicita in ogni ordinamento, dal cui governo la classe operaia è sempre stata esclusa. In sintesi, il primo tipo di sciopero propone una modifica al diritto o una sostituzione dello stesso, il secondo tipo di sciopero è anarchico, è pura e semplice rivolta contro il concetto stesso di ordine costituito. Ancora una volta non esiste soluzione di continuità tra una possibile mediazione e una conservazione di un determinato ordine. Tale contraddizione attraversa per Benjamin tutta la sfera del diritto: l'esempio dello sciopero generale 42 Ivi, p. 10. 43 G. SOREL, Réfléxions sur la violence (1906), trad. it. Riflessioni sulla violenza, a cura di M. MERIGGI, BUR Rizzoli, Milano, 1996. 20 proletario ne è la prova paradossale, nel senso che lo sciopero si pone dapprima come manifesto di un malcontento politico, ma si trasforma poi, secondo la definizione di Sorel, in una rivoluzione informe e senza punto di riferimento, poiché nel rivendicare l'indeterminatezza del diritto introduce anche l'ambiguità riguardo ad ogni singolo diritto. È il paradosso moderno – e allo stesso tempo anche classico - della libertà in una società complessa. Lo sciopero generale proletario, che idealmente incarna una politica dei mezzi puri, riattualizza lo scenario altalenante tra una violenza che pone ed una che conserva. Benjamin distingue un diritto alla sciopero riconosciuto dallo Stato e uno sciopero, quello generale e rivoluzionario, che è direttamente antagonista alle prerogative dello Stato. Nello sciopero generale rivoluzionario, in cui l'esercizio di un diritto sancito si potenzia per diventare una posizione politica e allo stesso tempo esprime una volontà di rovesciare il diritto nei termini vigenti, lo Stato deve necessariamente vedere una minaccia. In questo caso il fine naturale di una classe, se si considerava gestito dallo Stato nei termini di un diritto, si costituisce esso stesso come fine giuridico. La classe operaia si costituisce come classe politica, che riunita nello sciopero rivoluzionario, si mostra decisa, qualora operi con violenza, a sostituirsi, come fine giuridico, in toto all'ordinamento giuridico vigente e operante nei mezzi dello Stato. Come a dire che lo sciopero rivoluzionario si trova, in seno al diritto stesso, come polo alternativo del monopolio della violenza, rispetto a quello di un ordinamento che esprime, secondo questa logica ciclica, una spinta perennemente conservatrice. Il paradosso espresso in questa situazione si spiega in parallelo con un esame della violenza di guerra. La violenza bellica è possibile proprio laddove i soggetti giuridici sanzionano poteri che in opposizione a loro giudicano guidati da fini naturali. Ma così come nel caso dello sciopero rivoluzionario ciò che trasforma il fine naturale ostile in un pericolo reale è il fatto che l'ostilità coinvolge gli stessi fondamenti giuridici dell'ordinamento contestato. La violenza espressa attraverso l'esercito in caso di guerra è, da entrambi i lati, una violenza con fini giuridici più che strettamente naturali. Anzi potremmo dire che nel contesto bellico, così come nel caso dello sciopero generale politico, la violenza esercitata si articola in questi due stadi, il fine naturale e quello giuridico. Benjamin individua a questo punto, nel carattere mutante della violenza politica e rivoluzionaria, una distinzione basilare ai fini della sua critica, quella tra violenza conservatrice di diritto e violenza che mira a porre un nuovo diritto. È in questo senso che la critica di Benjamin si pone in certo modo “contro” il pacifismo 21 generalizzato che aveva seguito il primo conflitto mondiale, nel senso che una critica totale della violenza deve costituirsi come critica di ogni “Gewalt”, di ogni autorità che si impone con il potere, e non come condanna di aspetti singoli della violenza in se. E poiché il servizio militare è un caso di applicazione (per nulla distinto in linea di principio) della violenza conservatrice di diritto, una sua critica veramente efficace non è per nulla così facile come vorrebbero far credere le declamazioni dei pacifisti e degli attivisti. Essa coincide piuttosto con la critica di ogni potere giuridico, vale a dire con la critica dl potere legale o esecutivo, e non può essere realizzata con un programma minore. È anche ovvio che essa non può essere realizzata (se non si voglia proclamare un anarchismo addirittura infantile), rifiutando ogni coazione nei confronti della persona e dichiarando «essere lecito quel che piace».44 La critica al pacifismo esercitata da Benjamin45 si rivolge, a ben vedere, a qualsiasi concezione di “libertà” che non sia in grado di definire un ordine (di diritto) superiore entro la quale una libertà possa esercitarsi. Tale contraddizione, cui va incontro una critica solo formale della violenza, è evidente nella questione della pena di morte, in cui un singolo provvedimento giudiziario può essere isolato come termine particolare di critica, ma solo per rivelare, in secondo momento, la necessità di una critica che coinvolga un intero ordine di cose, dal punto di vista dello Stato ma anche da quello della morale. Nella pena di morte si manifesta il potere di vita e di morte che l'ordinamento giuridico, nella forma di una «violenza coronata dal destino» 46, esercita paurosamente sulla sorte dei singoli. Il potere esecutivo pende sulla violenza esercitata a fini anticostituzionali come potere di annientare o lasciar vivere. Nel caso della pena di morte si mostra lampante come la violenza che conserva il diritto debba ricorrere, in ultima istanza, all'annientamento dell'elemento ostile, laddove il suo perseguire con violenza fini naturali o anche politici, sia chiaramente distruttivo nei riguardi dell'ordinamento statale. In un certo senso l'istituzione della polizia, nello stato moderno, si trova a definire, in quanto termine medio tra il singolo e la violenza dello Stato, il campo vago ed arbitrario in cui fini naturali e fini anticostituzionali si mescolano. 44 Ivi, p. 13. 45 In tale impostazione critica si può forse rintracciare uno dei motivi dell'ostilità, forse dovuta ad una cattiva ricezione, cui gli scritti di Benjamin andarono incontro negli anni '60-'70, in alcuni ambienti legati alle contestazioni politiche di quegli anni. 46 Ivi, p. 15. 22 Essa è bensì un potere a fini giuridici (con potere di disporre), ma anche con la facoltà di stabilire essa stessa, entro vasti limiti, questi fini (potere di ordinare). L'aspetto ignominioso di questa autorità – che è avvertito da poco solo perché le sue attribuzioni bastano di rado agli interventi più massicci, ma possono operare tanto più ciecamente nei settori più indifesi e contro le persone accorte da cui le leggi non proteggono lo Stato – consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione tra violenza che pone e violenza che conserva la legge […]. La polizia è emancipata da entrambe le condizioni [...]. L'affermazione che gli scopi del potere di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto, è profondamente falsa47. Il potere «spettrale» della polizia nello stato moderno non ha, secondo Benjamin, un rapporto diretto con il diritto inteso come ordinamento dei fini giuridici – lo Stato nell'esercizio del potere giuridico ed esecutivo – in quanto interviene «per ragioni di sicurezza», preventivamente laddove una situazione degenera in una violenza, il cui fine viene giudicato secondo il grado del suo portato anticostituzionale e in generale ostile alla permanenza stessa di uno stato di diritto. In altre parole, il fine naturale del singolo viene perseguito a mezzo di violenza, in modo tale da travalicare l'ambito del semplice reato contro il prossimo, per diventare un reato a fini anticostituzionali, un'offesa in ogni caso all'ordinamento giuridico in toto48. In questo senso si può forse ricomprendere il valore dell'affermazione secondo la quale lo spettro del controllo poliziesco è meno distruttivo dove questi riafferma semplicemente il detto, o il potere del sovrano – la situazione tipica della monarchia assoluta – che nelle democrazie, dove la sua presenza non è poggiata sullo stesso rapporto, ed esercita piuttosto il suo potere, non delimitato poiché inserito in un contesto in fin dei conti discrezionale ed arbitrario. A questo punto dello scritto Benjamin si domanda, sulla scorta della sua riflessione precedente e accennando alla questione parlamentare nella Germania di quegli anni, se esista un ambito entro il quale i conflitti interni o esterni al diritto costituito si possano 47 Ivi, pp. 15-16. 48 Si potrebbe notare a questo proposito una prossimità tra il potenziale ruolo della polizia – laddove si voglia espandere questo potere discrezionale al campo del privato, ovvero dove si potrebbe annodare la possibilità intima della violenza – e il concetto di biopolitica o bio-potere, sviluppato a partire da Foucault attraverso la filosofia a noi contemporanea, e che proprio in questi passaggi benjaminiani trova un archetipo concettuale. Per un approfondimento in questo senso si vedano, oltre all'opera di Benjamin stesso: cfr. M.FOUCAULT, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979), a cura di F. EWALD, Feltrinelli, Milano, 2009. Nel contesto della critica all'istituzione poliziesca, e più in generale nella critica all'autorità statale nella sua degenerazione della violenza ai fini conservativi, si può forse vedere uno degli aspetti “profetici” di Benjamin, che in questo senso percorre e anticipa alcuni sentieri del pensiero politico contemporaneo e dell'immaginario della distopia totalitarista nel XX secolo. 23 risolvere senza ricorso alla violenza, o se, in altre parole, la violenza sia l'unica modalità di confronto quando si tratti di considerare il valore ultimo di un determinato ordinamento giuridico o anche di una determinata modalità di fare politica. Ritorna in questo contesto il linguaggio, come mezzo non violento per definizione, che come mezzo puro è strumento di una soluzione mediata o da mediare – da interpretare quindi, secondo il concetto di critica desunto dal saggio sul linguaggio – dei conflitti. Nel linguaggio, inteso anche come conversazione, è possibile la soluzione non violenta dei conflitti. Nelle caratteristiche che Benjamin assegna in questo passo al linguaggio ritroviamo forse un modello di quella che l'autore doveva considerare “la vera politica”, nel senso che il decadimento del linguaggio nella risoluzione dei conflitti politici determina quella che per Benjamin è una situazione di crisi costante. Quella che Benjamin accenna qui come «politica dei mezzi puri»49 e che non spiega oltre, è forse un prototipo da cui partire per sviluppare, come tenterà in seguito la presente trattazione, una collocazione della dimensione politica nel contesto allargato dell'opera di Benjamin. In una dimensione di continuità con quelle che saranno le tematiche successive della produzione benjaminiana, si colloca anche la riflessione, che conclude il saggio sulla violenza, sulla violenza mitica. La distinzione tra violenza creatrice di diritto e violenza conservatrice fa da battistrada all'ascesa di un terzo tipo di violenza, ovvero la violenza divina, intesa come la giustizia vera e propria. La prima differenza concettuale fra violenza che crea e conserva diritto e violenza divina è che quest'ultima non interviene laddove c'è un potere costituito a porre nuovo diritto, ma interviene a negare la sfera del diritto in quanto tale, scandita in essa nei soli momenti eterni della creazione e della conservazione. La violenza divina, in quanto indifferente alle prerogative dei vincitori e dei vinti, si differenzia totalmente dal piano politico. Dal punto di vista ideale essa sta alla giustizia così come, rispetto al diritto, sta la sfera del mito. Il mito interviene nell'argomentazione benjaminiana come il campo delle manifestazioni oggettive e per così dire metastoriche della violenza. La violenza mitica giace su un dogma differente da quello paradossale dell'ordinamento giuridico così come era stato per il giusnaturalismo e per il diritto positivo. Quella del mito rappresenta piuttosto un modello di violenza che, rappresentando una manifestazione del divino nella sfera dei rapporti umani, offre l'immagine costante del paradosso tra diritto e giustizia. In questo 49 Ivi, p. 20. 24 punto Benjamin intende dimostrare come, se si riuscisse a spiegare la violenza del mito nei termini della violenza che pone diritto, il suo problema si risolverebbe in quello della violenza che crea e afferma un diritto – la funzione della violenza nel porre un ordinamento giuridico – , come è il caso della violenza bellica di uno Stato di diritto contro un altro. Alla luce di tale considerazione: La funzione della violenza nella creazione giuridica è, infatti, duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure, – nell'atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto è creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza. Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio di ogni diritto mitico.50 La ricognizione sulla violenza mitica, quindi, anziché gettare una luce sul contenuto di purezza del mezzo, sembra rivelare un tipo di violenza immediata, diretta espressione degli dei, ma allo stesso tempo identica al potere giuridico, e il sospetto della sua enigmaticità si rivela nel pericolo della sua attualità, qualora si applichi storicamente. La violenza mitica rappresenta, in sintesi, un archetipo della violenza che pone diritto, cui si connatura inevitabilmente un'attitudine che potremmo chiamare, a ragione, “conservatrice”. Il compito di una politica dei mezzi puri sarà allora, in ultima istanza, quella di accordarsi il più possibile ad un tipo di violenza che sia antagonista alla violenza del mito, che sia quanto più vicina ai caratteri della violenza divina – la vera giustizia –, ovvero che si ponga come ideale l'attuazione di un ordine di diritto che si ponga al di là della logica mitica, e che sia autorità senza potere (gewaltlos Gewalt). Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale e senza sangue.51 50 Ivi, p. 24. 51 Ivi, p. 26. 25 L'assenza di sangue della violenza divina non si contrappone a quella sanguinosa del mito come sua semplice negazione, ma assume in questo punto della riflessione un significato decisamente nuovo. Il fulcro è l'assenza di sangue della violenza divina. Ciò non perché Benjamin abbracci una visione umanitaria da contrapporre alla violenza del diritto. L'assenza di sangue non si contrappone alla violenza come la sua semplice negazione. Il sangue qui è il segno della nuda vita afferrata nella colpevolezza.52 La colpevolezza della nuda vita è quella in cui la vita degli individui è destinata a permanere, nel momento in cui sia sottoposta all'influenza del mito e della violenza mitica che costantemente permangono e incombono sulla vita, presa entro questo meccanismo demonico. La ripetizione della violenza mitica si esplicita nel suo carattere perennemente incombente, nella non remota possibilità che intervenga costantemente una violenza che pone e conserva diritto richiamandosi, in ultima istanza, al valore conservativo del mito. E in quest'ottica la violenza del mito è quella che incatena la vita storica dell'uomo al suo destino così come alla sua essenza giuridica, nuda vita da governare attraverso la costante autoaffermazione del potere 53. La violenza divina come incarnante il concetto di giustizia è ciò a cui Benjamin perviene nella ricerca di un'autorità che sia senza violenza, o meglio che non implichi nella sua esecuzione il ricorso ad uno spargimento di sangue – proprio del mito – o ad un sacrificio rituale la cui funzione è quella in ogni caso di restaurare, attraverso un ordinamento, l'autorità di un diritto54. È necessario pertanto, nel tentativo di pensare una soluzione che apra uno spiraglio di alterità sulla storia umana, pervenire all’elaborazione di una diversa temporalità storica. In questo senso l'operazione di Benjamin è quella di introdurre il concetto del messianico inteso come momento di interruzione della temporalità storica. La giustizia viene allora a coincidere con la possibilità dell’interruzione temporale apparentata da Benjamin alla violenza divina, al 52 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 44. 53 Il concetto di nuda vita (bloß Leben) rimane da inquadrare più precisamente nel contesto allargato dell'opera di Benjamin. In questa fase della sua produzione, anche in relazione alla riflessione sul capitalismo, questo concetto racchiude, pur senza essere sviluppato meglio, il senso del vivente preso nella morsa della violenza di diritto che si ripete. Per una ricognizione più ampia e forse più attuale sul concetto in sé di «nuda vita», si rimanda al noto testo di Agamben al riguardo: cfr. G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita., Einaudi, Torino, 2005, in particolare pp. 72-96. 54 Si potrebbero ricercare più approfonditamente le relazioni che intercorrono tra mito e diritto. Per un approfondimento in tal senso, anche in una relazione possibile con il discorso di Benjamin: cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992. 26 giudizio di Dio, che nella sua trascendenza redime lo spargimento di sangue della violenza mitica – o anche, il ripetersi dell'autorità come potere imposto –, esercita una violenza capace di interrompere il ricorso della violenza fenomenica dominata dalla legge del più forte. All'epoca in cui Benjamin sigillava, con il saggio Per la critica della violenza, il suo progetto di una filosofia politica, o meglio appunto di una critica filosofica – la critica come speculum della filosofia - che potesse rendersi utilizzabile ai fini di una “vera politica”, l'orizzonte giuridico e culturale era quello di un rampante capitalismo, intento a ricostituire, a partire da una pace pur necessaria alla riapertura dei mercati, il suo ordine del discorso come unico orizzonte. Se consideriamo le contingenze storiche in cui scrive Benjamin, il carteggio con Scholem che testimonia in questo periodo la volontà di far procedere alle sue riflessioni una critica ulteriore sul presente, che non lasciasse dubbi sul contenuto di attualità delle sue teorie, se consideriamo l'affinità di linguaggio e di temi, possiamo certamente concordare con Uwe Steiner55 quando include nel progetto della “vera politica” il frammento, composto presumibilmente intorno al 1921, e recante a margine una nota da cui il titolo, ovvero Capitalismo come religione56. Il frammento muove dalla celebri tesi esposta da Max Weber nello scritto sull'etica protestante, secondo la quale il capitalismo trova la sua genesi essenziale nello spirito e nell'etica del protestantesimo e in particolare nel calvinismo. Il capitalismo è per Weber una secolarizzazione dell'etica protestante, nella misura in cui la dottrina della salvezza per sola fide lascia agli uomini, per così dire, un largo arbitrio nelle questioni strettamente pratiche, per trasferire il rapporto con il divino ad una dimensione sempre più soggettiva ed interiore. Il capitalismo costituisce la summa culturale di un sistema etico in cui sono centrali la dimensione del destino e quello della fede. Benjamin si pone decisamente in opposizione, o meglio supera la visione weberiana sostenendo che il capitalismo si presenta non come una secolarizzazione, nel senso appunto di sublimazione a livello culturale e mentale dell'etica protestante, quanto come un vero e proprio fenomeno con caratteri di religione. Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve 55 Cfr. U.STEINER, “Der wahre Politiker. Walter Benjamins Begriff des Politiker”, in Internationales Archiv für Sozialgeschichte der Literatur, n.25, IASL, Wien, 2000, pp. 48-92. 56 Per una breve ricognizione sulla collocazione del frammento nell'opera di Benjamin, oltre all'articolo di Steiner: cfr. C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come religione”, in W.BENJAMIN, Kapitalismus als Religion (1991), trad. it. Capitalismo come religione, il Melangolo, Genova, 2013, pp. 7-37. 27 essenzialmente all'appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni.57 L'affermazione di un carattere religioso del capitalismo condurrebbe ad uno studio smisurato sui criteri secondo i quali si possa parlare di religione o meno. La critica benjaminiana non è però rivolta al concetto stesso di religione, quanto a trovare nel capitalismo degli elementi che possano permettere di parlarne come un fenomeno religioso. Innanzitutto il capitalismo si presenta come una “religione” di carattere cultuale, nel senso che non avendo dogmi o concetti chiave, la pratica del capitalismo si attua innanzitutto attraverso il suo culto, che passa attraverso l'accumulo, il consumo, la spinta al progresso; il culto è permanente, e si esercita senza interruzione né tregua, senza distinzione tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma anzi il culto consiste proprio nell'onorare quotidianamente quell'unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, dedito alla venerazione del Dio-denaro; un terzo aspetto è che il culto capitalista non si dirige alla redenzione o all'espiazione di una colpa, ma all'accumulo della colpa stessa, sempre da espiare, attraverso l'unico sacramento della religione capitalista (il credito-debito). Proprio in questo terzo aspetto è possibile cogliere un ultimo aspetto, relativo all'escatologia del capitalismo stesso. Proprio perché questi tende indefinitamente non ad una liberazione, ma alla ripetizione del culto stesso, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo quanto al consumo indefinito dello stesso. Ciò che nelle religioni propriamente dette risiedeva in una dimensione altra dalla vita mondana, viene a mancare nel capitalismo, che annulla il campo del trascendente fino ad inglobare Dio stesso entro la propria logica. Si potrebbe dire che l'idea di Dio sta alle religioni classiche come il denaro sta al culto capitalista. In questo senso è forse comprensibile la dinamica di perenne colpevolizzazione/indebitamento propria della struttura del capitalismo. Quest'ultimo punto risulta incompleto qualora non si spieghi ciò che Benjamin intende per colpa. Nel testo tedesco il termine utilizzato (Schuld) in riferimento al concetto di colpa si trova, come afferma Benjamin stesso, nell'ambiguità tra la colpa e il debito verso qualcuno. Questo termine ricorre spesso nella produzione di quegli anni, ed è probabilmente influenzato dall'uso che ne fa Hermann Cohen 58. In Benjamin il concetto di colpa si connette, nel culto capitalista visto come unico orizzonte della storia, all'intreccio tra destino e diritto. Entrambi questi concetti 57 W. BENJAMIN, Capitalismo come religione, cit., p. 41. 58 Per un approfondimento relativo a questo punto: cfr. H. COHEN, Etica della volontà pura, a cura di G. GIGLIOTTI, ESI, Napoli, 1994. 28 appartengono alla sfera del mito, e la ripetizione di tale dinamica è ciò che costituisce appunto l'unicità dell'orizzonte entro cui si sviluppa, nel nostro tempo, il culto capitalista, che non conosce alterità così come non conosce giorni feriali. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non espia il peccato, ma crea colpa/debito. In ciò questo sistema religioso è preso nel gorgo di un movimento spaventoso. Una coscienza spaventosamente colpevole, che non sa come espiare, si afferra al culto, non per espiare in esso questa colpa/debito, ma per renderla universale, per conficcarla a forza nella coscienza e, infine e sopra ogni cosa, per implicare Dio stesso in questa colpa/debito, al fine di suscitare in Lui stesso interesse per l'espiazione […]. L'essenza di questo movimento religioso che è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all'ultima e completa colpevolizzazione/indebitamento di Dio, fino al raggiungimento di una condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera.59 Il culto capitalista, in quanto costantemente colpevolizzante e assieme indebitante, introduce la demoniaca ambiguità che consiste appunto nel paradosso di una religione che non espia, che prende a credito una fede cieca laddove questa fede è quantificabile nell'utile prodotto. Al paradigma della semplice secolarizzazione così come esposto da Weber, Benjamin sostituisce la dinamica della metamorfosi, che dal cristianesimo conduce direttamente alla conformazione del capitalismo così come lo intende. Da notare come qui la critica del saggista tedesco non si rivolge direttamente contro il concetto di religione quanto nei confronti di una determinata struttura, dai tratti vagamente paganeggianti, che viene individuata come religione. Nella visione di Benjamin, Nietzsche, Marx e Freud, definiti altrove “maestri del sospetto” in filosofia, sono definiti come i tre sacerdoti del culto capitalista, poiché con le loro argomentazioni pur illuminanti aprono di fatto la via alla disperazione che è una condizione caratteristica della religione capitalista. Se questo culto, come abbiamo brevemente osservato, non produce un'apertura, un'alterità che altrove è rappresentata dall'espiazione della colpa o dall'esistenza di un altro mondo, almeno ideale, che neghi l'ordine del presente, l'orizzonte della storia occidentale è possibile, seguendo Benjamin nell'argomentazione che include Nietzsche, Marx e Freud, soltanto nell'orizzonte della distruzione di ogni tipo di ordine, o che quantomeno neghi totalmente, e non cerchi una modifica o un abiura, rispetto alla fede capitalista. Così come la violenza mitica nel saggio sulla violenza ritornava 59 W. BENJAMIN, Capitalismo come religione, cit., p. 43. 29 costantemente ad imporsi, strutturando un apparato concettuale e sviluppando allo stesso tempo una presa sulla realtà che ne trasfigurasse a sua immagine i caratteri, il culto capitalista è incessante e non ammette altro orizzonte. Il frammento si conclude con ulteriori annotazioni metodologiche sul concetto di colpa, e su come il capitalismo discenda dal cristianesimo. Per comprendere meglio come tale parassitismo si realizzi, può forse aiutare leggere, come fa Agamben in un articolo apparso su “Lo Straniero” di Fofi60, il culto capitalista come religione totalmente fondata sulla sola fede, nel senso che il capitalismo ha eliminato in se ogni dogma od oggetto esterno di venerazione, Dio compreso, per fondarsi essenzialmente solo sul suo svolgimento rituale, così come il cristianesimo della riforma, secondo Benjamin, si è emancipato da ogni oggetto ed ha emancipato la colpa da ogni idea diretta di peccato, e quindi da ogni possibile forma di redenzione o espiazione. In sintesi, per Benjamin, il cristianesimo così come il capitalismo non ammettono una vera e propria liberazione nell'ambito della storia, poiché si emancipano da un oggetto di diretta venerazione, trasferendo l'esercizio della proprio fede interamente nell'apparato cultuale. Potremmo dire diversamente: Il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito – cioè nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione in cui il Dio è il denaro.61 Nel trasferimento degli attributi del Dio cristiano alla forma del denaro come «forma pura del credito», e nel meccanismo di perenne colpevolizzazione/indebitamento che il fedele, potremmo dire letteralmente, paga alla sua divinità, il capitalismo compie la sua metamorfosi dal cristianesimo. Se si volesse analizzare il valore teologico del culto capitalista, si dovrebbe tuttavia notare che, per il fatto stesso che la trascendenza del concetto di Dio perde il suo valore in un sistema di culto in cui il Dio è immanente – banconota tangibile, allo stesso tempo attestato di credito e promessa di debito –, il “capitalismo come religione” può rappresentare in ultima istanza una paganizzazione del cristianesimo stesso. Il culto capitalista, in quanto colpevolizzante/indebitante, appartiene all'ambito 60 Cfr. G. AGAMBEN, Benjamin e il capitalismo, in “Lo Straniero”, n.155, Contrasto, Roma, maggio 2013. 30 delle religioni pagane e, con la sua universalizzazione della colpa/debito, ricaccia l'umanità in uno “stadio demonico”62. In questo senso il capitalismo può essere visto, rileggendo il saggio sulla violenza, alla stregua di quel mito che perennemente ricorre nella violenza conservativa – quella cioè che stabilisce e conserva un ordinamento di diritto, di cui abbiamo precedentemente evidenziato il paradosso. Se lo stesso Dio è compreso, attraverso la trasposizione nel Dio-denaro, nella logica della colpa/debito, l'espiazione non può essere trovata all'interno del capitalismo stesso. Anzi per Benjamin è necessario sviluppare un discorso – una politica, così come una critica – che sia totalmente differente dalla logica del cristianesimo così come del capitalismo. Qualsiasi pensiero strutturato a partire da una determina logica, che non operi una critica corrosiva nei confronti di quello stesso meccanismo di pensiero, risente di una relazione di dipendenza con la logica della struttura di base. È questo per Benjamin, lo scacco che pagano il Superuomo nietzscheano così come la classe proletaria in Marx e il soggetto in Freud: bisogna notare come la natura sintetica del frammento non permetta di escludere a priori, dall'opera precedente o posteriore del saggista tedesco, l'influenza di tre autori considerati altrove padri della modernità. Tuttavia è con coerenza che viene affermata la sconfitta, forse inavvertita ma bruciante, di qualsiasi logica che pur proponendosi come superamento o abiura di un ordine stabilito, ricade pienamente nei meccanismi logici di quel sistema. Una via d'uscita va cercata, non solo all'interno del frammento sul capitalismo, in quella che Benjamin definisce come una svolta radicale. Se vogliamo accettare l'ipotesi secondo cui tale frammento si colloca nel progetto benjaminiamo della Politik, una svolta potrebbe essere rappresentata dalla “vera politica”, che potrebbe farsi fronte di una rottura radicale con la logica del perenne indebitamento. Non avrebbe lo stesso fine una religione che, per quanto “vera”, si proponesse come superamento della precedente. Ancora una volta nella costellazione di testi che costituiscono il piano immaginario della Politik, e precisamente nel saggio sulla violenza precedentemente analizzato, a proposito del parlamentarismo e della politica liberal-democratica, viene fornita un'indicazione su una politica che tenga conto di «ordini superiori» e si svincoli dal 61 Ivi. 62 C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come religione”, cit., p. 19. 31 «circolo mitico della violenza» 63. In Per la critica della violenza questa cesura storica […] mira a fondare una “nuova epoca storica” e si articola sulla de-posizione ( Ent-setzung ) dell'ordine mitico del diritto mediante quella che Benjamin chiama alternativamente (ed enigmaticamente) “violenza pura”, “violenza divina” o “violenza rivoluzionaria”, la cui funzione è però quella di interrompere il ciclo mitico della violenza64. Il compito filosofico inscritto nella prima parte della produzione benjaminiana può forse condensarsi proprio in questo svincolarsi dal mito, dalla sua logica così come dal suo immaginario. È un avversario che va riconosciuto, come mostra la critica a Nietzsche o Marx nel contesto del frammento sul capitalismo, oltre l'apparenza, poiché anche laddove sembra essere in atto una contestazione dal profondo nei confronti dell'autorità – e a maggior ragione dell'autorità del culto capitalista – può annidarsi un meccanismo mitico che nella sua spinta al cambiamento non propone nient'altro che una nuova autorità. La “vera politica” si basa in ultima istanza sul modello della critica poiché mira a dissolvere, a corrodere il potere stesso come un'opera leggibile tra le pieghe più recondite. Con la critica, condivide il suo portato di responsabilità, nel senso che la vera critica così come la vera politica, implicano una responsabilità morale nei confronti della filosofia, così come anche della tradizione. Questo carattere sarà conservato quando la ricerca di Benjamin, nel secondo periodo della sua produzione, si orienterà più decisamente sul concetto di storia. Per quanto riguarda il primo nucleo degli scritti benjaminiani, potremmo concludere che ad una prima fase di riflessione più prettamente teoretica succede, nel progetto della Politik , una visione che, seppur alimentata da componenti teologiche, si rivolge più decisamente alla realtà storica contingente. Tuttavia anche tale tentativo di semplificare il percorso di Benjamin per una lettura più agevole risulta forse inappropriato, nel senso che la dimensione messianica e quella politica saranno costantemente intrecciate anche nella produzione successiva e fino alla morte dell'autore. A questo proposito, e ancora in relazione alla critica del capitalismo, può forse risultare utile accennare brevemente ad un altro frammento, che si può accostare, seppure in un senso più emblematico e in maniera filologicamente meno certa, al progetto della Politik. 63 Cfr. W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, cit., p. 19. 64 C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come religione”, cit., p. 31. 32 Nel Frammento Teologico-politico65 Benjamin fonda il «compito della politica mondiale» sulla costruzione di un «ordine del profano», e nega ogni valore politico alla teocrazia. Se questa ha un significato meramente religioso, la sfera del politico deve liberarsi dal sostrato teocratico – o dalla logica religiosa – che la caratterizza nel capitalismo. Una “vera politica” sarà allora una “politica profana” nel senso che rompe definitivamente con la logica religiosa, e in particolare con quella della colpevolizzazione/indebitamento su cui si basa il capitalismo. Tale «ordine del profano» va eretto sulla felicità, e quindi in opposizione alla disperazione che caratterizza l'uomo della civiltà capitalista. Tuttavia l'esser profano di tale ordine politico non è forse totale, nel senso che, se anche «l'ordine profano del profano» non fosse una categoria messianica, rimane comunque una «categoria del suo più sommesso approssimarsi» 66. Se l'ordine del profano non può in sé stabilire una relazione con il messianico, esso contribuisce alla venuta del regno messianico proprio del suo essere secolare e profano. La felicità su cui si erige l'ordine del profano è «il ritmo della natura messianica», cioè la felicità permette il compimento del tempo storico, dal momento che il regno messianico «non è la meta, ma la fine» della storia. Il compito della politica mondiale è ambire a un totale, messianico trapasso del saeculum, e il suo metodo, Benjamin conclude, deve chiamarsi nichilismo.67 La missione della politica a venire, coincide in Benjamin, come vedremo, con la moralità del fare filosofico. L'operazione che il saggista tedesco non smetterà di tentare nei confronti della politica o della storia stessa, è quella di una costante secolarizzazione. Si potrebbe andare ancora oltre, sottolineando come, anche negli anni successivi e attraverso il rapporto con il comunismo e il surrealismo, la missione del pensiero benjaminiano si definisca nel recuperare - come il critico apparentato al paleografo – il segreto di un discorso racchiuso tra le righe della realtà cosiddetta immediata, e rispetto a quest'ultima in un rapporto di totale alterità . Ciò che Benjamin tenterà negli anni successivi al 1924, e che sfocerà nella grande opera sui passages si sviluppa a partire da queste basi concettuali. Il complesso di opere finora menzionate rientra nella costellazione critica del primo Benjamin, e tuttavia, come accennato in apertura, la frattura tra un primo e un secondo periodo non sarà mai netta. In un certo 65 Cfr. W. BENJAMIN, Theologisch-politisches Fragment (1991), trad. it. Frammento Teologicopolitico, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., pp. 171-172. 66 Ibidem. 67 C.SALZANI, 2013, cit., p. 32. 33 senso la secolarizzazione della sfera politica, e con essa del quotidiano, cui rimanda il Frammento Teologico-politico, si spingerà ancora oltre, nel tentativo di disattivare ogni sacralità residua nella sfera del potere, così come ogni sfondo mitico insito nei concetti della politica. Proprio nel senso di una “demitologizzazione” si svolgerà la diatriba concettuale con il surrealismo, che risulta centrale nell'analisi del percorso benjaminiano poiché è da questo confronto che il pensiero del saggista tedesco trarrà spunto per tentare, attraverso il Passagenwerk, di ricostruire la pergamena opacizzata che si cela dietro le strutture manifeste del XIX secolo come preistoria del nostro presente. - Per un'introduzione al rapporto con il surrealismo I temi attraverso cui si dipana il rapporto di Benjamin con la città di Parigi e con il movimento surrealista stanno iscritti nella sua biografia come nel suo itinerario concettuale. La prima migrazione verso la capitale francese avviene, nel 1926, a seguito di una serie di viaggi compiuti, dall'agosto 1925, attraverso l'Europa (da Amburgo alla Spagna, attraverso la Francia meridionale, e l'Italia fino a Napoli e Capri), nel periodo successivo alla “disavventura” riguardante la sua abilitazione all'insegnamento. Questo periodo rappresenta quello di una svolta nell'orientamento della vita e del pensiero di Benjamin. L'esclusione dagli steccati accademici aveva costituito per la sua biografia uno spartiacque, oltre che materiale per un capitolo a parte sulla sua opera, quello cioè relativo al Dramma Barocco Tedesco e alla sua genesi. La Habilitation, necessaria per conseguire la docenza nelle università della Germania weimariana, gli avrebbe permesso una stabilità materiale che gli mancava. La carriera universitaria gli era apparsa come un'occasione per veder legittimata la sua scelta di ricercatore e studioso, anche nella forma di un sostegno materiale, a fronte di una dichiarata ostilità al lavoro impiegatizio. Il progetto, come è noto, naufraga. Benjamin si reca a Parigi, intenzionato ad un soggiorno prolungato, ma che sarà tuttavia intermittente. Ciò che lo aveva spinto era innanzitutto la possibilità di lavorare con Franz Hessel alla traduzione della Recherche di Proust, proprio nel luogo considerato come ideale per questa impresa. L'occasione era data dal malcontento dell'editore 34 berlinese Die Schmiede per la traduzione del 1923 (Auf dem Weg zu Swann) ad opera di Schottlaender: già dal 1925 Benjamin si era impegnato a consegnare, entro la primavera del'26, il testo tradotto di Sodome et Gomorrhe, quarto volume del ciclo proustiano. L'impresa non giungerà, dal punto di vista editoriale, ad un termine. Ciò che ci interessa segnalare, accennando a questa parentesi del suo percorso, non è tuttavia la vicenda editoriale o quella strettamente letteraria, con la quale comunque si intrecciano le fondamentali riflessioni inaugurate già negli anni precedenti a partire dal saggio sul Compito del traduttore68 (redatto nel 1921, come “Premessa”, ad una traduzione dei Tableaux Parisiens di Baudelaire), passando per il saggio su Le affinità elettive di Goethe, fino al saggio su Proust del 1929 (Per un ritratto di Proust) e alla Dottrina della similitudine del '33 (Lehre vom Ähnlichen), che rielaborato costituirà il saggio Sulla facoltà mimetica69. Il pensiero del critico berlinese intratterrà un rapporto decisamente diverso da quello del traduttore tradizionale: la tematica del ricordo, trasfigurata nel meccanismo del risveglio, costituirà uno dei temi centrali del pensiero benjaminiano negli anni successivi. Se la Recherche di Proust, da un punto di vista, concerne il tentativo di portare a nuova vita la pienezza della vita dell'infanzia nello sforzo di una ricostruzione, per tramite della memoria individuale e involontaria, dall'altro lato tratta di una qualità, di una modalità di esperienza, che il narratore cerca in quella memoria. Il tempo dell'infanzia è perduto, ma lo spazio del ricordo non costituisce un vuoto. Come dire che la rammemorazione nel testo di Proust «non è una ricerca del passato che nella misura in cui la memoria vi localizza una modalità perduta di esperienza»70. In Proust la memoria involontaria riporta al passato nella forma di una ripetizione, trasfigurata, di una particolare esperienza. Questa ripetizione si configura come un'analogia sensibile, nel cui spazio il narratore vede il tempo abrogarsi, e in cui il soggetto si trova come sospeso rispetto all'esperienza del tempo presente. La memoria involontaria pone di fronte all'esperienza perduta, ovvero alla disgregazione e alla fugacità delle esperienze sensibili riportate alla mente, un'essenza atemporale, quella dell'identità delle esperienze che si ripetono, attraverso appunto la “relazione” costituita dal ricordo. Ciò che è perduto si ripresenta in questo spazio in una forma mediata, frammentata dal passare del tempo, che è l'inesorabile movimento a causa del quale la 68 Cfr. W. BENJAMIN, Die Aufgabe des Übersetzers (1921), trad. it. Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., cit. pp. 39-52. 69 Cfr. W. BENJAMIN, Über das mimetische Vermögen (1991), trad. it. Sulla facoltà mimetica, Ivi, pp. 71-74. 70 Traduzione ad opera del redattore da cfr. K.R. GREFFRATH, Proust et Benjamin, in cfr. AA.VV., Walter Benjamin et Paris, Les Éditions du Cerf, Parigi 1986, pp. 113-114. 35 ricerca di una verità, di una «esperienza non-deficiente»71 del passato, si rende necessaria. In Benjamin l'oggetto di questa ricerca, di questa operazione di recupero, si costituisce nella memoria poiché solo questa possiede un così vasto potere, quello cioè di stabilire delle similitudini indipendentemente dall'immediatezza temporale del vissuto. L'immagine in cui l'inizio di questa indagine si rivela è in Proust quella del risveglio. Per meglio dire: come il soggetto che si risveglia comincia tastoni a raccogliere le immagini in un tentativo di progressivo orientamento, così l'operazione del ricordo costituisce un tentativo di deframmentazione, a partire dal disordine delle immagini offerte dalla memoria involontaria. L'immagine del risveglio, con cui si apre la Recherche du temps perdu, sarà ripreso da Benjamin nell'itinerario nel ricordo costituito da Infanzia berlinese intorno al 190072 – redatto a partire dal 1932. I differenti testi di questa raccolta non lasciano trapelare una cronologia, la tessitura di ricordo si snoda in maniera interrotta, non lineare, attraverso la sequenza naturale dalla nascita all'età adulta. La struttura della narrazione è lontana dall'essere quella di una lineare esposizione di un racconto sulla propria infanzia. Nella tessitura del ricordo interviene uno spirito critico adulto, che si proietta, quasi in uno sforzo di superare il realismo della semplice ripetizione di quel ricordo, nell'immagine di un'infanzia cittadina rinvigorita dal pensiero. Il bambino Benjamin si trova all'interno di una città-labirinto come un flâneur surrealista, che alla ricerca della parte più remota e misteriosa del Tiergarten, o dell'isolamento dal mondo in una loggia nella casa dei nonni, si ritrova sulla pendenza della ricostruzione del passato e si trasforma in storico. Questa raccolta di più di quaranta testi si pone, nella visione pregnante che ne darà Burkhardt Lindner 73, come uno specchio autobiografico dell'opera sui passages parigini, il cui progetto si era avviato intorno al 1927, in concomitanza con le prime letture surrealiste. Questo tema sarà approfondito più avanti nel testo, quando, a seguito di una adeguata analisi, potremmo parlare degli esiti di questi “mosaici” paralleli. All'impegno di traduttore – anche la pubblicazione dei tomi della Recherche non giungerà ad una fine - corrisponde il desiderio di venire a contatto con il mondo culturale parigino. Già in questo periodo, e in quello successivo del viaggio in Unione Sovietica gli interessi di Benjamin si erano concentrati nell'impegno di critico, 71 Ivi, p. 120. 72 W. BENJAMIN, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert (1987), trad. it. Infanzia berlinese intorno al 1900. Brani scelti., in W. BENJAMIN, Immagini di città, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2007, p. 107. 73 Cfr. B. LINDNER, Le Passagen-Werk, Enfance Berlinoise et l'archéologie du «passé le plus récent», in AA.VV., Walter Benjamin et Paris., cit., pp. 71-82. 36 recensore e saggista, in una serie di contributi in cui chiama a raccolta molteplici elementi filosofici e letterari. Vale forse la pena accennare all'«esperienza incomparabile»74 del soggiorno sovietico, per chiarire la posizione politica di Benjamin in questo periodo. Mosca rappresentava a quell'epoca una meta obbligata per gli intellettuali che avevano osservato da occidente la rivoluzione, e che desideravano osservare da vicino cosa significasse vivere in una “civiltà” socialista. Il ritorno di molti aveva segnato un netto rifiuto nei confronti dell'organizzazione della società sovietica, in atteggiamento critico soprattutto verso il carattere antilibertario, in ambito culturale e politico , dell'apparato burocratico e statale concentrando nelle mani del partito (è il caso di Gide o di Céline). La sua visita era dovuta innanzitutto alla volontà di confrontarsi direttamente con la situazione. L'appoggio era offerto dall'amica, l'attivista lettone Asja Lacis – che aveva incontrato a Capri nel 1924 e che aveva “spinto” Benjamin verso il comunismo – e al suo futuro marito, il drammaturgo e critico teatrale Bernard Reich. Le pagine del Diario Moscovita si rivelano scandite su un duplice piano: da un lato il carattere privato, il rendez-vous con l'amica che non corrisponde il suo interesse amoroso, che resterà tuttavia sul piano platonico; dall'altro il carattere, per noi più importante, dell'interesse politico-culturale. Riguardo alle impressioni sulla città di Mosca, potremmo dire che forse l'incomparabilità dell'esperienza di cui parla Benjamin, che aveva rivelato a Scholem di essere tornato da quel viaggio ricco più di immagini che di teorie, consiste proprio nel felice incontro con il mondo culturale russo. Da questo punto di vista Benjamin è assillato dal desiderio di conoscere quanto più possibile la cultura russa e la sua situazione attuale, impegnandosi grazie al ben introdotto Reich a stabilire rapporti con esponenti della vita artistica e letteraria sovietica, in modo anche da risolversi riguardo ai dubbi dell'iscrizione al partito ventilata da tempo. Il suo giudizio sarà ambivalente: pur senza retrocedere sulla sua simpatia – fondata su considerazioni di carattere etico-politico e da un convinto antifascismo piuttosto che all'adesione ceca alla linea del comunismo sovietico o del comunismo ortodosso –, le considerazioni sui condizionamenti del partito nei confronti degli intellettuali – e anche sull'atteggiamento dei burocrati e delle classi dirigenti –, renderanno definitivo l'allontanamento di Benjamin dalle file del partito. Allontanamento ancor più ragionato, dato che l'adesione al partito gli avrebbe potuto offrire una virtuale stabilità oltre che una integrazione nel tessuto culturale: 74 W. BENJAMIN, Moskauer Tagebuch (1980), trad.it. Diario Moscovita, Einaudi, Torino 1983, p. 148. 37 Entrare nel partito? Vantaggi decisivi: una solida posizione, un mandato, sia pure virtuale. Un contatto organizzato, garantito, con la gente. Contro: essere comunista in uno stato dove governa il proletariato significa il completo abbandono dell'indipendenza privata. […]. Nel partito: l'enorme vantaggio di poter proiettare i propri pensieri in un campo di forze per così dire precostituito. Ma sul restarne fuori e sulla sua ammissibilità decide in ultima analisi la domanda se sia possibile collocarsi all'esterno con un tangibile vantaggio per se […], senza passare dalla parte della borghesia né pregiudicare il lavoro […].75 Sul piano politico le speranze della rivoluzione gli appaiono ancora vivide, come ci testimonia anche il confronto con la città di Mosca che,da un punto di vista più descrittivo, ci viene restituita nell'immagine di una città vivissima impegnata a tenere il passo con la nuova politica economica dello stato sovietico. Senza conoscere una parola di russo Benjamin non esita a tuffarsi nella vita dilagante della città, osservandone la rigogliosa vita quotidiana, la varietà del commercio ambulante, dell'artigianato, per richiamare poi queste impressioni in scritti anche più tardi (si vedano ad esempio Sul giocattolo russo, o Elogio della bambola, o la breve recensione Sulla situazione dell'arte cinematografica in Russia). Di ritorno dalla Russia sarà di nuovo a Berlino, che lascerà ad intermittenza. L'attività di pubblicista, avviatasi sostanzialmente nel 1924, si era rivelata come l'unica fonte di sussistenza negli anni precedenti (anche il viaggio in Russia è reso possibile solo dai fondi raccolti per collaborazioni con riviste, due su tutte la “Literarische Welt” e la “Frankfurter Zeitung” con cui collaboravano anche Theodor W. Adorno e Max Horkeimer, e la scelta di lavorare in tal senso ci presenta anche l'immagine di un autore che, rifiutata l'impostazione di una filosofia sistematica, o quantomeno sistematizzata in opere “canoniche”, si dirige più volentieri verso la forma del frammento, lasciando che sia lo spirito della sua ricerca a permeare di se i materiali, tratti dal giornalismo così come dalla letteratura minore, dalla letteratura psichiatrica a quella per l'infanzia, dalla pubblicistica fino ad opere di carattere scientifico. Per dire meglio: diventano assolutamente irrilevanti, nella sua critica, i criteri di autorità o i canoni di letterarietà in base a cui catalogare i testi da approfondire. Dove la critica accademica si preoccupa in genere di rilevare gerarchie di significato e importanza, le intenzioni di Benjamin si dirigono verso una “valorizzazione dei libri a livello di conoscenza”: 75 Ivi, p. 85. 38 La nostra critica letteraria è legata alla nuova pubblicazione. […] Le informazioni si succedono alle informazioni di giorno in giorno, di ora in ora. Le conoscenze non possono competere con esse in fatto di velocità. Sono allora a disposizione reazioni che, nei recensori, rispondono agli stimoli letterari (alla nuova pubblicazione) con la stessa velocità con cui i libri si succedono l'uno all'altro. […]. Che al processo per cui i libri sono “giudicati” in questo modo se ne possa contrapporre un altro completamente diverso, che consiste nel valorizzarli a livello di conoscenza , è un fatto che non ha bisogno di dimostrazione. Il punto di vista estetico diventa allora improvvisamente insufficiente, l'informazione del pubblico diventa una cosa secondaria, il giudizio del recensore irrilevante. […]. Che la valorizzazione dei libri a livello di conoscenza diventi identica con la loro “valutazione” letteraria – questo raro optimum della critica non presuppone soltanto il critico perfetto: egli stesso può raggiungere questa meta solo quando ha come oggetto la grande opera.76 La “grande opera” non è qui da identificare con l'opera di successo o il testo universalmente accreditato: in questo possiamo probabilmente leggere il rifiuto delle mode culturali o della “frettolosità saccheggiatrice dei giornali”, cui Benjamin opporrà la passione di bibliofilo e collezionista. Si veda ad esempio il breve scritto del 1931 – Tolgo la mia biblioteca dalle casse77 – dove nella smania di una peculiare forma di possesso il bibliomane, che vede «la libertà di tutti i libri […] nello stare da qualche parte tra i suoi scaffali»78, riecheggia, come in altri testi dello stesso periodo, il tema del ricordo: nel carattere dell'oggetto come “reliquia”, implicito in quella particolare forma di possesso che è il collezionare, è all'opera il progetto di un recupero propedeutico ad una ricostruzione dialettica, storica, del ricordo: Se è vero che ogni passione confina col caos, quella del collezionista confina col caos dei ricordi. Ma voglio dire di più: il caso e il destino che, al mio sguardo, colorano il passato, sono, nello stesso tempo, presenti in maniera sensibile nel consueto disordine di questi libri.79 Già in questo tipo di rapporto con i libri, in questa passione del bibliofilo per il libro 76 W. BENJAMIN, Critiche e Recensioni, Einaudi, Torino 1979, pp. 179-180. 77 W. BENJAMIN, Ich packe meine Bibliothek aus (1991), trad. it. Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in W..BENJAMIN, Opere complete IV. Scritti del 1930-1931, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2002. 78 Ivi p. 544. 79 Ivi, p. 539. 39 anche come oggetto, «al quale in vita sua mai aveva dedicato un pensiero e ancor meno un desiderio»80, si può forse porre un collegamento con il surrealismo, cui Benjamin aveva riconosciuto il merito – lo dirà nello scritto del '29 dedicato a questa corrente, parlando del significato dell'amor cortese in Breton, e del rapporto, poi paradigmatico per la poetica del movimento, di Nadja con determinati oggetti e immagini nel romanzo omonimo81 – di aver intuito, prima di tutti, le «energie rivoluzionarie che appaiono nelle cose “invecchiate”, nelle prime costruzioni in ferro, nelle prime fabbriche, nelle prime fotografie, negli oggetti che cominciano a scomparire, nei pianoforti a coda, negli abiti vecchi più di cinque anni, nei ritrovi mondani, quando cominciano a passare di moda. Quale sia il rapporto di queste cose con la rivoluzione – nessuno può saperlo più esattamente di questi autori»82. Nei capitoli successivi vedremo più precisamente, anche attraverso una lettura più approfondita di Breton, in cosa consiste e come si raccorda alla poetica surrealista questo recupero del «suranné»83 anche in chiave politica. Nella medesima forma di esperienza, quella di un recupero che è anche un raccoglimento, si colloca l'interesse, sviluppato già a partire dal '24, per la letteratura dell'infanzia (Kinderliteratur). L'”esperimento” pedagogico di Benjamin si colloca al di fuori di ogni intento specialistico, e anzi Schiavoni nota come per lui le disavventure per la letteratura dell'infanzia siano cominciate – come si legge nella conferenza del 1929 Letteratura per l'infanzia – proprio quando questa finisce «nelle mani degli specialisti»84. Fu dunque attraverso l'avvertita necessità del ricorso all'infanzia come “regno dei ricordi”, a cui si collega l'ansia del collezionista nel riscattare il libro-oggetto dalle leggi di mercato a indurre Benjamin a radunare – quasi come il catalogo delle «“reliquie” di una ritrovata ingenuità85», la sua Kinderbuchsammlung. Questo gli era stato possibile, oltre che grazie all'entusiasmo della sua prima moglie Dora, anche grazie al “saccheggio” della biblioteca materna. Questa bibliofilia sui generis, […], aveva finito per persuadere Benjamin che, tutto sommato, per il materialista storico quale egli intese proporsi fosse sovente più 80 Ivi, p. 544. 81 Cfr. A. BRETON, Nadja (1928), trad. it. di G. FALZONI, Einaudi, Torino, 2007. 82 W. BENJAMIN, Der Surrealismus. Die letzte Momentaufnahme der europäischen Intelligenz (1929), trad. it. Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei.,in Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. PINOTTI e A. SOMAINI, Einaudi, Torino 2012, p. 324. 83 J. LEENHARDT, Le passage comme forme d'expérience: Benjamin face à Aragon. , in cfr. AA.VV., Walter Benjamin et Paris., cit., p. 164. 84 W. BENJAMIN, Burattini, streghe, briganti. Illuminismo per ragazzi (1929-1932)., a cura di G.SCHIAVONI, Il Melangolo, Genova 1989, p. 289. 85 G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità., cit., p. 159. 40 istruttivo e proficuo il volgersi alle opere di autori trascurati, […], anziché ai soli autori consacrati dalle antologie, aderenti al decorso “canonico” della storia culturale.86 Al tema dell'infanzia saranno dedicati degli sforzi significativi: è il caso di un folto gruppo di partecipazioni radiofoniche, trasmesse dal 1927 al 1933 sulle frequenze della Berliner Funkstunde o della Südwestdeutsche Rundfunk, in cui risaltano già i temi del ricordo e del sogno, in relazione all'esperienza infantile, che ritroveremo in qualche modo negli scritti di Strada a senso unico e dell' Infanzia Berlinese. In questo contesto, dalla fine degli anni venti, si configura in Benjamin l'interesse sempre crescente rivolto alle avanguardie in senso lato e al surrealismo, in quanto fucina di potenziali rivoluzionari e di temi con cui intrattenere un confronto. Si colloca in questo periodo, a partire dall'estate del '27, l'inizio di quel Passagenarbeit, nome con cui nelle sue corrispondenze Benjamin designava il lavoro sulla Parigi, capitale del XIX secolo. I passages costituiranno un luogo simbolico per il surrealismo, dove Benjamin tenterà piuttosto una risoluzione del loro enigma. Per entrambi queste gallerie simbolo della modernità, rappresenteranno il luogo dove si conforma una particolare forma di esperienza. Su questo tema, e in particolare sul rapporto con Aragon, ci soffermeremo più avanti, dopo aver effettuato una ricognizione sui temi che il surrealismo stesso propone e che Benjamin raccoglierà poi come spunto per il progetto sui passages. 86 Ivi, p. 160. 41 Capitolo II Il Surrealismo -Le origini del movimento: dal rapporto con Dada al primo Manifesto del surrealismo Il movimento surrealista nasce nel contesto storico del primo dopoguerra. In esso confluiscono istanze che erano già state significative per il Dada, con cui il primo Surrealismo intrattiene di fatto un legame, concettuale e biografico, riscontrabile anche nell'incontro e nella frequentazione effettiva tra esponenti di una o dell'altra tendenza. Questo incontro diventa possibile quando Tristan Tzara, autore di un Manifesto Dada nel 1918 e “caposcuola” di un movimento che si vuole però più simile ad un'esperienza comune che ad una “scuola” di pensiero, giunge nella città di Parigi, nel 1920, rompendo il relativo isolamento svizzero del gruppo. L'origine dell'esperienza Dada era in qualche modo legata alla sua localizzazione: durante gli anni del primo conflitto mondiale, a partire dal 1916, un gruppo di giovani artisti provenienti da luoghi e contesti differenti si riunisce, a Zurigo, nel disprezzo della carneficina bellica in corso oltre i confini svizzeri, e nel disagio di fronte a quelle strutture economiche, politiche e culturali, che l'avevano resa possibile. L'esigenza di Tzara e degli altri, tra cui Hans Arp, Hans Richter, Marcel Janco, è in questo periodo quella di trovare una nuova modalità di espressione che possa veicolare, in maniera anticonvenzionale rispetto ai movimenti artistici precedenti, contenuti opposti a quelli imposti dal sistema socio-politico che aveva generato la guerra. In questo senso il Dada sviluppa, nell'urgenza storica di opporsi all'assurdità della barbarie bellica, un'esperienza umana ed estetica di estrema rottura con le istanze della cultura borghese e ottocentesca, in cui saranno centrali il rifiuto della logica razionalista così come del sentimentalismo romantico, dell'ideologia a livello politico così come del concetto stesso di arte, intesa come formazione storico-culturale monolitica. Questa contestazione totale è espressa nei toni dissacranti del grottesco, dell'umoristico, del nonsense, della provocazione e 42 dell'irrisione verso tutto, e nella profusione eclettica delle produzioni Dada: sculture realizzate con materiali riciclati o di uso quotidiano, composizioni musicali rumoriste, parodie teatrali improvvisate, poesie costruite negando le strutture poetiche consuete o scritti volutamente privi di un filo razionale o “romanzesco”. Luogo di ritrovo del gruppo era il Cabaret Voltaire, nella cui baraonda espressiva – ed allo stesso tempo contro l'espressione concepita romanticamente come messaggio, emanazione o forma di un contenuto morale – erano messi in ridicolo i canoni dell'arte tradizionale, in riferimento a tutto un apparato concettuale e formale che era quello della civiltà cosiddetta moderna. Tutto ciò si esprimeva, nel senso di una negazione del valore assoluto dell'arte borghese e museale, e in un rifiuto della rigidità e del manierismo artistico, così come delle logiche e delle strutture produttive del mercato artistico e letterario. Le attività del gruppo rappresentano una messa in discussione del mestiere e del ruolo dell'artista, nel rapporto con gli editori e il pubblico, con la committenza e le istituzioni, così come l'espressione di un disagio riguardo al ruolo idealizzato della morale e dell'arte moralista nella società borghese e nella società in generale. Si tratta di un approccio teso a rivendicare, attraverso una negazione delle costrizioni vigenti in campo artistico e politico, un nuovo concetto di libertà, svincolata da qualsiasi canone precedente del fare artistico o del comportamento sociale. Non è questo il luogo di una riflessione esaustiva sulle sfumature del multiforme contesto Dada. Sarà qui sufficiente segnalare, per poter stabilire i termini di un raccordo più che biografico con il Surrealismo, alcuni aspetti importanti: la rottura operata da Dada rispetto alle poetiche e all'immaginario della cultura ottocentesca, che si colloca a sua volta nel quadro più ampio dei movimenti d'avanguardia europei del primo Novecento (ad esempio Fauvismo, Cubismo letterario, Futurismo) , sarà paradigmatica per il Surrealismo, quando si tratterà di definire i termini di un discorso che dalla contestazione in campo formale portano alla prassi di un'esperienza politica. Dada era privo di una progettualità politica e artistica, e tuttavia definisce per le avanguardie i termini concettuali e formali della sovversione. L'esperienza formale del gruppo Dada si era sviluppata in una pluralità di percorsi di ricerca che investivano ogni aspetto dell'attività artistica, dalle arti visive al teatro, dalla grafica alla letteratura, alla pubblicistica e all'interazione dei vari contesti. Questa eclettica sperimentazione non esaurisce la sua propulsione quando viene, in parte, a mancare una condizione sociale e politica estrema, come quella di guerra, da cui spontaneamente era sorta la contestazione a tutto tondo che Tzara e compagni portavano 43 avanti. Seppure è possibile individuare nelle discriminanti sociali e politiche dell'epoca le condizioni da cui, nel senso di una critica totale, scaturisce l'esperienza Dada, non risulta corretto esaurire il senso di questa esperienza solo nel suo carattere di opposizione alla guerra, le cui condizioni di base permangono anche alla firma dei trattati di pace. Così come sarebbe impossibile spiegare l'urgenza che caratterizza l'approccio Dada alla luce della sola necessità di sperimentazione formale, oppure a partire da una concezione di avanguardia come “mossa” artistica razionalmente progettata per inserirsi, pur rompendo i ponti col passato, in una tradizione. Dada va letto come una sintesi creativa spontanea, che a partire dal rifiuto delle condizioni sociali e culturali del tempo, pur rimanendo riluttante alla cristallizzazione in un canone o alla “musealizzazione” della sua poetica, riuscirà a tramandare il senso della propria missione artistica oltre la lettera, cioè oltre la “retorica” del messaggio morale o dell'argomentazione logica che caratterizzavano le espressioni della cultura borghese. La sperimentazione di nuove forme, che partiva da una messa in discussione delle tradizionali modalità del fare artistico e dello stesso concetto di arte, aveva permesso di sviluppare coefficienti intuizioni la cui vitalità si esprimerà anche dopo, quando cioè la guerra finisce e Dada può rompere il suo isolamento. La “diaspora” del Dada zurighese testimonia la traduzione di quell'esperienza in una serie di contesti, tra cui quello parigino: la fine dell'isolamento segna una dissoluzione in qualche modo annunciata nei contenuti, le cui motivazioni vanno ricercate nel rifiuto di costituirsi come scuola e nel più ampio rifiuto del concetto borghese di Arte come formazione monolitica. Durante gli anni della guerra, gli artisti delle avanguardie francesi avevano potuto osservare da lontano l'interessante attività di Dada, anche grazie ai contatti intrattenuti da Tzara con Guillame Apollinare, Max Jacob, i fratelli Picabia, e all'interessamento dello stesso André Breton che aveva lavorato alla “Nouvelle Revue Française” di Gaston Gallimard, per poi approdare, assieme a Louis Aragon e Philippe Soupault, alla redazione della rivista “Nord-Sud” di Pierre Reverdy. Grazie a quest'attività aveva potuto sfogliare, già nel 1918, una rivista che si stampava in Svizzera: “Dada”. Più tardi, nel marzo del 1919, Breton, Aragon e Soupault, fondano una propria rivista, “Littérature”, organo di diffusione e critica letteraria, che nelle prime uscite raccoglie tra gli altri scritti di Gide, Valery, Jacob, Reverdy, o anche di autori nascosti del “recente” passato come Isidore Ducasse o Lautréamont, oltre a fungere da palestra di sperimentazione per i giovani poeti della nuova generazione tra cui gli stessi redattori. 44 Già a partire dall'estate del 1919 però, il nucleo del futuro Surrealismo comincia a realizzare la necessità di trovare una nuova fonte vitale, o meglio la chiave di una forma mentis che avrebbe dovuto liberare il fare artistico dai canoni del rigore razionalista, e dal sentimentalismo prosaico del realismo e del romanzo d'appendice. Il primo Manifesto del surrealismo, pubblicato nel 1924, ci restituirà l'aneddoto di un pomeriggio, nell'estate del 1919, in cui Breton e Soupault, sulla scorta in fondo di questa necessità – o anche di un sentimento di prigionia rispetto ai classici modi di fare “letteratura” - inventano – o forse si potrebbe dire che scoprono – il dettato automatico. Nell'autunno del 1919 appaiono su “Littérature” i primi tre capitoli di Les Champs Magnetiques, che sarà pubblicato integralmente nel 1920. Questa raccolta di testi rappresenta la testimonianza originaria di una presa di coscienza estremamente propulsiva per la nascita del Surrealismo. Saranno chiariti, più avanti in questo paragrafo e in relazione ai Manifesti surrealisti, le caratteristiche di questa scoperta. Si può qui segnalare come in questo periodo l'approccio del gruppo, che più tardi costituirà il nucleo del Surrealismo, è leggibile come una totale insoddisfazione nei confronti della letteratura del tempo, da cui scaturisce l'esigenza di trovare una nuova strada, un nuovo modo di percepire il ruolo dell'arte o addirittura, se consideriamo il rifiuto del razionalismo implicito nel carattere automatico del nuovo dettato surrealista, una nuova percezione, che possa liberare un immaginario rinchiuso nel vicolo cieco delle determinazioni imposte dalla cultura borghese. Nel 1920, come abbiamo accennato, Tzara ed altri si trasferiscono a Parigi, portando con se il germe ancora puro di Dada. Il rapporto che si viene a creare con il futuro Surrealismo è innanzitutto quello di una collaborazione, ai limiti della commistione. L'approccio Dada comincia ad informare di sé e della sua critica globale l'ambiente delle avanguardie parigine, che alla fine della guerra si trova a dover ricontestualizzare la propria esperienza culturale anche a fronte della recente distruzione bellica, sulla scia della multiforme esperienza delle avanguardie il cui discorso si era in qualche modo interrotto durante il conflitto. Nel gennaio del 1920, durante una soirèe di “Littérature”, il Dada viene presentato ufficialmente ai parigini in un atmosfera simile a quella delle serate al Cabaret Voltaire. Il tredicesimo numero della rivista è interamente dedicato a Dada: nel numero del maggio 1920 appaiono ben ventitre manifesti dadaisti, di cui due firmati da Breton. L'avvenuta penetrazione dello spirito Dada si configura come un vento nuovo, che scuote la coscienza artistica e letteraria della redazione della testata letteraria parigina, 45 che da qui non può più riconoscersi nelle poetiche della vecchia generazione, intrappolate nei termini di una mentalità ancora ottocentesca e didascalica, e tanto meno nella lettera oramai codificata e sterile delle recenti esperienze d'avanguardia (tra cui va ricordato anche il Simbolismo). La coesione della redazione di “Littérature” con l'esperienza Dada, però, non si consoliderà mai in una vera fusione. Ed anzi gli anni dal 1921 a 1923 vedono compiersi un progressivo allontanamento sulla base soprattutto di una inconciliabilità sul piano della visione politica. Il disinteresse dei Dada per una progettualità che riportasse anche sul piano della realtà sociale, o della coscienza politica, le tensioni accumulate nella sovversione artistica, sancirà, per Breton e gli altri, la necessità di sviluppare un nuovo approccio. Come segnala Ragozzino: L'esperienza dadaista era nata all'insegna di una reale impossibilità di costruire ed era stata marcata dalla profonda e appassionata necessità teoretica di fare tabula rasa di tutto: Dada postulava l'azzeramento del presente e la negazione del passato come condizioni necessarie al “fare” artistico ponendosi, infine, anche contro l'arte.87 Dove per il Surrealismo si tratta di sviluppare un progetto artistico propedeutico ad una liberazione dell'uomo sul piano globale. Se Dada rifiuta la progettualità, il surrealismo, invece, è programmaticamente un progetto futuro. Pur ereditando lo spirito critico di Dada, non nasce tout court dalle sue ceneri perché non nega né il passato né il presente, e soprattutto riflette sul significato propedeutico e fattuale dell'arte nell'ambito di un progetto di trasformazione globale.88 Alcuni procedimenti scoperti dai dadaisti come l'associazione casuale di immagini, il fotomontaggio, la decontestualizzazione di oggetti o pratiche quotidiani, saranno collegati nel Surrealismo ad un piano più psichico che meccanico, in riferimento alla scoperta freudiana dell'inconscio e della psicanalisi. Durante la guerra Breton aveva potuto leggere e apprezzare gli scritti di Freud, che conosce anche di persona, a Vienna, nel 1921. Questo riferimento sarà importante quando si definirà il significato della sfera onirica in relazione al pensiero surrealista. La nascita ufficiale del movimento è sancita, nel 1924, dalla fondazione di un nuovo organo di diffusione, “La Révolution surréaliste” - ad opera di Breton, Aragon, Pierre Naville e Benjamin Péret -, redatta facendo capo al Bureau central de recherches 87 M. RAGOZZINO, Surrealismo, Giunti Editore, Firenze 1995, p. 23. 88 Ibidem. 46 surréalistes, nuova sede ufficiale del gruppo, e soprattutto dalla pubblicazione del primo Manifesto del surrealismo, ad opera di André Breton. Lo scritto viene pubblicato nell'ottobre del 1924 presso le Editions du Sagittaire, due mesi prima che uscisse il primo numero de “La Révolution surréaliste”, che accoglierà più tardi lo scritto diviso in parti. In questo testo, posto come prefazione a Poisson soluble, una raccolta di prose di cui molte sono composte con il metodo del dettato automatico, sono esposte le tematiche principali del pensiero surrealista di questa fase. La creazione di un nuovo documento identitario, un Manifesto appunto dei propri principi, segna il definitivo distacco dall'esperienza Dada, e in generale una individuazione del movimento nei confronti di tutte le avanguardie precedenti. Per stabilire un ultimo raccordo con i dadaisti, si potrebbe notare come nello spirito della riflessione di Breton è ancora all'opera, attraverso la critica al romanzo realista o d'appendice, e attraverso il disagio espresso nei confronti della condizione umana, quella tensione distruttiva implicita nella contestazione Dada. In questo consiste il retaggio forse più significativo dell'esperienza di Tzara e compagni. Tuttavia, la tematizzazione espressa dal Manifesto non lascia dubbi sul fatto che il Surrealismo dovesse costituire, agli occhi dell'autore, una forma di superamento della distruttività nichilista di Dada, nel senso di una riflessione che ponesse le basi per una effettiva trasformazione della vita umana e politica, nel senso anche di una costruzione per il futuro. Obiettivo principale della riflessione è quello di rivendicare, attraverso il ricorso alla libertà di pensiero dell'uomo, lo spazio possibile di una liberazione più ampia, nella sfera della coscienza così come in quella della letteratura. La necessità di questa liberazione è data da un disagio nei confronti delle condizioni in cui si trova, potremmo dire incatenata, la coscienza collettiva. Il riferimento è alla visione surrealista dell'uomo moderno, asservito al lavoro, al cattivo gusto, alla morale utilitarista. Più nello specifico l'accento è posto sullo stato d'inerzia in cui si svolge la vita di ogni individuo: l'immaginazione, libera ed eminentemente creativa – capace di inventare mondi in cui immedesimarsi - durante l'infanzia, è atrofizzata dall'educazione e dalla società, i cui modelli borghesi tendono ad imprigionare l'esperienza umana nella logica di «un'utilità arbitraria»89. Il senso stesso del Surrealismo sembra già condensarsi, in questa prima fase dello scritto, in una missione, quella cioè di una liberazione che è allo stesso tempo storica ed originaria , relativa ad una contingenza così come latente nella stessa logica di 89 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI, Einaudi, Torino 1987, p. 11. 47 insurrezione, contenuta sempre in potenza nella nozione di libertà, e tanto più nella sua visione surrealista. La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l'antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la massima libertà dello spirito.90 La libertà di cui parla Breton è innanzitutto quella goduta con l'immaginazione, a fronte della rigidità dell'esperienza umana relegata nell'«atteggiamento materialista»91. L'uso libero di questa facoltà non si risolve però nello “sragionamento” della follia, dell'alienazione patologica come della “pazzia” clinica, di cui pure Breton problematizza degli aspetti in un senso che afferma il suo atteggiamento antipsichiatrico. Il «profondo distacco» degli alienati nei confronti di ogni critica o castigo, lascia supporre che attingano un grande supporto dall'immaginazione, che apprezzino abbastanza il loro delirio per sopportare che sia valido soltanto per loro. E, in effetti, le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti.92 La concezione dell'alienato clinico, il folle in qualche modo antisociale, contro se stesso e contro la realtà, è rovesciata nell'immagine della follia come illusione assoluta, come capacità di immedesimazione totale con una realtà altra. L'impossibilità dell'alienato di percepire, di conoscere e pensare secondo le regole logiche e razionali, il suo Delirium, rappresenta il passaggio attraverso una soglia - dal significato latino di delirare, ovvero “uscire da un solco” - o un esilio volontario dal mondo reale. L'esperienza della liberazione surrealista nel campo della percezione rassomiglia l'uscir fuori, l'essere ebbro della follia, ma non ne raggiunge il supremo distacco dal mondo. In questo senso il delirio, se così possiamo chiamarlo, della poesia surrealista, non è quello autosufficiente dell'alienato, ma è simile piuttosto a quello autocosciente e “terapeutico” della psicanalisi, della critica interiore e dell'indagine nell'ignoto e nel rimosso della mente. 90 Ivi, p. 12. 91 Ivi, p. 13. 92 Ibidem. 48 Non sarà la paura della pazzia a farci lasciare a mezz'asta la bandiera dell'immaginazione.93 La rottura surrealista risiede piuttosto nella ripresa dell'«immenso e ragionato sregolarsi (dérèglement) di tutti i sensi»94, che già nel suo significato originale, quello di «ineffabile tortura» o viaggio del Poeta-veggente all'interno di una più profonda conoscenza – di se, della propria anima - intende rivendicare per la poesia la missione profetica di indagine nell'«ignoto» di una nuova percezione, che liberi l'uomo dal grigiore della esperienza quotidiana. Vero Poeta, colui che si riconosce come tale nell'interezza del significato della poesia, nella sua natura di ricerca (o di “esperienza”, “sperimentazione”) per una trasformazione – del mondo, della vita stessa - , è colui che «si fa veggente»95 attraverso la conquista di un nuovo spazio immaginativo, da cui trarre ispirazione – per scoprire «il nuovo, forme e idee»96 - per la “scoperta” di una nuova lingua, universale, che guidi l'umanità verso la propria autocoscienza e la liberazione collettiva. Questa dinamica, teorizzata rapsodicamente in una lettera inviata a Paul Demeny nel maggio del 1871 passata alla storia come la Lettera del Veggente, farà poi da paradigma per la definizione stessa di ogni esperienza che volesse riconoscersi come avanguardia in campo letterario. L'insistenza sulla rottura tra “vecchio” e “nuovo” nella poetica di Rimbaud è sintomatica del rifiuto della letteratura del tempo, ad esempio dei cosiddetti “Parnassiani”, intrappolati in una letteratura sterile ed estetica che non poteva dare nessun apporto al senso della poesia come era intesa dal giovane poeta; ma rappresenta anche l'istituzione di una rivolta permanente nei confronti dell'abitudine, dell'etica e della piattezza borghese, della letteratura come orpello, «prosa ritmata, giuochetto»97, ed infine una tensione antagonista rispetto a tutta una visione del mondo, quella borghese, che di fatto raggiunge nel XIX secolo dei picchi di diffusione mai raggiunti prima di allora. Può essere fruttuoso notare, per capire in che modo Rimbaud sia uno dei numi tutelari del Surrealismo, come nella concezione rimbaudiana del Poeta-Veggente, ripresa in qualche modo da Breton, vi sia già un'identificazione tra la conquista dello spazio immaginario, da ricercare attraverso la rottura con i limiti della sola ragione, e la necessità di restituire l'energia di una tale vertiginosa esperienza alla trasformazione 93 94 95 96 97 Ibidem. A. RIMBAUD, Opere, trad. it. di D. GRANGE FIORI, Mondadori, Milano 1992, p. 454. Ibidem. Ivi, p. 457. Ivi, p. 453. 49 integrale della vita, da compiersi, in Rimbaud attraverso l'invenzione di una lingua che sia «anima per l'anima», che riassuma il Tutto dell'esperienza umana in un «pensiero che uncina il pensiero e tira» 98. Come in Rimbaud, anche nel Surrealismo non è possibile esaurire il senso del dérèglement nell'identificazione tout court con una forma di ebbrezza irrazionale o di follia. Si tratta piuttosto di un'esperienza in qualche modo controllata e de-regolata dall'immaginazione, che guida il poeta e con lui l'umanità attraverso l'itinerario della sua liberazione. Non si tratta più, in Rimbaud come negli esperimenti dei surrealisti, di ritmare la parola poetica assecondando l'inerzia della vita umana nella società borghese, “ritmare l'azione” di uno scenario svuotato dell'interiorità umana, di ridurre la bellezza o la natura ad un gioco stilistico, o di svilire l'esperienza complessa del vivere nel ritratto bozzettistico ed autoreferenziale del realismo letterario, quanto di indicare attraverso la poesia un nuovo orizzonte. Il legame con Rimbaud sarà chiarito meglio dai riferimenti diretti presenti nella Lettera alle veggenti99 del 1925. Da questa concezione scaturisce anche la critica di Breton all'«atteggiamento realista, che si ispira al positivismo, da san Tommaso ad Anatole France, […] avverso a qualsiasi slancio intellettuale, […] fatto di mediocrità, di odio, di piatta sufficienza» 100. Esso informerebbe di se la scienza, il giornalismo, l'arte, «adoperandosi a lusingare nell'opinione pubblica i gusti più bassi: la chiarezza che confina con la stupidità, la vita dei cani»101; anche il campo letteratura è, in definitiva, inquinato da tale approccio. Il «nulla delle descrizioni»102 corrisponde alla “esteriorizzazione” totale del mondo del romanzo realista, in cui la matrice autoriale nascosta, il progetto dell'autore, si nasconde dietro il paravento della descrizione minuziosa del reale, per restituire una pretesa oggettività. L'autore se la prende con un personaggio e, dato questo, fa peregrinare il suo eroe attraverso il mondo. Qualunque cosa accada, questo eroe, le cui azioni e reazioni sono mirabilmente previste, è tenuto a non sventare, pur avendo l'aria di sventarli, i calcoli di cui è oggetto.103 98 Ivi, p. 456. 99 Cfr A. BRETON, Lettera alle veggenti, in Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI, Einaudi, Torino 1987, pp. 123-129. 100 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p.14. 101 Ibidem. 102 Ibidem. 103 Ivi, p. 15. 50 Non è presente, nel romanzo realista o nel romanzo d'appendice, lo spazio letterario di una presa di coscienza, di un tramutarsi in vita del personaggio attraverso una liberazione dal progetto del testo: l'horror vacui della descrizione sommerge il personaggio, ne determina gli aspetti psicologici attraverso un'arbitrarietà tipologica, e sommerge il lettore, che viene proiettato in uno scenario che nella sua minuziosità non lascia spazio a ciò che l'immaginazione può esercitare nel processo della lettura . Viviamo ancora nel mondo della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare. [...] Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono.104 La visione positivista del mondo, che genera il realismo, aveva lavorato per estirpare dallo spirito umano ogni certezza o credenza che non avesse fondamento in una riscontrabilità metodica, o in una comunicabilità immediata attraverso una proiezione scientifico-razionale dell'esperienza. La fonte di energie cui vuole attingere il Surrealismo è quella proibita da questo approccio, o rilegata nell'ambito della fantasticheria, della superstizione e, ancora, della follia. Il riferimento di Breton, l'influenza che gli permette di scoprire, nell'uomo e per l'uomo, un mondo legittimo di esperienze diverse da quelle del Positivismo, e quindi lontano dalla fiducia cieca nel futuro come progresso economico, nella scienza e nella tecnica, è, come accennato, quella della psicanalisi freudiana. Si direbbe che si debba a un caso fortunato se di recente è stata riportata alla luce una parte del mondo intellettuale, a mio parere di gran lunga la più importante, di cui si ostentava di non tenere più conto. Bisogna renderne grazie alle scoperte di Freud.105 L'interpretazione delle libere associazioni prima, e dei sogni poi, mira a recuperare, nella lettura di Breton, quelle forze contenute nell'inconscio e in generale nella propria interiorità, recondita, insabbiata da una esperienza sociale in cui l'uomo è estremamente vincolato dalle determinazioni mentali del mondo razionale, il mondo della materia, della “realtà logica”, della veglia. Lo scavo compiuto dal paziente, con l'ausilio del suo interlocutore che lo guida in questo “ritorno” verso l'interno, verso l'interpretazione dei 104 Ivi, p. 16. 105 Ivi, p. 17. 51 propri stati subconsci ed onirici, deve rivelare dei nodi irrisolti nella sua storia rimossa, per uno scopo terapeutico, che ha la dinamica dell'oltrepassare, del superamento critico, e non più del trattamento medico forzato, che relega la patologia nel suo isolamento e alimenta l'alienazione degli individui considerati folli e quindi esiliati dal mondo. Un'operazione, l'interpretazione dei sogni106 appunto, che trova un contrappunto nella necessità surrealista di conquistare nuovo spazio mentale, da cui trarre la forza che potesse spingere l'essere umano verso una nuova riappropriazione, globale, di se stesso. Se le profondità del nostro spirito celano tali forze capaci di dare incremento a quelle di superficie, o di lottare vittoriosamente contro di esse, abbiamo tutto l'interesse a captarle, a captarle per cominciare, per poi sottometterle, se sarà il caso, al controllo della nostra ragione.107 Freud per primo si riferisce al sogno come ad un ambito della vita umana la cui importanza intrascurabile sta nel fatto che condensa e riproduce in qualche modo l'esperienza interiore, in maniera differente ed illuminante rispetto alla memoria esercitata da svegli, o al comportamento dell'individuo durante lo stato di veglia. Il sogno, per chi sa interpretarlo, riporta la mappatura di una vita altrimenti perduta, quella dell'interiore che in qualche modo si ribella, attraverso l'astrazione dalla realtà cosciente che avviene durante il sonno, alle determinazioni vincolanti della realtà, della continua “veglia razionale” del pensiero positivista, che rifiuta tali stati non coscienti come fondanti una possibile conoscenza. Per Breton e per il Surrealismo invece, l'indagine nel sogno rende conto di una conoscenza del possibile, il cui tesoro incalcolabile andrebbe altrimenti perduto. La veglia interrompe uno stato di percezione, così come viene interrotta dal sonno la coscienza razionale della realtà. Questa coscienza, come il sogno rispetto al razionalismo, può prendere le sembianze di un « fenomeno d'interferenza» 108, o meglio di uno stato di percezione che, seppur saldo ad una serie di condizioni materiali, presenta a sua volta una parziale instabilità. Occorre notare che niente ci permette d'inferire che sussista una dispersione maggiore negli elementi costitutivi del sogno.109 106 107 108 109 Cfr. S. FREUD, Die Traumdeutung, Franz Deuticke Verlag, Lipsia-Vienna, 1900. A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p.17. Ivi, p. 19. Ibidem. 52 E anzi veglia e sonno costituiscono continuamente una interferenza reciproca. Sta all'uomo, attraverso una memoria selettiva – quella liberata dal “monologo automatico” nel Surrealismo –, stabilire la possibile interazione dello stato cosciente e razionale con quello illimitato e “involontario” dell'esperienza onirica. Nei limiti in cui si esercita (si ritiene che si eserciti), secondo ogni apparenza, il sogno è continuo e reca tracce d'organizzazione. Soltanto la memoria [durante la veglia] si arroga il diritto di farvi dei tagli, di non tener conto delle transizioni, e di rappresentarci piuttosto una serie di sogni che il sogno.110 Il sogno e la veglia, o meglio la coscienza della veglia, tendono verso due opposti: da un lato si ha una definizione del Se a partire dal nucleo interiore dell'uomo, l'inconscio, che stabilisce determinati criteri di realtà – criteri di possibilità differenti, altri o alterati rispetto a quelli che regolano la realtà “esterna”; dall'altro lato, l'esperienza umana si definisce, quasi in negativo, rispetto all'esterno, alle leggi dimostrabili della scienza positiva così come ai meccanismi conformanti o repressivi presenti nella società moderna. Ciò che unisce questi due piani, ciò che orienta il loro discernimento, è la memoria. Nel riferirsi ad una ricostruzione del sogno, così come nel ricostruire una vicenda occorsa durante la veglia, la volontà si esprime attraverso la selezione operata dalla memoria. Il sogno deve però continuamente riconquistare la sua integrità, e questo richiederebbe una metodica, «una disciplina della memoria praticata per varie generazioni»111. Sono gettate le basi per la missione più propria del Surrealismo, ovvero annunciare l'inizio, la svolta di una presa di coscienza necessaria per consentire, nel futuro o in un presente remoto dell'interiorità, la realizzazione del progetto di liberazione costituito dalla riappropriazione del proprio spazio immaginario. E può risultare forse risultare comprensibile come questa soluzione, che cerca la continuità tra la veglia e il sonno, sia alla base del Surrealismo come visione del mondo. Credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può dire. È alla sua conquista che sto andando, certo di non arrivarci ma troppo incurante della mia morte per non prefigurarmi in qualche modo le gioie di un tale possesso.112 110 Ivi, p. 18. 111 Ivi, p. 20. 112 Ibidem. 53 La surrealtà rappresenta uno stato di sintesi creativa, a partire dall'opposizione tra realtà e sogno. In letteratura, o almeno nel romanzo romantico, tale sintesi è espressa dal meraviglioso, altro elemento che il paradigma positivista aveva relegato nel campo delle attività non conoscitive, oppure nei limiti formali e concettuali di una esposizione favolistica e pensata per l'infanzia. Il meraviglioso è emblema del bello, disinteressato ad una convenientia con il reale attraverso una rappresentazione rigida della realtà, così come ad una convenienza morale vincolante riguardo a ciò che è possibile immaginare. Il meraviglioso rivela di un'epoca più di quanto la descrizione realistica può dire, poiché rende conto dei ripiegamenti reconditi dell'immaginario umano. Il sogno si rivela allo sveglio nello specchio del meraviglioso. L'immagine di un mondo irrigidito dall'angoscia del possibile si rovescia nell'immagine fantastica di un mondo costituito da elementi non identici a quelli reali, che rappresentano dei simboli che interpretati costituiscono, per un'epoca, il senso dell'esperienza umana rispetto al bello. Il meraviglioso non è uguale in tutte le epoche; partecipa oscuramente di una specie di rivelazione generale di cui cogliamo soltanto il particolare: le rovine romantiche, il manichino moderno o qualsiasi altro simbolo atto a mobilitare per un certo tempo la sensibilità umana.113 L'indagine surrealista a partire dalla tensione che si crea in questa scissione dell'individuo tra sogno e realtà è alla base della scoperta del dettato automatico. La ricerca di un nesso creativo, di una sintesi che potesse essere strumento di unificazione tra coscienza ed inconscio, e allo stesso tempo sovvertire il falso dualismo della coppia realtà-follia, si avvale ancora una volta dei concetti freudiani. Breton sperimenta su se stesso il metodo psicanalitico, nell'analizzare le rappresentazioni che dalla percezione del reale possono condurre all'apparente allucinazione di una percezione distorta, o meglio differente, della realtà. Egli cerca di ottenere da se stesso un monologo proferito il più rapidamente possibile, sul quale lo spirito critico del soggetto non eserciti alcun giudizio, che non venga quindi intralciato da alcuna reticenza, e che sia quanto più esattamente è possibile il pensiero parlato.114 Sulla scorta di questo obiettivo, nel 1919, Breton, assieme con Philippe Soupault, inventa, come accennato, il dettato automatico, le cui “regole” pratiche sono spiegate 113 Ivi, p. 22. 114 Ivi, p. 27-28. 54 nel Manifesto, nel paragrafo intitolato Segreti dell'arte magica surrealista115. Le immagini e le associazioni prodotte nella scrittura automatica hanno come obiettivo lo scardinamento dell'individualità, dell'autorialità nel processo creativo, e infine dei principi logici che fanno da prisma alla rappresentazione logico-razionale della realtà, e quindi anche alla scrittura “ragionata”. Obiettivo di questa operazione è in definitiva «la divulgazione di un certo numero di proprietà e di fatti» 116, relativi alla parola così come all'esperienza, «non meno oggettivi, in definitiva, degli altri»117, quelli cioè rilevati nella rappresentazione “normale” della realtà. La nuova modalità di espressione pura, costituita dall'attingere liberamente all'immaginazione, viene nominata “Surrealismo”, in omaggio a Guillame Apollinaire, in cui Breton e Soupault avevano visto operare uno spirito fino a un certo punto affine al loro. Il riferimento è anche alla parola “Supernaturalismo”, utilizzata da Gérard de Nerval, che ne avrebbe posseduto maggiormente lo spirito e la consapevolezza rispetto ad Apollinaire, che era surrealista più nella lettera che nella teoria. Il movimento rivendica per sé questa denominazione, a fronte della scoperta originaria delle energie rivoluzionarie contenute nelle immagini attinte da una realtà non logica. Le dinamiche mentali ricostruite nel dettato automatico rappresentano un'immagine del meccanismo originario del pensare, non pregiudicato da “sovrastrutture” logico-razionali. S U R R E A L I S M O, n.m. Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. Hanno fatto atto di SURREALISMO ASSOLUTO Aragon, Baron, Boiffard, Breton, Carrive, Creveil, Delteil, Desnos, Eluard, Gérard, Limbour, Malcesine, Morise, Naville, Noll, Péret, Picon, Soupault, Vitrac.118 115 116 117 118 Ivi, pp. 33-36. Ivi, p. 29. Ibidem. Ivi, p. 30. 55 Il testo procede con una serie di indicazioni riguardo alla pratica del Surrealismo come metodo di scrittura. Alcuni autori del recente passato sono menzionati, riguardo a determinati elementi, come surrealisti ante litteram: è il caso dello stesso Rimbaud « nella pratica della vita»119, di Baudelaire, di Sade o Saint-Pol-Roux, citato anche all'inizio dell'opera come precursore della visione del sogno come fonte inesauribile di poesia. Bruno Pompili suggerisce: Il riferimento che Breton ha fatto nel primo manifesto ai presunti rivelatori inconsci del surrealismo nei secoli precedenti il nostro (Dante, Shakespeare, Swift, Young, Chateaubriand, Sade, Constant,...) non aveva lo scopo, come a volte si è creduto, di scoprire molti padri ad un atteggiamento nuovo per fondarlo sui loro nomi sotto un profilo di eternità o almeno per rilevare una costante precisa nel tempo.120 Anche i riferimenti a personaggi più prossimi nel tempo (Baudelaire ad esempio, Lautréamont, Rimbaud o Mallarmé, di cui pure lo stile del Breton pre-surrealista riprende alcuni temi), o a quelli che erano stati «idealmente o praticamente» 121 vicini «al progetto di messa in opera generale dello statuto aperto del surrealismo» 122 (ad esempio Rimbaud, Nerval, Jarry, Reverdy, Apollinaire), rientrano in un punto di vista critico, che apre la strada ad una rilettura della posizione intellettuale incarnata da quegli autori, la cui opera viene valutata ora in relazione alla possibilità di un riutilizzo, di un'interattività. Il richiamo a tutto un precedente di autori la cui visione può intrecciarsi con quella di Breton, permette una rifunzionalizzazione degli elementi di quelle poetiche, al fine di rafforzare e definire la forma dell'engagement critico nel reale, della «presenza operativa nel mondo»123, rappresentata dal surrealismo come da qualsiasi sforzo artistico che si ponesse, in qualche modo, come rottura dello spazio angusto della realtà superficiale. Caso particolare è quello di Jacques Vaché 124, la cui figura rimarrà nella memoria di Breton, come quella di un artista che aveva pienamente realizzato l'unione di vita e poesia. L'insistenza, concentrata sull'azione più che sulla lettera, sui toni del grottesco e dell'irriverente, fanno dello scrittore, morto prematuramente nel 1919, un trait d'union saldo tra lo spirito dell'avanguardia e l'esperienza surrealista. Lo spirito di Vachè 119 Ivi, p. 31. 120 B. POMPILI, Breton/Aragon. Problemi del surrealismo., Sindia Editrice, Bari 1972, p. 43. 121 Ivi, p. 44. 122 Ibidem. 123 Ibidem. 124 «Vaché è surrealista in me».: cfr A. BRETON, Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI, Einaudi, Torino 1987, pp. 31-32. 56 sopravviverà a lungo, a traverso Breton, nel surrealismo, e l'ironia dissacrante dei suoi opuscoli (si vedano ad esempio le raccolte di Canard Sauvage) sarà ancora presente, nella Antologia dello humour nero125, la cui prima pubblicazione risale al 1939. Con il primo Manifesto sono gettate le basi per la nuova esperienza surrealista, che si evolverà negli anni molto velocemente, fino all'adesione di Breton, Aragon, Eluard, Péret et altri, al partito comunista (PCF) nell'aprile del 1927. -Da “La Révolution surréaliste” a Nadja La forma di esperienza inscritta nelle tematiche del primo Manifesto può tradursi, oltre che nell'ambito letterario, sotto il segno di un'esperienza umana ed artistica globale. È in questo senso che Breton tematizza, in Le Surréalisme et la peinture del 1925, la possibilità di esprimere la rottura, operata con il recupero delle immagini oniriche e mentali nella poesia, anche attraverso la forma grafica e pittorica, segnalando alcuni esempi contemporanei (Masson, Ernst, Mirò, Tanguy) la cui sperimentazione è affine a quella surrealista. La surrealtà scoperta nel Manifesto si presta anche ad una rappresentazione figurativa, che attinga alle immagini del mondo inconscio e dell'immaginazione per figurarsi le fattezze della propria esperienza psichica. Così come per la scrittura, la scommessa della pittura, o meglio dell'arte figurativa surrealista in toto, «consiste nel riuscire a raffigurare con modalità automatiche questa surrealtà» 126, la cui rappresentazione rende conto visivamente dell'esperienza interiore, della ricognizione in una realtà differente da quella esteriore del mondo razionale. La tecnica del collage, o quella del frottage127 introdotta da Max Ernst, ad esempio, fanno da contralto alle poesie composte mettendo assieme vari titoli di giornale, di cui le ultime pagine del primo Manifesto offrono un esempio128. In queste tecniche, in cui viene meno la necessità di un modello pittorico dal reale, e in cui in qualche modo l'oggetto poi rappresentato è celato allo sguardo del pittore – il caso del frottage -, Ernst e altri attuano pittoricamente i principi dell'automatismo psichico implicito nel “gioco” di 125 Cfr. A.BRETON, Anthologie de l'humour noir, Ed. Gallimard, Parigi 1939. 126 M. RAGOZZINO, Surrealismo, cit., p. 35. 127 Questa tecnica consiste nello sfregare una matita o un carboncino su un piano di disegno poggiato ad una superficie, in modo da ottenere una immagine in rilievo (o in negativo) di quella superficie. 128 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 44-46. 57 associazioni del dettato automatico. La possibilità di un'interazione tra le arti, che testimoniasse l'apertura – o anche l'atteggiamento totalizzante - dell'esperienza surrealista, si realizza, a partire dal dicembre del 1924, sulle pagine de “La Révolution surréaliste”, sulle quali compare anche lo scritto di Breton sulla pittura. I primi direttori della rivista sono Pierre Naville e Benjamin Péret, tra i surrealisti della prima ora. Nel frontespizio del primo numero appare una nota sul fatto che il surrealismo non volesse porsi come l'esposizione di una dottrina, e come in quel primo numero fossero raccolti racconti di sogni, esempi di scrittura automatica, un'inchiesta sul suicidio, che testimoniavano di una pratica che voleva allontanare da se, per principio, il pericolo di una cristallizzazione, di una imbalsamazione artistica o dottrinale 129. E quindi un invito, a chiunque volesse prender parte alla rivoluzione che la nascita del Surrealismo annunciava, a farlo recandosi in Rue de Grenelle, nel VII arrondissement parigino, dove si trovava la sede del Bureau central de recherches surréalistes, redazione e centrale operativa del gruppo. Già dai primi numeri l'organo di diffusione del movimento accoglierà tra le sue pagine opere di Ernst, Tanguy, Dalì, Hans Arp, Joan Mirò, De Chirico, Paul Klee, Man Ray, oltre agli scritti di autori già aderenti al Surrealismo tra cui Boiffard, Vitrac, Aragon, Soupault e altri. Il secondo numero presenta dei disegni di Picasso, ancora De Chirico ed Ernst, oltre ai primi passaggi del Manifesto del 1924, e alla prima parte di Les Reines de la main gauche di Naville. Quest'ultimo, codirettore con Peret di tre dei primi quattro numeri della rivista, pubblica nel 1925 un articolo, Existe-t-il une peinture 'surréaliste'?, che segna già un distacco da Breton, poiché esprime forti dubbi sulla possibilità di un'arte surrealista, e sulla possibilità della stessa di trasformare integralmente la vita, di concretarsi cioè, in una visione del reale. Naville si domandava se l'idea di rivoluzione dovesse poggiarsi necessariamente sul surrealismo, o se piuttosto si trattasse di concetti sovrapponibili ma non identici. La riflessione del gruppo, in generale e anche negli stessi Breton, Aragon, Péret ed Eluard, è in questo periodo tesa a risolvere la questione legata alla modalità 129 Cfr. P. NAVILLE, B. PÉRET, Titolo, in AA.VV., “La Révolution surréaliste.”,anno I, numero 1, Editions Jean-Michel Place, Parigi 1975, p. I. « Le surréalisme ne se présente pas comme l'exposition d'une doctrine. Certaines idées qui lui servent actuellement de point d'appui ne permettent en rien de préjuger de son développement ultérieur. Ce premier numero de la Rèvolution Surréaliste n'offre donc aucune révélation définitive. Les resultats obtenus par l'écriture automatique, le récit de rêve, par exemple, y sont représentés, mais aucun résultat d'enquêtes, d'expériences ou de travaux n'y est encore consigné: il faut tout attendre de l'avenir ». 58 della trasformazione, in senso politico e sociale, dell'esperienza sovversiva espressa nella poetica surrealista. La posizione assunta contro la guerra del Marocco (Guerra del Rif130) avvicina il gruppo alla rivista “Clarté” di Henri Barbusse, più vicina all'ortodossia marxista, e in generale agli ambienti di sinistra radicale che condannavano l'ingiustizia di quel conflitto, cui aveva partecipato come soldato lo stesso Pierre Neville. La collaborazione con questi ambienti sarà alla base dell'opuscolo intitolato La Révolution, d'abord et toujours, ma la congruenza delle visioni del mondo espressa nel rifiuto della guerra non risulterà tanto solida da nascondere una insanabile differenza di opinioni sul ruolo dell'arte a livello sociale. La rottura con Barbusse prima e con Neville poi, è sintomatica di una scossa in senso politico che di lì a poco coinvolge tutto il movimento, e che verte principalmente sulla funzione data all'arte nell'ideologia del Partito Comunista Francese. La direzione della rivista passa, già dalla fine del 1925, nelle mani del solo Breton, che dal quinto numero in poi sarà il direttore e l'anima di quasi tutte le edizioni fino a 1929. All'inizio del 1926, dopo essersi avvicinato all'ideologia comunista attraverso la lettura di Lenin e Trockij, Neville aderisce pubblicamente al PCF. Il suo definitivo distacco dal Surrealismo è segnato da un articolo, La Révolution et les Intellectuels (Que peuvent faire les surréalistes), in cui tenta di indirizzare l'esperienza della surrealtà nell'ottica rivoluzionaria del marxismo ortodosso come unico meccanismo in grado di attuare la rivoluzione proposta in campo artistico dal gruppo.Una lettura che Breton aveva da sempre avversato rivendicando il rifiuto di ogni autorità ideologica, compresa quella del comunismo, rispetto ad una modalità di percezione della realtà, quella del Surrealismo, che si vuole assolutamente libera. Il rapporto con Naville e con il marxismo sarà chiarito da Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo (1930)131, quando il principale esponente del movimento avrà si preso parte al progetto globale di trasformazione agente in seno al comunismo, ma rimarrà comunque ostile all'ortodossia cieca della dirigenza del partito, sottolineando continuamente il ricorso ad un atteggiamento che traesse supporto dall'esperienza estetica delle avanguardie, nel senso quindi di una rivoluzione non solo materiale ma anche dell'immaginario. “La Révolution surréaliste” rappresenta, negli anni dal 1924 al 1929, lo spazio di 130 Questa denominazione si riferisce ad una guerra coloniale, quella combattuta appunto tra i “ribelli” del Rif, catena montuosa nel nord del Marocco, e gli eserciti di Spagna e Francia, tra il 1921 e il 1926,. Entrambi gli eserciti agivano sotto la protezione politica del Sultanato del Marocco, che avversava i Rifani poiché osservanti riti e costumi differenti da quelli prescritti dal diritto religioso islamico. 131 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 59-116. 59 sperimentazione comune degli autori del gruppo iniziale (Aragon, ancora Péret, Pierre Unik, Marcell Noll), ma anche il punto d'incontro con autori che partecipano occasionalmente, tra cui Man Ray, Malkine, Mirò, e altri che saranno poi allontanati, come Soupault, Queauneau, lo stesso Naville, o Antonin Artaud, direttore per un breve periodo del Bureau de recherches surréalistes, e collaboratore del movimento dalla prima ora. Sarà ancora una volta il Secondo Manifesto a chiarire il perché di queste esclusioni, oltre che dell'odio feroce che si sviluppa tra Breton e il drammaturgo marsigliese. La rivista accoglierà anche estratti dei manifesti del movimento così come di romanzi poi pubblicati singolarmente, oltre alle locandine, corredate di riproduzioni in scala o disegni autografi, delle esposizioni d'arte figurativa degli artisti legati al gruppo. Se alcuni dei rapporti intellettuali che testimoniano della prima ora del Surrealismo saranno perduti per sempre, altri, come quello con Naville, saranno recuperati più tardi alla luce della nuova e più moderata considerazione sulla necessità di una scelta di campo in senso politico, e cioè sull'adesione al PCF. Il numero del marzo 1928 di “La Révolution surréaliste” presenta una riedizione dell'articolo di Naville (La Révolution et les intellectuels), frammenti del Traitè du style132 di Aragon, oltre agli estratti di un romanzo, Nadja, che Breton aveva pubblicato di recente per Gallimard in versione integrale. Quest'ultimo testo, la cui costruzione testimonia della volontà di sperimentare nella direzione di una nuova forma di romanzo, da opporre a quella realista o naturalista, viene scritto tra l'estate e l'inverno del 1927, poco dopo i fatti, dal vero, che vi sono riferiti. La struttura del testo, se di vera è propria struttura è possibile parlare, testimonia di questa composizione dilazionata, mediata da una riflessione, non automatica . Piuttosto la concatenazione dei fatti che sono riferiti si lega a posteriori ad una dinamica automatica, nel senso che Breton riflette su determinate influenze e aneddoti della sua vita, ponendo tra essi, quindi tra la vita interiore e quella fattuale, delle concatenazioni non vincolate alla logica del razionale o del non razionale. La necessità di una minima progettazione è data dal fatto che l'autore deve spiegare, anche a se stesso, la situazione, non scontata, entro cui i pochi fatti della vicenda possono accadere, e soprattutto perché il suo incontro costituisce un evento eccezionale. Lo scritto narra di una vicenda autobiografica, l'incontro con una donna, Léona Delcourt, che si fa chiamare Nadja, nata a Lille nel 1902 e poi internata in manicomio 132 Cfr. L. ARAGON, Traitè du style (1928), trad. it. Trattato dello stile, a cura di D. GALLINGANI, Alinea, Firenze, 1993. 60 dal marzo del 1927, poco dopo l'incontro con Breton a Parigi, fino alla morte avvenuta nel gennaio del 1941. Così come il personaggio principale anche i luoghi, i pochi personaggi collaterali, le conversazioni, le frasi laconiche che si imprimono nella memoria, e tutto il mondo ritratto in Nadja, sono ripresi da fatti della realtà, dalla cosiddetta e detestata realtà - e tutto è sconvolto, da cima a fondo, per l'intervento di una figura di donna che è la negazione stessa del principio di realtà.133 Nel testo si trovano moltissimi riferimenti al travaglio intellettuale che vive Breton in questo periodo, ai luoghi dei suoi alloggi, delle sue peregrinazioni, agli amici e ai temi del movimento surrealista in questa fase (ad esempio la visione del lavoro come schiavitù, o l'atteggiamento antipsichiatrico chiarito nell'invettiva finale). E tuttavia la dimensione di realtà dello scritto è in qualche modo messa in questione dall'esistenzalimite rappresentata dal personaggio Nadja. La prima parte del romanzo rappresenta una soglia propedeutica per comprendere il significato della comparsa della donna, che appare improvvisamente, come un'epifania non religiosa a compimento di un itinerario, quello dell'autore – o del “personaggio” Breton – che dall'incontro è condotto ad una riflessione “disperata” sulla verità stessa della realtà. Le sessanta pagine di arrampicata a mani nude che precedono la sua comparsa ci dicono innanzitutto che la figura narrante, oltre a cercare la propria identità, è pronta a un incontro, è in attesa, è disponibile.134 Anche tra le righe del diario tenuto dall'autore per i giorni trascorsi con questa eterea figura femminile, si legge ancora una volta la volontà, forse espressa meno sistematicamente che nel primo Manifesto, di rifiutare ogni schematismo per rincorrere fosse anche l'illusione di una libertà incondizionata. E Nadja è innanzitutto una personificazione, forse davvero inconsapevole, di tale libertà: una libertà che si tiene in equilibrio al margine del distruttivo, nei caratteri di una incontenibilità che fa vacillare la definizione di sanità mentale come anche la definizione stessa di una identità secondo i canoni consueti della razionalità. Tutte le certezze su cui riposano le schematizzazioni dell'esperienza logico-razionale, che stanno a fondamento del romanzo tradizionale, sono messe in questione a partire dalla problematizzazione dell'individualità espressa in apertura. 133 D. SCARPA, Prefazione, in A. BRETON, Nadja, cit., p. VI. 134 Ivi, p. VII. 61 Chi sono, io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante : chi frequento, chi infesto.135 La prima parte del romanzo ha la forma di questa interrogazione, in cui l'Io viene spogliato della presenza a se stesso per essere posto in questione, non secondo una ricostruzione razionale dell'individualità – quella del materialismo e del razionalismo -, ma nel senso piuttosto di un'apertura, necessaria, all'altro rappresentato poi da Nadja. L'immagine dell'identità riferita ad un altra presenza, quella di uno spettro o di un fantasma, «implica evidentemente un'allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per essere colui che sono»136. L'adagio cui si riferisce Breton è, come attesta Richter137, “Dis moi qui tu hantes, je te dirai qui tu es”, e si collega, originalmente, ad una connotazione pedagogica: si riferisce alle cattive frequentazioni, alle amicizie che portano su una cattiva strada, dove il verbo hanter non è ancora riferito all'accezione, sviluppatasi poi, di “infestare”. La lettura dell'adagio è giocata sull'ambiguità di questo “frequentare” qualcuno o “abitare” un'individualità: Breton intende proiettarsi all'interno del suo testo, o meglio intende trascrivere in Nadja una vicenda che non si costruisca secondo una struttura prefigurata ma che possa farsi vita autonoma, indicando di volta in volta la direzione da seguire, potremmo dire, in maniera automatica. E in questo senso l'esperienza dell'Io narrante nei confronti del “personaggio” Breton che vive nelle pagine del romanzo è davvero quella di un'immedesimazione, di una infestazione di quello stesso personaggio,e non di una identificazione arbitraria poiché riferita ad un sistema di significati prestabiliti, propria della «letteratura psicologica ad affabulazione romanzesca»138. Nella narrazione l'autore non dispone i fatti e gli oggetti secondo un ordine predeterminante, ma cerca di cogliere la sua stessa individualità nell'apertura al mondo del romanzo che fugge davanti ai suoi occhi: in questo senso si può forse comprendere come l'idea di “fantasma”, riferita all'Io stesso dell'autore, sia percepita «come immagine finita di un tormento che potrebbe essere eterno»139, nel senso di ritorno infinito sulla questione, insolvibile a partire da una prospettiva univoca, della propria identità . L'obiettivo di Breton è quello di mettere in relazione l'Io dell'autore con la sua estrema alterità, con l'ignoto di una realtà possibile – quella della libertà assoluta, o dell'amore inattuabile 135 A. BRETON, Nadja, cit., p. 5. 136 Ibidem. 137 Cfr. M. RICHTER, “Nadja” di André Breton: analisi della prima sequenza”, in “Rivista di Letterature Moderne e Comparate”, anno XXXVI, numero 3, Pacini Editore, Pisa 1983, pp. 249-261. 138 A. BRETON, Nadja, cit., p. 11. 139 Ivi, p. 5. 62 per Nadja –, in opposizione ancora ad una concezione di realtà, rappresentata nel razionalismo come attualità “granitica”, e che rinchiude, nel naturalismo, il mondo della possibilità entro il piano di uno svolgimento prestabilito dall'autore. Questa dinamica non è realizzata attraverso una riflessione in termini logico-filosofici, cui pure si presterebbe la forma della domanda in apertura, che rivela un riferimento alla seconda delle Meditazioni metafisiche cartesiane. Breton non intende operare una confutazione, quanto piuttosto un rimando critico a quella forma di razionalità propria del mondo borghese,e che, da Cartesio fino al Positivismo, aveva contribuito a rinchiudere la vita nelle barriere della logica. Per evitare l'approccio strettamente filosofico, che avrebbe riportato il discorso nella sfera di un logos – non solo cartesiano ma riferito all'intero dell'apparato concettuale occidentale –- che Breton vuole fuggire, egli tenta piuttosto di slegare l'Io dal metodo della riconduzione alla soggettività attraverso la deduzione logica (dall'agostiniano “Si fallor sum” al cartesiano “Cogito ergo sum”). Come nel primo Manifesto la razionalità che si ripiega su se stessa come giudice e principio ordinatore dell'esperienza, non è più sufficiente a definire i criteri della vita umana nella sua complessità. L'autore non può più arrogarsi legittimamente il diritto di farsi costruttore ed organizzatore di un mondo rappresentato ad arte, come nel romanzo naturalista del XIX secolo, se deve innanzitutto cercare la risposta riguardo alla sua stessa identità fuori da sé. Se la verità dell'esperienza del reale è stabilita attraverso l'identificazione dell'individuo nel meccanismo del suo pensiero, o prodotta in qualche modo attraverso un metodo, come in Cartesio, presuppone delle leggi, delle regole che rendano conto del significato specifico ed universale di tutti i termini. L'intento, o piuttosto la necessità di Breton, è di delegittimare questa visione, al fine di scardinare una tale concezione della realtà e dell'identità, troppo angusta per poter comprendere l'eccezionalità del suo incontro con Nadja. L'Io narrante è posto così nello spazio di un'eccezione alle regole di questa forma di razionalità, che è quella che genera la pretesa oggettività del romanzo concepito, in maniera convenzionale, secondo i canoni di un'autorialità totalizzante e ordinatrice. L'autore di Nadja, o meglio l'Io che scrive, può scoprire lo spazio della propria realizzazione solo all'interno di un campo di rimandi differente rispetto a quello logicofilosofico . Non ho intenzione di riferire, in margine al racconto che sto intraprendendo, se non 63 gli episodi più incisivi della mia vita quale posso concepirla al di fuori del suo piano organico, cioè nella misura in cui essa si consegna ai casi fortuiti, dal più piccolo al più grande, nella misura in cui, contrastando all'idea comune che me ne sono fatta, m'introduce in un mondo per così dire proibito: quello dei collegamenti improvvisi, delle coincidenze pietrificanti, dei riflessi più forti di qualsiasi altro impulso mentale, degli accordi risonanti come su un piano, dei lampi che ci metterebbero in grado di vedere, ma di vedere davvero, se non fossero ancora più rapidi degli altri.140 Il «mondo per così dire proibito» di cui parla Breton è quello attraverso il quale è condotto da Nadja, che incontra il 4 ottobre del 1926, mentre si trova a passeggiare senza meta all'orario di chiusura degli uffici, già in questo differente dalla “massa” di coloro che sono sottomessi, attraverso il lavoro, alle determinanti di un'utilità strettamente materiale. Da subito l'autore è colpito dalla figura di questa donna, che «va a testa alta, al contrario di tutti gli altri passanti» 141, e che come lui vaga senza una destinazione precisa. Da subito l'incontro si rivela come un enigma, che il poeta sente il bisogno di approfondire. È lo stesso enigma che forse Nadja vede negli occhi di Breton, quando «sorride, ma in maniera assai misteriosa [...] come con cognizione di causa»142, come se intuisse a sua volta la particolarità del momento. Il diario prosegue riferendo delle conversazioni dei due: Nadja parla della sua vita, delle sue difficoltà economiche, che traspaiono anche dal suo abbigliamento, senza tacere al poeta nulla dei suoi sentimenti, come se parlasse ad uno spirito riconosciuto come profondamente affine. I due si frequentano per diversi giorni, Breton fa leggere a Nadja dei testi surrealisti, si accompagnano in una peregrinazione casuale tra i discorsi e per le vie di Parigi che rivela ancora di più la predestinazione di quegli eventi, o meglio che apre sempre di più l'autore alla “rivelazione” sempre possibile costituita da questa donna. Ogni giorno Nadja si rivela nella sua crescente incontenibilità, e ogni giorno il “gioco” sulla propria e sull'altrui identità intrapreso dalla stessa infittisce l'enigma che rappresenta agli occhi dell'autore. Se il primo incontro si era svolto nel segno di un'affinità immediata, gli incontri successivi scivolano sempre più nel carattere vertiginoso che prende la china delle conversazioni con la donna, rasentando talvolta la follia o l'allucinazione. Il rapporto con Nadja diventa allora, attraverso la sua imprevedibilità, un'immagine del 140 Ivi, pp. 11-12. 141 Ivi, p. 51. 142 Ivi, p. 52. 64 caso fortuito e della coincidenza, che rivela a Breton ed al lettore l'intreccio di tutta una serie di episodi, che nel passato preannunciavano questo incontro e nel presente lo rivelano sempre più nella sua surrealtà. Un passo menzionato (“L'esprit nouveau”) di Le Pas Perdu (1924), una raccolta di saggi e articoli di Breton sulle tematiche del Surrealismo, riferisce un aneddoto che coinvolge lo stesso Breton con Aragon e Derain: i tre avevano incontrato, a pochi minuti di distanza, una donna, che aveva attirato magneticamente la loro attenzione. Quando si incontrano i tre faticano a comprendere con cosa avessero avuto a che fare, tanto da spingersi a tornare nei luoghi stessi dove ci era apparsa quella vera e propria sfinge sotto i tratti di una affascinante giovane che andava da un marciapiede all'altro a interrogare i passanti, quella sfinge che ci aveva risparmiata uno dopo l'altro.143 e che non riescono più a trovare. Questo episodio finisce per prefigurare in qualche modo la comparsa di quella Sfinge che è Nadja, così come la trama di Les Détraquées ( un dramma cui Breton aveva assistito qualche anno prima al Théâtre des Deux Masques)144, prefigura la sua sorte di abbandono e reclusione. Allo stesso modo una serie di episodi viene retrospettivamente messo in relazione ai fatti delle giornate con Nadja. Scorrendo le pagine del diario si chiarisce come la storia di questo incontro non sia leggibile semplicemente come la storia di un “colpo di fulmine”, o di un amore irrealizzato: Nadja rappresenta piuttosto uno di quei «lampi che ci metterebbero in grado di vedere, ma vedere davvero»145 di cui parla l'autore in apertura. La vicenda si trasforma allora nel racconto di una rivelazione, di una illuminazione improvvisa che getta luce sull'identità stessa dell'Io che nelle prime pagine del testo viene evacuato dalle sue determinazioni terrene. La domanda «Chi sono, io?» si riflette allora in un'altra questione: chi è Nadja? Cosa rappresenta questa donna, che intrecciando come un oracolo questioni e pensieri apparentemente sconnessi tende, come l'immaginazione nel primo Manifesto, alla conquista di uno spazio di libertà incondizionata 146, che è anche una ricognizione in un territorio prossimo alla follia? 143 Ivi, p. 62. 144 Ivi, pp. 32-39. 145 Ivi, nota 56. 146 Cfr. A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p. 12: «La sola immaginazione mi rende conto di ciò che può essere, e questo basta a togliere un poco il terribile interdetto: basta, anche perché io mi abbandoni ad essa senza paura di essere tratto in inganno (come se fosse possibile un inganno maggiore). Dove comincia a diventare nociva e dove si ferma la sicurezza dello spirito? Per lo spirito, la possibilità di errare non è forse la contingenza del bene?». 65 È significativo come, tra le 44 tavole del romanzo che recano foto, ritratti, disegni della stessa Nadja, non sia presente il suo ritratto. E quando il 9 ottobre Breton, alla ricerca di un recapito della donna fa domandare come raggiungerla lei risponde che non è possibile raggiungerla. L'incontro concordato con Nadja non va cercato, e Breton piuttosto si imbatte in lei come se la sua apparizione fosse predestinata: si tratta forse dell'incontro previsto da Mme Sacco con una donna che avrebbe occupato inconsciamente il pensiero dell'autore, e nei caratteri di ineluttabilità che assume la loro frequentazione è possibile scorgere dei segnali che collocano la loro comune esperienza nel segno di un destino non eludibile. Il personaggio Breton sembra scoprire a poco a poco l'intreccio sinistro di corrispondenze tra la sua vita precedente e quell'incontro. Come qualche giorno più tardi, quando compare un mendicante, «come non ne ho mai visti presentarsi da nessuna parte147», che insiste per lasciare ai due delle cartoline sulla storia di Francia. Quella che mi tende, insistendo perché la prenda, riguarda alcuni episodi del regno di Luigi VI e di Luigi VII (mi ero proprio allora occupato di quell'epoca, e ciò in relazione alle “Corti d' Amore”, per cercare di immaginare quella che poteva essere in quell'epoca la concezione della vita).148 Ancora una coincidenza, che rivela la fascinazione, in quel periodo, di Breton per i temi dell'”amor cortese”, e poi del realismo magico medievale, in cui si condensano gli esiti di un pensiero legato all'arcaismo delle corrispondenze rituali, dei rimandi celesti nascosti nei ripiegamenti delle vicende terrene, dei significati celati in un tipo di associazioni differenti da quelle logiche e “mondane”. Così come nell'amore mistico la figura dell'amata è talvolta trasfigurata in un oggetto irraggiungibile, che fa tendere colui che la cerca verso una celeste virtù, la decifrazione dell'oracolo Nadja è l'allegoria per un obiettivo, più alto, che consiste nel puntare, attraverso la propulsione di questa rincorsa infinita, a scoprire la verità di una realtà diversa. In quest'ottica, come la critica ha più volte notato, la figura di Nadja gioca il ruolo di una guida – un “fuoco fatuo” verso un movimento di rottura permanente, come a dire che incarna la logica eternamente “sovversiva” del Surrealismo. Da subito la donna appare come una figura surreale, ma l'arrancare di Breton, la sua sorpresa continua rispetto all'enigma da lei rappresentato, lo conducono in una diversa dimensione di surrealtà rispetto a quella cui 147 A. BRETON, Nadja, cit., p. 79. 148 Ibidem. 66 conduce, ad esempio, l'isolamento ragionato della scrittura automatica. La surrealtà di Nadja si presenta più come il richiamo ad un significato da decifrare, perché celato, nell'immagine mitica di un oracolo o di una sfinge. Lei stessa si ritrae, negli sconcertanti disegni riportati nel libro, nella forma di una sirena, un personaggio mitico con poteri “sovrannaturali”, e si riconosce nella figura di Melusina, spirito o fata ibridata con un serpente149. Ed è in questa forma allegorica, di sirena o Sfinge che Nadja pone Breton nello sconcerto, richiamandolo, secondo un destino inevitabile, ad una interrogazione globale sulla vita stessa . Risulta in questo punto necessario chiarire in che modo quella che può dirsi “immagine mitica” di Nadja, può incontrarsi con la diffidenza di Breton e dei surrealisti nei confronti delle immagini codificate e quindi, in certa misura, con le immagini prototipiche del mito. Come attesta Solinas: Nella riflessione del surrealismo storico convivono paradossalmente l'esaltazione per l'universo mitico ed una visione del linguaggio basata sul rigetto delle forme codificate. La pratica della scrittura automatica, ed ancor di più il procedimento di costruzione dell'immagine poetica […] corrispondono al tentativo di obliterare lo stesso ordine concettuale della conservazione, garante della riutilizzabilità infinita di una riserva di identità e significati fissati.150 La configurazione del personaggio Nadja all'interno di uno scenario mitico rientra nel quadro più ampio della «costruzione dell'immagine poetica»151 attuata secondo i “precetti” del Surrealismo. Nella stessa direzione agiscono i suoi disegni, contratti in una oscurità che solo il commento di Breton riesce in qualche modo a spiegare per il lettore. L'immagine surrealista si colloca al di là dello spazio definitorio della descrizione, sostituisce in qualche modo lo stimolo ottico ad una costruzione letteraria che direbbe troppo o troppo poco, indica il riferimento ad un diverso modo di narrare dovuto ad un diverso modo di percepire ciò che si narra, per cui è necessario “mostrare” qualcosa che funga, per chi legge, da guida. Questa sostituzione si colloca nello spazio della metafora, nel senso di un rimando ad un significato attraverso un'immagine abitualmente riferita ad un ambito differente, ma non compie a pieno l'identificazione di 149 Più tardi, l'araldica rinascimentale la rappresenterà nelle fattezze di una sirena . 150 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton. Una proposta d'analisi., p.123, in Cfr. AA.VV.,“Paragrafo. Rivista di letteratura e immaginari.”, anno 2006, numero I, Edizioni Sestante / Bergamo University Press, Bergamo 2006, pp. 123-141. 151 Ibidem. 67 quei significati attraverso una sostituzione pedissequa dei termini del discorso. Le svariate proposte di interpretazione del meccanismo metaforico, al di là dell'eterogeneità teorica delle loro prospettive, sono comunque accomunate nel considerare il processo di generazione di senso della figura come un'azione scandita su due tempi successivi: ad un'impennata iniziale, con cui il discorso sembra smarcarsi improvvisamente da ogni regola di coerenza, segue il momento interpretativo, che consente al lettore di decifrare l'immagine.152 L'immagine mitica di Nadja si mantiene sospesa tra questa « impennata iniziale » ed una interpretazione finale, mancante in questo caso, che dia conto a pieno del senso metaforico della stessa. La metafora agisce qui nel senso di un'analogia, che riporta in termini condivisibili l'intuizione di un oltre che rimarrebbe altrimenti non riferibile. L'immagine poetica in questo caso, seppur simile ad un nesso metaforico, non può esprimere, se non come rimando necessario per una lettura collettiva, pienamente il senso della identificazione di significato che avviene attraverso la metafora poetica tradizionale. Nel caso dell'immagine surrealista, la distanza fra le realtà che essa collega è tale da non consentire alcuna interpretazione a posteriori capace di gettare la luce rigenerante sul senso del plesso verbale.153 Attraverso la sovrapposizione, che mano a mano si attua nel romanzo, del personaggio Nadja con una figura mitica, Breton testimonia della meraviglia suscitata in lui da quell'incontro e dal significato che andava assumendo. In quest'ottica, l'accostamento al testo delle immagini - le fotografie dei luoghi citati di Parigi - non costituisce soltanto la soluzione di un problema espressivo oppure, in accordo con una dinamica pur presente nel Surrealismo, una sostituzione tesa a sottolineare il vuoto della descrizione naturalista. È come se l'autore volesse render conto, tratteggiando la figura criptata di questa donna e del mondo che con lei l'autore abita – la città di Parigi vista “come in sogno” -, della sua stessa meraviglia. Le immagini di Place Maubert, del mercato delle pulci, del castello di Saint-Germain, e degli altri luoghi citati, sono poste davanti al lettore per restituire la mappatura della vicenda, ma anche per mostrare la sorpresa 152 Ivi, p. 125. 153 Ivi, p. 126 68 generata dal fatto che quell'incontro, l'apparizione dell'«anima errante» 154 Nadja, potessero manifestarsi proprio lì, in quegli stessi luoghi altrimenti sommersi dal grigiore dell'ordinarietà. Queste immagini sono talismani privati esposti al pubblico, sono il residuo romantico che si affaccia così spesso dalla prosa di Breton. Sono i segni della presenza di Nadja. Sono l'invito (sfida? preghiera?) rivolto al lettore affinché varchi la soglia della persona concreta e vivente: delle due persone del romanzo.155 All'interno di questo scenario – potremmo dire, di questo immaginario -, l'identificazione della donna in una immagine mitica è ciò che permette di stabilire una connessione tra un significato collettivo e l'eccezionalità della incontro di Breton con Nadja, come per tradurre al livello di una coscienza non solo individuale la rivelazione sempre possibile costituita da quella esperienza umana. La forma mitica, allora, ha la funzione di trasportare la vicenda privata sul piano di una riconoscibilità collettiva, poiché prevede la cristallizzazione dei suoi contenuti in forme prototipiche, in motivi e schemi che, per quanto sottoposti a variazioni costanti, fanno della riconoscibilità il proprio carattere specifico, tanto da costituirsi come luoghi di una memoria condivisa.156 Tuttavia, la figura di Nadja non accede, per così dire, all'“Olimpo” di questa cristallizzazione. Poco dopo il periodo della frequentazione con Breton la donna sarà internata nel manicomio di Vaucluse. La reclusione riporta il personaggio Nadja, finora raffigurato nella distanza incolmabile del mito, alla dimensione umana della persona Nadja: e tuttavia il suo internamento rende conto una volta in più della sua distanza dal mondo157, non nel senso del mito ma sotto il segno di una differenza incolmabile tra l'anelito alla libertà presente in lei e le piatte categorie di sanità mentale della società borghese. Da qui nasce l'invettiva, feroce, contro la psichiatria e la categoria degli psichiatri, con tanto di fotografia, nome e cognome di un medico. 154 Cfr. A. BRETON, Nadja, cit., p. 57. 155 D. SCARPA, Prefazione, Ivi, p. IX. 156 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton. Una proposta d'analisi., 2006, cit., p. 123. 157 Cfr. A. BRETON, Nadja, cit., p. 117 : «L'essenziale è che, per Nadja, non penso che possa esserci una differenza estrema tra l'interno di un manicomio e l'esterno». 69 Bisogna non essere mai penetrati in un manicomio per sapere che là dentro i pazzi li fanno, così come nei riformatori si fanno i banditi.158 L'opinione di Breton nei confronti della psichiatria come organo di controllo poliziesco della libertà mentale degli individui è tale che afferma che ucciderebbe coloro che indossano l'uniforme della sanità psichica istituzionalizzata, se fosse rinchiuso in manicomio, alla«prima remissione concessa»159 dal suo delirio, per guadagnare almeno il vantaggio di trovarsi isolato in quel delirio. Così come si suppone isolata Nadja, alla cui follia Breton non aveva posto argine, ma che anzi aveva forse, durante la loro frequentazione, alimentato, ad esempio leggendo come poesia delle lettere deliranti di Nadja, volendo disconoscere in fondo, quei canoni borghesi di sanità che generano un confine netto tra follia e “normalità”. L'assenza ben nota d'una qualsiasi frontiera tra la follia e la non-follia non mi dispose ad accordare valore differente alle percezioni e alle idee che si attribuiscono all'una e all'altra.160 Ciò che l'autore aveva scoperto in Nadja, ciò che lo aveva dissuaso dal cercare di opporre una barriera di sanità, o di infondere in lei un maggiore «istinto di conservazione»161, era la forza di un'idea che lei, in quanto vita forte e debole allo stesso tempo, serviva e rappresentava. L'idea, cioè, che la libertà acquisita quaggiù a prezzo di mille rinunce, e tra le più difficili, esige che si goda di essa senza restrizioni nel tempo in cui è data, senza considerazioni pragmatiche di sorta, e ciò che perché l'emancipazione umana, concepita in definitiva nella sua forma rivoluzionaria più semplice, che è pur sempre l'emancipazione umana sotto tutti gli aspetti, sia chiaro, secondo i mezzi di cui ciascuno dispone, resta la sola causa degna d'essere servita. La parte finale del romanzo è tesa in un lirismo di difficile resa critica. Breton ripercorre mentalmente i luoghi che testimoniano per lui della rivelazione rappresentata da Nadja. Rivelazione che si esprime infine, come nel caso dell'episodio narrato della passeggiata 158 159 160 161 Ivi, p. 118. Ivi, p. 120. Ivi, p. 122. Ivi, p. 121. 70 notturna in auto sulla strada da Versailles a Parigi 162, con la consapevolezza che accettare l'amore nel suo significato di avvenimento assoluto, verificatore della vita, vorrebbe dire rinunciare definitivamente alla prigionia di questo mondo, «il mondo esterno, questa storia da far dormire in piedi» 163. Rinuncia definitiva che si esprime anche nell'affidarsi completamente , da parte di Breton, all'idea rappresentata da Nadja, a quel Tu verificatore senza il quale non è possibile obliterare un Io. Tu che, per quanti mi ascoltano, non devi essere un'entità ma una donna, tu che prima di tutto sei una donna, nonostante tutto ciò che in te mi ha piegato e mi piega alla suggestione che tu sia la Chimera.164 L'enigma rappresentato da Nadja è in qualche modo sciolto, la sua immagine mitica dissolta nella concreta presenza di una donna che arresta il rimando ad una sostituzione ripetitiva e infinita di immagini enigmatiche, e quindi di significati e forme codificate. La sua bellezza, la bellezza che interamente lei rappresenta, rifiuta la statica che è del mito così come della logica, «chiusa cioè dentro il suo “sogno di pietra”, perduta per l'uomo nell'ombra di quelle Odalische, al fondo di quelle tragedie che si pretendono concluse nel giro di una sola giornata»165, e rifiuta anche la dinamica estrema di una bellezza ineffabile, lontana, posta al di là di ogni raggiungibilità. La bellezza di Nadja è quella della vita umana, né statica né dinamica, racchiusa nell'inafferrabilità della sua forza, così come nella fissità dell'idea di libertà che reca con se. La bellezza sarà CONVULSA o non sarà.166 -Louis Aragon e Le Paysan de Paris Così come quella di Breton, la figura di Louis Aragon rappresenta uno di punti fermi del Surrealismo storico. Il suo rapporto con il movimento non è quello di un adepto quanto più quello di un “padre”, seppure in maniera più distaccata e talvolta opposta a quella del caposcuola ufficiale Breton. Come accennato, Aragon collabora già con quest'ultimo 162 163 164 165 166 Ivi, p. 129. Ivi, p. 132. Ivi, p. 134. Ivi, p. 136. Ivi, p. 137. 71 e con Soupault, entrambi conosciuti alla facoltà di medicina, alla redazione di “Littérature”. Nell'ottobre del 1924 firma con gli stessi ed altri Un cadavre, pamphlet redatto in occasione della morte di Anatole France che invitava a gettare nella Senna tutta la letteratura, obsoleta, che in qualche modo quell'autore rappresentava. Nello stesso mese, che è anche quello della pubblicazione del primo Manifesto del surrealismo, esce, sulla rivista “Commerce”, Une vague de rêves167, che in maniera quasi parallela al testo di Breton sviluppa dei temi centrali per tutto il movimento, prefigurando anche il tema della surrealtà, oltre a concentrarsi sul legame tra quest'ultima e il sogno, senza però collocare la sua indagine nel segno della psicanalisi freudiana. L'ondata di sogno che trasporta Aragon, e con lui quella che sembra una intera generazione di sognatori, attraverso le pieghe recondite della città di Parigi come in uno stato di sonnambulismo, è quella che guida la conquista di una nuova dimensione, la surrealtà appunto, come stato mentale dove i concetti sono affastellati e indistinguibili, nell'orizzonte condiviso della religione, della magia, del sogno, della poesia, dell'intossicazione e della follia. L'esperienza di questa surrealtà si pone come l'esercizio di una disciplina autoipnotica, o di un dormiveglia indotto da sostanze narcotiche, che permetta il superamento mentale della distinzione tra reale e non reale, per accedere ad una dimensione nuova, quella appunto del surreale. Aragon riferisce come la smania di raggiungere questa nuova percezione avesse investito moltissimi giovani poeti, che in questa dimensione ricercavano inconsciamente la via per accedere ad una rivelazione, che alcuni si compiacevano di rimandare all'infinito poiché assuefatti alla meraviglia di quella situazione, di quel vagare o lasciarsi guidare dai segnali onirici, dalle allucinazioni visive, tattili e sonore, che sommergevano la percezione di questi moderni flâneurs. Una esemplificazione di cosa potesse portare, sul piano letterario, l'esercizio della parola poetica nel restituire le immagini di questa nuova forma di realtà, è data dal Paysan de Paris (Il paesano di Parigi168), pubblicato presso Gallimard nel 1926. Il romanzo permette di ribadire, su una prospettiva differente e forse più coerente rispetto a Nadja, il rapporto esistente tra l'immagine surrealista e l'immagine mitica. L'utilizzo di quest'ultima risulta anche qui, come in Breton e in molti surrealisti, funzionale ad una collettivizzazione dell'immagine, e quindi alla comprensibilità condivisa di un significato codificato. 167 Cfr. L. ARAGON, Une vague de rêves (1924), Seghers, Paris, 1970. 168 Cfr. L. ARAGON, Le paysan de Paris (1926), trad. it. Il paesano di Parigi,trad. it. di P. CARUSO, EST, Milano 1996. 72 Se la lingua dei miti è per definizione sovra-personale, se la leggenda si vuole racconto non riconducibile ad un'origine, una storia che non deriva da nessuno e appartiene a tutti, allo stesso modo la celebrazione surrealista della sfera mitica tende a trasmettersi attraverso il mezzo di una sorta di voce collettiva.169 In Aragon questa dinamica va ricompresa a partire dal recupero, già da Une vague de rêves, delle immagini della surrealtà a partire da una deambulazione “notturna”, o meglio immersa nel fluido immaginifico di uno stato mentale, il sogno – qui anche il sogno ad occhi aperti di Robert Desnos, riportato anche in Nadja –, per antonomasia riferito al momento notturno e non cosciente del sonno. In questa dimensione può guadagnare spazio il mito come immagine arcaica, significato riconoscibile, all'interno di uno scenario che testimonia del meraviglioso presente, per chi sa raggiungerlo, nella vita quotidiana. Al mito appartiene un orizzonte conoscitivo che ignora in parte le norme costrittive del pensiero positivo, della logica diurna; un orizzonte in cui trova posto il meraviglioso, onnipresente idolo del pensiero surrealista.170 Nel Paysan de Paris, il narratore in prima persona, lo stesso Aragon, accompagna il lettore nel chiuso di un passage parigino, il “Passage de l'Opéra” – al tempo della composizione, cioè nel 1924-1925, la galleria stava per essere distrutta dall'avanzamento del boulevard Haussmann – e poi nell'aperto del Parco dei ButtesChaumont. In questi luoghi si configura per l'autore l'esperienza di una rivelazione, quella che consiste appunto nella sovrapposizione, alla realtà, di una “patina onirica”, in cui gli oggetti e i personaggi del passage prendono vita, si cristallizzano come forme di una nuova immagine di natura. Questa natura “sovrannaturale” informa di se la percezione della realtà, ed è in questo modo che gli episodi altrimenti terreni del racconto possono tendere verso una conformazione all'immagine mitica, attraverso cioè una trasfigurazione allegorica, in cui le figure particolari, i “personaggi” e gli oggetti del “Passage de l'Opéra”, le statue e le grotte del Parc de Buttes-Chaumont, assumono il carattere di un significato eterno e impersonale, da ricercare nelle trame di quella “mitologia del moderno” che nel testo si costituisce. 169 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton. Una proposta d'analisi., cit., p. 129. 170 Ivi. 73 Nelle pagine del testo il mito – la natura sovrannaturale di ciò che appartiene al mito – è associato alla potenza rivelativa cui assurgono gli incontri con gli esseri animanti ed inanimati dei passages parigini, una volta che agli stessi si applica il détournement immaginativo del flâneur. […] Colto dallo sguardo deformante di Aragon il dato reale è investito di un'energia auratica, che gli assegna la valenza epifanica dell'evento straordinario. […] La nuova mitologia professata dal surrealismo corrisponde ad una percezione del quotidiano cui è restituita la componente magica, incantata, la meraviglia, appunto.171 In che modo possa verificarsi questa forma di astrazione dalla realtà, consistente nello sviluppare una differente «percezione del quotidiano»172, viene chiarito nella Prefazione ad una mitologia moderna173, in cui Aragon definisce i caratteri che hanno contraddistinto la sua ricerca. Questa si presenta innanzitutto come una critica alle forme logico-dialettiche della filosofia razionalista, che si è spinta nella spirale della propria determinazione interna. La storia del sapere si è costituita come continua confutazione dei sistemi precedenti, ha portato allo sviluppo di differenti sistemi dialettici ma raramente ad una messa in discussione della dialetticità stessa della realtà, i cui fondamenti di verità venivano questionati. In questo senso i temi di questa prefazione ricalcano, in certa misura, quella delegittimazione dei saperi presente nel Manifesto del 1924, racchiusi nei limiti del discorso logico-filosofico, che aveva permesso di rivendicare il valore cognitivo di un'esperienza che liberasse l'uomo attraverso la liberazione del mondo immaginario. La certezza è realtà. Da questa credenza fondamentale deriva il successo della famosa dottrina cartesiana dell'evidenza. Non abbiamo finito di scoprire le disastrose conseguenze di quest'illusione.174 Ancora una volta si tratta di liberare ciò che dalla cultura positivista è stato bollato come errore, allucinazione, sragionamento. Liberare l'immaginazione, nel senso di accedere a quel «regno nero, che l'occhio umano evita»175, il regno dell'errore «con le sue caratteristiche ignote»176, in cui viene meno la determinazione, come nella'“illusione” 171 172 173 174 175 176 Ibidem. Ibidem. Cfr. L. ARAGON, Il paesano di Parigi, cit., pp. 13-16. Ivi, p. 13. Ivi, p. 14. Ibidem. 74 delle filosofie razionaliste o materialiste, di una soglia netta, ancora una volta tra reale e non reale. È in questo spazio che può prendere forma quella configurazione surrealista dell'immagine mitica sopra menzionata. Il narratore che accede inizialmente al “Passage de l'Opéra” è allo stesso tempo il flâneur Aragon, che si incammina nel dedalo di gallerie, negozi, cafés, librerie, case d'appuntamento, come a volersi perdere in un labirinto microcosmico inserito nel contesto più ampio del labirinto cittadino. Tra i numerosi mitologemi (ad esempio la donna come viatico ad una verità superiore, l'immobiliare Haussmann come un mostroTitano che si fa avanti per divorare tutto ciò che incontra), che prendono forma attraversando il passage, quello del labirinto, caro già ad altri autori surrealisti, costituisce di sicuro quello di maggiore interesse, poiché rinvia direttamente al carattere iniziatico dell'esperienza umana177. La prova iniziatica del labirinto è vissuta come traversata attraverso le tenebre ctonie del passage, come attraversamento di una soglia, propedeutico al raggiungimento di quello stato di percezione che dischiude le porte dell'insolito, dell'illusione rivelatrice, del sogno cosciente e del meraviglioso. Questa soglia è soprattutto una demarcazione interiore: l'immagine del labirinto rappresenta lo spazio del reale ma rispecchia anche, metaforicamente, il flusso della coscienza e dell'immaginario del poeta che intraprende questo viaggio. Nel Paysan de Paris il narratore, che è anche colui che attraverso questo labirinto si muove, intraprende questa sorta di viaggio iniziatico scoprendo una Parigi non ufficiale, dimenticata come lo spazio di un sottoscala dalla memoria collettiva, sparpagliata nelle pieghe dello spazio urbano. Colui che narra, ricerca la sua iniziazione al mistero di un Universo differente, il cui culto si esprime nella indagine nel surreale e nell'espressione di questa dimensione attraverso la parola poetica automatica. Questa ricerca si pone nella forma di una discesa, nei bassifondi della città come nelle profondità ctonie della terra, che ha il compito di ricondurre il profano degli oggetti mondani alla sacro di quell'immaginario mitico. In un certo senso questa dinamica rappresenta allegoricamente la missione del poeta surrealista. Egli tenta di ritrovare le immagini del meraviglioso nel quotidiano, istituendo delle corrispondenze inattese tra gli elementi del reale. Il compito del poeta è quello, in qualche modo, di ricreare, riprodurre la propria esperienza del surreale. Quest'obiettivo, rassomiglia quello del neofita che cerca di decifrare i segnali offerti dal labirinto del passage. 177 Riguardo al mitologema del labirinto nell'opera di Benjamin si veda, oltre al complesso del cosiddetto Passagenwerk: cfr. W. BENJAMIN, Einbahnstrasse (1928), trad. it. Strada a senso unico., a cura di G. SCHIAVONI, Einaudi, Torino, 2006. 75 Vale la pena aprire una breve parentesi sui passages, per comprendere il significato che assumeranno nel confronto che tratteremo. Queste costruzioni, che possono considerarsi la prima forma di galleria commerciale, rappresentano, per il XIX secolo, consistente in un nuovo modo di rapportarsi dell'individuo alla merce, che come oggetto legato ad una “moderna” forma di produzione, quella industriale, si può dire nasca contemporaneamente ai primi passages, cioè dai primi dell'800, e più tardi, dal 1833, in misura crescente durante la prefettura di Barthelot, conte di Rambuteau. La necessità di queste gallerie, entro cui la vita commerciale poteva rifugiarsi dal traffico di un sistema stradale ancora scarso e dal maltempo, era rientrata nell'ottica di risanamento dei vecchi quartieri centrali della città, a seguito dell'aumento demografico scaturito dall'avvenuta industrializzazione della crescente area metropolitana. Avevano inoltre rappresentato, nelle intenzioni degli architetti post-rivoluzionari, il concetto di uno spazio “democratico”, semplicemente in quanto “accessibile a tutti”, nell'ottica di una doppia funzionalità: integrare la funzione di un rinvigorito commercio (di un nuovo commercio) con la “vivibilità” della galleria. Non solo attività strettamente commerciali ma anche cafès, botteghe di barbieri, lo studio di una clairvoyante, una casa di appuntamenti. Si tratta, considerando anche le nuove attrazioni rappresentate ad esempio dai “Panoramas” (ad esempio diorama, cosmorama, diafanorama: generalmente si tratta di una sorta di cabina oscura dove, inserendo un gettone, era possibile osservare le prime immagini in movimento attraverso un visore steroscopico), di una nuova modalità di coesistenza sociale entro una nuova forma di un intérieur concepito ad arte; una “moderna” concezione dello scambio democratico inaugurata sotto il segno di un nuovo modo dello stare: l'intrattenimento. Gli stessi materiali (ferro, vetro, marmo) utilizzati nella costruzione delle gallerie e nella loro illuminazione (a gas anziché ad olio) portano il segno dell'avvenuta “modernizzazione” dei modi di produzione, espressa nella larga disponibilità di materie fino ad allora di difficile lavorazione ai fini dell'edilizia o di difficile reperibilità. La modernità si condensa in una maniera espressiva nei passages situati al centro della metropoli: modernità, acme della Neuzeit così come prima epoca che si è riconosciuta come tale.178 Più tardi, già a partire dall'opera di “hausmanizzazione” della città di Parigi, avvenuta 178 Cfr. F. DESIDERI, «Le vrai n'a pas de fenétres...». Remarques sur l'optique et la dialectique dans le Passagen-Werk de Benjamin, in AA.VV. , Walter Benjamin et Paris, cit., p. 198. 76 durante il Secondo Impero, le nuove trasformazioni della città e il rivolgimento delle attività nell'aperto dei grands boulevards, ingloberanno sempre di più le strutture dei caseggiati dove queste gallerie si incastravano, costringendo talvolta con l'esproprio o deviando il flusso commerciale altrove, all'abbandono di questi luoghi. La nascita dei cosiddetti grandi magazzini, alla fine del secolo, rappresenterà un ulteriore sviluppo del commercio in relazione alla città, decretando in qualche modo la progressiva obsolescenza dei passages. Ciò che questi luoghi avevano rappresentato, ovvero l'introduzione di un nuovo meccanismo del consumo e del commercio, gettava le basi materiali per una preistoria della “civiltà capitalista”. Ed è da un punto di vista quasi archeologico che Benjamin interverrà nell'analizzare i “reperti” del XIX secolo, di cui i morenti passages rappresentano, all'epoca in cui scrive –contemporaneamente ai surrealisti-, la testimonianza enigmatica. Dal lavoro sui passages parigini si sarebbero sviluppati, diventando talvolta dei testi leggibili singolarmente, moltissimi saggi. Si pensi agli scritti sopra citati, alla Piccola storia della fotografia, al saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica179, che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto servire come chiave di lettura del progetto, come punto di vista prospetticamente incuneato nel discorso sull'arte contemporanea in relazione alle forme artistiche del XIX secolo; oppure agli appunti di viaggio o alle annotazioni diaristiche su Parigi e Berlino; alle impressioni su Napoli e la sua «porosità» per risalire fino all'interesse per Baudelaire e la figura del flâneur, agli scritti sul surrealismo: da Kitsch onirico180, pubblicato nel 1927 su “Die neue Rundschau” e apparso con il titolo Glossa sul surrealismo, fino al saggio, del 1929, che rappresenta forse lo scritto più diretto nei confronti del surrealismo in particolare e delle avanguardie in generale, e che prenderemo in esame più avanti, dopo aver chiarito, in relazione alla poetica di Aragon, dei caratteri che getteranno una luce ulteriore sul progetto dell'opera sui passages e sulla critica del surrealismo posta tra le sue righe. Le prime letture surrealiste di Benjamin ci sono tramandate, nella forma di un rapimento o di una lettura decisamente partecipe, da un carteggio con Theodor W. Adorno del 1935 – quindi in una riflessione retrospettiva: agli inizi del Passagenarbeit «c'è Aragon, il Paysan de Paris del quale la sera a letto non riuscivo mai a leggere più di due o tre 179 Cfr. W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1935), trad. it. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica., a cura di F. DESIDERI, Donzelli, Roma, 2012. 180 Cfr. W. BENJAMIN, Traumkitsch (1927), trad. it. Kitsch onirico, in Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media., a cura di A. PINOTTI, A. SOMAINI, Einaudi, Torino, 2012, pp. 317-319. 77 pagine, perché il batticuore diventava tanto forte che dovevo mettere da parte il libro»181. Il paesano di Parigi, assieme con la Prefazione ad una mitologia moderna preposta al testo come a marcarne la soglia, aveva rappresentato in qualche modo l'innesco del lavoro sui passages, sia nel senso di una vera e propria ispirazione, che nella forma di un nodo da sciogliere. Benjamin ribadirà spesso l'importanza del modello come del refuso. L'”interesse ardente” è bilanciato da una distanza cosciente nei confronti del movimento, testimoniata, già dal novembre del 1928, in una lettera inviata a Scholem in cui parla del lavoro che si è proposto – quello sulla Parigi “capitale” di un epoca –, che presenterebbe una «troppo evidente vicinanza al movimento surrealista»182 , prossimità «comprensibile e fondata», che l'aveva portato ad approfondire anche il suo distacco, come per respingere il pericolo di una correlazione che avrebbe potuto vedere il complesso del suo lavoro assumere, per la critica, «l'eredità del surrealismo»183. Più tardi, all'epoca dei primi tentativi di formulazione complessiva del Passagenarbeit perché potessero incontrare una diffusione, nella sezione dei materiali e appunti per la ricerca, troviamo annotazioni che testimoniano la decisa volontà di demarcare il suo lavoro, e che portano sinteticamente alla luce delle nozioni che costituiscono di fatto il terreno di confronto: Delimitazione della tendenza di questo lavoro rispetto ad Aragon: mentre Aragon persevera nella sfera del sogno, qui deve essere trovata la costellazione del risveglio. Mentre in Aragon permane un'elemento impressionista – la “mitologia” e questo impressionismo va reso responsabile di molti informi filosofemi del libro – qui si tratta invece di una risoluzione della “mitologia” nello spazio della storia. Naturalmente questo può accadere solo risvegliando un sapere non ancora cosciente del passato.184 Disponiamo ora di due coppie di nozioni, il sogno e il risveglio, la “mitologia” aragoniana e la sua risoluzione, la cui elaborazione in Benjamin costituirà uno dei nuclei principali del confronto con il l'autore surrealista. É qui il nodo della questione, e la riflessione di Aragon è cruciale per tutto il surrealismo nel suo rapporto con la modernità: dove cercare, nella mutata coscienza della realtà, diventata «fuggitiva» con il sopravvento della technè, l'elemento mentale capace di modularsi ad un ritmo differente da quello del pensiero razionale, scandito 181 182 183 184 cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino 2002, p. 107. Ivi., p.1038. Ibidem. Ivi, p. 1095. 78 dall'evidenza della certezza riscontrabile in un mondo ancora “cadenzato” in maniera stabile. Anche affidarsi ad una visione fisicalista, circoscritta a ciò che con i sensi è possibile dedurre, non renderà giustizia alla fugacità di questa esperienza del moderno. E del resto la deduzione a partire dai sensi non è salva dal doversi confrontare con teorie in termini astratti. Nulla può assicurarmi della realtà, nulla può escludermi che per interpretarla io mi fondi sul delirio, né il rigore di una logica, né la forza d'una sensazione.185 Il caso enigmatico è per Aragon quello delle scienze matematiche, in cui l'ordine naturale dell'enumerazione e del rapporto numerico è reso “vero” dalla costruzione di una struttura ad hoc di elementi totalmente astratti. In questo senso il razionalismo, nella forma della sua astrazione della realtà, può dirsi insufficiente nel cogliere la velocità, la complessità dell'esperienza moderna. Ciò che guiderà la “sperimentazione” nel campo aperto dell'errore, specchio della realtà cangiante del mondo tecnico, sarà allora una diversa forma di astrazione, che consisterà in una consapevole adesione all'“immaginazione”, al sogno o meglio ad un vagare onirico, da contrapporsi a quella facoltà immaginativa (e taciuta come tale) del pensiero che contraddistingue per Aragon l'astrazione razionale. L'errore è liberato dal ruolo di negativo che aveva nei saperi razionali per essere ripreso e riutilizzato nella mistificazione allegorica e onirica del reale. Ora so che non si tratta affatto di grossolane trappole, ma di curiosi itinerari verso una meta che mi può rivelare solo essi e nient'altro.186 Questa premessa è una dichiarazione programmatica. Ad un'ottica dialettica si contrappone, nel senso di un consapevole tentativo di superamento della visione razionale, quella filtrata dal sogno e dall'ebbrezza onirica. Questo sforzo, che è soprattutto impegno immaginativo – anche nel senso dell'utilizzo preponderante dell'immagine onirica ai fini di una costruzione di significato –, si rivolge, nell'itinerario ideale di Aragon nel Passage de L'Operà, ad una realtà pervasa dall''imminenza della morte: lo sguardo disincatato sul sapere razionale viene rovesciato nell'affermazione di un “sapere effimero” del passato, osservato nel momento transitorio del suo trapasso. L'immaginazione si affaccia allora nella forma di un vero e proprio strumento 185 Ivi, p. 16. 186 Ibidem. 79 conoscitivo, che deve permettere il superamento del sapere razionale. Più tardi nel testo, il Discorso dell'immaginazione187 legittima ancora la posizione di questa facoltà conoscitiva tra le altre, anche riguardo al senso dell'immagine nel pensiero surrealista: Il vizio chiamato Surrealismo è l'impiego sregolato e passionale dello stupefacente immagine, o piuttosto della provocazione senza controllo dell'immagine per se stessa e per ciò che essa comporta, nell'ambito della rappresentazione, di perturbazioni imprevedibili e di metamorfosi: poiché ogni immagine ogni volta vi costringe a rivedere tutto l'Universo.188 Il rilievo critico delle contrapposizioni duali della filosofia razionalista (verità/errore, realtà/illusione) si trasforma in un rifiuto, che non è propriamente un'abolizione, quanto la constatazione dell'insufficienza della ragione ai fini di una vera conoscenza della realtà, nello spazio di una mutata esperienza umana. In questo è forse racchiusa la dimensione tragica della riflessione di Aragon, e in questo senso è forse possibile leggere la cifra di quella mitologia di cui il paysan dell'epopea aragoniana funge da interprete originale . Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi […]. Varia ogni giorno il moderno sentimento dell'esistenza. Una mitologia si forma e si disnoda. È una scienza della vita propria solo di chi non ne ha esperienza alcuna. È una scienza vivente, autocreatrice e suicida.189 I passages diventano allora un luogo dove si conforma una procedura gnoseologica. Il suo percorso non mira a tramandarsi in una consapevolezza razionale, a trasmettere cioè, alla coscienza del secolo ventesimo, la “verità” storica delle evidenze del XIX secolo; piuttosto si tratta di raccogliere il materiale apparentemente inerte di un secolo irrimediabilmente passato nella funzione di una nuova esperienza, fondante una nuova visione e quindi una nuova epistemologia. L'interno del passage, in cui l'immagine diventa strumento per una mappatura onirica del reale, è l'oggetto di un sapere effimero, non la rivendicazione di una validità di un impossibile sapere irrazionale, e la dovizia di particolari esposta nella descrizione delle boutiques, dei cafès, o delle case d'appuntamento non è funzionale ad un intento di ricostruzione storica dialettica: tutto ciò sta per essere distrutto e reca la traccia di un tempo demodé (la moda è la sapienza 187 Ivi, p. 62. 188 Ivi, p. 64. 189 Ivi, p. 17. 80 dell'effimero) e defunto, o meglio è forse proprio l'osservare il passage privato della sua essenza naturale - quella di essere il luogo espositivo delle specialitès e delle nouveautés dell'industria – lo stratagemma che Aragon utilizza per collocare quella esperienza nell'ambito di una determinazione arcaica. Il mito si presenta allora nella duplice funzione di apparato allegorico e di medium epistemologico, e il passage fornisce la duplice immagine metaforica di tempio “sconsacrato” della modernità e di passaggio liminale tra una realtà attuale ed una, “fantasmagorica”, in cui è l'ebbrezza onirica a determinare le corrispondenze del reale: Non si adorano più gli dei sulle altitudini. Il tempio di Salomone è passato nelle metafore, dove ripara nidi di rondini e livide lucertole. Lo spirito del culto disperdendosi nella polvere ha disertato i luoghi sacri. Ma altri luoghi fioriscono tra gli uomini, altri luoghi dove gli uomini si abbandonano alla loro vita misteriosa, e che poco a poco nascono a una religione profonda. La divinità non vi abita ancora, ma vi si forma.190 Il flâneur aragoniano è il personaggio che attraversa e traccia, nell'immaginazione, l'itinerario di un nuovo culto misterico. L'ingresso in questo mistero ci porta in un regno sospeso, non storico, non dialettico, ma appunto relegato, attraverso l'ebbrezza onirica racchiusa nell'immagine, nell'ambito arcaico dell'immagine mitica. Il dérèglement della scrittura onirica rappresenta il luogo di raccolta e concentrazione delle forze oniriche: le catacombe di questo nuovo “culto dell'effimero”, sono ricavate le rotture del testo di Aragon, che richiamano la più generale rottura operata dal surrealismo con le poetiche tradizionaliste. Un passo falso, l'incepparsi di una sillaba, rivelano il pensiero d'un uomo. Vi sono, nell'instabilità dei luoghi, simili serrature che chiudono male sull'infinito. La dove si coltiva la più equivoca attività dei viventi, l'inanimato rispecchia talvolta i loro moventi più intimi: le nostre città sono così popolate di Sfingi fraintese che il passante sognatore non vi si sofferma se non in forma distratta e meditabonda, perché non gli pongono questioni mortali. […]. La luce moderna dell'insolito, ecco tutto ciò che ormai lo attira.191 In questa lettura il senso sintetico dell'opera è quello di un epitaffio del XIX secolo, in cui l'enigma della preistoria del XX viene rilegato in una dimensione mitologica: la 190 Ivi, p. 21. 191 Ibidem. 81 continuità del moderno con i miti della propria preistoria è interrotta dall'inattualità della prospettiva onirica, che si pone in qualche modo, per essenza, sprovvista di una progettualità. L'esperienza del Passage de l'Opera è anche l'esperienza, a livello dell'inconscio collettivo, di una narcosi diffusa. Se il mito si pone come istanza interpretativa del reale si utilizza in fondo ancora una chiave “astratta” per leggere il passato, che nello sforzo di liberarsi dallo stretto della conoscenza razionale si vincola alla logica dell'oblìo. Il testo aragoniano si chiude nel ritmo di un rintocco funebre sub specie aeternitatis: Ciò che m'importava tanto, la mia povera certezza, in questa grande vertigine in cui la coscienza si sente un semplice pianerottolo degli abissi, che è mai divenuta? Non sono che un momento di una caduta eterna. Il piede perduto non lo si ritrova mai. Il mondo moderno è quello che sposa le mie maniere d'essere.192 In questo quadro la “caduta eterna” conferisce al sogno il senso di incubo collettivo, o di una “fantasmagoria” del reale, che Benjamin leggerà come un “permanere nella sfera del sogno”, e quindi nell'atteggiamento di un oblìo, o nella volontà impressionista di istituire uno schema simbolico del mondo per non ricorrere ad una dialettizazione storica di questi simboli. In questo punto si innesta la sua critica, e da qui il suo lavoro si vorrà separato concettualmente da Aragon e dal surrealismo. In questo punto teorico della sua lettura nasce probabilmente l'idea di un lavoro che correggesse la visione nichilista del poeta francese, opponendovi una resistenza dialettica: questa rottura servirà da innesco per il lavoro sui passages. 192 Ivi, p. 103. 82 Capitolo III Dal lavoro sui passages alle Tesi di filosofia della storia. - Dal progetto del Passagenwerk al saggio sull'opera d'arte All'inizio lo studio di Benjamin avrebbe dovuto avere la forma di un contributo giornalistico, da scrivere assieme all'amico Franz Hessel. L'idea si allargò però a dismisura nella sua mente, e l'articolo si trasformò nel progetto di uno studio di più ampio respiro. Il titolo iniziale era I «passages» di Parigi. Una fantasmagoria dialettica (Pariser «Passagen». Eine dialektische Féerie.).193 Come è stato notato «il termine Féerie contenuto nel sottotitolo alludeva sin da subito al fatto che la cultura ottocentesca, riassunta emblematicamente nella figura architettonica dei passages era una cultura immersa nell'alone di un “sogno” incantato, un'atmosfera auratica che doveva però essere affrontata con un atteggiamento “dialettico”, ossia come un “sonno” da cui era necessario uscire mediante lo choc di un risvegli»194. La necessità primaria di Benjamin è quella di sviluppare teoricamente un disincanto (Entzauberung) nello spazio del linguaggio, e di restituire allo sguardo storico la dialetticità, favorendo il recupero dei sedimenti del passato (del passato dei genitori, di un passato estremamente prossimo), nel senso di un superamento – la nozione è ripresa dall'Aufhebung hegeliana ma la sua applicazione non sarà mai dogmatica – e di una 193 Nel riferirci al complesso del Passagenwerk ci riferiamo essenzialmente alla mole dei materiali editi nell'edizione dei Gesammelte Schriften curata da Tiedemann e Schweppenhäuser, cui fa riferimento l'edizione italiana dell'opera, intitolata I «passages» di Parigi, curata da Ganni, cui si riferisce questa trattazione. Un esempio di espunzione, a partire dall'edizione tedesca dell'opera omnia, di un testo antologico del lavoro benjaminiano (che, ricordiamolo, è tanto un progetto di Benjamin, quanto un tentativo della critica di compiere un'opera rimasta incompiuta), è rintracciabile in: cfr. W. BENJAMIN, Das Passagen-Werk, a cura di R. TIEDEMANN, H. SCHWEPPENHÄUSER, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1982. 194 Cfr. A. PINOTTI, A. SOMAINI, Introduzione alla Sezione VII, in W. BENJAMIN, Aura e Choc., cit., p. 348. 83 demitologizzazione (Entmythologisierung). Il sogno deve essere ricompreso in una dimensione storica e collettiva, “naturale” nel senso che esiste un rapporto pienamente “esistenziale” del sogno con la realtà. Si tratta di far luce, attraverso questo nuova visione collettiva del sogno, anche sul sogno individuale. Differenza con Aragon: far rientrare tutto ciò nella dialettica del risveglio e non farsi cullare stancamente nel “sogno” o nella “mitologia”. Quali sono i suoni del primo mattino che abbiamo incluso nei nostri sogni? La “bruttezza” di ciò che è “fuori moda” non è altro che una serie di voci travisate del mattino che parlano della nostra infanzia.195 La prima fase di lavorazione del Passagenwerk ruota sulla coppia, cui abbiamo accennato, sogno-veglia, a partire dall'autunno del 1927, fino alla fine 1929. Sono di questi anni anche alcuni saggi dedicati direttamente al surrealismo: il già citato Kitsch onirico, e soprattutto Il Surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei. 196 La problematicità di alcuni nessi evidenziati nella lettura di Aragon,viene forse più chiaramente alla luce confrontandosi con il breve scritto del 1929, in cui troviamo una diretta, seppur enigmatica, presa di posizione rispetto al surrealismo e alle avanguardie in generale. Benjamin si schiera in una posizione mediana, o piuttosto da una posizione esterna, per osservare dal suo punto di vista sia i temi e gli scritti surrealisti, sopra tutti Aragon e Breton, che il corrispettivo sul piano politico della loro poetica: dalla sintesi di questa relazione Benjamin farà scaturire la sua critica, considerando, in rapporto anche al suo lavoro, il ruolo storico del surrealismo. Lo scritto si apre innanzitutto con una “difesa” del movimento nel senso di una opposizione alla lettura borghese e “filistea”, quella dei «saccenti»197 che non ritengono di dover andare oltre quelle che ritengono le caratteristiche, una volta per tutte essenziali e canonizzate, del movimento: agli occhi dei conservatori i numi tutelari del surrealismo (si pensi al Rimbaud della Saison en enfer, e quindi al dérèglement dei sensi come superamento della logica razionalista, o al suo rifiuto del cattolicesimo; ai Chants de Maldoror198 di Lautréamont, nell'elemento visionario e di “insurrezione” contenuto nella 195 Cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 988. 196 Cfr. W. BENJAMIN, Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei.,in Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media., cit., pp. 320-333. 197 Ivi, p.321. 198 Cfr. LAUTREÀMONT, Chants de Maldoror (1869), trad. it. I canti di Maldoror, a cura di L. SALVATORE, Arcipelago, Firenze, 2012. 84 sua poetica; ad Apollinaire, i cui rapporti, diretti,vivi, con il movimento surrealista, si chiariranno meglio più avanti) lo collocano nell'inventario dei movimenti della “decadenza”. La critica misconosce i significati ultimi del pensiero surrealista, leggendo superficialmente il «culto del male»199, in cui era implicita una critica al «dilettantismo moraleggiante» della politica, come atteggiamento luciferino e maudit, «come pendant dell'art pour l'art»200, ; oppure additando nei surrealisti l'ennesima «cricca letteraria che ha imbrogliato l'onorevole pubblico»201, favorendo una lettura (quella della “critica estetica” di cui si parlava in opposizione al metodo benjaminiano) sbilanciata sul piano del canone poetico o della storia della letteratura. Tali posizioni critiche, di stampo conservatore, ma provenienti anche da sinistra, finiranno per determinare anche la posizione politica del movimento, la cui unità sarà minata negli anni proprio da questioni di appartenenza politica. Il riferimento è a Pierre Naville, che pure aveva intuito in La Révolution et les Intellectuels la dialettica coesistente tra la nuova plasticità della poesia surrealista e un atteggiamento rivoluzionario, e alla sua recente adesione al Partito Comunista. La lista dei nomi, di cui la Vague de rêves di Aragon aveva costituito l'elenco, restituiva l'immagine di uno «stadio eroico» 202 che per Benjamin era terminato. Poco più tardi, nel 1930, questo venir meno dell'unità del movimento sarà testimoniato da Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo203, che sancirà l'esclusione di Robert Desnos, di Soupault e di altri, oltre a testimoniare l'acida diatriba tra Breton e Artaud, che vedrà quest'ultimo letteralmente respinto dalla cerchia del surrealismo. Il critico tedesco voleva evidenziare come il Surrealismo si trovasse in una fase di transizione, posto di fronte ad una necessaria decisione, nella «posizione estremamente scoperta tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria»204 (posizione in cui lo stesso Benjamin si era trovato nei confronti del comunismo), il che significava anche dal punto di vista più strettamente artistico decidere tra l'adagiarsi sui propri temi e sulla propria poetica (per diventare in qualche modo una scuola, per veder congelata la propria lettera in un canone), oppure scoprire quel meccanismo dialettico - pur annunciato nelle sfere del sogno o nel recupero del sotterraneo -, di rottura, di “superamento della mitologia nello spazio della storia”: In questi movimenti c'è sempre un momento in cui la tensione originaria della setta 199 200 201 202 203 204 W. BENJAMIN, Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei., cit., p. 321. Ibidem. Ivi, p. 320. Ivi, p. 321. Cfr. A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 59-129. Ivi, p. 320. 85 segreta deve esplodere nella lotta pratica, profana per il potere e il dominio,o annullarsi come tale, trasformandosi in una manifestazione pubblica.205 Quando il surrealismo – scrive Benjamin-, irruppe sui suoi fondatori nella forma di un'ispiratrice ondata di sogni, esso apparve come sommamente integrale, definitivo, assoluto. Tutto ciò con cui veniva a contatto si integrava. La vita pareva degna di essere vissuta solo quando la soglia che c'è tra la veglia e il sonno era come cancellata, in ciascuno, dai passi di mille immagini fluttuanti; il linguaggio pareva veramente tale solo là dove il suono e l'immagine, l'immagine e il suono erano ingranati l'uno nell'altra con tale automatica esattezza e in modo così felice che non restava più alcuna fessura dove infilare il gettone senso.206 Il linguaggio poetico ha nel surrealismo la massima priorità, non nel senso di un mero dominio dell'estetica, ma come veicolo di un'esperienza, che ricorre al sogno come fonte di immagini, ma anche e soprattutto come luogo dello scardinamento dell'identità: Nella compagine dell'universo il sogno allenta l'individualità come un dente cariato.207 Proprio quest'allentamento costituisce l'esperienza, l'esperimento che i surrealisti hanno portato avanti nella scrittura automatica, ed è ciò su cui verte il vero nucleo di senso del movimento. Ciò che manca alla realizzazione ultima di questa esperienza, ciò che non è raggiunto dalla semplice ebbrezza o dall'estasi religiosa, che sono più esperienze propedeutiche o transitorie, ha la forma per Benjamin di una «illuminazione profana», «una ispirazione, materialistica, antropologica»208, i cui caratteri saranno chiariti più avanti nel nostro testo, quando si parlerà del concetto di storia. Il motto che, per Benjamin, sintetizza la missione politica della poetica surrealista, suona come la definizione di un obiettivo di portata storica, nei confronti soprattutto del capitalismo: Conquistare le forze dell'ebbrezza per la rivoluzione.209 205 206 207 208 209 Ivi,p. 321. Ibidem. Ibidem.. Ibidem. Ivi, p. 331. 86 La critica di Benjamin alla situazione contingente del gruppo surrealista riguarda l'avvicinamento al comunismo, portato avanti prima da Naville, seguito poi a modo tutto loro da Breton e Aragon. Secondo «l'osservatore tedesco» che può valutare da una migliore prospettiva, quella allo stesso tempo esterna e partecipe della critica radicale, l'adesione al comunismo ortodosso costituisce una forma di cristallizzazione di quelle «forze dell'ebbrezza», da utilizzare altrimenti per tentare di scardinare la logica, di matrice ancora una volta mitica, della violenza politica ciclica. Dove sono i presupposti della rivoluzione? Nel cambiamento del modo di pensare, o in quello dei rapporti esterni? È questa la domanda cruciale, che determina il rapporto di politica e morale e che esige una completa chiarezza. Il Surrealismo si è sempre più avvicinato alla sua risposta comunista. E ciò significa pessimismo su tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte dell'umanità europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli.210 In questo contesto l'unica possibilità del Surrealismo sta, per il critico tedesco, nell'organizzazione di quel pessimismo, inteso come rinuncia ma anche come stato passibile di remissione, verso la conquista di uno spazio pienamente immaginale in cui scoprire la possibilità di un azione politica. In altre parole, quello di «organizzare il pessimismo»211, sarebbe uno sforzo teso ad allontanare dalla politica la metafora morale dell'ideologia – ciò che costituisce il sostrato morale del capitalismo o del comunismo stesso come “religioni” - , per istituire, entro lo spazio dell'immagine come medium puro212, una liberazione dello spazio della percezione. Tale processo di liberazione, in cui si rispecchia l'opposizione centrale nella critica al surrealismo – cioè quella tra immagine mitica e immagine dialettica - è un processo la cui immagine è quella del risveglio. Nell'elaborazione di tale processo si chiude, in qualche modo, il cerchio che dalla critica della violenza passando per l'analisi del capitalismo come fenomeno religioso caratterizzante XIX secolo, permetterà al teorico tedesco di pervenire al suo peculiare “materialismo storico”, ovvero ad una visione politica della storia, il cui obiettivo è un rivolgimento dialettico dello sguardo storico sul passato. In questa accezione è possibile leggere quella che Benjamin chiama «svolta copernicana» insita 210 Ivi, p. 331-332. 211 Ibidem. 212 Ritorna in questo contesto l'ideale, espresso già a partire dallo scritto Per la critica della violenza, di una politica dei «mezzi puri» come carattere necessario di un fare politico che uscisse fuori, relativamente all'epoca, dalla logica del parlamentarismo di matrice weimariana. 87 nella sua concezione di risveglio dialettico. Quest'ultimo passaggio teorico dell'importante “testo di transizione” sul surrealismo, è quello che condensa un nucleo teorico fondamentale nella genesi del Passagenarbeit. Gli anni dal 1927 al 1935 segnano in questo senso un lungo periodo intermedio, tra quelle che abbiamo precedentemente segnalato come fasi differenti della produzione di Benjamin. Nella sezione K della raccolta del Passagenwerk213, risalente a quegli anni, i frammenti riportati permettono di ricostruire quantomeno lo scenario teorico entro cui Benjamin intendeva innescare tale risveglio dialettico, da svilupparsi nell'ambito di una «disciplina del risveglio che investa varie generazioni» 214: Il risveglio come processo graduale che si fa strada nella vita del singolo come in quella delle generazioni. Il sonno come loro stadio primario. L'esperienza giovanile di una generazione ha molto in comune con l'esperienza del sogno. Il suo aspetto storico è un aspetto di sogno. Ogni epoca possiede questo lato incline ai sogni. Per il secolo scorso esso emerge con estrema chiarezza nei passages. Mentre però l'educazione delle passate generazioni ha fornito loro nella tradizione, nell'istruzione religiosa, un'interpretazione di questi sogni, l'educazione tende invece semplicemente alla distrazione dei bambini […]. Ciò che si intende operare nelle pagine che seguono è un esperimento di tecnica del risveglio: il tentativo di prendere atto della svolta copernicana e dialettica della rammemorazione.215 Nell'ottica del risveglio come rammemorazione si scopre una sovrapposizione di due concetti: quello del risveglio, elaborato a partire dall'indugiare del surrealismo nella dimensione onirica, e quello del ricordo, la cui fisionomia si riferisce al meccanismo proustiano della rammemorazione come recupero ad originem della storia individuale. Il sogno da cui il XX secolo deve necessariamente, per Benjamin, ricostruire una visione dialettica della storia, è un sogno collettivo perché si codifica nella dimensione sociale della civiltà capitalista216, sarebbe a dire, ancora una volta, nella logica di una ripetizione mitica del potere, che implica la ripetizione del veto alla rivoluzione e quindi alla liberazione dell'uomo. In questo senso il processo del risveglio acquista una 213 Cfr. W. BENJAMIN, «Traumstadt und Traumhaus, Zukunftsräume, anthropologischer Nihilismus, Jung» (1991), trad. it. «Città di sogno e casa di sogno, sogni a occhi aperti, nichilismo antropologico, Jung», in I «passages» di Parigi, cit., pp. 432-452. 214 Ivi, p. 438. 215 Ivi, p. 432. 216 «Il capitalismo fu un fenomeno naturale col quale un nuovo sonno affollato di sogni avvolse l'Europa, dando vita ad una riattivazione delle forze mitiche.». Ivi, p. 436. 88 dimensione politica e allo stesso tempo salvifica: la sua necessità è scandita dall'istanza morale di una liberazione più ampia della semplice acquisizione di una posizione dominante nella lotta per il potere, quanto nell'istituzione di un concetto di storia depurato da connotazioni mitiche. La svolta copernicana della visione storica è la seguente: si considerava «ciò che è stato» come un punto fisso e si assegnava al presente lo sforzo di avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e il passato deve diventare il rovesciamento dialettico, l'irruzione improvvisa della coscienza risvegliata. La politica consegue il primato sulla storia. I fatti diventano qualcosa che ci è accaduto giusto in quest'istante, fissarli è compito del ricordo. E in effetti il risveglio rappresenta il caso esemplare del ricordare: il caso in cui riusciamo a ricordarci di ciò che è più prossimo, più banale, più a portata di mano […]. C'è un sapere non-ancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio.217 Se la prospettiva della liberazione è quella del risveglio, tale prospettiva si esprime nel tentativo di recuperare, tramite una riscrittura della storia “insabbiata” del XIX secolo, il passato prossimo come preistoria del presente, e dell'orizzonte percettivo del futuro. L'operazione di Benjamin non è, ancora una volta, quella del recupero funzionale alla conservazione di una tradizione, quanto l'elaborazione di una lettura critica, attraverso la cultura materiale e fenomenica di un'epoca – il primo capitalismo, l'epoca del moderno - , di una concezione politica che potesse opporsi al dogma mitico come a quello religioso. Nei passages e in ciò che hanno rappresentato fino alla propria progressiva scomparsa, la cultura materiale del XIX secolo tesse la tela di un significato recondito, che i surrealisti per primi hanno saputo cogliere. Come se il desueto e il sotterraneo avessero acquistato, nel contesto di una cultura che consuma ciò che utilizza ponendolo nell'oblìo, nel dimenticatoio, un significato rivelatore. Lo storico Benjamin sta di fronte alla preistoria del presente che si esprime nei passage come il critico Benjamin di fronte alla pergamena, in cui il contenuto di verità si è celato con il tempo. Sotto la patina onirica di cui si maschera la realtà delle gallerie commerciali, si cela lo scheletro morale del XIX secolo. Scrivere la storia di questi luoghi vuol dire riconoscere una legittimità al mondo che la abita, riscattare in esse il senso proprio dell'esperienza ai tempi del capitalismo industriale. Per ritrovare, nei passages ancora racchiusa come in un 217 Ivi, p. 433. 89 microcosmo, la struttura percettiva che sta, storicamente, alla base della nostra. Non solo le forme fenomeniche della collettività sognante del XIX secolo non possono essere in alcun modo cancellate dal pensiero, non solo esse lo caratterizzano in modo più decisivo di quanto sia mai accaduto a ogni altra epoca del passato: esse sono anche, se ben interpretate, di enorme importanza pratica, ci fanno conoscere il mare in cui navighiamo e la riva da cui salpammo. In una parola, è qui che deve inserirsi la «critica» del XIX secolo. Non la critica del suo meccanicismo e macchinismo, ma quella del suo storicismo narcotizzante, della sua smania di mascheramenti, in cui pure si nasconde un segnale di vera esistenza storica, che i surrealisti sono stati i primi a cogliere. Decifrare questo segnale è quanto si propone la seguente ricerca. E la base rivoluzionaria e materialistica del surrealismo è una garanzia sufficiente del fatto che, nel segnale di vera esistenza storica che è qui in questione, il XIX secolo faccia pervenire la propria base economica alla sua più alta espressione.218 Il “materialismo” che Benjamin ascrive alle intuizioni dei surrealisti come anche alla sua ricerca, consiste nel rivolgere l'attenzione critica in direzione della cultura materiale del capitalismo. Una civiltà basata sulla produzione e sul consumo ciclici, si autodetermina come tale proprio in quanto legata ad oggetti di consumo, al prodotto industriale come corredo necessario all'immaginario: la critica dovrà innestarsi proprio a partire dai residui contenuti entro tale cultura manifesta, lasciando da parte l'inventario storicistico per privilegiare una rilettura del senso di quel sistema culturale alla luce dell'esperienza del mondo da parte dell'individuo. Tale critica condivide con lo spirito del surrealismo sia l'oggetto cui si rivolge che la forma di espressione. Le avanguardie, e in particolare Dada e il Surrealismo, avevano portato avanti, nella scoperta/invenzione di nuove tecniche compositive (si pensi al citato frottage, al dettato automatico, ma anche al montaggio cinematografico e al collage artistico), una nuova concezione di creazione artistica, che potesse riflettere l'esperienza frammentaria della realtà come si presentava all'alba del XX secolo. Allo stesso modo l'incompiuta rappresentata dal Passagenwerk si compone di frammenti, appunti enigmatici, citazioni e articoli di giornale, come a voler racchiudere entro le proprie pagine non tanto, ancora una volta, una teoria sistematica che spiegasse il meccanismo del progresso – come era per Benjamin il marxismo ortodosso -, quanto l'insegnamento segreto – occulto solo nel 218 Ivi, pp. 435-436. 90 senso di occultato dalla storia dei vincitori - celato nell'analisi storica (e non semplicemente storicistica) dell'allucinazione collettiva di un'epoca. Da un lato la missione benjaminiana esercita una dinamica di recupero del passato, dall'altra racchiude un'aspirazione alla liberazione, al risveglio, che sottintende la volontà critica di “consumare” quella cultura del passato, così come l'interprete del sogno ricostruisce i nessi sintomatici presenti nel racconto delle immagini oniriche. Lo storico si fa allora prima di tutto interprete di quell'allucinazione onirica collettiva che è l'esperienza del moderno nella civiltà capitalista. A tal proposito Benjamin annota, nella citata sezione K del cosiddetto Passagenwerk, come il superamento dell'indugiare surrealista nell'immagine onirica dovesse costituirsi come opposizione, sul piano psicanalitico, alla teoria junghiana del sogno come luogo d'apparizione degli archetipi mitici della coscienza collettiva. Anzi potremmo dire che Benjamin tenta in tutti i modi di divincolarsi da ogni concezione del sogno che insistesse troppo su una dimensione, in teoria, collettivamente significante, per insistere sulla dimensione sociale dell'immaginario espresso nella dimensione onirica individuale. In questo senso risulta forse chiarificato ulteriormente il senso della critica benjaminiana al surrealismo: voler interpretare il significato dei sogni all’interno di un contesto onirico non è sufficiente per cogliere il senso di un’epoca storica. Per far questo occorre portare alla luce le origini del passato e le implicazioni “sociali” del sogno, attraverso appunto un risveglio come dialettizzazione dell'immaginario contenuto nel sogno del XIX secolo, entro lo spazio storico e politico del XX secolo. La contrapposizione che Benjamin evoca tra sogno e risveglio si apre ad una serie di riferimenti. Da un lato è chiara l'allusione a Proust e al topos con cui si apre la Recherce: l'immagine del risveglio segna l'inizio di una ricostruzione, che va sempre più a ritroso nel tempo, dello spazio immaginario del protagonista, quindi nell'ottica di un recupero del passato che è innanzitutto riappropriazione della propria individualità. Dall'altro il tema del risveglio introduce, soprattutto nella mistica ebraica, il significato di un voler superare distruggendo, o anche l'atto di portare luce entro l'oscurità, che pertanto si presenta come notte destinata a diradarsi. In quest'ultimo senso agisce, sotterraneamente alla tematica del risveglio storico, una concezione della storia che troverà compimento soltanto negli ultimi appunti lasciati dal critico tedesco, e in particolare nelle Tesi sulla filosofia della storia, trattate in seguito. Dal punto di vista della critica al surrealismo, il risveglio introduce un punto di distacco, in cui la persistenza del sostrato mitico nell'immaginario surrealista viene presa come 91 idolo critico primario, da cui partire per istituire, a partire dalla città di Parigi vista in sogno, proprio come i surrealisti, una rivolta perenne alle istanze conservatrici e totalitarie implicite nello stato di narcosi collettiva in cui versava il XIX secolo. L’ossessione con cui Benjamin si confronta, nei suoi materiali preparatori al Passagenwerk, con le posizioni dei surrealisti, dimostra l’importanza che attribuiva al superamento dell’onirico e del mitologico. Ma dimostra anche che la sua risposta voleva collocarsi sul limite di una soglia: quella, cioè, della scrittura di un libro che conservasse tutte le caratteristiche di un’analisi critica nei confronti della società e della produzione artistica, ma che possedesse anche delle qualità letterarie. In questo senso la sua operazione vedeva nei surrealisti dei sodali, ma anche e soprattutto un punto critico da cui partire per lo sviluppo di una critica complessiva alle forme del moderno, lavorando a partire dall'interno stesso delle teorie dell'avanguardia. In questo contesto si inserisce il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, apparso nel 1936219, in cui l'analisi delle forme d'arte contingenti trova forse un'espressione più sistematica, anche in relazione alla questione della percezione, non più naturale ma storicamente determinata anche grazie all'opera delle nuove forme artistiche del '900. - Frammenti introduttivi alle Tesi di filosofia della storia. Il saggio del 1936220, forse il più letto e citato nella produzione benjaminiana, racchiude una serie di problematiche che di per se potrebbero occupare lo studio di anni. Ciò che forse risulta più pregnante ai fini della presente ricerca è il fatto che in questo saggio, da un lato si chiarisce cosa intenda Benjamin per approccio “materialistico” e “dialettico” alla storia e all'arte; dall'altro chiarisce forse ulteriormente la posizione politica e teorica del critico tedesco nei confronti del comunismo. La riflessione benjaminiana su cosa significhi un approccio materialistico e dialettico alla storia e all’arte sta sullo sfondo del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua 219 Per la storia editoriale del testo, che già attorno al periodo della prima pubblicazione vede riedizioni e rimaneggiamenti: cfr. F. DESIDERI, I Modern Times di Benjamin, in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., pp. VII-XLV. 220 Nello studio dell'opera si sono tenute presenti le variazioni presenti nelle tre versioni reperibili, tutte contenute nell'edizione citata di riferimento. 92 riproducibilità tecnica , che nella “premessa” è presentato come una raccolta di “tesi sopra le tendenze dello sviluppo dell’arte nelle attuali condizioni di produzione”. In apertura del saggio viene citato un passaggio di un breve testo di Paul Valéry, La conquête de l’ubiquité221, pubblicato nel 1931 nella raccolta Pièce sur l’art. In questo testo Valéry si interroga sui mutamenti in atto nella nozione stessa di arte, a seguito dei notevoli avanzamenti concettuali e tecnici dovuti al progresso dei modi di produzione come alla maturazione di nuove visioni artistiche e nuovi modi di riproduzione e trasmissione delle opere. Su un piano generale, lo scenario evocato da Valéry è quello di una società futura in cui sarebbe possibile suscitare un flusso di immagini visive o di sensazioni uditive con un semplice gesto, una società caratterizzata dalla possibilità di fruire una realtà sensibile prefabbricata e “confezionata” per essere consumata a domicilio. In questo aumentato potere di riprodurre e diffondere le opere, che Valéry vede già compiersi nel caso della musica, risiederebbe la possibilità di sganciare la fruizione dell’opera d’arte dall’hic et nunc della sua collocazione materiale o della sua esecuzione per renderla accessibile nel momento spirituale più comodo e adatto. La stessa riflessione sui mutamenti in atto nello statuto e nella fruizione dell’arte in seguito all’elaborazione di nuove tecniche di riproduzione e trasmissione delle opere che anima il breve testo di Valéry è al centro del saggio di Benjamin, che ha come presupposto la grande diffusione della fotografia e del cinema nei primi decenni del secolo e il lavoro di sperimentazione condotto su queste due forme espressive da avanguardie artistiche come il dadaismo, il surrealismo o il costruttivismo. A differenza di Valéry, Benjamin conferisce però alla propria analisi una valenza esplicitamente politica, in quanto nelle nuove forme di produzione e trasmissione dell’arte messe in atto da cinema e fotografia vede la possibilità di liberare l’esperienza estetica dal sostrato religioso-sacrale che ne accompagnava la fruizione da parte della borghesia ottocentesca, impedendo l’instaurazione di un nuovo rapporto tra l’arte e le masse. E anzi lo scopo del saggio si condensa proprio nella volontà politica di elaborare una concezione artistica, nell'ottica di un nuovo scenario tecnico, i cui fondamenti non fossero in nessun caso utilizzabili ai fini del fascismo 222. Se la riproducibilità è in se una 221 Cfr. P. VALERY, La conquête de l’ubiquité (1931), trad. it. La conquista dell'ubiquità, in Scritti sull'arte., Guanda, Milano, 1993. 222 In questo carattere di repulsione verso l'utilizzabilità ai fini politici sbagliati, risiede un ulteriore carattere “profetico” del pensiero di Benjamin rispetto alla nostra attualità, dove non di rado il mercato, come appendice della cultura capitalista dominante, si appropria di idee e concetti generati dalle masse per utilizzarli a fini commerciali e renderli in ultima istanza, vendibili e consumabili, 93 caratteristica insita nella creazione stessa, ciò che sfugge alla pura definizione materiale per sconfinare in una dimensione che si vuole politica in opposizione al fascismo, è il portato immaginario che l'arte, e in particolare le nuove tecniche della fotografia e del cinema, portano con se. I concetti qui introdotti per la prima volta nella teoria dell'arte si distinguono da quelli più usuali per il fatto di essere completamente inutilizzabili ai fini del fascismo. Sono invece utilizzabili per la formulazione di istanze rivoluzionarie nella politica dell'arte.223 La riproduzione intesa come imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre stata parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in circolazione delle opere. Nel caso della musica, poi, l’opera stessa esiste innanzitutto come ri-esecuzione . Ciò che interessa a Benjamin , però, non è la riproduzione intesa in questo senso bensì la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e, soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione nuova, sganciandosi ulteriormente dal condizionamento della manualità e velocizzandosi enormemente. Di fronte a una tale rivoluzione tecnica, il compito del critico, secondo Benjamin, consiste nel riflettere sul modo in cui questo tipo di riproducibilità dell’opera d’arte finisce per imporre una ridefinizione dello statuto stesso dell’arte nella sua forma tradizionale. La tesi centrale del saggio di Benjamin risiede nell’affermazione che nella riproduzione fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale. Anche nel caso della riproduzione più perfetta manca una cosa: il Qui e Ora dell'opera d'arte – la sua esistenza unica nel luogo in cui essa si trova. Ma in quest'unica esistenza, e in nient'altro, si è compiuta la storia a cui essa, nel corso della sua durata, è stata sottomessa.224 Nell’unicità della collocazione spazio-temporale dell’opera risiede il fondamento sua autorità come “originale”, ossia la sua capacità di assumere il ruolo ovvero per neutralizzare quelle idee in un campo di azione altrimenti potenzialmente pericoloso. 223 W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 46. 224 Ivi, p. 48. 94 di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro unicità (una chiesa, un palazzo). Benjamin riassume i valori di unicità, autenticità e autorità dell’opera d’arte nella nozione di “aura” , un termine ricorrente nel lessico storico-artistico ed esoterico di inizio secolo nell’accezione di “aureola” (come quella che circonda le immagini dei santi) o in quella, assai più ambigua, di “alone” che circonda e avvolge ogni individuo, come negli scritti di carattere misterico o teosofico. Possiamo riassumere queste caratteristiche nel concetto di aura e dire: ciò che deperisce nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte è la sua aura. Il processo è sintomatico; il suo significato rinvia ben oltre l'ambito dell'arte.225 Tale deperimento o declino dell'aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei mezzi di riproduzione tecnica delle opere, sarebbe il sintomo, secondo Benjamin , di un più vasto mutamento «nei modi e nei generi della percezione sensoriale» 226: a ogni periodo storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive correlate a determinate modalità della percezione, e la storia dell’arte deve essere accompagnata da una storia della percezione o addirittura ad una storia dello sguardo. Benjamin constata come nella società a lui contemporanea, attraverso la diffusione dell’informazione e delle immagini, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza di avvicinamento, alle cose e alle opere 227. Ciò che però viene meno, in un’epoca caratterizzata dal bisogno di «rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine»228 è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede, secondo Benjamin, l’essenza dell’aura. Decadimento dell’aura significa svanimento di quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il rapporto con le opere d’arte tradizionali, e tale processo segna l'avvento di una fruizione dell’arte basata sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni. Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio 225 Ivi, p. 50. 226 Ivi, p. 49. 227 «Ogni giorno si fa valere in maniera sempre più irrefutabile il bisogno di impadronirsi dell'oggetto, a distanza più ravvicinata, nell'immagine o piuttosto nella copia, nella riproduzione […]. Unicità e durata sono in questa tanto strettamente intrecciate, quanto in quella (l'originale dell'opera) fugacità e ripetibilità.». Ivi, p. 52. 228 Ibidem. 95 da questa appartenenza al mondo del culto. In forme secolarizzate, l’atteggiamento rituale e culturale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino alle ultime derive del Romanticismo. L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, al valore cultuale (Kultwert) dell’opera si sostituisce progressivamente il valore espositivo (Ausstellungswert). Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riconducibile a una forma di nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della riproducibilità, condensate ad esempio nelle potenzialità dell'arte cinematografica. Così come era per le masse proletarie sovietiche 229, l'augurio di Benjamin è che l'arte cinematografica possa rendersi veicolo di una nuova percezione di se delle masse e non, come nel cinema di propaganda, strumento di indottrinamento e assoggettamento. La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta di mediazione , differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro sequenzialità sono girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il risultato di una serie di scelte legate all’inquadratura e al montaggio. A differenza del pittore – che è come un mago nel mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel conferire un’autorità auratica alla rappresentazione stessa- l’operatore cinematografico è come un chirurgo ; penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la sequenza, finendo però per eliminarne l’aura. La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque, risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. Tale dinamica è felicemente realizzata laddove non sia presente, come nel cinema di propaganda o nel culto dell'immagine politico, un culto della personalità. È il caso del divismo così come, in senso più direttamente politico, dell'altro divismo, quello della personalità politica, problematica che possiamo immaginare di pressante attualità all'epoca in cui il saggio sull'opera d'arte veniva redatto, sarebbe a dire proprio negli anni di ascesa e splendore del nazifascismo europeo. L'auspicio finale di Benjamin è 229 Cfr. W. BENJAMIN, Sulla situazione dell'arte cinematografica in Russia, in Aura e Choc., cit., pp. 256-260. 96 quello di una politicizzazione dell'arte, e soprattutto del cinema, nel senso indicato. Come accennato l'analisi dello scritto sulla riproducibilità dell'opera d'arte solleva delle questioni che aprono il testo in una serie di direzioni. Talvolta la critica contemporanea ha voluto vedere in questa fase del pensiero benjaminiano le tracce di una “teoria dei media”, azzardando una definizione forse non proprio in linea con i tempi in cui il saggio veniva scritta, ma che retrospettivamente risulta calzante, poiché coglie un carattere fondamentale della riflessione di questo periodo. A partire dalle consapevolezze sviluppate nel confronto con le avanguardie Benjamin potrà elaborare, nell'alveo più ampio della tematica della liberazione politica da attuarsi nello spazio della percezione, quella che sarà la sua concezione della storia. Nel complesso del Passagenarbeit, in cui si può a ragione inserire il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, risulta fondamentale l'elaborazione del compito dello storico. Benjamin individua come compito del materialismo storico il superamento dell’atteggiamento contemplativo e neutrale assunto dallo storicismo per introdurre una visione dialettica della storia. In questo contesto, il termine di riferimento obbligato all'interno dell'opera di Benjamin è rappresentato dallo scritto Sul concetto di storia230, la cui raccolta è nota anche con il titolo di Tesi di filosofia della storia231. Tuttavia, la lettura delle diciotto Tesi presenta delle difficoltà oggettive, se non corredata dal chiarimento preliminare di alcuni caratteri dello scritto. Nelle tesi la necessità è quella di trasmettere, in maniera più densa ed immediata possibile, quanto negli anni precedenti aveva costituito il materiale multiforme della ricerca del filosofo tedesco. Il contesto storico-politico in cui le Tesi vengono redatte rende necessaria una concisione che non permette lo sviluppo di un'opera vera e propria. Si tratta di tracciare, 230 Cfr. W. BENJAMIN, Über den Begriff der Geschichte (1991), trad. it. Sul concetto di storia., a cura di G. BONOLA , M. RANCHETTI, Einaudi, Torino, 1997. 231 Il titolo di Tesi di filosofia della storia, che corrisponde sostanzialmente alla forma dello scritto, risale presumibilmente alla nudità in cui gli ultimi aforismi di Benjamin si presentano nella prima “pubblicazione”, ovvero un'edizione commemorativa del 1942, rilasciata ad un pubblico ristretto come numero speciale della Zeitschrift für Sozialforschung, già fuori produzione dall'autunno del 1941: cfr. Walter Benjamin zum Gedächtnis, a cura di T. W. ADORNO, M. HORKHEIMER, Institut für Sozialwissenschaften, Los Angeles, 1942. In questa forma le tesi hanno trovato molte riedizioni, principalmente in raccolte e antologie. Di queste, l'edizione italiana cui si riferisce la presente trattazione è quella contenuta nella raccolta “classica” curata da Renato Solmi, la cui prima edizione risale al 1962: cfr. Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., 2006, cit., pp. 71-86. La dicitura più ampia data alla raccolta delle tesi assieme ad una modesta quantità di frammenti preparatori e riferimenti interni, con il titolo di Über den Begriff der Geschichte, si deve all'edizione critica dei Gesammelte Schriften, fortemente voluta da Scholem e dallo stesso Adorno: cfr. W. BENJAMIN, Gesammelte Schriften, Band I, a cura di T. W. ADORNO, G. SCHOLEM, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1991, pp. 691-706. 97 di fronte alla visione di una catastrofe imminente, la mappa di una serie di corrispondenze nella selva della produzione benjaminiana. Il nazionalsocialismo, giunto all'apice del potere, libera la sua forza sanguinaria da sempre latente; lo stalinismo si è ormai sviluppato in un totalitarismo di massa, la cui sostanza non differisce, se non ideologicamente, dall'autoritarismo nazi-fascista; la firma del patto MolotovRibbentrop, il cosiddetto patto di non aggressione, stipulato nell'agosto del'39 tra la Germania nazista e l'Unione Sovietica, sancisce definitivamente, per Benjamin, una delusione che già poteva leggersi nel suo rimandare, fino alla fine, l'iscrizione al partito. La redazione delle Tesi è concepita in opposizione diretta alla demagogia politica che chiaramente mostra il patto agli occhi di Benjamin. In questo senso le Tesi sono un documento direttamente “militante”: la delusione ispirata dal patto germano-sovietico si rovescia nella visione di un obiettivo, quello dello storico materialista, che è quello di liberare la storia dalla visione demagogica che soggiace sia all'ideologia nazista sia a quella stalinista, sia ad ogni potere costituito che si legittimi entro il ciclo “eterno” della violenza mitica. A tal proposito la decima delle Tesi rivela il significato politico diretto, nel senso di contingente, dello scritto. I temi che la regola monastica assegnava ai frati per la meditazione avevano il compito di renderli estranei al mondo e alle sue faccende. Le riflessioni che veniamo svolgendo qui sono scaturite da un'analoga determinazione. In un momento in cui i politici nei quali avevano sperato gli oppositori del fascismo giacciono a terra e confermano la loro sconfitta col tradimento loro stessa causa, esse si propongono di liberare i figli del secolo politico dalle pastoie in cui quelli li hanno irretiti. Questa considerazione muove dal fatto che l'ottusa fede di quei politici nel progresso, il loro confidare nella loro «base di massa», e infine il loro servile inquadramento in un apparato incontrollabile, sono stati tre aspetti della stessa cosa. E cerca di dare l'idea di quanto costerà cara, al nostro pensiero abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui si attengono ancora questi politici.232 La critica alla classe politica come asservita ad una logica storica demagogica e che tradisce i suoi stessi principi, non si rivolge solo allo stalinismo, ma anche alla socialdemocrazia tedesca che aveva, da un certo punto di vista, permesso l'avvento del nazismo; la relazione, invece, tra il comunismo ortodosso e il materialismo di Benjamin 232 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 39. 98 si presenta più complicato, nel senso che pur prendendo, in questa fase, le distanze dall'ortodossia comunista, permangono nelle sue concezioni delle teorie che trovano origine in Lenin o in Trockij. La delusione più cocente rimane comunque quella nei confronti del comunismo di marca sovietica, che stipulando un trattato di pace con il nemico peggiore tradisce di fatto la sua intima, o almeno originaria, vocazione politica nel contesto della seconda guerra mondiale: quella cioè di difendere una posizione politica in opposizione al potere fascista. Il materialismo storico intende porsi allora non solo come alternativa necessaria, ma anche come atteggiamento teorico deideologizzato, nel senso che non sarà l'adesione ad un codice di pensiero che ne determinerà il valore. Come nota Moroncini: La verità è che il materialismo viene prima, logicamente e temporalmente, del marxismo: il materialismo è una posizione etica, dunque non una teoria né tantomeno una visione del mondo, che emerge nel momento stesso in cui si costituisce –un evento storico anch'esso- quel campo d'esperienza che siamo abituati a chiamare filosofico e che, come ogni campo d'esperienza umana, è attraversato da conflitti, da forze contrapposte, da lotte la cui posta in gioco è in primo luogo addirittura il diritto stesso di qualcuno a farne parte e a portarne il nome senza correre il pericolo di essere considerato un usurpatore.233 Il documento delle Tesi, come testimone principale della concezione politica di Benjamin, si presenta come un documento che afferma l'indipendenza ideologica del materialismo da qualsiasi concetto di storia fondato nell'alveo della logica dell'autorità politica. La presa di distanza, che nei confronti del fascismo può dirsi, anche sulla base delle considerazioni precedenti, certa, si attua qui, più decisamente che altrove, anche nei confronti dell'ortodossia comunista. L'occasione storica che genera lo scritto, ne costituisce anche il sostrato etico-politico. Nel momento tragico della estrema delusione politica, nel sopraggiungere forse avvertito della fine, la verità del concetto benjaminiano di storia si differenzia, in maniera coerente con tutta la produzione politica dell'autore tedesco, dall'idea di storia che soggiace sia alla visione del comunismo che a quella del nazismo. L'urgenza della situazione in cui lo scritto è stato redatto ne ha condizionato, probabilmente, sia la genesi che la ricezione. Da un lato, la natura delle tesi, in 233 B. MORONCINI, Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin., Mimesis, Milano, cit., p. 171. 99 ottemperanza ad un carattere forse generale ed essenziale di molta produzione benjaminiana, è quella di dischiudere ad ogni passo, «come ogni metodo veritiero» 234, un nuovo problema. Rispetto all'intero degli scritti di Benjamin le tesi stanno come un'interfaccia, una mappa sinottica di un problema unico, ma che trova la sua realizzazione necessariamente nella dislocazione delle innumerevoli tematiche della sua produzione, e nella vertigine concettuale che le tesi cercano di contenere. Queste possono essere viste, nel loro carattere di testo sì rifinito ma comunque non definitivo, come un tentativo estremo di sintesi di alcuni temi, che pure trovano spazio nell'antologia del Passagenwerk e respiro nell'opera intera di Benjamin, la cui risoluzione si presenta, agli occhi dell'autore che vede sopraggiungere la fine, come inderogabile. Come giustamente osservato: Tesi di filosofia della storia sono presenti nel pensiero di Benjamin sin dai suoi primi scritti; la stesura che risale agli ultimi mesi della sua vita volontariamente interrotta ne rappresenta solo la formulazione finale, o almeno quella che così è stata fissata dalla morte. In realtà la leggenda della pesante valigia che l'esule trasportava a fatica sulle montagne del confine con la Spagna, senza mai volersene separare, suggerisce l'immagine di un testimone, o di un talismano, da portare oltre la frontiera, e le tesi si prestano a questa interpretazione, la più suggestiva.235 Nel senso sopra indicato di sintesi, gli aforismi emblematici delle tesi chiudono un cerchio in cui si gioca, paradossalmente, il senso totale di una riflessione che, per la sua natura di critica radicale, corrosiva ed incessante, si è voluta asistematica e, per così dire, labirintica. Le tesi si presentano, già dalla prima lettura, come un documento di sconcertante sincretismo tra i vari elementi della riflessione benjaminiana di quegli anni e non solo. Se una prova empirica di tale unità può essere fornita accostando, con un salto nel tempo di circa venti anni, le Tesi al già discusso Frammento Teologicopolitico, la traccia per un orientamento iniziale va cercata ancora una volta nel Passagenwerk, in particolare nel già citato Konvolut N236, in relazione principalmente al metodo dialettico del materialismo storico. La sezione introduce una serie di nessi concettuali la cui elaborazione risulta decisiva 234W. BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo., cit., p. 53. 235G. BONOLA, M. RANCHETTI, Introduzione, in cfr. W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. VII. 236 Cfr. W. BENJAMIN, «Erkenntnistheoretisches, Theorie des Fortschritts» (1991), trad. it. «Elementi di teoria della conoscenza, teoria della progresso», in I «passages» di Parigi, cit., pp. 510-549. 100 per comprendere il contesto teorico delle tesi: innanzitutto viene relativamente chiarita la posizione del materialismo storico sia nei confronti del marxismo, che nei confronti del concetto di storia dello storicismo; in secondo luogo, si definisce, in maniera più perentoria che altrove, l'opposizione del materialismo storico sia alla storiografia tradizionale, che all'idea di progresso. In quest'ultimo punto la critica alla civiltà capitalista trova una nuova e più ampia formulazione. Tale critica, con una dinamica simile ma, potremmo dire, potenziata da un più ampio spettro di concetti, si rispecchia in questa fase nella formulazione di un compito, quello del materialista storico – che è anche il wahre Politiker del perduto progetto giovanile – , il cui obiettivo è quello di scardinare il concetto di storia che soggiace alla storiografia dominante, quella cioè che celebra i vincitori e con loro l'ideale del progresso con cui la cultura del XIX secolo si identifica. [Come] uno degli obiettivi metodologici di questo lavoro si può considerare il dare dimostrazione di un materialismo storico che abbia annichilito in sé l'idea di progresso. Proprio su questo punto il materialismo storico ha tutte le ragioni di prendere recisamente le distanze rispetto alle forme abituali del pensiero borghese. Il suo concetto fondamentale non è il progresso, bensì l'attualizzazione.237 L'idea, o piuttosto l'ideale del progresso, diventa un totem critico poiché investe integralmente il concetto di storia proprio della cultura borghese. Il progresso, che forse più di ogni religione moderna prima del XIX secolo era stato l'ago della bilancia di una storiografia asservita alla cultura dominante, alla storia scritta dai vincitori, alla borghesia europea che era in procinto di affrontare una crisi morale di proporzioni inedite, assume in questo contesto lo stesso significato che assume, nello scritto sul Capitalismo come religione, il nesso colpevolizzazione/indebitamento nell'ambito del culto capitalista. Ovvero si tratta di un meccanismo che materialmente produce delle rovine, delle macerie238, la cui ricomposizione storica spetta all'opera critica del materialismo storico, e la cui natura è basilare nella costruzione del concetto di storia su cui si fonda la storiografia borghese, cui l'opera di Benjamin intende opporsi. 237 Ivi, p. 514. 238 «Il concetto di progresso va fondato nell'idea della catastrofe. Che “tutto continui così” é la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Così Strindberg – in Nach Damaskus? -: l'inferno non è qualcosa che ci attenda, bensì questa vita qui». Ivi, p. 531. 101 Il concetto di progresso dovette muovere in senso contrario alla teoria critica della storia dall'istante in cui non fu più applicato come metro a determinati mutamenti storici, ma ebbe invece la funzione di misurare la tensione tra un leggendario inizio della storia e una sua fine altrettanto leggendaria. In altre parole: appena il progresso diviene il marchio del corso complessivo della storia, il suo concetto si inserisce nel contesto di un'ipostatizzazione acritica anziché in quello di un'interrogazione critica.239 Nel momento in cui il progresso si impone acriticamente come valore fondamentale nella ricostruzione storica – ciò che non marcia al ritmo del progresso rischia l'occultamento dalla storia dei vincitori -, il compito morale del materialista storico sta nello spezzare il legame tra l'idea del progresso e quella di un compimento, di un'escatologia implicita nella dinamica del progresso, così come viene intesa dallo storicismo. In questo si concretizza ancora una volta quel «rendere giustizia ai fenomeni» che, in relazione alla critica dell'opera d'arte, era già centrale nello scritto sulle Affinità elettive e nei saggi di quel periodo. L'accezione del progresso, di cui lo storicismo costituisce per Benjamin una sorta di corredo teorico, sta alla base dell'idea di una storia universale, in cui le vicissitudini più disparate della storia sarebbero relativamente giustificate dall'idea di un punto terminale nella storia in virtù di cui tutto accade, e in cui le antitesi del reale sono appiattite entro il quadro di un compimento, di una sintesi o di una “fine della storia” nel suo svolgimento materiale 240. Il tempo entro 239 Ivi, pp. 537-358. 240 La questione della critica allo storicismo potrebbe costituire il materiale di molte tesi specifiche, ognuna in relazione ad un particolare autore che rientra nella costellazione critica di Benjamin: si pensi ad esempio a Dilthey, a Rickert, o anche a Nietzsche, con il quale le Tesi intrattengono un rapporto nozionistico ma centrale. Tuttavia i termini della questione sono in questo caso esplicitati nel riferimento critico alle concezioni sulla storia di Marx e in particolare di Hegel. Il confronto con i due autori è diffuso e sotterraneo nel pensiero di Benjamin, nel senso che solo in alcuni frammenti troviamo un confronto diretto o una diretta citazione, ma più in generale l'opposizione è sottintesa e lasciata all'interpretazione: tale atteggiamento è forse frutto della volontà, più che di smontare criticamente un sistema con un “controsistema”, di cercare un superamento critico delle dottrine dei due, che potesse farsi veicolo di una logica di pensiero assolutamente differente. Nel caso di Marx, il materialismo storico di Benjamin si costituisce al suo interno come una eterodossia critica. Nel caso di Hegel, il confronto riguarda sia il concetto di storia che la connessa questione dell'arte, e si configura, come vedremo, nello sforzo di superare la visione hegeliana di “fine della storia”, così come il saggio sull'opera d'arte problematizzava la questione della “morte dell'arte”. Più in generale, l'idea della storia universale coinvolge una costellazione di pensiero che dal Rinascimento, attraverso Kant prima (soprattutto cfr. I. KANT, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico., in Scritti di storia, politica e diritto., a cura di F. GONNELLI, Laterza, Bari, 2009) ed Hegel e lo storicismo poi, finisce per influenzare in maniera determinante il pensiero del positivismo, in cui il concetto di storia universale si intreccia, sul piano politico e sociale, con la “mano invisibile” di Smith dell'utilitarismo. La linea di questa evoluzione presenta senz'altro dei punti concettuali oscuri, e non è questo il luogo per tracciare un quadro tanto ampio. Quanto sopravviva, oggi, dello spirito di quell'utilitarismo classico che, ad un livello non solo materiale, influenza così tanto la cultura del XIX secolo, rimane 102 cui si svolge la storia della tradizione storiografica borghese, è un tempo vuoto e omogeneo, su cui si dispiega in progressione il tessuto che costituisce la visione culturale di un epoca. La storiografia borghese diventa un testo preparato nella logica e nell'attesa di un compimento escatologico che deve, in un futuro non definibile ma sempre ricorrente, realizzarsi , a rigor di sistema, nella venuta di un regno di Dio: in altre parole, lo storicismo proietta, sullo sfondo di una narrazione che celebra il progresso, la concezione secondo la quale tutto ciò che accade costituisce un continuum storico ininterrotto, in cui determinati parametri si ripetono concorrendo alla realizzazione ultima di un progetto di matrice superiore, o semplicemente alla costruzione di un epica storica che rimanda, come a compimento di un progetto cui lo storicismo applica il suo timbro metafisico, all'ordine dell eterno. La concezione storicistica dell'accadere, in altre parole, presuppone l'idea della storia come di un gigantesco «corteo trionfale»; essa però, soggiunge Benjamin, finisce per essere una mera ratificazione della storia nella sua fatticità, una sottomissione al fluire del tempo e alla continuità, laddove il passato – in quanto vergangen – diviene mera funzione del presente […]. Il patrimonio culturale è un bottino che viene esibito dai vincitori nei loro trionfi e la tradizione non è che il patrimonio di un passato di cui lo storicismo offre l'immagine «eterna».241 Nel rintocco di eternità della storiografia borghese riecheggiano il concetto della ripetizione mitica della violenza – l'immagine mitica diventa qui l'immagine arcaica – , così come la critica alla elaborazione nietzscheana dell'eterno ritorno 242. Come nel caso della violenza mitica, l'essenza dell'eterno ritorno sta nella ripetizione e quindi, dal punto di vista di un concetto dialettico di tempo storico, nel permanere di un pattern che è quello della cultura dominante. questionabile da un punto di vista formale, ma si può forse riconoscere, senza troppi problemi, che quello spirito permane, sostanzialmente, come carattere radicato nella cultura materiale della società attuale. 241 G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità., cit., pp. 373-374. 242 Il rapporto di Benjamin con Nietzsche rappresenta un ennesima possibilità di trattazione specifica: nel caso della critica all'eterno ritorno, la cui nozione viene appiattita sulla logica della ripetizione mitica, vale lo stesso principio critico che fa di Nietzsche, nello scritto sul capitalismo di inizio anni '20, uno dei sacerdoti apocrifi del culto capitalista. In altre parole, la logica dell'eterno ritorno soffre ancora, per Benjamin, di un concetto di storia legato alla cultura borghese o dominante, e pertanto non riesce a tirarsi fuori dalla logica arcaica della violenza e del potere. «Ripensando ancora una volta nel diciannovesimo secolo il pensiero dell'eterno ritorno, Nietzsche si presenta come colui in cui si compie nuovamente il mitico decreto del fato.».W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, 2002, cit., p. 103 La fede nel progresso, in una perfettibilità infinita – un compito infinito, nella morale – e l'idea dell'eterno ritorno sono complementari. Esse costituiscono le indissolubili antinomie rispetto alle quali dev'essere sviluppato il concetto dialettico del tempo storico. Di fronte a questo l'idea dell'eterno ritorno sembra far parte proprio di quel «piatto razionalismo» di cui si accusa la fede nel progresso, e quest'ultima si rivela altrettanto appartenente al pensiero mitico quanto l'idea dell'eterno ritorno.243 Il materialismo storico deve intervenire alla base di tale concezione, e la responsabilità storica del materialista, simile a quella del critico nei confronti dell'opera, è quella di rendere giustizia, ancora una volta, ai fenomeni insabbiati da tale storia dei vincitori, nella responsabilità morale rispetto ai vinti, agli oppressi, o a tutti coloro che non partecipano al corteo trionfale del progresso inteso come fondamento e simbolo del continuum storico. Un'idea di storia che si fosse liberata dallo schema della progressione in un tempo omogeneo e vuoto, riporterebbe finalmente in campo le energie distruttive del materialismo storico, che per tanto tempo sono state paralizzate. Comincerebbero così a vacillare le tre postazioni più importanti dello storicismo. Il primo colpo deve essere portato contro l'idea della storia universale. L'idea che la storia del genere umano sia composta dalle storie dei popoli, è una scappatoia della pura e semplice pigrizia del pensiero, oggi che l'essenza dei popoli è oscurata tanto dalla loro attuale struttura quanto dai loro attuali rapporti reciproci. L'idea di una storia universale sta e cade con l'idea di una lingua universale. Finché quest'ultima possedeva un fondamento, fosse esso teologico, come nel medioevo, oppure logico, come da ultimo in Leibniz, la storia universale non era un'idea impossibile. Invece, come è stata praticata a partire dal secolo scorso, la storia universale può essere sempre solo una sorta di esperanto.244 In questo senso, il testo ufficiale di una cultura – l'emanazione culturale di un ordine costituito attraverso una violenza che pone e conserva –, può dirsi documento di una complementare barbarie. 129. 243 Ibidem. 244 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., pp. 76-77. 104 La barbarie è inscritta nel concetto della cultura stessa: come concetto di un tesoro di valori che viene considerato indipendentemente non dal processo di produzione in cui nacquero i valori, ma da quello in cui essi perdurano. In questo modo, essi servono all'apoteosi di quest'ultimo, per quanto barbaro possa essere.245 Lo storicismo costruisce la sua narrazione all'interno di un campo di forze precostituito, che è quello della cultura dominante, e l'epica che accompagna tale narrazione è ciò che riconduce la storia in tale forma entro la dimensione mitica. In questo senso, come epos del potere e della cultura ufficiale, il testo della storia di un'epoca «non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie» 246. La critica al documento storiografico della cultura come testo del continuum storicista (in cui si rispecchiano per altro sia l'opposizione tra Kunstkritiker e Kunstrichter nello scritto sul romanticismo del 1919, sia la questione della “politicizzazione” dell'arte come veicolo di rottura critica con la cultura borghese, centrale dallo scritto sul surrealismo al saggio sull'opera d'arte), costituisce il secondo punto critico sul quale Benjamin intende attaccare lo storicismo. Nell'indagine materialistica della storica il momento epico, come tratto essenziale alla costituzione del tessuto della cultura/barbarie, deve essere interrotto, o meglio «fatto esplodere nel corso della costruzione»247. Nel raccontare la sua storia, la storiografia si immedesima con il vincitore, si rispecchia nella perfezione di un disegno ben congegnato, il tempo eterno del potere. Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L'immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno […]. Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d'insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore […]. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato 245 W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 524. 246 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 31. 247 Ivi, p. 77. 105 dall'uno all'altro.248 La narrazione stessa della storia diventa impossibile, se non come ricostruzione articolata criticamente del discontinuum che la dialettica del materialismo storico introduce, rifuggendo sia il tempo continuo e progressivo dello storicismo che quello ciclico del mito e dell'eterno ritorno, visti come aspetti differenti di una medesima tradizione. Il concetto di tradizione rappresenta un nodo centrale nella comprensione delle Tesi. Rispetto a questo punto si avverte innanzitutto l'accento sulla responsabilità morale del materialismo, già menzionata, che risiede nel salvare, dal patrimonio culturale del dominio, la «tradizione degli oppressi»249. Salvare la storia degli oppressi significa: far esplodere l'immagine storicistica di un continuum storico che accompagna il ciclo mitico, cioè il ciclo della ripetizione del potere, che attraverso l'epica che la storiografia ufficiale crea si legittima e si autocelebra. La pagina già scritta, il dettato escatologico dello storicismo, celebrano il corteo trionfale dei dominatori, e tale corteo porta in processione un drappo denominato “tradizione culturale”. La tradizione degli oppressi va invece evidenziata nella rottura del testo storico dei vincitori. La pagina stessa della storia deve essere concepita come un discontinuum, e l'articolazione in tale nuova dimensione temporale della ricostruzione storica deve procedere, per così dire, per balzi, per frames, per immagini dialettiche. Nel concetto di immagine dialettica, che troviamo già in opposizione all'immagine mitica nelle sezioni del Passagenarbeit che riguardano il surrealismo, Benjamin concentra uno snodo teorico fondamentale per comprendere l'irruzione, in una tale visione della storia, della dimensione messianico-teologica. L'immagine, o meglio le immagini dialettizzate del passato e del presente, sono gli elementi che permettono di mettere in collegamento il tempo discontinuo della tradizione degli oppressi, con una ricostruzione storica critica, e quindi con l'adesso del tempo messianico. Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l'adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l'adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale. Solo le immagini dialettiche sono immagini autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L'immagine letta, vale a dire 248 Ivi, p. 31. 249 Ivi, p. 43. 106 l'immagine nell'adesso della conoscibilità, porta in sommo grado l'impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura.250 Il rapporto tra il passato e il presente, e quindi il meccanismo dalla tradizione culturale stessa, non si da nell'analisi del materialismo come un processo, di matrice naturale e incontestabile, quanto piuttosto come l'articolazione, il montaggio, il collage di immagini secondo una dialettica storica. Ciò che si condensa nell'individuazione di tali immagini costituisce cioè che Benjamin chiama «l'attimo della conoscibilità» 251, sarebbe a dire che nelle immagini fissate e articolate nel tempo discontinuo del materialismo, si concretizza di volta in volta, nell'immagine dialettica, la chance rivoluzionaria che consiste nell'istituzione dell'ordine dell'attuale, ovvero l'ordine critico del discontinuum storico come legittima dimensione dell'articolarsi della storia: il tempo presente, il tempo dell'adesso. La storia si produce – e come il testo dell'opera d'arte, si consuma – attraverso l'articolazione di questi attimi fulminei, non più revocabili, la cui forza politica è riscattabile solo nella dialettizazione di tali momenti nell'attualità rivoluzionaria dell'adesso (Jetztzeit). Il pericolo cui si oppone tale meccanismo è quello della scomparsa, dell'insabbiamento, della fine non solo della tradizione rivoluzionaria degli oppressi, ma anche del ricordo di tale situazione: il pericolo è l'impermanenza del lutto nei confronti della rivoluzione, nel senso che dove anche la minima traccia si cancella sotto il testo squillante e sfarzoso della cultura ufficiale, più difficile sarà lo scavo dei resti252. Obiettivo del materialismo è quello di restituire la costruzione della storia all'adesso della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit), entro cui tale scavo, o meglio tale “riesumazione” può compiersi. Da un certo punto di vista, la struttura di tale articolazione è la medesima del risveglio, nel senso che, grazie all'immagine dialettica, il passato di un'epoca determinata viene ad assumere, nella sua attualizzazione in un immagine presente, il significato di uno choc, di un balenare fulmineo e involontario -quello della memoria proustiana-, di un risveglio, o ancora di una riesumazione operata 250 W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 516. 251 Ibidem. 252 Una simile dinamica si ritrova, anni prima, negli aforismi sulla memoria occasionati, principalmente, dallo studio di Proust: «Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico stato di cose – di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa […]. Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro […]. Il ricordo reale deve dunque offrire anche un'immagine di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto archeologico non deve limitarsi a indicare gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che è stato necessario attraversare in precedenza.». Cit.,W. BENJAMIN, Ausgraben und Erinnern (1991), trad.it., Scavare e ricordare., in Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media., cit., p. 363. 107 attraverso la rammemorazione come raccolta storicamente ispirata delle immagini del passato. Così nella sesta tesi: Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui s'impone imprevista al soggetto storico nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato (la tradizione) al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l'Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.253 Nell'ordine dell'attuale come vero luogo in cui va inscritta la costruzione della storia, Benjamin condensa l'idea di uno svolgimento temporale non omologabile alla temporalità continua delle scienze naturali. La dimensione dell'adesso benjaminiano contiene, nello stesso luogo, l'immagine del passato così come il germe del futuro, e la valenza politica della necessità ascritta all'attualizzazione di tale progetto di storia segna ancora una volta il legame tra teoria storica e prassi rivoluzionaria nella particolare lettura di Benjamin. La consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. La grande rivoluzione introdusse un nuovo calendario. Il giorno inaugurale di un calendario funge da compendio storico accelerato. E, in fondo, è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di festa, che sono giorni della rammemorazione. Dunque i calendari non misurano il tempo come gli orologi: sono monumenti di una coscienza storica di cui in Europa da cento anni sembra non si diano più le minime tracce.254 La critica è ancora una volta allo storicismo, il cui procedimento è additivo: ovvero «si 253 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 27. 254 Ivi, p. 49. 108 accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia» 255, collocando la massa dei fatti entro un tempo omogeneo e contenitivo. Alla base della storiografia materialista si pone invece un nuovo principio di ricostruzione, basato sulla rammemorazione come istituzione di un nesso atemporale tra gli eventi del passato e del presente. Il materialista si pone all'oggetto storico quando esso si compone entro la costellazione del presente, come monade256. Nella Tesi XVII il materialista storico riconosce nella monade «il segno di un arresto messianico dell'accadere o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso» 257. In altre parole, dove lo storicismo proietta, entro un tempo continuo e progressivo, la storicità dei nessi fattuali come svolgimento di una idea escatologica di storia universale, nel materialismo storico di Benjamin, i fatti storici diventano tali in virtù di un nuovo concetto di storia e della sua relativa tradizione, entro cui sia possibile la dialettizzazione del tempo storico nell'orizzonte dell'adesso. L'adesso, o Jetztzeit, si configura come modello di temporalità disomogenea: esso è memoria salvifica o rammemorazione (Eingedenken) dell'istante, dell'adesso della conoscibilità storica. Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell'adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico.258 -Teologia e materialismo nelle Tesi: l'angelo della storia Sia da un punto di vista concettuale che testuale siamo già nel pieno delle Tesi. Ciò che 255 Ivi, 57. 256 La monade, in senso non strettamente leibniziano, rimanda qui alla dialettica entro cui si compie la ricostruzione storica materialista. Essa racchiude il concetto dell'arrestarsi del pensiero nella saturazione delle tensioni storiche, istituita tra le immagini dialettizzate delle diverse epoche. Per un approfondimento del lemma in relazione alle Tesi: cfr. G. BONOLA, M. RANCHETTI, Lemmi, Ivi, pp.187-189. 257 Ivi, p. 52-53. 258 Ivi, p. 57. 109 a questo punto del discorso introduce una nuova problematica è l'affacciarsi prepotente, nel discorso benjaminiano, della dimensione messianica. Il testo delle Tesi apre, forse solo in maniera più evidente che altrove, la questione di una connotazione anche teologica del discorso sulla storia. L'accostamento, nel pensiero del critico tedesco, di una dimensione teologica e di una politica, trova già in tempi non sospetti, come si è osservato, delle testimonianze. La dimensione teologica delle Tesi risulta, pur senza volerne fare una bandiera tematica, centrale, e in esse agisce la spinta ritrovata dell'elemento messianico ebraico, per cui il nuovo meccanismo critico benjaminiano si configura, potremmo dire, come una crasi concettuale tra una dimensione direttamente politica, quella del materialismo, ed una dimensione teologica, quella del messianesimo. La dinamica per cui questi due piani del discorso, apparentemente inconciliabili, possono unirsi nelle tesi in una conformazione concettuale unica, risulterà forse più chiara da quanto segue nel testo. Tuttavia è forse necessario chiarire subito in che modo, nell'economia delle tesi, sia da valutare l'ebraismo di Benjamin, altrove considerato, non senza ragioni, marginale o troppo eterodosso per rientrare in tale tradizione. La stessa ambivalenza delle tesi, intravista da molti e tematizzata ricorrentemente come un'irrisolta alternativa tra prospettive inconciliabili quali il materialismo storico e il messianismo politico, pur derivando da una lettura concettuale corretta, si rivela in realtà filologicamente falsa, perché all'interno della cultura ebraica è tutt'altro che assurdo pensare il messianismo in termini storico-politici così terreni e concreti da poter ipotizzare anche una qualche forma di materialismo messianico o di messianismo materialistico. Se però si assume questa compatibilità come fulcro dell'interpretazione, le riflessioni dell'ultimo Benjamin vengono più nettamente ricondotte nell'alveo di una dimensione di pensiero ebraico mai del tutto abbandonato, il lungo percorso sotterraneo ritorna ad affiorare con forza proprio nelle tesi.259 Proprio riguardo al processo della rammemorazione come modalità primaria di esperienza della storia nel senso materialista, nei materiali delle Tesi (in forma leggermente diversa anche nel Passagenwerk) troviamo un frammento che chiarisce in che maniera tale modalità di appercezione dell'immagine storica di un'epoca si fondi su un terreno che non è solo quello di un ripensamento delle condizioni materiali 259 G. BONOLA, M. RANCHETTI, Introduzione, p. XV. 110 della storia. Nella rammemorazione noi facciamo un'esperienza che ci vieta di concepire la storia in modo fondamentalmente ateologico, per quanto non ci sia lecito tentare di scriverla in concetti teologici.260 In altre parole: l'esperienza costituita dal ricordare qualcosa del passato, dal tornare con il pensiero ad un momento che è già stato, apparentemente senza relazione con il presente, si connota dell'attesa che un presente finora incompiuto possa compiersi. Tale carattere, tale aspirazione alla redenzione è ciò che impedisce al materialismo storico di configurarsi come un sapere essenzialmente profano. La rammemorazione genera una tensione nei confronti del passato così come del presente e del futuro. Secondo tale esperienza, quanto nelle immagini del presente e del passato si manifesta come profano, non è sufficiente a definire quell'esperienza come pienamente storica. L'esperienza del ricordo rivela un secondo piano di lettura, quello inappariscente della teologia, entro il quale pienamente si rivela l'aspettativa redentrice o messianica dell'adesso benjaminiano. Da un lato dunque, non è possibile ricomprendere la storia in modo che sia, per principio, ateologica; dall'altro, questa comprensione non può tradursi in concetti teologici. Dunque è proprio la dimensione teologica della riflessione sulla storia a costituire un punto problematico nella lettura delle Tesi: poiché la teologia funge in questo caso da elemento di disturbo, poiché fa trasparire un lato nascosto della storia, che la rammemorazione avverte nel suo processo. Eppure ogni altro concetto di storia – ogni altro modo di afferrarla e tradurla in scrittura – al cospetto di tale esperienza, non afferra e arresta niente, ma nuota nella corrente del tempo, che volgarmente esprime in immagine l'accadere storico; e, in essa, si appaga della parvenza della sua continuità, del suo lato puramente profano, identificandosi con i vincitori che di volta in volta stabiliscono le forme della sua tradizione [...]. Questo lato nascosto dunque – il teologico di cui c'è Erfahrung (esperienza) – è l'indicibile della storia per il pensiero.261 Benjamin prescinde, nel definire la deontologia teorica del materialista storico, da 260 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 85. 261 F. DESIDERI, Del teologico nelle Tesi. Sul concetto della storia., in AA. VV., Caleidoscopio benjaminiano, a cura di E. RUTIGLIANO, G. SCHIAVONI, Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, p. 292. 111 concetti puramente teologici nel definire che cosa la storia sia e come si dia all'esperienza. Teologia e materialismo formano nelle Tesi un chiasmo, il cui scioglimento concettuale sta nella differenza tra esperienza storica e di concetto di storia. La funzione dell'Erinnerung nel discorso di Benjamin non è guidata da un'organizzazione concettuale, ma si presenta come del tutto involontaria. La sua prima funzione non è quella di essere ricostruzione logica del nesso tra momento presente e momento ricordato, ne di mediare a partire dalla sua immagine una trama, un nesso, una linearità all'interno di un continuo. La rammemorazione piuttosto estrae una cellula temporale dal corpo del passato. Compito del materialismo storico, nel contesto delle Tesi, è proprio quello di spezzare la mediazione nel tempo, entro cui si costituiscono, nelle forme dell'eterno ritorno come nel progresso, le forme del tempo mitico. Si tratta per Benjamin di smascherare il carattere “artificiale” della natura nella costruzione dello storicismo. Da questo, che non è altro che un “operare” dentro la tradizione storica, dentro l'immagine del passato, non restano che frammenti -prodotti e insieme liberati dall'impulso distruttivo del pensiero, originato dal ricordo involontario. Soltanto da questi frammenti, delle macerie, delle scorie che rimangono delle lacerazioni che il pensiero pratica nell'apparenza che avvinghia e abbacina la storia, si compone, quel laboratorio sperimentale di costruzioni possibili nella «terra desolata» del presente.262 Nel rapporto tra un tempo della rammemorazione, che si costituisce come un operare involontario del pensiero tra le macerie di un tempo storico discontinuo, e un tempo della costruzione storica si articola la possibilità per il materialismo di prendere a suo servizio la teologia. Il riferimento in questo caso è all'immagine presentata da Benjamin nella prima delle Tesi, come a voler evidenziare una soglia teorica fondamentale nella comprensione di un concetto di storia rinnovato: in essa è raccontato l'aneddoto, da riferire ad una novella di Poe263, di un automa, costruito in modo tale da battere chiunque nel gioco degli scacchi. Un manichino, che rappresenta il materialismo storico, siede di fronte al giocatore fumando un narghilè. Un sistema di specchi, in cui si rivela il gioco di rimandi tra dimensione teologica e politica nella storia materialista, da 262 Ivi, p. 299. 263 Cfr. E. A. POE, Il giocatore di scacchi di Maelzel (1835), trad. it. a cura di G. CROCCO, Theoria, Roma-Napoli, 1985. 112 l'illusione di poter avere una visione d'insieme dell'avversario e dello scenario di gioco. In realtà, un nano, abilissimo negli scacchi, manovra il manichino, assicurandosi la vittoria. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.264 L'immagine suggerisce un'allegoria rivelativa nel comprendere l'intreccio di dimensioni teoriche presenti nelle Tesi. In tale operazione critica di discernimento, l'esperienza del ricordo è esperienza di un immagine, che illumina per un istante, nel territorio del passato, un lato dello storico, quello teologico, finora rimasto celato. La luce che illumina il presente, come un lampo, è quella dell'attualità, dell'adesso come tempo presente gravido di passato. Questo lampo, che apre per un tempo determinato uno squarcio nell'intreccio temporale, interrompe il tempo mitico, fa baluginare per un attimo la possibilità di recuperare l'apparentemente irreversibile, riaprendo ancora una volta il fascicolo della storia degli oppressi, riaprendo ferite che si credevano definitivamente dissolte nell'acido del tempo storicista. L'esperienza storica è esperienza di questo lampo, in cui risuona l'eco di un tempo che il pensiero, nella sua funzione logica, non può afferrare direttamente. All'interno di questo tempo – il tempo dell'aura, così come il tempo perduto – l'adesso trapassa dalla preistoria cui era relegato nel tempo attuale della storia materialista265. Nel recupero di un momento preciso nel tempo risiede, dal punto di vista del concetto di storia, un'aspirazione alla redenzione, al riscatto della felicità possibile di quel momento. Quanto si avverte nell'istante è l'irripetibilità di un momento della vita passata, la 264 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 21. 265 Qui il riferimento è alla seconda delle Tesi: «Questa riflessione comporta che l'immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è solo nell'aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi. In altre parole, nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione. Ed è lo stesso per l'idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.»: Ivi, p. 23. 113 sua irripetibile lontananza. È questa lontananza ad ammantare di un'aura particolare quel momento, che dischiude il presentimento e il desiderio di felicità. Il presente che conosce tale immagine, sa infatti la non recuperabilità di questo tempo irripetibile ed è proprio da questo sapere, che nasce l'impulso a salvarlo – la volontà di redenzione del così fu.266 Nel volgersi indietro della memoria si fa esplodere il corso della storia come pura successione di nessi deterministici o fattuali. La vis rammemorativa del pensiero agisce come potenza controfattuale, trasformando l'immagine del passato, non più monumentum come nello storicismo, nella fonte di un'interrogazione ultima sulla possibilità stessa di una redenzione dei fenomeni. Tale interrogazione, è però destinata a rimane irrisolta. Nel suo tentativo di sciogliere la costruzione della storia, e con essa la tradizione, da ogni nesso mitico, la storia stessa si trasforma nell'immagine di una continuità da dissolvere. Davanti alle immagini proposte dalla memoria risulta decisiva, come era stato per lo scritto sul linguaggio del 1919, la dimensione auricolare del fare critica. In questo tratto si rivela ancora una volta il carattere anintenzionale della verità nella visione di Benjamin. L'ascolto della tradizione che rischia di essere cancellata significa, per lo storico, riconoscere «l'indistruttibilità della vita suprema in tutte le cose»; dare ai «senza nome» - alla cui memoria è dedicata la costruzione storica – la dignità simbolica del nome.267 Salvare nominando è il compito morale ultimo dello storico. Nel suo ascoltare, ciò che è stato nel passato non è più lasciato a marcire tra le rovine lasciate dalla storia come continuum progressivo, ma diventa l'immagine di una possibilità altra, che il critico materialista cerca di ricostruire dalla ricomposizione, dal montaggio dei frames residuali della cultura di un'epoca. L'aspirazione ad un atemporale riscatto dei fenomeni conferisce allo storico benjaminiano l'aspetto dell'angelo della storia, così come ritratto nel dipinto Angelus Novus di Paul Klee. In questa immagine, cara a Benjamin al punto di considerarla tra le cose più importanti del suo patrimonio, si esplicita meglio che nei tentativi di spiegare il nesso materialismo, teologia, quale sia la funzione ultima dello storico materialista, e in che cosa consista l'aspirazione teologica delle Tesi. 266 F. DESIDERI, Del teologico nelle Tesi. Sul concetto della storia., cit., p. 301. 267 Ivi, p. 300. 114 C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresco verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.268 Di fronte alla catastrofe del tempo moderno l'angelo di Klee inorridisce: paralizzato dalla bufera del progresso l'angelo della storia addita a noi il bisogno di cercare altrove, nel discontinuo della storia e non nel suo concatenamento, una possibilità di salvezza. Benjamin sembra proiettare nel suo angelo la disperazione dello storico materialista di fronte al disastro accumulato a causa di una concezione di storia guidata dal progresso, e insieme l'estrema speranza di una possibilità, attraverso il materialismo, di redenzione di quei fenomeni, che sul piano del reale si concretizza in una idea di felicità che implica il concetto di liberazione, di riscatto, di redenzione dei fenomeni nell'alveo di una nuova visione storica. Redimere le macerie della storia, sarebbe a dire dare senso o ancora rendere giustizia alla storia delle vittime: tali macerie restano però mute, laddove la storia rimane quella della tradizione ufficiale. Per questo l’Angelus di Klee guarda angosciato il passato, mentre il vento, la bufera del progresso, lo spinge via, quando vorrebbe restare tra quelle vittime per salvarle nominandole, restituendogli un significato di fronte all'eternità. In Benjamin, l’unica redenzione possibile rimane quella offerta dalla memoria: solo serbando la memoria degli sconfitti, e perciò testimoniando del loro scacco, dell'insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere il giogo del tempo mitico entro cui si svolge la storia vincitori, ovvero la visione della storiografia ufficiale che resta ancora all’ipotetico e incontrovertibile dato di fatto escludendo l’ambito delle possibilità non date. La forza messianica dell'angelo sta nella capacità di star sospeso, a fungere sempre da monito per Benjamin, tra il tempo di un Giudizio a venire, e il tempo attuale della Jetztzeit. Nel suo sbigottimento di fronte al 268 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 37. 115 silenzio che proviene dalle macerie della storia sta il monito, sempre attuale, che guida l'instaurazione nell'attualità di un «ordine profano» del futuro, da ricercarsi nell'orizzonte del passato -il passato della rammemorazione, che è differente dal passato del mito- che la bufera del progresso allontana sempre più. -Conclusioni: attualità di Benjamin Condensare il discorso sull'attualità delle tematiche benjaminiane a confronto con la nostra attualità non è una questione semplice. Così come per la comprensione dei concetti dell'autore le difficoltà, date in maggior parte dall'intrecciarsi di varie tematiche e piani argomentativi, sono un chiaro sintomo del fatto che, nelle sue varie sfumature, la riflessione di Benjamin può costituirsi nell'alveo di una serie di discorsi anche considerevolmente lontani. Una ricostruzione dei rivoli, che a partire dalla mole difforme della produzione dell'autore tedesco, si riversano nel discorso sul contemporaneo, richiederebbe un'approfondimento filologico capace di condensare, in una infinita glossa critica, un vademecum concettuale coerente, in cui ogni concetto potesse osservarsi nella luce rischiarata di una “unità sistematica”. Tuttavia, come accennato nella prima parte di questa trattazione, una ricostruzione tematica di tale precisione sarebbe quantomeno avventurosa: non si vuole, senza neanche averne l'autorità, scoraggiare l'impresa di uno studio che, se condotto rispettando i criteri dello stesso Benjamin, potrebbe aiutare la comprensione talvolta confusa e contraddittoria dell'autore. Piuttosto si intende evidenziare come, per sua natura, la produzione di un autore spesso considerato sfingetico come Benjamin, sfugga costantemente ad ogni tentativo di cristallizzazione, e pertanto anche ad ogni lettura che tenti di dare un giudizio complessivo sul pensiero del critico tedesco. A tal proposito, si potrebbe indicare un percorso di comprensione corretto proprio in una visione preliminare, che tenga conto ancora una volta dell'incollocabilità di questo autore, e, in virtù di tale carattere, della possibilità, oggi quanto mai attuale, che il testo benjaminiano si presti ad un'applicazione multidisciplinare che non leda la coerenza delle istanze filosofiche che l'autore porta avanti. Quale sia il grado di compatibilità tra i diversi periodi della 116 produzione benjaminiana è stato forse efficacemente evidenziato nello scritto che precede questa conclusione. Tuttavia ciò che non viene esplicitato nelle pagine del presente studio può essere forse chiarito, senza la pretesa di imporre una visione dominante, da una lettura simultanea delle diverse incarnazioni del fare filosofico in Benjamin. Nella definizione del compito, di volta in volta, del critico (designato come chimico, paleografo, archeologo o «pescatore di perle»269), del cronista, del collezionista, del flâneur, del materialista storico, è sempre all'opera lo stesso principio fondamentale: si tratta di strappare ai vincitori, lembo per lembo, la banderuola che segna la legittimità storica della critica letteraria, della cronaca, dell'esperienza del reale così come della visione storica. Nel testo benjaminiano è sempre in atto, indipendentemente dal contesto disciplinare o terminologico, quel movimento di rottura con il conformismo borghese che nelle Tesi trova una tematizzazione diretta. Questo elemento può forse costituire un primo punto di approccio generale, o meglio un elemento rivelatore, riguardo al discorso sull'unità e sull'identità del pensiero di Benjamin. Nell'insieme dell'opera, le varie figure del pensiero benjaminiano si ribellano di volta in volta contro un avversario che ha l'aspetto cangiante di un esercito invasore muto, l'esercito del progresso nello scenario della società capitalista moderna, e con esso la tradizione della cultura dei dominatori. L'avanzata di tale avversario è muta perché non si realizza, immediatamente, in un singolo aspetto, quanto piuttosto nel dispiegarsi, e nel farsi parte del tessuto sociale, di quel drappo che è il tessuto della cultura ufficiale: attraverso la forma delle città, le forme dell'arte, così come attraverso lo stato della vita quotidiana nella società del capitalismo avanzato. Nel caso della critica letteraria radicale, contro il classicismo o contro la critica di natura estetologica; nel caso della cronaca in opposizione al giornalismo frettoloso e moraleggiante della stampa, che si trasforma in maniera sempre più evidente in una funzione del potere; nel caso del collezionista, che vede nella sua biblioteca un porto salvo per oggetti -e con essi modi di esperienza del reale- altrimenti dimenticati, o nel caso del flâneur, in cui si incarna un'esperienza del reale che fa della metropoli moderna lo scenario onirico e inquietante di una rivelazione profana inscritta tra le luci al neon dei magasins; in tutti questi casi, che si riassumono, da un lato, nell'interesse per Baudelaire 270, dall'altro nella 269 Cfr. H. ARENDT, Walter Benjamin (1892-1940), a cura di F. FERRARI, SE, Milano, 2009. 270 La figura di Baudelaire costituisce un punto centrale nell'opera di Benjamin: la riflessione sul poeta non si riduce solo all'aspetto strettamente letterario (è il caso delle traduzioni e delle recensioni redatte sin dall'inizio degli anni '20), ma a partire da tale interesse si attualizza, attraverso la figura baudelairiana del flâneur, nella coscienza del portato politico e per certi aspetti “profetico” che tale figura comporta. In effetti, non è sbagliato affermare che l'incompiuta opera sui passages abbia come 117 definizione del compito del materialista storico, la critica è al conformismo cui conduce l'immedesimazione con la cultura/barbarie dei dominatori. Nel caso specifico della sua biografia, il conformismo di cui si fa portavoce lo storicismo, assume una connotazione più tragica nel momento in cui, come approccio alla politica ed alla storia, informa di se lo scenario sociale di un'epoca intera. Il pensiero di Benjamin è indubbiamente un pensiero della crisi, della catastrofe, dettato, soprattutto nell'ultima parte, dall'urgenza di una situazione storica che rispecchia fedelmente la visione, in negativo, dell'autore tedesco. Tale carattere può dirsi diffuso nel corpus degli scritti benjaminiani, certamente almeno dal progetto perduto di una Politik, ma si realizza compiutamente solo nell'elaborazione, negli anni sempre più consapevole, di un meccanismo critico, di un modo di pensare, che non potesse in nessun modo essere assimilato alle logiche del potere, e che si costituisse, invece, come modello di un pensiero realmente alternativo, nell'ottica di una liberazione non più solo esteriore e materiale -come era per il marxismo- ma anche e soprattutto percettiva, coscienziale, infine sociale e politica. Proprio in questo contesto, il saggio Per la critica della violenza, forse l'unico documento “completo” di quel progetto pervenuto ai giorni nostri, rappresenta la prima tappa in cui la modernità, talvolta definita “profetica”, di Benjamin, si affaccia prepotentemente. In questo scritto troviamo una definizione del potere costituito – come violenza che pone e conserva diritto – che sarà germinale per gli studi contemporanei sul potere, in particolare in Foucault271, sebbene non ci siano scritti del pensatore francese che dichiarano esplicitamente l'influenza di Benjamin. Lo stesso carattere spettrale del controllo poliziesco che troviamo nello scritto sulla violenza, farà da sfondo alla percezione foucaultiana di una società del controllo, entro cui gli individui vengono integralmente assoggettati al biopotere esercitato dai moderni meccanismi tematiche portanti lo studio della lirica di Baudelaire, così come l'analisi delle figure da lui osservate (il flâneur, il dandy, le prostitute), vittime sacrificali e vettori temporali della società del capitalismo avanzato, così come l'assetto urbanistico della città di Parigi in questo contesto storico-sociale. Tra i molti scritti sul poeta francese, quello che forse riassume in maniera più concisa il significato dell'interesse per Baudelaire è un saggio del 1938, edito per la prima volta nella primavera del 1939 sulla Zeitschrift für Sozialforschung, all'epoca ancora stampata in tedesco dall'Institute for Social Research, già rilocato a Los Angeles: cfr. Über einige Motive bei Baudelaire (1939), trad. it. Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti., 2006, cit., pp. 89-130. La tematica di Baudelaire alimenta gli studi benjaminiani ancora oggi. È recente l'edizione di un testo, possibile a partire da ritrovamenti manoscritti di Agamben nel 1981 alla Bibliothèque Nationale di Parigi, che antologizza materiali nuovi ed altri già editi nelle raccolte dell'opera sui passages: cfr. W. BENJAMIN, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato.,a cura di G. AGAMBEN, B. CHITUSSI, C. C. HÄRLE, Neri Pozza, Vicenza, 2012. 271 In particolare: cfr. M. FOUCAULT, L'archeologia del sapere, Bur Rizzoli, Milano, 1999. 118 istituzionali272, intuizione che troverà culmine nella nascita del concetto, centrale nel dibattito teorico odierno, di biopolitica, per cui si rimanda allo scritto già citato sulla Nascita della biopolitica. Lo stesso Foucault riprende da Benjamin anche il concetto di una filosofia come critica radicale, che rispetto alla storia si configura come approccio archeologico: il materialista che spazzola la storia contropelo trova una nuova immagine nel filosofo come archeologo delle forme culturali. L'origine di un'epoca va ricercata sempre nella costellazione estesa della sua realizzazione concettuale attraverso la storia: in questo senso il filosofo fa “archeologia”, nel momento in cui cerca di stabilire una relazione tra una situazione presente e la sedimentazione storica che, a partire da un passato anche estremamente remoto, reca fino al tempo attuale la traccia di determinati caratteri culturali. Tale relazione diventa possibile nel momento in cui lo svolgimento, progressivo e continuo della storia come intesa dallo storicismo – e in questo la critica di Benjamin ha fatto scuola – viene interrotto dalla dirompente esplosività dell'immagine dialettica. Non si tratta più di iscrivere la narrazione storica entro lo sfondo omogeneo di uno svolgimento continuo, ma il tessuto della storia si costituisce accostando le une alle altre, dialetticamente, le immagini del passato riscattate dalla rammemorazione. In quest'ottica, risulta, forse, comprensibile, anche la necessità -non una casuale vicissitudine- di dover costituire l'opera che potesse fornire una glossa critica alla storia del XIX secolo, cioè il Passagenwerk, proprio nell'impossibilità della continuità narrativa, imitando in questo le tecniche poetiche e visive delle avanguardie. Sul piano della tecnica narrativa e della visione storica e sociale è possibile collegare direttamente Benjamin alle avanguardie, così come la presente trattazione ha cercato di evidenziare nel capitolo relativo al surrealismo. In questo senso l'opera di Benjamin è influenzata ed influenza, anticipandone in qualche modo l'approccio decostruttivista, sia le avanguardie artistiche, sia quelle posizioni teoriche di estrema rottura con la società dell'immagine, come ad esempio è il caso di Debord o del situazionismo 273. Da un certo punto di vista potremmo dire, con Agamben, che nel cinema di Debord, e in parte nell'esperimento delle Histoire(s) du Cinema di Godard, più che altrove, trova un contrappunto pratico la visione benjaminiana della narrazione storica, che a partire dal tessuto discontinuo della storia, raccoglie immagini la cui vera natura storica viene rivelata nella giustapposizione -nella dialettizzazione- con altre immagini 274, che in 272 Cfr. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. (1975), Einaudi, Torino, 2005. 273 Cfr. G. DEBORD, La società dello spettacolo (1967), Massari, Viterbo, 2002. 274 Cfr. G. AGAMBEN, Il cinema di Guy Debord, in AA. VV., Guy Debord (contro) il cinema, a cura di 119 questa dialettica acquistano la legittimità di storia. Agamben sostiene innanzitutto, per avvalorare tale parallelo, che esiste un legame forte tra immagine, come oggetto del cinema, e storia. Da un primo punto di vista, tale legame è giustificato dal significato, appunto storico, che l'immagine può assumere agli occhi dello spettatore, nel momento in cui l'immagine può rappresentare un elemento di interesse per il suo contenuto in relazione al montato costituito dalla narrazione storica. In particolare le immagini del cinema, così come quelle della pubblicità e della cronaca, conservano una forza interna che permette di sbalzare tali immagini dal contesto cristallizzato della semplice finzione o del semplice accaduto storicistico. Se l'immagine in quanto tale, nel cinema, e in generale nei tempi moderni, non rappresenta più un oggetto isolato, un archetipo collocato al di fuori della storia, ma piuttosto un immagine in movimento, caricata di una tensione dialettica e quindi storica, allora è possibile istituire un legame tra le immagini dialettiche del materialismo storico benjaminiano e l'utilizzo che del cinema fa il situazionismo. E' una carica di questo genere che Benjamin vedeva in ciò che chiamava immagine dialettica e che secondo lui era l'elemento stesso dell'esperienza storica. L'esperienza storica si fa attraverso l'immagine, e le immagini sono esse stesse caricate di storia.275 Il tempo storico in cui tale meccanismo può realizzarsi non è certo il tempo della storia cronologica, quanto piuttosto quello della storia in una dimensione messianica. Tale dimensione temporale è riprodotta, come entro un laboratorio, dalla dinamica di ripetizione ed interruzione propria del cinema di Debord. In tale meccanismo si rispecchiano, dal punto di vista di Benjamin, i meccanismi della rammemorazione così come quello dell'interruzione del continuum storico. La ripetizione, così come la rammemorazione nel contesto delle Tesi, introduce la possibilità di istituire un nuovo a partire da un immagine ricorrente. La ripetizione restituisce la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile. Ripetere una cosa è renderla di nuovo possibile. E' qui che risiede la prossimità tra la ripetizione e la memoria. Perché nemmeno la memoria può renderci tale e quale ciò che è stato. Sarebbe un incubo. La memoria restituisce al passato la sua possibilità. E' il senso di questa esperienza teologica che Benjamin E. GHEZZI, R. TURIGLIATTO, Il Castoro/La Biennale di Venezia, Milano 2001, pp. 103-108. 275 Ivi, p. 103. 120 vedeva nella memoria quando diceva che il ricordo fa dell'incompiuto un compiuto e del compiuto un incompiuto.276 Dall'altro lato, l'interruzione, altro carattere fondamentale della cinematografia di Debord, ha la funzione, in Benjamin assunta dallo choc del risveglio reso possibile dal corso discontinuo della storia, di isolare l'immagine nel contesto di una critica alla narratività del cinema borghese. Non si tratta di un'interruzione nel senso della pausa, in un senso cronologico: è piuttosto una potenza d'interruzione che lavora l'immagine stessa, che la sottrae al potere narrativo per esporla in quanto tale.277 Lo stesso Benjamin aveva indicato nel cinema una forma artistica in cui si concretizzava, o poteva concretizzarsi, una dimensione storica dell'immagine. In qualche modo già i surrealisti e i dadaisti, pur rimanendo entro la propria poetica “automatica” e decostruttiva, avevano interpretato precedentemente questa istanza278; in altra maniera, la cinematografia proletaria sviluppatasi in Unione Sovietica in quel periodo, testimonia, in un senso però più direttamente politico, dell'utilizzabilità dell'immagine ai fini della costruzione di una coscienza di classe; in maniera simile, negli stessi anni, in Italia e Germania il cinema viene utilizzato come strumento di propaganda, in entrambi i casi fornendo interminabili ore di filmati per chi volesse aprire il capitolo, probabilmente istruttivo a suo modo, dell'utilizzo del cinema ai fini di indottrinamento delle masse. Nel caso del situazionismo, è possibile forse istituire un legame più profondo, oltre che con le osservazioni di Benjamin sul cinema in toto, cui si riferiscono i precedenti paralleli, nel senso che l'articolarsi di ripetizione ed interruzione costituisce un punto di incontro forse più saldo della semplice affinità estetico-teorica. Alla base del situazionismo, così come della critica alla costruzione epica della storia in Benjamin, sta una critica radicale al concetto di espressione: La corrente concezione dell'espressione è dominata dal modello hegeliano secondo il quale ogni espressione si realizza attraverso un medium (sia un'immagine, una parola o un colore) che alla fine deve dissolversi nell'espressione compiuta. L'atto espressivo si compie una volta che il mezzo, il medium, non è più percepito in 276 Ivi, p. 107. 277 Ivi, p. 108. 278 Si pensi ai primi cortometraggi di Luis Buñuel, o al breve Entr'acte (1924) di René Clair, da annoverare tra i manifesti postumi dell'arte cinematografica Dada. 121 quanto tale. Occorre che il medium scompaia in ciò che ci fa vedere, nell'assoluto che si mostra e che risplende in esso. Al contrario, l'immagine che è stata lavorata attraverso la ripetizione e l'interruzione è un mezzo, un medium che non scompare in ciò che ci fa vedere. E' ciò che chiamerei un "mezzo puro", che si mostra in quanto tale. L'immagine si mostra in se stessa invece di scomparire in ciò che ci fa vedere.279 L'immagine apparentemente sconnessa proiettata da Debord nasconde in realtà una chiave di lettura pienamente contemporanea della storia, e il parallelo che istituisce Agamben in questo caso con l'immagine storica in Benjamin rileva la reale portata etica e politica del cinema così come del discorso benjaminiano sui media. Più in generale in Benjamin, il discorso sui media assume un significato molto più ampio in relazione alla dimensione storico-politica in cui il discorso sull'arte viene inserito. In questo senso il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica costituisce un punto fondamentale nella ricezione di Benjamin critico d'arte o teorico dei mass-media. In questo saggio sono espressi almeno due coefficienti teorici che permettono di affermare decisamente l'attualità di Benjamin. Da un lato, la politicizzazione dell'arte auspicata alla fine dello scritto, come presa di coscienza, da parte del fare artistico, della necessità di spezzare proprio con il discorso artistico il monopolio percettivo ricercato dai meccanismi del capitalismo, risulta oggi quanto mai attuale. Dall'altro, proprio la necessità di liberare la percezione e la sensibilità dall'avanzamento di quell'invasore costituito dalla pubblicità, dalla mercificazione dell'immaginario, dall'entertainment, ancora dal conformismo come veicolo talvolta obbligato del proprio orizzonte culturale, in ultima istanza dalla fantasmagoria materiale che nei passages trova la prima espressione moderna, si configura come istanza etica oggi ancora valida nel rivendicare lo spazio di una libertà ancora non conquistata. In corrispondenza ad un cambiamento nella struttura e nelle modalità del fare artistico, sopraggiunge un cambiamento parallelo nel campo della percezione e della ricezione dell'arte. Con la perdita dell'aura, con l'avvento della riproducibilità tecnica, l'arte da un lato si emancipa dalla sua parassitica esistenza in relazione al rito, dall'altro il carattere cultuale viene sostituito da una progettazione, da un confezionamento, da una politicizzazione dell'oggetto artistico, prima sconosciuta. Entro l'appropriazione del carattere politico di tale oggetto, come veicolo ed emblema di un determinato modo di percepire ed esperire la realtà, si gioca il 279 Ibidem. 122 carattere rivoluzionario del pensiero benjaminiano, di fronte all'invisibile nemico del capitalismo. La perdita dell'aura segna allora non soltanto l'avvento di una nuova possibilità di liberazione -della percezione così come delle potenzialità politiche racchiuse nell'immaginario-, ma segna anche l'inizio della presa di coscienza, etica, della necessità di “combattere” per sottrarre l'oggetto artistico privo della sua aura alla bufera del progresso, o in altre parole al conformismo della tradizione dei vincitori 280. In questo senso il pensiero di Benjamin risulta, forse ancora oggi, sconfitto, e tuttavia la ricezione di Benjamin negli ambiti più disparati ha favorito in un certo senso lo sviluppo di una coscienza critica antagonista a tale “atrofizzazione” della percezione. È il caso, raramente citato nei documenti ufficiali, delle sottoculture contemporanee che della ri-conquista di un immaginario liberato da quello della cultura dominante fanno una bandiera. Una lista dei “movimenti” e delle “esperienze” in tal senso rivoluzionarie dovrebbe partire dall'elaborazione teorica per trovare sbocco, oltre che nelle avanguardie artistiche, anche in quegli esperimenti quotidiani, individuali o collettivi, di distacco critico dalle istanze della società del capitalismo avanzato. O in altre parole in tutte quelle pratiche, che in un modo o nell'altro, si pongono coscientemente di fronte alla barbarie culturale del proprio tempo, siano esse di carattere teorico, artistico, o anche strettamente pratico. La necessità, ancora oggi, di un tale esercizio nell'antagonismo, è dato dal fatto che il nemico contro cui Benjamin combatteva, non ha ancora smesso di vincere. Anzi oggi più di prima non vi sono alternative a tale vittoria schiacciante e oppressiva, se non quella di portare testardamente avanti un perenne “assalto al cielo” delle nostre concezioni culturali. Il nemico oggi come allora non si maschera, ma oggi forse più di allora si insinua ovunque possa strumentalizzare a suo favore delle forze politiche. È il caso delle innumerevoli forme di soft power cui siamo soggetti: l'intrattenimento come atrofizzazione del gusto, della sensibilità, della capacità stessa di immaginare un tempo – passato, presente, futuro – differente; è il caso della individuazione massificata dei prodotti di consumo, evidenziato dalla dimensione social di ogni prodotto materiale e culturale; è il caso della demagogia politica imperante, sia nell'alveo del potere costituito che in quello, che si vorrebbe antagonista, dell'opposizione politica. In questo contesto, oggi come allora la necessità critica del pensiero sta nella capacità di 280 Per l'argomentazione in questo passaggio si rimanda ad un articolo, irreperibile in lingua italiana, di Habermas: cfr. J. HABERMAS, Consciousness raising or redemptive criticism. The contemporaneity of Walter Benjamin., in “New German Critique. An interdisciplinary journal of german studies.”, n. 17, Duke University Press, Durham, 1979, pp. 30-60. 123 strutturare un discorso teorico che possa interrompere, almeno per chi vuole ascoltare, la catastrofe prolungata del progresso. Oggi forse più di allora è necessario tenere le redini del proprio sguardo critico, per poter strutturare o semplicemente generare un discorso, che non sia in nessuna maniera strumentalizzabile, che non possa essere in nessun modo utilizzato dal nemico. 124 125 Bibliografia - Opere di Walter Benjamin Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), trad. it. Il dramma barocco tedesco, a cura di G. SCHIAVONI, Einaudi, Torino, 1999. Gesammelte Schriften, in VIII voll., a cura di R. TIEDEMANN, H. SCHWEPPENHÄUSER, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1972-1989. Opere complete, in IX voll., a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2001-2012. Angelus Novus. Saggi e Frammenti., a cura di R. 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