Capitolo I
Walter Benjamin: dai primi saggi all'incontro con il Surrealismo
- Questioni preliminari: Filosofia e Critica
La mole di testi che costituisce l'Opera omnia, in molti casi frammentaria e in gran
parte postuma, di Walter Benjamin, ha resistito e resiste ad ogni tentativo di
collocazione esclusiva nell'inventario classico delle forme di sapere. Il motivo di tale
inafferrabilità va ricercato probabilmente nel fatto che gli scritti dell'autore tedesco
sconfinano puntualmente in ambiti disciplinari differenti, ma anche, dato sicuramente
più rilevante ai fini della ricerca, nella inseparabilità di quei diversi ambiti ai fini di una
comprensione totale del suo pensiero. Risulta in sintesi evidente, accostandosi alla
produzione benjaminiana, l'estrema diversità dei temi e delle questioni trattate, ma
risulta anche chiara anche la natura funzionale di questa complessità ai fini di un
metodo decisamente personale e pertanto “incollocabile”.
Nonostante questa considerazione, sarebbe tutt'altro che corretto vedere nel critico
berlinese un pensatore, per così dire, “pindarico”, oscuro o addirittura ermetico. Non si
può neanche negare che si tratti di un autore che, nonostante gli interessi
multidisciplinari, mantenga nella sua impostazione una forte coerenza di fondo, ma
sarebbe impossibile, o quantomeno avventuroso, tentare di sintetizzare dal complesso
dei testi benjaminiani, comprensivo di appunti di lavoro, raccolte di scambi epistolari,
frammenti e citazioni, una dottrina sistematica e autoconclusiva. Le tensioni presenti nel
testo benjaminiano, tra campi d'analisi e contesti apparentemente inconciliabili, non
gettano quasi mai le basi per una costruzione dottrinale sistematica, che possa
permettere di incastonare, in un struttura progettata ad hoc, teorie e concetti al fine di
spiegare una serie di ipotesi preliminari validanti un vero e proprio sistema di pensiero.
In particolare nella produzione del primo Benjamin confluiscono elementi differenti: ad
esempio l'idealismo tedesco di Fichte e Schlegel, Kant e il neokantismo di Hermann
Cohen, l'esperienza della Jugendbewegung di Gustav Wyneken, il romanticismo in
1
particolare nelle figure di Goethe e Novalis, la lirica di Hölderlin e Rilke, le riflessioni
sul diritto e sul mito, fino al rapporto con il messianesimo ebraico, al cui interessamento
concorre significativamente l'incontro, a Berlino nel 1915, con Gershom Scholem, con
cui stringerà una sodale amicizia durata fino alla morte 1. Questi elementi sono sviluppati
per poi essere ripresi, rielaborati e fatti propri, per così dire filtrati, in una sintesi che
contemporaneamente li discerne e li unifica. Discorso a parte va fatto per la produzione
successiva al saggio sul barocco2, soprattutto quindi per gli scritti redatti dalla metà
degli anni '20, in cui le fonti iniziali del critico tedesco vengono filtrate ulteriormente
attraverso una particolare lettura del marxismo alla luce degli sviluppi storici di quegli
anni, ed anche attraverso l'incontro con i temi delle avanguardie artistiche europee, in
particolare con le tematiche del Surrealismo. La critica ha spesso sottolineato come
questi due periodi fossero a tal punto discernibili che si potrebbe porre uno spartiacque
tra un primo ed un secondo Benjamin.
Tuttavia anche la questione relativa ad una ipotetica “svolta”, che sarebbe da
rintracciare proprio a partire dall'incontro con il comunismo alla metà degli anni '20,
rimane problematica. Da un lato è possibile parlare di uno slittamento degli interessi di
Benjamin: da un ambito più strettamente filosofico e in confronto soprattutto con Kant,
con l'idealismo di Fichte filtrato attraverso l'idealismo magico di Novalis, e il
romanticismo di Goethe, ad un interesse più strettamente politico connotato da un
atteggiamento che si potrebbe definire materialista (vedremo poi come e in che senso
Benjamin potrà dirsi “materialista storico”), in un confronto sempre più serrato con il
marxismo ortodosso e con le intuizioni politiche delle avanguardie artistiche e letterarie
del primo '900. D'altro canto non è possibile parlare decisamente di una Kehre
concettuale, come nel caso di autori più sistematici, dove il cambio di direzione nel
pensiero è guidato da un rifiuto o da una radicale revisione degli assunti di base del
proprio sistema filosofico. Nella produzione pur diversificata di saggista, critico
letterario, filosofo teoretico e talvolta anche narratore, permangono sempre dei temi e
degli atteggiamenti critici che non permettono, se non in senso puramente didascalico,
di operare una cesura critica netta tra una prima ed una seconda fase del pensiero di
Benjamin.
Per questi motivi, qui solo menzionati, la sua figura è stata, non senza ragioni, quella di
1 Per un'approfondimento della questione ebraica in Scholem, anche in relazione a Benjamin: cfr. G.
SCHOLEM, Il Nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Adelphi, Milano, 1998;
G.SCHOLEM, Walter Benjamin. Storia di un'amicizia, Adelphi, Milano, 1992.
2 Cfr. W. BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels (1928), trad. it. Il dramma barocco
tedesco, a cura di G. SCHIAVONI, Einaudi, Torino, 1999.
2
un autore enigmatico e impenetrabile. Potrebbe essere letta come una testimonianza in
questo senso la vicenda relativa alla pubblicazione delle Opere Complete: da un lato
l'edizione tedesca dei Gesammelte Schriften3, curata da Rolf Tiedemann ed Hermann
Schweppenhäuser, allievi di Theodor W. Adorno (assieme a Scholem erede, in senso
letterale, dei testi, dei manoscritti, oltre che della fiducia di Benjamin), presenta una
catalogazione su base tematico-formale che, nonostante l'indiscussa importanza, fa
dibattere ancora oggi per l'inadeguatezza di tale impostazione ai fini di una
comprensione effettiva del pensiero e del metodo benjaminiani; dall'altro lato, l'edizione
italiana, interrotta e poi ripresa dall'editore Einaudi e curata da Giorgio Agamben, cui si
deve il recupero ancora oggi di manoscritti importanti, riprendeva i testi dell'edizione
tedesca, ma proponeva una catalogazione su base strettamente cronologica, scelta che
implicitamente affermava la necessità di poter attingere ad una produzione quanto più
fedele al reale sviluppo del pensiero del critico tedesco4. La versione italiana più
recente, curata da Enrico Ganni5 e ricalcata sull'impostazione cronologica di Agamben,
mostra inoltre come nello stesso arco di tempo la produzione di Benjamin spaziasse dal
saggio filosofico al saggio di critica letteraria, dall'annotazione diaristica al commento a
testi altrui, dall'aforisma alla citazione, spaziando tra autori e tematiche di natura anche
considerevolmente diversa.
Si presenta quindi come effettivamente problematica la catalogazione della
costellazione degli scritti benjaminiani, sia se affrontata nei parametri della cronologia
che in quelli della separazione tematica. Il fatto che la Filosofia, in nome di una naturale
affinità o di una presunta onnicomprensività, possa rivendicare una sorta di primato o di
priorità nello studio di Benjamin, è un dato valido finché si tratti di uno studio filosofico
che non sia alla ricerca di una sistematizzazione, o che quantomeno non richieda, al
pensiero di un autore, una determinata leggibilità all'interno di una determinata
tradizione, o una metodica, propedeutiche al titolo di “dottrina filosofica” o a quello di
“critica letteraria”. Piuttosto in Benjamin persiste una forza critica tesa a scardinare la
separazione netta degli ambiti disciplinari, così come le definizioni stesse di dottrina
filosofica o di critica. Questi due piani anzi – dottrina e critica – vengono a sovrapporsi,
e comprendere in che modo si realizza questa dinamica può forse aiutare nell'approccio
3 Cfr. W. BENJAMIN, Gesammelte Schriften, in VIII voll., a cura di R. TIEDEMANN, H.
SCHWEPPENHÄUSER, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1972-1989.
4 Riguardo alla storia della ricezione di Benjamin in Europa: cfr. AA.VV., Walter Benjamin et Paris., a
cura di H.WISMANN, Les Éditions du Cerf, Paris, 1986. In particolare: cfr K.GARBER, Réception
de Benjamin., pp. 982-994.
5 Cfr. W. BENJAMIN, Opere complete, in IX voll., a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2001-2012.
3
ad un autore che, per quanto fosse più o meno vicino alle concezioni e alle tematiche
delle cerchie intellettuali da lui frequentate nel tempo6, mantenne degli elementi di
originalità irrinunciabili, relativi proprio alla concezione del fare filosofico, che
permettono di stendere una linea rossa che idealmente percorre tutta la sua produzione.
Per trovare una definizione pregnante dell'elemento metodologico fondamentale, ovvero
il concetto radicale di critica come filosofia, che attraversa l'opera di Benjamin, può
essere utile rivolgersi preliminarmente ad un testo che è già un punto di arrivo e una
summa dei concetti espressi in testi precedenti, quello cioè su Le Affinità elettive7 di
Goethe, pubblicato tra il 1924 e il 1925 sulla rivista “Neue Deutsche Beiträge” di Hugo
von Hofmannstahl.
Il testo si apre con una metafora da cui scaturisce una riflessione metodologica, sui
modi di avvicinamento ad un'opera letteraria, distinti in critica e commento.
La critica cerca il contenuto di verità di un opera d'arte, il commentario il suo
contenuto reale. Il rapporto fra i due determina quella legge fondamentale della
letteratura per cui, quanto più significativo è il contenuto di verità di un'opera, tanto
più strettamente e invisibilmente esso è legato al contenuto reale.8
Queste due modalità di lettura di un'opera si presentano quindi come inizialmente
complementari, ma la loro capacità esplicativa nel tempo si differenzia, poiché il
contenuto reale, argomento del commento, si fa più appariscente, nel senso che la sua
forma ed il suo messaggio immediato rimangono costanti, laddove il contenuto di
verità, quello che cioè riguarda l'inespresso, il “mediato” o il recondito dell'opera, si
sbiadisce con il tempo e va sempre di nuovo ricostruito9. Ciò che Benjamin intende per
contenuto di verità presenta allo stesso tempo i caratteri del residuo e del sostanziale: è
allo stesso tempo ciò che va recuperato dell'opera e ciò che deve concernere la ricerca
del critico, in quanto materia nascosta alla prima lettura operata dal commento. Per
6 Casi emblematici sono quelli del rapporto con Adorno e la Scuola di Francoforte, o con la
Jugendbewegung di Wyneken, suo professore ad Haubinda.
7 Cfr. W. BENJAMIN, Die Wahlverwandtschaften (1924-1925), trad. it. Le Affinità elettive, in Angelus
Novus. Saggi e Frammenti., a cura di R. SOLMI, Einaudi, Torino, 2006, pp. 163-243.
8 Ivi, p. 163.
9 A tal proposito Benjamin si serve di un'altra immagine, che introduce la questione della storicità
dell'opera e del rapporto del critico con essa proprio nel contesto della sua temporalità: « Si può
paragonare il critico al paleografo davanti a una pergamena il cui testo sbiadito è ricoperto dai segni di
una scrittura più forte che si riferisce ad esso. Come il paleografo deve cominciare dalla lettura di
quest'ultima, così il primo atto del critico ha da essere il commento.», Ivi, p. 164. La natura di ciò che
Benjamin chiama alternativamente «il contenuto di verità dell'opera» o anche «la verità dell'opera»,
sarà più chiara alla luce di quanto segue, in particolare relativamente al saggio sulla critica e a quello
sul linguaggio.
4
ragioni tecniche, o meglio empiriche, la lettura di un'opera deve passare attraverso
l'immagine che si presenta più distinta – il contenuto reale, l'aspetto evidente del testo –
e in questo senso la verità dell'opera d'arte si costituisce, in quanto prodotto della critica,
come oggetto di una mediazione, tra ciò che l'opera esprime nella sua realtà empirica e
ciò che da quel testo il critico deve recuperare. Già in questo passaggio è possibile
notare come la concezione benjaminiana di critica si proietta entro un orizzonte etico,
nel senso che ciò che, in ultima istanza, guida il critico, è una responsabilità morale, nei
confronti dell'opera come nei confronti della tradizione. Il critico si fa carico di una
missione etica nel momento in cui si appresta a desumere, dal contesto formale di
un'opera – come anche delle opere relative ad una corrente di pensiero – un discorso che
possa revitalizzare la verità della stessa, rendendola sempre di nuovo utilizzabile. La
separazione nel tempo di contenuto reale e contenuto di verità non determina solo il
rapporto tra i due, ma grazie alla critica, determina il meccanismo di storicizzazione
dell'opera. Il gesto del critico, cui spetta il compito di rinnovare costantemente il segreto
costituito dal contenuto di verità che nel tempo continua ad infossarsi, deve diradare
l'evidenza schiacciante del contenuto reale, superare in un certo senso il gesto del
commentatore, per poter storicizzare l'opera, mettendo in relazione il passato – fissato
nel contenuto reale dell'opera – e il presente sempre rinnovabile della stessa.
Se il commento restituisce sempre una visione preliminare e si trova a precedere
necessariamente la critica, che poggia quindi anche sul commento stesso, questa deve
operare una maggiore approssimazione all'oggetto della propria analisi, superando la
prima distanza che è quella temporale. La dinamica di commento e critica viene
illustrata, come è frequente in Benjamin, attraverso un'immagine 10.
Se si vuol concepire, con una metafora, l'opera in sviluppo nella storia come un
rogo, il commentatore gli sta davanti come il chimico, il critico come l'alchimista.
Se per il primo legno e cenere sono i soli oggetti della sua analisi, per l'altro solo la
fiamma custodisce un segreto: quello della vita. Così il critico cerca la verità la cui
fiamma vivente continua ad ardere sui ceppi pesanti del passato e sulla cenere lieve
del vissuto.11
Da un lato il commentatore appare impegnato a raccogliere la verità esteriore del legno
10 La seguente argomentazione deve la sua impostazione ad un importante testo critico, occasionalmente
citato nella presente trattazione: cfr. B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno,
Cronopio, Napoli, 2009. In particolare cfr. La chimica del testo, cit. pp. 25-54.
11 W. BENJAMIN, Le Affinità elettive, cit. p. 164.
5
arso e della cenere, che restano a testimoniare del contenuto reale dell'opera – l'aspetto
empirico, la forma e l'argomento manifesti nel testo -, dall'altro l'interesse precipuo del
critico è quello di cogliere le determinazioni essenziali, la pura fiamma, che a ben
vedere rappresenta ciò che brucia l'opera stessa come elemento estraneo, distinto
dall'immediatezza del contenuto reale e dal presente del contesto culturale dell'opera. Lo
sforzo interpretativo proprio della critica, è processo ermeneutico che differisce dalla
semplice analisi dei resti – il legno e la cenere -, non solo perché legge tra le righe del
testo traendone un testo nuovo, ma anche perché tale processo,pienamente creativo, è
attivo nella combustione dell'opera stessa. Il critico, come l'alchimista, ricerca in questo
processo – la fiamma, il rogo sempre rinnovabile dell'opera - il segreto costituito dal
contenuto di verità. L'alchimista, come il critico, tesaurizza il segreto della fiamma per
poi sintetizzarlo in una combustione sempre rinnovabile, anche a distanza di tempo.
Con questa metafora Benjamin afferma innanzitutto il rapporto di natura gerarchica, ai
fini della conoscenza, di commento e critica, che ribalta innanzitutto la visione
classicista dell'opera d'arte, per cui l'apparenza dell'opera conteneva in se tutte le
determinazioni della stessa; in secondo luogo viene implicitamente affermata la natura
fondativa del commento, cui il critico deve rifarsi poiché è a partire dalla forma esplicita
dell'opera che va ricercata la chiave di accesso per un secondo livello di lettura, quello
inerente alla verità della stessa. Il commentario risulta una fase necessaria, ma la critica
soltanto ha la prerogativa conclusiva di riportare in vita la fiamma che brucia l'opera, o
meglio la capacità di discernere dal contenuto reale dell'opera un contenuto di verità per
mostrarne
la
natura
sempre,
potenzialmente,
ardente
di
verità.
Seguendo
l'argomentazione di Moroncini potremmo dire:
Se il rapporto fra i due è quello espresso dall'immagine del rogo, ciò significa che
la verità mira a bruciare il contenuto reale, non ad esibirvisi. Essi dunque già
divergono all'origine, ed è lo scarto che separa, da sempre, il doppio livello del
contenuto dell'opera, che decide della sua storicità successiva. Contro una
interpretazione 'classicista' dell'arte, secondo la quale la verità si cala integralmente
nell'apparenza – ciò che costituisce l'archetipo della bellezza in generale –
Benjamin introduce la discontinuità nel seno stesso dell'opera: verità e contenuto
sono si in relazione, ma non coincidono.12
12 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit. p. 27.
6
Se da un lato la metafora del rogo è funzionale a spiegare la separazione e il
meccanismo di articolazione del commentario in critica, la metafora, già citata in nota,
del critico come paleografo, restituisce l'immagine dell'interazione tra i due tipi di
attività riflessiva. Dei testi che il decifratore prende in considerazione, quello manifesto
recante il contenuto reale dell'opera sta davanti a quello di verità come un velo che lo
custodisce nascondendolo. Al critico non si presenta il contenuto di verità pienamente
visibile, ma l'opacità di quest'ultimo coperto dalla struttura manifesta del contenuto
reale.
Tuttavia ciò non implica che la verità alberghi fuori di esso, nella visione dell'idea
o nella purezza della parola: essa, al contrario, è iscritta radicalmente nel contorno
figurale e nella materialità della scrittura. Non è il testo il resto di una verità altra
dalla sua esistenza materiale, ma esso stesso è l'opera in quanto attraversato dalla
medesima scissione che contraddistingueva quest'ultima: verità e contenuto sono
due scritture che, a pari titolo, compongono il testo.13
L'attività del critico, ancora una volta, non può prescindere da quella del commentatore,
ma, nella visione del critico come paleografo, è forse meglio rappresentata la stretta
correlazione che esiste a questo punto tra l'una e l'altra attività. Il critico che ricerca il
contenuto di verità del testo come uno studioso di civiltà preistoriche i fossili, deve
decifrare un testo il cui linguaggio ambiguo sembra celare un sotto-testo da liberare.
Eppure la strada per la sua intima comprensione non sta solo nello spolverare il reperto
per catalogarlo esattamente in un inventario tipologico, ma nel ripercorrerlo nella sua
complessità, ricostruirlo nella sua struttura interna, sapendo che il contenuto di verità
iscritto in tale documento non risiede solo nell'oggetto ma anche nella relazione di
questo con il presente, il tempo della critica 14. Tale documento deve essere reso
utilizzabile ai fini di una ricostruzione o di una nuova nascita del contenuto di verità
dell'opera. In questa metafora il commentatore partecipa della stessa dignità conoscitiva
del critico, ed è anzi il buon critico a dover scindere la sua natura in una duplice e
sinergica di commentatore e critico.
13 Ivi, p. 28.
14 In questo contesto si inserisce la questione relativa alla responsabilità del critico nei confronti della
storia, e quindi alla moralità stessa del gesto critico. Il rapporto che una critica così concepita instaura
con i fenomeni, così come con le opere d'arte, implica l'accettazione di un peso, di un destino, che è
quello di secernere costantemente la verità dei fenomeni.
7
Così il critico è colui che riesce a vedere il testo sbiadito in quello manifesto e il
rosso della brace nel legno della cenere.15
Il testo sul romanzo di Goethe solleva quindi, oltre ai problemi specifici di
interpretazione sul significato letterario e storico dell'opera, un problema di ordine
terminologico riguardante la differenza tra commento e critica, e un problema di ordine
metodologico, che è quello che riguarda il discernimento di contenuto reale e contenuto
di verità. Se da un lato la definizione di un rapporto più o meno gerarchico tra
commentario e critica decide dell'impostazione metodica del decifratore, dall'altro non
esaudisce i significati della distinzione tra contenuto reale e contenuto di verità. Nello
sviscerare il contenuto complessivo dell'opera il critico compie un'operazione che è
anche differente da quella della semplice deduzione. Si tratta di un'opera differente, che
se da un lato distrugge l'opera scomponendone il contenuto reale ed immediato,
dall'altro sintetizza ad un livello superiore il contenuto dell'opera, che diventa allo stesso
tempo fonte della critica e punto cardine di una nuova riflessione. Tuttavia ancora non è
possibile definire propriamente il contenuto di verità, o meglio la verità dell'opera
prodotta dal critico accorto, come Benjamin lo concepisce. Se la critica è la fiamma che
brucia il contenuto reale dell'opera, in questa cancellazione si trasforma il senso stesso
della cosa osservata. L'oggetto dell'analisi, l'opera letteraria, sta nei confronti del critico
benjaminiano più come un'entità creaturale che come un oggetto di scienza. Questa cosa
che semplicemente esiste esige che il pensiero la abiti, e solo in questa permanenza,
abitando l'opera e mettendo da parte la distinzione di oggetto analizzato e soggetto
analizzante, la riflessione può porsi all'ascolto della verità stessa dell'opera. In un saggio
del 1995 Fabrizio Desideri scrive, riguardo a questo necessario abbandono del pensiero
nella cosa:
Le reti delle ipotesi vanno gettate sempre di nuovo. Il pensiero deve riflettersi
interamente nel problema o nell'oggetto in cui “sprofonda”. Di qui il suo carattere
immanentemente critico: quello di un sapere alla seconda potenza che nasce
dall'esercizio della riflessione. [… ]. La verità, così, si può intendere come quel
riguardo per e dalle cose che sta nel trapassare del pensiero in esse: nell'assumerne
la figura. Insieme al senso delle cose stesse muta così in Benjamin anche il senso
stesso della verità, diviene qualcosa di figurale: una concrezione immaginale che si
15 Ivi, p. 29.
8
forma solo nella relazione tra la cosa stessa e il pensiero che vi abita16.
La verità dell'opera si trasforma in una relazione, quella tra il pensiero e la verità stessa,
il cui carattere transitivo informa di se il pensiero che la abita. L'operazione, che
inizialmente era della critica, quella cioè di indagare il contenuto di verità dell'opera, si
trasforma in una operazione più profonda, che rivaluta il principio stesso di critica come
riflessione alla seconda potenza, come pensiero cioè del pensiero stesso in relazione a
se, attraverso l'opera. Allora la capacità del pensiero nel trarre dall'opera una verità starà
nella capacità di immedesimarsi, di farsi opera viva del pensiero stesso, attraverso una
disposizione all'ascolto della verità transitiva che il testo cela mostrandosi 17.
Il rapporto della critica al testo non è quindi quello di uno studio all'interno di
determinati parametri conoscitivi. Non si costituisce come una critica dal punto di vista
di una tecnica o di un metodo prestabiliti, nel senso che non pone come imprescindibile
la distanza tra un soggetto – il critico – e ed un oggetto rappresentato dall'opera stessa.
In questo senso il modello della critica benjaminiano ha un riferimento dichiarato nella
filosofia del romanticismo, in particolare negli scritti di autori anch'essi poco sistematici
come Tieck, Friedrich Schlegel, nel concetto di Kunstkritik così come nella concezione,
riferita a Novalis, della filosofia come critica radicale.
Per comprendere tale legame è necessario fare un passo indietro, dal punto di vista
cronologico, nell'opera di Benjamin, andando a ritrovare le origini del suo concetto di
critica, o quanto meno la base teorica da cui parte la sua elaborazione di un proprio
concetto di critica, in uno scritto del 1919, Il concetto di critica nel romanticismo
tedesco18.
Già alcuni anni prima del saggio goetheiano, in quella che è la sua dissertazione di
laurea all'Università di Berna, Benjamin tentava un'indagine sul modo in cui la nozione
di critica si configurava nel pensiero del romanticismo tedesco 19. Non si tratta di una
16 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., in Angelus Novus. Saggi e
Frammenti., cit., pp. 311-312.
17 « Il carattere transitivo della verità sta in uno con quello del pensare stesso. Un pronto disporsi del
pensiero ad ascoltarne il ritmo, a percepire gli echi che come onde si riverberano dalle cose. Il senso
del conoscere pare così, per Benjamin, assumere piuttosto una dimensione acustica che quella
tradizionale della visione. », Ivi, p. 313.
A proposito della dimensione acustica di questo senso del conoscere in Benjamin: cfr. H. ARENDT, Il
pescatore di perle. Walter Benjamin 1892-1940., Mondadori, Milano, 1993.
18 Cfr. W. BENJAMIN, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik (1919), trad. it. Il
concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di G. AGAMBEN, Einaudi,
Torino, 1982.
19 La seguente argomentazione deve la sua impostazione ad un testo critico, citato altrove nella presente
trattazione: cfr. G. ZUCCARINO, Critica e commento: Benjamin, Foucault, Derrida., Graphos,
Genova, 2000. In particolare: cfr., La fiamma e la cenere, cit., pp. 13-40.
9
ricerca di stampo storico-letterario, quanto di una ricerca di natura più filosofica e
speculativa. Il presupposto di Benjamin è che il concetto romantico di critica è basato
innanzitutto su basi gnoseologiche, ovvero riguarda innanzitutto il meccanismo del
pensiero e della conoscenza. La questione della critica d'arte, sollevata in particolare da
Schlegel e Novalis, in opposizione sia a Fichte che al classicismo di Winckelmann, che
allo spirito Sturm und Drang di autori loro contemporanei, conduce Benjamin
all'elaborazione di un proprio concetto di critica radicale.
Solo con i romantici l'espressione «critico d'arte» (Kunstkritiker) si contrappone
definitivamente a quella più vecchia di «giudice d'arte» (Kunstrichter). Si mise così
da parte l'idea di un seder a giudizio davanti alle opere d'arte, di una sentenza
fissata su leggi scritte o non scritte […].20
Il concetto di critica d'arte viene illustrato alla luce delle teoria della conoscenza della
natura di Novalis, e nelle definizioni che ne da Schlegel. Benjamin cerca di cogliere,
attraverso le tesi dei due, una linea guida da cui poter desumere la propria concezione,
che si vedrà pienamente realizzata nel saggio già menzionato su Goethe. La particolare
impostazione dei romantici consiste in un ampliamento delle tesi di Fichte sul processo
della riflessione nella costruzione dell'esperienza del mondo. La riflessione è
innanzitutto auto-riflessione, nel senso che il pensiero appare intento a pensare
riflettendosi infinitamente in se stesso. Tale processo si tramuta per i romantici in un
processo di riflessione infinita, dove il pensiero pensa nient'altro che se stesso attraverso
una serie crescente di gradi di trasparenza, che conducono ad una comprensione sempre
maggiore dell'infinito, «fino alla più alta chiarezza dell'assoluto» 21. Il processo riflessivo
così interpretato segna un distacco dalla relativa finitezza dell'approccio idealista, in
particolare in relazione a Fichte 22.
Per i romantici l'attività della riflessione rappresenta «la cellula germinale di ogni
conoscenza»23 e nella visione di Schlegel e Novalis non esisterebbe in ogni caso un
oggetto inerte di cui il soggetto dovrebbe prendere possesso con la conoscenza, ma
viene introdotta una riflessività connaturata all'oggetto stesso che in virtù di questa sua
riflessività comunica con il soggetto in un senso nettamente differente da quello
idealista. Si potrebbe dire che nel concetto di Kunstkritik si realizza il distacco dei
20 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 47
21 Ivi, p. 26.
22 Per un approfondimento dell'argomentazione, ridotta qui al minimo necessario: cfr. C. CESA,
Introduzione a Fichte, Laterza, Bari, 2008.
23 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 49.
10
romantici, inaugurato già dall'idealismo e da Fichte, dall'impostazione kantiana della
conoscenza. Se nella visione di Novalis «tutto ciò che si può pensare pensa a sua
volta»24, viene a cadere ogni relazione rigida e univoca tra soggetto e oggetto e si parla
piuttosto di unità riflettenti, che stabiliscono tra di oro una relazione di conoscenza ed
interazione reciproci. Dal punto di vista del concetto di critica, le unità riflettenti
costituite dal critico e dal testo interagiscono secondo un simile meccanismo.
Come l'osservazione o l'esperimento nelle scienze naturali hanno, secondo i
romantici, il compito di destare l'auto-riflessione nell'oggetto, così la critica mette
in atto un analogo processo nei riguardi dell'opera […]. Il critico, che stimola ed
eleva la riflessione interna all'opera e assolutizza quest'ultima rapportandola
all'infinità dell'arte, viene dunque ad assumere, come dice Novalis, il ruolo di
«autore ampliato» o di
«istanza superiore che riceve la cosa già elaborata
25
dall'istanza inferiore».
Così come per Novalis, non vi è opposizione in Benjamin tra il lavoro del critico e
quello dell'autore stesso, ma anzi la critica è sempre una lettura talmente partecipe da
sembrare
immedesimata
nella
forma
stessa
dell'opera
spiegata.
Attraverso
l'approfondimento del momento riflessivo presente nell'opera d'arte il critico gli da egli
stesso compimento, e lo spazio intertestuale tra l'opera d'arte e la critica della stessa
viene ad annullarsi, così come in Schlegel, dove «la poesia può essere criticata solo con
la poesia […] e la critica poetica vorrà formare ancora una volta il già formato, compirà
l'opera, la ringiovanirà, le darà nuova forma» 26.
Da un lato viene ridotto il ruolo valutativo e onnicomprensivo della critica, poiché
entrare in quella sorta di comunicazione con l'opera che è il processo critico richiede
all'opera stessa un portato di contenuto e verità che inneschi la relazione critica.
Dall'altro Benjamin utilizza il concetto schlegeliano di ironia come forma d'arte per
rivalutare la portata conoscitiva della critica in ogni caso, e lo fa evidenziando che se
nell'ironia schlegeliana è in atto una distruzione artistica dell'opera stessa, una simile
ironia, a livello oggettivo e metodologico, si ritrova nelle modalità della critica, che
dissolve nel suo percorso la forma dell'opera per trasformarla da «opera singola» a
«opera d'arte assoluta»27.
24 Cfr. NOVALIS, Frammenti, 172, in Opere, a cura di G. CUSATELLI, Guanda, Milano, 1982, p. 305.
25 G. ZUCCARINO, La fiamma e la cenere, cit., p. 21.
26 Cfr. F. SCHLEGEL, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. SANTOLI, Sansoni, Firenze,
1967, p. 41.
27 W. BENJAMIN, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 79.
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Proprio da Schlegel, Benjamin desume l'idea di un arte assoluta, nel senso che non si
condensa nelle singole opere ma nell'intera costellazione dell'opera d'arte come idea
trascendente l'opera empiriche.
In questo contesto la critica assume un ruolo complementare e addirittura fondamentale
per il compimento dell'opera stessa. L'ideale romantico di un'opera d'arte assoluta si
compie solo grazie all'opera della critica. Si potrebbe dire con Moroncini:
Non esiste prima l'opera e poi, come dato accidentale a cui l'opera viene a
convalidare la scelta di uno specifico apparato teorico, l'interpretazione, ma l'opera
e la sua interpretazione sono inscindibilmente unite. L'interpretazione è ciò che
permette il compimento della verità dell'opera, compimento forse infinito, ma che
procede dal senso dell'opera stessa.28
Il gesto critico si configura come pensiero che compartecipa del pensiero dell'opera. Il
critico sprofonda interamente nel testo, e la conoscenza dell'opera diventa una coscienza
alla seconda potenza dell'opera stessa. In questo contesto il contenuto formale, o per
dirla con il saggio su Goethe, il contenuto reale dell'opera, partecipa dello stesso
pensiero della critica e attraverso di essa accede al suo significato proprio e superiore di
contenuto spirituale trascendente l'opera empirica.
Lo spazio del pensiero, nella “fluidità” con cui viene inteso nel saggio sulla critica
romantica, non può definirsi entro la contrapposizione rigida di un soggetto, che indaga
attraverso determinate forme a priori un prefissato spazio del conoscibile, e un oggetto,
la cui intima conoscibilità è preclusa ad una razionalità definita dalle forme a priori del
pensiero.
Nella visione di Benjamin il compimento della critica come filosofia a venire sta nello
scoprire uno spazio di conoscenza, e quindi un modo di esperire la realtà, sospeso in una
sfera neutra tra soggetto ed oggetto. Questa sfera di neutralità è rappresentata dal
linguaggio.
Il continuum dell'esperienza ha il suo correlato espressivo nella sfera della lingua.
E solo nel medium del linguaggio si stringe il nodo filosofico del rapporto tra
critica ed esperienza. Dal lato del pensiero, l'esperienza della cosa sarà esperienza
di quanto in essa vi è di comunicabile: sarà esperienza della cosa nel linguaggio.29
28 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 32.
29 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., cit., p. 314.
12
Questo ci permette di risalire, tornando ancora indietro nel tempo fino al 1916, ad un
abbozzo di teoria del linguaggio in Benjamin. Il breve saggio Sulla lingua in generale e
sulla lingua dell'uomo30, espone una teoria del linguaggio che si distacca sia dalla
concezione, definita «borghese», che attribuisce alla parola un carattere del tutto
convenzionale e formale, sia dalla concezione, definita «mistica», che mira a cogliere
nell'espressione e nella parola l'essenza della cosa nominata. La tesi iniziale è così
espressa:
Ogni manifestazione della vita spirituale umana può essere concepita come una
sorta di lingua, e questa concezione dischiude – come ogni metodo veritiero –
ovunque nuovi problemi.31
Nella lingua si comunica lo spirito della cosa in sé. La comunicazione dell'essenza
spirituale della cosa è immediata, ed è allo stesso tempo il punto medio necessario
grazie al quale l'opera può farsi contenuto spirituale. E la facoltà comunicativa della
lingua così intesa non si arresta alla semplice espressione dell'uomo, ma si estende ad
ogni oggetto della realtà sensibile.
Non vi è cosa evento o cosa nella natura animata o inanimata che non partecipi in
qualche modo della lingua, poiché è essenziale a ogni cosa comunicare il proprio
contenuto spirituale. E la parola «lingua», in questa accezione, non è affatto una
metafora. Poiché è una conoscenza pienamente oggettiva che non possiamo
concepire nulla che non comunichi nell'espressione la sua essenza spirituale; il
grado maggiore o minore di coscienza con qui questa comunicazione è
apparentemente (o realmente) congiunta non cambia nulla al fatto che non
possiamo rappresentarci in nessuna cosa una completa assenza di linguaggio.32
Attraverso questo testo è già possibile cogliere l'influenza della filosofia romantica che
si riproporrà soprattutto fino al saggio su Goethe. In particolare il saggio sul linguaggio
opera, sulla scia anche degli studi sulla qabbalah propiziati dal sodalizio con Scholem,
una particolare sintesi tra romanticismo e misticismo ebraico, aprendosi ad una serie di
tematiche che, come è frequente in Benjamin, filtrano i testi attraverso una sintesi
critica. In questo caso i numi tutelari sono da un lato Hamann, per quanto riguarda la
30 Cfr. W. BENJAMIN, Über die Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1991), trad. it.
Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., cit., pp. 5370.
31 Ivi, p. 53.
32 F. DESIDERI, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin., cit., p. 316.
13
teoria del linguaggio strettamente intesa; dall'altro, la componente ebraica del testo deve
le sue argomentazioni innanzitutto ad Abraham Abulafia, filosofo mistico attivo in area
spagnola nella seconda metà del XIII secolo, che aveva contrapposto nel suo sistema,
passato alla storia come qabbalah mistica, una «via profetica dei nomi» alla rabbinica
«via delle Sefiroth»33. Dai romantici, e in particolare da Schlegel, Benjamin desume
invece la convinzione che il linguaggio sia andato nella storia a corrompersi rispetto ad
un momento originario in cui non vi sarebbe stata scissione tra il linguaggio e la verità
stessa, convinzione che appunto genera in Schlegel quella tensione dell'arte romantica
verso una forma assoluta, cui si è menzionato parlando del saggio sulla critica. La pars
costruens del discorso, se così si può dire, si avvale ancora una volta dello studio dei
cabalisti medievali, secondo i quali il linguaggio umano (in particolare la lingua ebraica
in quanto più prossima ad una ipotetica lingua originaria), si fa specchio dello spirito del
mondo e si plasma sul linguaggio di Dio, quello della creazione, di cui conserverebbe
un'impronta remota ma rinnovabile attraverso la lettura per gradi che si applica
all'esegesi della Torah e dei testi sacri. Come sintetizza Schiavoni:
La lingua appare a Benjamin dotata di una sua dimensione segreta, non
comunicabile, di un nucleo cioè che rappresenta qualcosa d più di una semplice
comunicazione o della pura espressione, qualcosa dunque capace di farsi veicolo di
alterità rispetto al linguaggio quotidiano o a quello letterario stesso.34
In accordo con il pensiero medievale ebraico, Benjamin sostiene che la visione del
linguaggio come medium di un contenuto spirituale sia da ricercare nella sua origine di
«pura lingua» o di una «lingua dei nomi» la cui prerogativa è quella di nominare le
cose. In questo senso è al verbo creatore di Dio che si riferisce l'ideale di una lingua
incorrotta. Innanzitutto, tale forma del linguaggio si distingue decisamente da quella
forma del linguaggio, definita “borghese”, in cui la lingua mantiene i soli caratteri di
strumento comunicativo tra un messaggio ed un destinatario. Solo la lingua, quella del
paradiso terrestre, è in grado di sviluppare un linguaggio la cui unica natura sia quella di
nesso spirituale con le cose, analogamente al linguaggio divino della creazione, che
appunto crea le cose nominandole. La corruzione cui il linguaggio va incontro nel
33 Per un approfondimento della tematica ebraica nella teoria linguistica di Benjamin si confronti il testo
già citato di Scholem, nota 1. Per una contestualizzazione relativamente più ampia del tema all'interno
della biografia di Benjamin: cfr. G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità.,Einaudi,
Torino, 2001, in particolare pp. 52-62.
34 Ivi, p. 59.
14
tempo presente è appunto quella della diaspora linguistica generata dalla “cacciata”
dall'Eden. Tale decadimento si esprime attraverso la frammentazione biblica delle
lingue nella torre di Babele. Sicché dalla purezza della lingua pura, che come quella
divina, nominando crea, il linguaggio umano sprofonda in una conoscenza, quella cui
seduce il serpente biblico, che è senza nome. La natura stessa ha perso la sua lingua
paradisiaca, il mutismo della natura si esprime in un muto lamento per una
comunicazione non più articolabile attraverso un linguaggio puro.
La confusione babelica delle varie lingue storiche sancisce la gravità dello iato con
lo stato paradisiaco in un antagonismo irriducibile tra «nomi» e «parole»,
emergendo in tutto il suo potere demonico.35
La teoria del linguaggio di Benjamin sta in questo senso, tesa dialetticamente tra
l'elevatezza del concetto di nome, lingua immediatamente creativa e comunicante, che si
da nella sua «intatta nobiltà denominativa», e le lingue del tempo presente, che vivono
nella dimenticanza della propria origine. In questo contesto, ancora una volta, il ruolo
della critica è quello di purificare le lingue corrotte, o ricercare l'origine delle cose «e di
servirsi di esse come se il passato e il presente recassero la segnatura o la traccia per
redimere il futuro del linguaggio stesso»36. Non si tratta qui, di riscoprire eventuali
residui “adamitici” , irrimediabilmente perduti, nelle lingue codificate, ma di indirizzare
il pensiero verso la consapevolezza dell'irrimediabile perdita, in uno sforzo che si vuole
comunque indefinito, ma che non può tuttavia mai raggiungere la purezza della lingua
originaria. Nel linguaggio di Benjamin:
La lingua non viene elevata a rivelazione dell' Essere […], essa non dispone di
alcuna “forza nominale intatta”, che sarebbe disponibile per il pensiero in modo
che questo possa “riconquistarla” […]. La filosofia diventa teologia negativa: non
può avere la presunzione di “parlare rivelando”, ma può soltanto custodire nel
rivelato il ricordo della rivelazione.37
Tale rivelato è ciò che per Benjamin costituisce il medium della lingua, ovvero l'essere
immediato del contenuto spirituale contenuto nella comunicazione. Nella lingua, e più
precisamente nel nome delle cose, splende un riflesso del verbo creatore. Il testo
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 61.
37 W. BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo, cit., p. 57.
15
benjaminiano risulta di difficile lettura, soprattutto al lettore che ignori il dettaglio della
teoria cabalistica del linguaggio, proprio riguardo alla possibilità, da parte del
linguaggio umano di cogliere, dopo la caduta costituita dalla diversificazione delle
lingue, un barlume del nome che Dio ha impresso alle cose nel processo della
creazione38. L'ebraismo peculiare di Benjamin, allevato in una famiglia di cosiddetti
“ebrei assimilati”, costituisce una tematica che non è possibile sviluppare pienamente in
questa trattazione, poiché la comprensione profonda di una materia, in vero
estremamente specialistica, potrebbe gettare una luce diversa laddove appare nel testo
benjaminiano. Ciò che è forse più importante ai fini della presente ricerca è cercare di
sintetizzare, a partire dagli scritti finora analizzati, un concetto coerente di critica, che
permetta di affrontare dei saggi successivi. L'enigmatico «nome divino» del saggio sul
linguaggio, la cui intuizione renderebbe evidente il contenuto cristallino ed originario
della cosa, dell'oggetto, dell'opera, va inteso come il marchio di verità che Dio ha
impresso alle cose nel verbo creatore; la lingua dell'uomo è in un oblio costante della
propria origine. Al critico che indaga entro tale frattura è possibile ritrovare una
relazione entro questi due livelli soltanto aprendosi all'ascolto di quella che Benjamin
stesso definisce evocativamente magia – si potrebbe parlare di una “relazione
immateriale” – operante tra la lingua pura e le lingue babeliche, e tra la lingua stessa
dell'uomo e le cose. Tale relazione è considerata da Benjamin alla stregua di un a priori
dell'esperienza: l'immagine del critico che si pone nel solco che separa linguaggio della
creazione e linguaggio del creato, a cercare di ricostruirne il nesso intimo, coincide con
quella del soggetto la cui esperienza del mondo si presenta come ricostruzione dei nessi
esistenti tra uno strato originale e recondito, ed una dimensione temporalmente
determinata, quale quella dei fenomeni o del tempo che li consuma, e che ne rende
necessaria una ricostruzione. Il fondamento linguistico dell'esperienza del mondo
presuppone uno spirito che percorre il mondo stesso, e questo spirito è essenzialmente
linguaggio. In questo senso l'indagine critica tra linguaggio divino e linguaggio umano,
che si articola entro l'esperienza, costituisce la sostanza stessa, il telos concettuale dello
scritto sul linguaggio. La missione del critico, che sta nel rendere giustizia alla verità
dell'opera, coincide con il destino dell'essere umano, la cui responsabilità storica è
quella di rendere giustizia ai fenomeni. In questo passaggio concettuale risulta forse
38 Più in generale nel contesto dello scritto sul linguaggio si affacciano prepotentemente tematiche
riprese dalla teologia e dalla mistica ebraica. In questo passaggio si è preferito incentrare il discorso
continuando una definizione del concetto di critica. Per un approfondimento della questione legata alla
teoria cabalistica del linguaggio si rimanda al testo già citato di Scholem, nota 1.
16
comprensibile come l'interesse di Benjamin si sposti, a seguito di anni travagliati come
quelli della prima guerra mondiale, entro l'ambito più stringente, eppure celato in
quanto menzionato finora, della teoria politica.
-Linguaggio, mito, violenza
Il problema del linguaggio e della sua duplice natura, da un lato divina e da un lato
umana, si ripropone in un contesto allargato, quello più strettamente politico della
violenza e del diritto. Proprio negli anni del primo dopoguerra, potremmo dire che lo
sforzo di Benjamin si concentra nel tentativo di orientare la sua ricerca, finora condotta
su una linea più strettamente metodologica e intrecciata con motivi teologici, nel senso
di una riflessione complessiva sul concetto di storia, la cui matrice si vuole di natura
etica e politica. In un certo senso si potrebbe dire che il tentativo di Benjamin concerne
la possibilità di attivare le potenzialità politiche implicite nel concetto di critica
elaborato a partire dal saggio sul romanticismo. Nelle lettere di quegli anni indirizzate a
Scholem ritroviamo testimonianze in cui lo stesso Benjamin dichiarava di apprestarsi ad
un ampio studio di natura politica: nel programma della Politik si inseriscono
inizialmente uno scritto, andato perduto, su La vera politica (Die wahre Politik) , una
critica filosofica del romanzo Lesabéndio di Paul Scheerbart, una corposa serie di
frammenti (tra cui anche, si suppone, quello riferito con il nome di Kapitalismus als
Religion, trattato in seguito) ed un saggio sulla Demolizione della violenza (Abbau der
Gewalt)39. Di questo progetto l'unico testo pubblicato in vita risulta un saggio, appunto,
Per la critica della violenza40 del 1921, uscito nel terzo numero dell' “Archiv für
Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, che era stato diretto da Werner Sombart e poi da
Heinrich Braun.
In questo scritto Benjamin approfondisce ancora il problema del linguaggio,
interrogandosi innanzitutto sulla violenza in rapporto alla comunicazione, e sul
significato del linguaggio del diritto così come del verbo che impone la giustizia divina.
Proprio sulla contrapposizione tra diritto e giustizia si gioca il saggio sulla violenza.
39 Per i riferimenti interni all'opera di Benjamin risultano illuminanti i carteggi, soprattutto con Scholem
e con Adorno. A tal proposito, per un approfondimento: cfr. W. BENJAMIN, Lettere (1913-1940), a
cura di A. MARIETTI, Einaudi, Torino, 1978.
40 Cfr. W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt (1921), trad. it. Per la critica della violenza, in Angelus
Novus. Saggi e frammenti., cit., pp. 5-30.
17
Innanzitutto va notato come il termine “Gewalt” del titolo tedesco (Zur Kritik der
Gewalt) non trova forse, nella semplice accezione di “violenza”, un corrispettivo
adeguato. In una accezione più ampia il termine può essere reso, a seconda dei contesti,
anche semplicemente come “autorità” o “potere”. L'analisi si pone quindi non solo
come una demolizione della violenza in ogni caso, ma anche come una ricognizione
intorno al significato stesso dell'autorità e del potere statale – o potremmo dire più
precisamente dell'ordinamento giuridico – dal punto di vista filosofico. Benjamin
evidenzia innanzitutto come una critica della violenza sia possibile proprio laddove, nel
campo del diritto, coincidono la dimensione etica e quella politica.
Dal punto di vista del giusnaturalismo, la violenza è un prodotto naturale, il cui impiego
non solleva direttamente un problema nel momento in cui vi siano fini giusti a
giustificarla. Alla violenza come dato naturale si oppongono le tesi della filosofia
positiva, che vuole la violenza e l'autorità come dati storici: su una base storica, la
violenza si distingue, per il diritto positivo, in violenza sancita come potere e violenza
non sanzionata. Le due scuole di pensiero si incontrano però in un punto decisivo: il
diritto naturale così come il diritto positivo considerano il mezzo necessario a
raggiungere un fine giusto come legittimo in ogni caso. Tendono ad unificare, e in
questo senso a “non criticare”, la dinamica di mezzo-fine, come originariamente
inscindibile.
Il diritto naturale tende a «giustificare» i mezzi con la giustizia dei fini, il diritto
positivo a «garantire» la giustizia dei con la legittimità dei mezzi. L'antinomia si
rivelerebbe insolubile ove si dimostrasse che è falso il comune presupposto
dogmatico, e che mezzi legittimi da una parte e fini giusti dall'altra sono fra loro in
contrasto irriducibile. Ma non si potrà mai arrivare a questa comprensione finché
non si abbandoni il circolo e non si pongano criteri reciprocamente indipendenti
per fini giusti come per mezzi legittimi.41
Al centro dell'indagine benjaminiana si pone pertanto il problema della legittimità di
determinati mezzi costituiti dalla violenza. Una critica del genere non può essere
costruita secondo i canoni di una logica giusnaturalistica o positiva, ma può costituirsi
solo all'interno di una filosofia critica che ne analizzi il fondamento, per così dire,
dall'esterno, cioè da una chiarificazione preliminare del termine di legittimità. Per il
giusnaturalismo la differenza tra violenza legittima ed illegittima ricade nella
41 Ivi, p. 6.
18
distinzione tra scopi giusti e scopi ingiusti, ma tale critica, a posteriori, non valuta mai
preliminarmente la legittimità immediata del mezzo. Tale concezione di violenza fa da
sfondo alla fase del Terrore durante la Rivoluzione Francese. Per il diritto positivo ogni
potere esistente e consolidato porta una sorta di attestato, quello della durata, che ne
giustifica a certe condizioni la legittimità. La questione della legittimità o illegittimità
della violenza nel contesto del diritto positivo si traduce nella distinzione di due tipi di
violenza: una violenza non sanzionata giustificata da fini naturali, e una violenza sancita
come potere, giustificata da fini giuridici, che è anche la violenza che sanziona, tramite
l'apparato giuridico, la violenza dei singoli come recante offesa all'ordinamento
costituito. Il riconoscimento di un potere costituito si attua, concretamente, nella
sottomissione passiva dei singoli rispetto alla violenza ordinatrice che genera diritto, e
nella sottomissione tacita ad una forma di violenza, quella che conserva l'ordinamento,
che impedisce la prevaricazione della violenza a fini naturali. I fini naturali sono quelli
che mancano di una legittimazione storica, ovvero di un apparato giuridico che
costituisca quella violenza come violenza legittima. La distinzione che Benjamin coglie
tra la violenza sanzionante e quella non sancita si traduce nella distinzione tra una
violenza che pone diritto o una violenza che conserva diritto. La violenza che pone è
quella che sta all'origine del diritto giuridico degli stati. La sottomissione dei soggetti
consiste nell'alienazione dei propri fini naturali in quanto, presi singolarmente e
perseguiti coerentemente con violenza, mirano a rovesciare l'ordinamento giuridico. In
sostanza tutti i fini naturali dei singoli sono in collisione con l'ordinamento giuridico nel
momento in cui sono perseguiti con violenza. L'interesse dello Stato, in questo senso del
diritto costituito in generale, è quello di salvaguardare, attraverso la monopolizzazione
dei fini giuridici – e della violenza consumata in questa funzione –, se stesso contro dei
fini naturali che mirano a sostituire ai fini giuridici vigenti un nuovo ordinamento.
L'ordine costituito deve mettere in atto un meccanismo di coercizione o di violenza che
conservi lo stato di cose vigente. Lo Stato teme la violenza, soprattutto laddove questa
violenza ad esso antagonista interviene a mettere in dubbio un intero ordinamento
giuridico. Oppure, potremmo dire, teme semplicemente che la violenza pur contenuta di
un fine naturale singolo possa diventare pericolosa qualora si costituisca come proposta
di un nuovo ordinamento giuridico. È il caso della lotta di classe, in cui un tipo di
violenza che originariamente reclama determinati diritti all' interno di un ordinamento
giuridico, si trasforma in una violenza la cui proposta ultima è quella di rovesciare
l'ordinamento vigente, il quale nelle sue istituzioni non può neutralizzare
19
completamente la potenziale violenza rivoluzionaria ma solo gestirla attraverso il potere
relativamente arbitrario della polizia. Questa agisce secondo i principi della sicurezza e
della salvaguardia, come strumento della violenza che conserva diritto. Benjamin
sottolinea come il potere della polizia non abbia sostanza, sia quasi del tutto arbitrario,
nel senso che non è identico alla legge e non è neanche la sua applicazione, quanto
un'istituzione preventiva che in quanto tale, dal punto di vista tecnico, non ha nessuna
necessità sostanziale in uno stato democratico. La violenza della lotta di classe, come
violenza che pone, o mira a porre diritto, ha invece legittimità e sostanza non dissimili
dalla forma di violenza costituita che si cerca di rovesciare, e si propone pertanto come
unica alternativa possibile, qualora condotta secondo il giusto criterio.
La classe operaia organizzata è oggi, accanto agli stati, il solo soggetto giuridico a
cui spetti un diritto alla violenza. Una considerazione che ha facilitato al potere
statale la concessione del diritto di sciopero, quando ormai non si poteva più
evitare.42
Da un punto di vista storico il saggista tedesco si affida, per accennare a quelli che
potrebbero essere mezzi puri della politica, in analogia al mezzo puro per eccellenza – il
linguaggio ovvero il mezzo da cui la violenza è totalmente epurata -, alle
argomentazioni di Sorel nelle sue Réfléxions sur la violence43.
Questi distingue due tipi diversi di sciopero: lo «sciopero generale politico» e lo
«sciopero generale proletario». Il primo manifesta innanzitutto la volontà di un
rafforzamento dello Stato, nel senso che si propone una modificazione del diritto che
integri le istanze dello sciopero. Rispetto a questo, lo sciopero generale proletario, si
pone come obiettivo quello opposto di distruzione dell'ordine statale, poiché si oppone
direttamente alla logica della sottomissione implicita in ogni ordinamento, dal cui
governo la classe operaia è sempre stata esclusa. In sintesi, il primo tipo di sciopero
propone una modifica al diritto o una sostituzione dello stesso, il secondo tipo di
sciopero è anarchico, è pura e semplice rivolta contro il concetto stesso di ordine
costituito. Ancora una volta non esiste soluzione di continuità tra una possibile
mediazione e una conservazione di un determinato ordine. Tale contraddizione
attraversa per Benjamin tutta la sfera del diritto: l'esempio dello sciopero generale
42 Ivi, p. 10.
43 G. SOREL, Réfléxions sur la violence (1906), trad. it. Riflessioni sulla violenza, a cura di M.
MERIGGI, BUR Rizzoli, Milano, 1996.
20
proletario ne è la prova paradossale, nel senso che lo sciopero si pone dapprima come
manifesto di un malcontento politico, ma si trasforma poi, secondo la definizione di
Sorel, in una rivoluzione informe e senza punto di riferimento, poiché nel rivendicare
l'indeterminatezza del diritto introduce anche l'ambiguità riguardo ad ogni singolo
diritto. È il paradosso moderno – e allo stesso tempo anche classico - della libertà in una
società complessa.
Lo sciopero generale proletario, che idealmente incarna una politica dei mezzi puri,
riattualizza lo scenario altalenante tra una violenza che pone ed una che conserva.
Benjamin distingue un diritto alla sciopero riconosciuto dallo Stato e uno sciopero,
quello generale e rivoluzionario, che è direttamente antagonista alle prerogative dello
Stato. Nello sciopero generale rivoluzionario, in cui l'esercizio di un diritto sancito si
potenzia per diventare una posizione politica e allo stesso tempo esprime una volontà di
rovesciare il diritto nei termini vigenti, lo Stato deve necessariamente vedere una
minaccia. In questo caso il fine naturale di una classe, se si considerava gestito dallo
Stato nei termini di un diritto, si costituisce esso stesso come fine giuridico. La classe
operaia si costituisce come classe politica, che riunita nello sciopero rivoluzionario, si
mostra decisa, qualora operi con violenza, a sostituirsi, come fine giuridico, in toto
all'ordinamento giuridico vigente e operante nei mezzi dello Stato. Come a dire che lo
sciopero rivoluzionario si trova, in seno al diritto stesso, come polo alternativo del
monopolio della violenza, rispetto a quello di un ordinamento che esprime, secondo
questa logica ciclica, una spinta perennemente conservatrice.
Il paradosso espresso in questa situazione si spiega in parallelo con un esame della
violenza di guerra. La violenza bellica è possibile proprio laddove i soggetti giuridici
sanzionano poteri che in opposizione a loro giudicano guidati da fini naturali. Ma così
come nel caso dello sciopero rivoluzionario ciò che trasforma il fine naturale ostile in un
pericolo reale è il fatto che l'ostilità coinvolge gli stessi fondamenti giuridici
dell'ordinamento contestato. La violenza espressa attraverso l'esercito in caso di guerra
è, da entrambi i lati, una violenza con fini giuridici più che strettamente naturali. Anzi
potremmo dire che nel contesto bellico, così come nel caso dello sciopero generale
politico, la violenza esercitata si articola in questi due stadi, il fine naturale e quello
giuridico. Benjamin individua a questo punto, nel carattere mutante della violenza
politica e rivoluzionaria, una distinzione basilare ai fini della sua critica, quella tra
violenza conservatrice di diritto e violenza che mira a porre un nuovo diritto.
È in questo senso che la critica di Benjamin si pone in certo modo “contro” il pacifismo
21
generalizzato che aveva seguito il primo conflitto mondiale, nel senso che una critica
totale della violenza deve costituirsi come critica di ogni “Gewalt”, di ogni autorità che
si impone con il potere, e non come condanna di aspetti singoli della violenza in se.
E poiché il servizio militare è un caso di applicazione (per nulla distinto in linea di
principio) della violenza conservatrice di diritto, una sua critica veramente efficace
non è per nulla così facile come vorrebbero far credere le declamazioni dei pacifisti
e degli attivisti. Essa coincide piuttosto con la critica di ogni potere giuridico, vale
a dire con la critica dl potere legale o esecutivo, e non può essere realizzata con un
programma minore. È anche ovvio che essa non può essere realizzata (se non si
voglia proclamare un anarchismo addirittura infantile), rifiutando ogni coazione nei
confronti della persona e dichiarando «essere lecito quel che piace».44
La critica al pacifismo esercitata da Benjamin45 si rivolge, a ben vedere, a qualsiasi
concezione di “libertà” che non sia in grado di definire un ordine (di diritto) superiore
entro la quale una libertà possa esercitarsi. Tale contraddizione, cui va incontro una
critica solo formale della violenza, è evidente nella questione della pena di morte, in cui
un singolo provvedimento giudiziario può essere isolato come termine particolare di
critica, ma solo per rivelare, in secondo momento, la necessità di una critica che
coinvolga un intero ordine di cose, dal punto di vista dello Stato ma anche da quello
della morale. Nella pena di morte si manifesta il potere di vita e di morte che
l'ordinamento giuridico, nella forma di una «violenza coronata dal destino» 46, esercita
paurosamente sulla sorte dei singoli. Il potere esecutivo pende sulla violenza esercitata a
fini anticostituzionali come potere di annientare o lasciar vivere. Nel caso della pena di
morte si mostra lampante come la violenza che conserva il diritto debba ricorrere, in
ultima istanza, all'annientamento dell'elemento ostile, laddove il suo perseguire con
violenza fini naturali o anche politici, sia chiaramente distruttivo nei riguardi
dell'ordinamento statale. In un certo senso l'istituzione della polizia, nello stato
moderno, si trova a definire, in quanto termine medio tra il singolo e la violenza dello
Stato, il campo vago ed arbitrario in cui fini naturali e fini anticostituzionali si
mescolano.
44 Ivi, p. 13.
45 In tale impostazione critica si può forse rintracciare uno dei motivi dell'ostilità, forse dovuta ad una
cattiva ricezione, cui gli scritti di Benjamin andarono incontro negli anni '60-'70, in alcuni ambienti
legati alle contestazioni politiche di quegli anni.
46 Ivi, p. 15.
22
Essa è bensì un potere a fini giuridici (con potere di disporre), ma anche con la
facoltà di stabilire essa stessa, entro vasti limiti, questi fini (potere di ordinare).
L'aspetto ignominioso di questa autorità – che è avvertito da poco solo perché le
sue attribuzioni bastano di rado agli interventi più massicci, ma possono operare
tanto più ciecamente nei settori più indifesi e contro le persone accorte da cui le
leggi non proteggono lo Stato – consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione
tra violenza che pone e violenza che conserva la legge […]. La polizia è
emancipata da entrambe le condizioni [...]. L'affermazione che gli scopi del potere
di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto,
è profondamente falsa47.
Il potere «spettrale» della polizia nello stato moderno non ha, secondo Benjamin, un
rapporto diretto con il diritto inteso come ordinamento dei fini giuridici – lo Stato
nell'esercizio del potere giuridico ed esecutivo – in quanto interviene «per ragioni di
sicurezza», preventivamente laddove una situazione degenera in una violenza, il cui fine
viene giudicato secondo il grado del suo portato anticostituzionale e in generale ostile
alla permanenza stessa di uno stato di diritto. In altre parole, il fine naturale del singolo
viene perseguito a mezzo di violenza, in modo tale da travalicare l'ambito del semplice
reato contro il prossimo, per diventare un reato a fini anticostituzionali, un'offesa in ogni
caso all'ordinamento giuridico in toto48. In questo senso si può forse ricomprendere il
valore dell'affermazione secondo la quale lo spettro del controllo poliziesco è meno
distruttivo dove questi riafferma semplicemente il detto, o il potere del sovrano – la
situazione tipica della monarchia assoluta – che nelle democrazie, dove la sua presenza
non è poggiata sullo stesso rapporto, ed esercita piuttosto il suo potere, non delimitato
poiché inserito in un contesto in fin dei conti discrezionale ed arbitrario.
A questo punto dello scritto Benjamin si domanda, sulla scorta della sua riflessione
precedente e accennando alla questione parlamentare nella Germania di quegli anni, se
esista un ambito entro il quale i conflitti interni o esterni al diritto costituito si possano
47 Ivi, pp. 15-16.
48 Si potrebbe notare a questo proposito una prossimità tra il potenziale ruolo della polizia – laddove si
voglia espandere questo potere discrezionale al campo del privato, ovvero dove si potrebbe annodare
la possibilità intima della violenza – e il concetto di biopolitica o bio-potere, sviluppato a partire da
Foucault attraverso la filosofia a noi contemporanea, e che proprio in questi passaggi benjaminiani
trova un archetipo concettuale. Per un approfondimento in questo senso si vedano, oltre all'opera di
Benjamin stesso: cfr. M.FOUCAULT, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979), a cura di F. EWALD, Feltrinelli, Milano, 2009. Nel contesto della critica all'istituzione
poliziesca, e più in generale nella critica all'autorità statale nella sua degenerazione della violenza ai
fini conservativi, si può forse vedere uno degli aspetti “profetici” di Benjamin, che in questo senso
percorre e anticipa alcuni sentieri del pensiero politico contemporaneo e dell'immaginario della
distopia totalitarista nel XX secolo.
23
risolvere senza ricorso alla violenza, o se, in altre parole, la violenza sia l'unica modalità
di confronto quando si tratti di considerare il valore ultimo di un determinato
ordinamento giuridico o anche di una determinata modalità di fare politica. Ritorna in
questo contesto il linguaggio, come mezzo non violento per definizione, che come
mezzo puro è strumento di una soluzione mediata o da mediare – da interpretare quindi,
secondo il concetto di critica desunto dal saggio sul linguaggio – dei conflitti.
Nel linguaggio, inteso anche come conversazione, è possibile la soluzione non violenta
dei conflitti. Nelle caratteristiche che Benjamin assegna in questo passo al linguaggio
ritroviamo forse un modello di quella che l'autore doveva considerare “la vera politica”,
nel senso che il decadimento del linguaggio nella risoluzione dei conflitti politici
determina quella che per Benjamin è una situazione di crisi costante. Quella che
Benjamin accenna qui come «politica dei mezzi puri»49 e che non spiega oltre, è forse
un prototipo da cui partire per sviluppare, come tenterà in seguito la presente
trattazione, una collocazione della dimensione politica nel contesto allargato dell'opera
di Benjamin. In una dimensione di continuità con quelle che saranno le tematiche
successive della produzione benjaminiana, si colloca anche la riflessione, che conclude
il saggio sulla violenza, sulla violenza mitica.
La distinzione tra violenza creatrice di diritto e violenza conservatrice fa da battistrada
all'ascesa di un terzo tipo di violenza, ovvero la violenza divina, intesa come la giustizia
vera e propria.
La prima differenza concettuale fra violenza che crea e conserva diritto e violenza
divina è che quest'ultima non interviene laddove c'è un potere costituito a porre nuovo
diritto, ma interviene a negare la sfera del diritto in quanto tale, scandita in essa nei soli
momenti eterni della creazione e della conservazione. La violenza divina, in quanto
indifferente alle prerogative dei vincitori e dei vinti, si differenzia totalmente dal piano
politico. Dal punto di vista ideale essa sta alla giustizia così come, rispetto al diritto, sta
la sfera del mito.
Il mito interviene nell'argomentazione benjaminiana come il campo delle manifestazioni
oggettive e per così dire metastoriche della violenza. La violenza mitica giace su un
dogma differente da quello paradossale dell'ordinamento giuridico così come era stato
per il giusnaturalismo e per il diritto positivo. Quella del mito rappresenta piuttosto un
modello di violenza che, rappresentando una manifestazione del divino nella sfera dei
rapporti umani, offre l'immagine costante del paradosso tra diritto e giustizia. In questo
49 Ivi, p. 20.
24
punto Benjamin intende dimostrare come, se si riuscisse a spiegare la violenza del mito
nei termini della violenza che pone diritto, il suo problema si risolverebbe in quello
della violenza che crea e afferma un diritto – la funzione della violenza nel porre un
ordinamento giuridico – , come è il caso della violenza bellica di uno Stato di diritto
contro un altro. Alla luce di tale considerazione:
La funzione della violenza nella creazione giuridica è, infatti, duplice nel senso che
la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come
scopo con la violenza come mezzo, pure, – nell'atto di insediare come diritto lo
scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso
stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come
diritto, col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla
violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto è
creazione di potere, e in tanto un atto di immediata manifestazione di violenza.
Giustizia è il principio di ogni finalità divina, potere il principio di ogni diritto
mitico.50
La ricognizione sulla violenza mitica, quindi, anziché gettare una luce sul contenuto di
purezza del mezzo, sembra rivelare un tipo di violenza immediata, diretta espressione
degli dei, ma allo stesso tempo identica al potere giuridico, e il sospetto della sua
enigmaticità si rivela nel pericolo della sua attualità, qualora si applichi storicamente. La
violenza mitica rappresenta, in sintesi, un archetipo della violenza che pone diritto, cui
si connatura inevitabilmente un'attitudine che potremmo chiamare, a ragione,
“conservatrice”. Il compito di una politica dei mezzi puri sarà allora, in ultima istanza,
quella di accordarsi il più possibile ad un tipo di violenza che sia antagonista alla
violenza del mito, che sia quanto più vicina ai caratteri della violenza divina – la vera
giustizia –, ovvero che si ponga come ideale l'attuazione di un ordine di diritto che si
ponga al di là della logica mitica, e che sia autorità senza potere (gewaltlos Gewalt).
Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e
confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella
divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa,
questa è letale e senza sangue.51
50 Ivi, p. 24.
51 Ivi, p. 26.
25
L'assenza di sangue della violenza divina non si contrappone a quella sanguinosa del
mito come sua semplice negazione, ma assume in questo punto della riflessione un
significato decisamente nuovo.
Il fulcro è l'assenza di sangue della violenza divina. Ciò non perché Benjamin
abbracci una visione umanitaria da contrapporre alla violenza del diritto. L'assenza
di sangue non si contrappone alla violenza come la sua semplice negazione. Il
sangue qui è il segno della nuda vita afferrata nella colpevolezza.52
La colpevolezza della nuda vita è quella in cui la vita degli individui è destinata a
permanere, nel momento in cui sia sottoposta all'influenza del mito e della violenza
mitica che costantemente permangono e incombono sulla vita, presa entro questo
meccanismo demonico. La ripetizione della violenza mitica si esplicita nel suo carattere
perennemente incombente, nella non remota possibilità che intervenga costantemente
una violenza che pone e conserva diritto richiamandosi, in ultima istanza, al valore
conservativo del mito. E in quest'ottica la violenza del mito è quella che incatena la vita
storica dell'uomo al suo destino così come alla sua essenza giuridica, nuda vita da
governare attraverso la costante autoaffermazione del potere 53.
La violenza divina come incarnante il concetto di giustizia è ciò a cui Benjamin
perviene nella ricerca di un'autorità che sia senza violenza, o meglio che non implichi
nella sua esecuzione il ricorso ad uno spargimento di sangue – proprio del mito – o ad
un sacrificio rituale la cui funzione è quella in ogni caso di restaurare, attraverso un
ordinamento, l'autorità di un diritto54. È necessario pertanto, nel tentativo di pensare una
soluzione che apra uno spiraglio di alterità sulla storia umana, pervenire
all’elaborazione di una diversa temporalità storica. In questo senso l'operazione di
Benjamin è quella di introdurre il concetto del messianico inteso come momento di
interruzione della temporalità storica. La giustizia viene allora a coincidere con la
possibilità dell’interruzione temporale apparentata da Benjamin alla violenza divina, al
52 B. MORONCINI, Walter Benjamin e la moralità del moderno, cit., p. 44.
53 Il concetto di nuda vita (bloß Leben) rimane da inquadrare più precisamente nel contesto allargato
dell'opera di Benjamin. In questa fase della sua produzione, anche in relazione alla riflessione sul
capitalismo, questo concetto racchiude, pur senza essere sviluppato meglio, il senso del vivente preso
nella morsa della violenza di diritto che si ripete. Per una ricognizione più ampia e forse più attuale sul
concetto in sé di «nuda vita», si rimanda al noto testo di Agamben al riguardo: cfr. G. AGAMBEN,
Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita., Einaudi, Torino, 2005, in particolare pp. 72-96.
54 Si potrebbero ricercare più approfonditamente le relazioni che intercorrono tra mito e diritto. Per un
approfondimento in tal senso, anche in una relazione possibile con il discorso di Benjamin: cfr. R.
GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992.
26
giudizio di Dio, che nella sua trascendenza redime lo spargimento di sangue della
violenza mitica – o anche, il ripetersi dell'autorità come potere imposto –, esercita una
violenza capace di interrompere il ricorso della violenza fenomenica dominata dalla
legge del più forte.
All'epoca in cui Benjamin sigillava, con il saggio Per la critica della violenza, il suo
progetto di una filosofia politica, o meglio appunto di una critica filosofica – la critica
come speculum della filosofia - che potesse rendersi utilizzabile ai fini di una “vera
politica”, l'orizzonte giuridico e culturale era quello di un rampante capitalismo, intento
a ricostituire, a partire da una pace pur necessaria alla riapertura dei mercati, il suo
ordine del discorso come unico orizzonte.
Se consideriamo le contingenze storiche in cui scrive Benjamin, il carteggio con
Scholem che testimonia in questo periodo la volontà di far procedere alle sue riflessioni
una critica ulteriore sul presente, che non lasciasse dubbi sul contenuto di attualità delle
sue teorie, se consideriamo l'affinità di linguaggio e di temi, possiamo certamente
concordare con Uwe Steiner55 quando include nel progetto della “vera politica” il
frammento, composto presumibilmente intorno al 1921, e recante a margine una nota da
cui il titolo, ovvero Capitalismo come religione56.
Il frammento muove dalla celebri tesi esposta da Max Weber nello scritto sull'etica
protestante, secondo la quale il capitalismo trova la sua genesi essenziale nello spirito e
nell'etica del protestantesimo e in particolare nel calvinismo. Il capitalismo è per Weber
una secolarizzazione dell'etica protestante, nella misura in cui la dottrina della salvezza
per sola fide lascia agli uomini, per così dire, un largo arbitrio nelle questioni
strettamente pratiche, per trasferire il rapporto con il divino ad una dimensione sempre
più soggettiva ed interiore. Il capitalismo costituisce la summa culturale di un sistema
etico in cui sono centrali la dimensione del destino e quello della fede. Benjamin si pone
decisamente in opposizione, o meglio supera la visione weberiana sostenendo che il
capitalismo si presenta non come una secolarizzazione, nel senso appunto di
sublimazione a livello culturale e mentale dell'etica protestante, quanto come un vero e
proprio fenomeno con caratteri di religione.
Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve
55 Cfr. U.STEINER, “Der wahre Politiker. Walter Benjamins Begriff des Politiker”, in Internationales
Archiv für Sozialgeschichte der Literatur, n.25, IASL, Wien, 2000, pp. 48-92.
56 Per una breve ricognizione sulla collocazione del frammento nell'opera di Benjamin, oltre all'articolo
di Steiner: cfr. C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come
religione”, in W.BENJAMIN, Kapitalismus als Religion (1991), trad. it. Capitalismo come religione,
il Melangolo, Genova, 2013, pp. 7-37.
27
essenzialmente all'appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un
tempo davano risposta le cosiddette religioni.57
L'affermazione di un carattere religioso del capitalismo condurrebbe ad uno studio
smisurato sui criteri secondo i quali si possa parlare di religione o meno. La critica
benjaminiana non è però rivolta al concetto stesso di religione, quanto a trovare nel
capitalismo degli elementi che possano permettere di parlarne come un fenomeno
religioso. Innanzitutto il capitalismo si presenta come una “religione” di carattere
cultuale, nel senso che non avendo dogmi o concetti chiave, la pratica del capitalismo si
attua innanzitutto attraverso il suo culto, che passa attraverso l'accumulo, il consumo, la
spinta al progresso; il culto è permanente, e si esercita senza interruzione né tregua,
senza distinzione tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma anzi il culto consiste proprio
nell'onorare quotidianamente quell'unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, dedito alla
venerazione del Dio-denaro; un terzo aspetto è che il culto capitalista non si dirige alla
redenzione o all'espiazione di una colpa, ma all'accumulo della colpa stessa, sempre da
espiare, attraverso l'unico sacramento della religione capitalista (il credito-debito).
Proprio in questo terzo aspetto è possibile cogliere un ultimo aspetto, relativo
all'escatologia del capitalismo stesso. Proprio perché questi tende indefinitamente non
ad una liberazione, ma alla ripetizione del culto stesso, il capitalismo come religione
non mira alla trasformazione del mondo quanto al consumo indefinito dello stesso. Ciò
che nelle religioni propriamente dette risiedeva in una dimensione altra dalla vita
mondana, viene a mancare nel capitalismo, che annulla il campo del trascendente fino
ad inglobare Dio stesso entro la propria logica. Si potrebbe dire che l'idea di Dio sta alle
religioni classiche come il denaro sta al culto capitalista. In questo senso è forse
comprensibile la dinamica di perenne colpevolizzazione/indebitamento propria della
struttura del capitalismo. Quest'ultimo punto risulta incompleto qualora non si spieghi
ciò che Benjamin intende per colpa. Nel testo tedesco il termine utilizzato (Schuld) in
riferimento al concetto di colpa si trova, come afferma Benjamin stesso, nell'ambiguità
tra la colpa e il debito verso qualcuno. Questo termine ricorre spesso nella produzione di
quegli anni, ed è probabilmente influenzato dall'uso che ne fa Hermann Cohen 58. In
Benjamin il concetto di colpa si connette, nel culto capitalista visto come unico
orizzonte della storia, all'intreccio tra destino e diritto. Entrambi questi concetti
57 W. BENJAMIN, Capitalismo come religione, cit., p. 41.
58 Per un approfondimento relativo a questo punto: cfr. H. COHEN, Etica della volontà pura, a cura di
G. GIGLIOTTI, ESI, Napoli, 1994.
28
appartengono alla sfera del mito, e la ripetizione di tale dinamica è ciò che costituisce
appunto l'unicità dell'orizzonte entro cui si sviluppa, nel nostro tempo, il culto
capitalista, che non conosce alterità così come non conosce giorni feriali.
Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non espia il peccato,
ma crea colpa/debito. In ciò questo sistema religioso è preso nel gorgo di un
movimento spaventoso. Una coscienza spaventosamente colpevole, che non sa
come espiare, si afferra al culto, non per espiare in esso questa colpa/debito, ma per
renderla universale, per conficcarla a forza nella coscienza e, infine e sopra ogni
cosa, per implicare Dio stesso in questa colpa/debito, al fine di suscitare in Lui
stesso interesse per l'espiazione […]. L'essenza di questo movimento religioso che
è il capitalismo implica perseveranza fino alla fine, fino all'ultima e completa
colpevolizzazione/indebitamento di Dio, fino al raggiungimento di una condizione
di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera.59
Il culto capitalista, in quanto costantemente colpevolizzante e assieme indebitante,
introduce la demoniaca ambiguità che consiste appunto nel paradosso di una religione
che non espia, che prende a credito una fede cieca laddove questa fede è quantificabile
nell'utile prodotto. Al paradigma della semplice secolarizzazione così come esposto da
Weber, Benjamin sostituisce la dinamica della metamorfosi, che dal cristianesimo
conduce direttamente alla conformazione del capitalismo così come lo intende. Da
notare come qui la critica del saggista tedesco non si rivolge direttamente contro il
concetto di religione quanto nei confronti di una determinata struttura, dai tratti
vagamente paganeggianti, che viene individuata come religione.
Nella visione di Benjamin, Nietzsche, Marx e Freud, definiti altrove “maestri del
sospetto” in filosofia, sono definiti come i tre sacerdoti del culto capitalista, poiché con
le loro argomentazioni pur illuminanti aprono di fatto la via alla disperazione che è una
condizione caratteristica della religione capitalista.
Se questo culto, come abbiamo brevemente osservato, non produce un'apertura,
un'alterità che altrove è rappresentata dall'espiazione della colpa o dall'esistenza di un
altro mondo, almeno ideale, che neghi l'ordine del presente, l'orizzonte della storia
occidentale è possibile, seguendo Benjamin nell'argomentazione che include Nietzsche,
Marx e Freud, soltanto nell'orizzonte della distruzione di ogni tipo di ordine, o che
quantomeno neghi totalmente, e non cerchi una modifica o un abiura, rispetto alla fede
capitalista. Così come la violenza mitica nel saggio sulla violenza ritornava
59 W. BENJAMIN, Capitalismo come religione, cit., p. 43.
29
costantemente ad imporsi, strutturando un apparato concettuale e sviluppando allo
stesso tempo una presa sulla realtà che ne trasfigurasse a sua immagine i caratteri, il
culto capitalista è incessante e non ammette altro orizzonte. Il frammento si conclude
con ulteriori annotazioni metodologiche sul concetto di colpa, e su come il capitalismo
discenda dal cristianesimo. Per comprendere meglio come tale parassitismo si realizzi,
può forse aiutare leggere, come fa Agamben in un articolo apparso su “Lo Straniero” di
Fofi60, il culto capitalista come religione totalmente fondata sulla sola fede, nel senso
che il capitalismo ha eliminato in se ogni dogma od oggetto esterno di venerazione, Dio
compreso, per fondarsi essenzialmente solo sul suo svolgimento rituale, così come il
cristianesimo della riforma, secondo Benjamin, si è emancipato da ogni oggetto ed ha
emancipato la colpa da ogni idea diretta di peccato, e quindi da ogni possibile forma di
redenzione o espiazione.
In sintesi, per Benjamin, il cristianesimo così come il capitalismo non ammettono una
vera e propria liberazione nell'ambito della storia, poiché si emancipano da un oggetto
di diretta venerazione, trasferendo l'esercizio della proprio fede interamente
nell'apparato cultuale. Potremmo dire diversamente:
Il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito
– cioè nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si
è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è
una religione in cui il Dio è il denaro.61
Nel trasferimento degli attributi del Dio cristiano alla forma del denaro come «forma
pura del credito», e nel meccanismo di perenne colpevolizzazione/indebitamento che il
fedele, potremmo dire letteralmente, paga alla sua divinità, il capitalismo compie la sua
metamorfosi dal cristianesimo. Se si volesse analizzare il valore teologico del culto
capitalista, si dovrebbe tuttavia notare che, per il fatto stesso che la trascendenza del
concetto di Dio perde il suo valore in un sistema di culto in cui il Dio è immanente –
banconota tangibile, allo stesso tempo attestato di credito e promessa di debito –, il
“capitalismo come religione” può rappresentare in ultima istanza una paganizzazione
del cristianesimo stesso.
Il culto capitalista, in quanto colpevolizzante/indebitante, appartiene all'ambito
60 Cfr. G. AGAMBEN, Benjamin e il capitalismo, in “Lo Straniero”, n.155, Contrasto, Roma, maggio
2013.
30
delle religioni pagane e, con la sua universalizzazione della colpa/debito, ricaccia
l'umanità in uno “stadio demonico”62.
In questo senso il capitalismo può essere visto, rileggendo il saggio sulla violenza, alla
stregua di quel mito che perennemente ricorre nella violenza conservativa – quella cioè
che stabilisce e conserva un ordinamento di diritto, di cui abbiamo precedentemente
evidenziato il paradosso. Se lo stesso Dio è compreso, attraverso la trasposizione nel
Dio-denaro, nella logica della colpa/debito, l'espiazione non può essere trovata
all'interno del capitalismo stesso. Anzi per Benjamin è necessario sviluppare un discorso
– una politica, così come una critica – che sia totalmente differente dalla logica del
cristianesimo così come del capitalismo. Qualsiasi pensiero strutturato a partire da una
determina logica, che non operi una critica corrosiva nei confronti di quello stesso
meccanismo di pensiero, risente di una relazione di dipendenza con la logica della
struttura di base. È questo per Benjamin, lo scacco che pagano il Superuomo
nietzscheano così come la classe proletaria in Marx e il soggetto in Freud: bisogna
notare come la natura sintetica del frammento non permetta di escludere a priori,
dall'opera precedente o posteriore del saggista tedesco, l'influenza di tre autori
considerati altrove padri della modernità. Tuttavia è con coerenza che viene affermata la
sconfitta, forse inavvertita ma bruciante, di qualsiasi logica che pur proponendosi come
superamento o abiura di un ordine stabilito, ricade pienamente nei meccanismi logici di
quel sistema.
Una via d'uscita va cercata, non solo all'interno del frammento sul capitalismo, in quella
che Benjamin definisce come una svolta radicale. Se vogliamo accettare l'ipotesi
secondo cui tale frammento si colloca nel progetto benjaminiamo della Politik, una
svolta potrebbe essere rappresentata dalla “vera politica”, che potrebbe farsi fronte di
una rottura radicale con la logica del perenne indebitamento. Non avrebbe lo stesso fine
una religione che, per quanto “vera”, si proponesse come superamento della precedente.
Ancora una volta nella costellazione di testi che costituiscono il piano immaginario
della Politik, e precisamente nel saggio sulla violenza precedentemente analizzato, a
proposito del parlamentarismo e della politica liberal-democratica, viene fornita
un'indicazione su una politica che tenga conto di «ordini superiori» e si svincoli dal
61 Ivi.
62 C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come religione”, cit., p.
19.
31
«circolo mitico della violenza» 63.
In Per la critica della violenza questa cesura storica […] mira a fondare una
“nuova epoca storica” e si articola sulla de-posizione ( Ent-setzung ) dell'ordine
mitico del diritto mediante quella che Benjamin chiama alternativamente (ed
enigmaticamente) “violenza pura”, “violenza divina” o “violenza rivoluzionaria”,
la cui funzione è però quella di interrompere il ciclo mitico della violenza64.
Il compito filosofico inscritto nella prima parte della produzione benjaminiana può forse
condensarsi proprio in questo svincolarsi dal mito, dalla sua logica così come dal suo
immaginario. È un avversario che va riconosciuto, come mostra la critica a Nietzsche o
Marx nel contesto del frammento sul capitalismo, oltre l'apparenza, poiché anche
laddove sembra essere in atto una contestazione dal profondo nei confronti dell'autorità
– e a maggior ragione dell'autorità del culto capitalista – può annidarsi un meccanismo
mitico che nella sua spinta al cambiamento non propone nient'altro che una nuova
autorità. La “vera politica” si basa in ultima istanza sul modello della critica poiché mira
a dissolvere, a corrodere il potere stesso come un'opera leggibile tra le pieghe più
recondite. Con la critica, condivide il suo portato di responsabilità, nel senso che la vera
critica così come la vera politica, implicano una responsabilità morale nei confronti
della filosofia, così come anche della tradizione. Questo carattere sarà conservato
quando la ricerca di Benjamin, nel secondo periodo della sua produzione, si orienterà
più decisamente sul concetto di storia.
Per quanto riguarda il primo nucleo degli scritti benjaminiani, potremmo concludere che
ad una prima fase di riflessione più prettamente teoretica succede, nel progetto della
Politik , una visione che, seppur alimentata da componenti teologiche, si rivolge più
decisamente alla realtà storica contingente. Tuttavia anche tale tentativo di semplificare
il percorso di Benjamin per una lettura più agevole risulta forse inappropriato, nel senso
che la dimensione messianica e quella politica saranno costantemente intrecciate anche
nella produzione successiva e fino alla morte dell'autore. A questo proposito, e ancora in
relazione alla critica del capitalismo, può forse risultare utile accennare brevemente ad
un altro frammento, che si può accostare, seppure in un senso più emblematico e in
maniera filologicamente meno certa, al progetto della Politik.
63 Cfr. W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, cit., p. 19.
64 C. SALZANI, Introduzione. Politica profana, o dell'attualità di “Capitalismo come religione”, cit.,
p. 31.
32
Nel Frammento Teologico-politico65 Benjamin fonda il «compito della politica
mondiale» sulla costruzione di un «ordine del profano», e nega ogni valore politico alla
teocrazia. Se questa ha un significato meramente religioso, la sfera del politico deve
liberarsi dal sostrato teocratico – o dalla logica religiosa – che la caratterizza nel
capitalismo. Una “vera politica” sarà allora una “politica profana” nel senso che rompe
definitivamente con la logica religiosa, e in particolare con quella della
colpevolizzazione/indebitamento su cui si basa il capitalismo. Tale «ordine del profano»
va eretto sulla felicità, e quindi in opposizione alla disperazione che caratterizza l'uomo
della civiltà capitalista. Tuttavia l'esser profano di tale ordine politico non è forse totale,
nel senso che, se anche «l'ordine profano del profano» non fosse una categoria
messianica, rimane comunque una «categoria del suo più sommesso approssimarsi» 66.
Se l'ordine del profano non può in sé stabilire una relazione con il messianico, esso
contribuisce alla venuta del regno messianico proprio del suo essere secolare e
profano. La felicità su cui si erige l'ordine del profano è «il ritmo della natura
messianica», cioè la felicità permette il compimento del tempo storico, dal
momento che il regno messianico «non è la meta, ma la fine» della storia. Il
compito della politica mondiale è ambire a un totale, messianico trapasso del
saeculum, e il suo metodo, Benjamin conclude, deve chiamarsi nichilismo.67
La missione della politica a venire, coincide in Benjamin, come vedremo, con la
moralità del fare filosofico. L'operazione che il saggista tedesco non smetterà di tentare
nei confronti della politica o della storia stessa, è quella di una costante
secolarizzazione. Si potrebbe andare ancora oltre, sottolineando come, anche negli anni
successivi e attraverso il rapporto con il comunismo e il surrealismo, la missione del
pensiero benjaminiano si definisca nel recuperare - come il critico apparentato al
paleografo – il segreto di un discorso racchiuso tra le righe della realtà cosiddetta
immediata, e rispetto a quest'ultima in un rapporto di totale alterità . Ciò che Benjamin
tenterà negli anni successivi al 1924, e che sfocerà nella grande opera sui passages si
sviluppa a partire da queste basi concettuali. Il complesso di opere finora menzionate
rientra nella costellazione critica del primo Benjamin, e tuttavia, come accennato in
apertura, la frattura tra un primo e un secondo periodo non sarà mai netta. In un certo
65 Cfr. W. BENJAMIN, Theologisch-politisches Fragment (1991), trad. it. Frammento Teologicopolitico, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., pp. 171-172.
66 Ibidem.
67 C.SALZANI, 2013, cit., p. 32.
33
senso la secolarizzazione della sfera politica, e con essa del quotidiano, cui rimanda il
Frammento Teologico-politico, si spingerà ancora oltre, nel tentativo di disattivare ogni
sacralità residua nella sfera del potere, così come ogni sfondo mitico insito nei concetti
della politica. Proprio nel senso di una “demitologizzazione” si svolgerà la diatriba
concettuale con il surrealismo, che risulta centrale nell'analisi del percorso benjaminiano
poiché è da questo confronto che il pensiero del saggista tedesco trarrà spunto per
tentare, attraverso il Passagenwerk, di ricostruire la pergamena opacizzata che si cela
dietro le strutture manifeste del XIX secolo come preistoria del nostro presente.
- Per un'introduzione al rapporto con il surrealismo
I temi attraverso cui si dipana il rapporto di Benjamin con la città di Parigi e con il
movimento surrealista stanno iscritti nella sua biografia come nel suo itinerario
concettuale.
La prima migrazione verso la capitale francese avviene, nel 1926, a seguito di una serie
di viaggi compiuti, dall'agosto 1925, attraverso l'Europa (da Amburgo alla Spagna,
attraverso la Francia meridionale, e l'Italia fino a Napoli e Capri), nel periodo
successivo alla “disavventura” riguardante la sua abilitazione all'insegnamento. Questo
periodo rappresenta quello di una svolta nell'orientamento della vita e del pensiero di
Benjamin. L'esclusione dagli steccati accademici aveva costituito per la sua biografia
uno spartiacque, oltre che materiale per un capitolo a parte sulla sua opera, quello cioè
relativo al Dramma Barocco Tedesco e alla sua genesi. La Habilitation, necessaria per
conseguire la docenza nelle università della Germania weimariana, gli avrebbe
permesso una stabilità materiale che gli mancava. La carriera universitaria gli era
apparsa come un'occasione per veder legittimata la sua scelta di ricercatore e studioso,
anche nella forma di un sostegno materiale, a fronte di una dichiarata ostilità al lavoro
impiegatizio. Il progetto, come è noto, naufraga.
Benjamin si reca a Parigi, intenzionato ad un soggiorno prolungato, ma che sarà tuttavia
intermittente. Ciò che lo aveva spinto era innanzitutto la possibilità di lavorare con
Franz Hessel alla traduzione della Recherche di Proust, proprio nel luogo considerato
come ideale per questa impresa. L'occasione era data dal malcontento dell'editore
34
berlinese Die Schmiede per la traduzione del 1923 (Auf dem Weg zu Swann) ad opera di
Schottlaender: già dal 1925 Benjamin si era impegnato a consegnare, entro la primavera
del'26, il testo tradotto di Sodome et Gomorrhe, quarto volume del ciclo proustiano.
L'impresa non giungerà, dal punto di vista editoriale, ad un termine. Ciò che ci interessa
segnalare, accennando a questa parentesi del suo percorso, non è tuttavia la vicenda
editoriale o quella strettamente letteraria, con la quale comunque si intrecciano le
fondamentali riflessioni inaugurate già negli anni precedenti a partire dal saggio sul
Compito del traduttore68 (redatto nel 1921, come “Premessa”, ad una traduzione dei
Tableaux Parisiens di Baudelaire), passando per il saggio su Le affinità elettive di
Goethe, fino al saggio su Proust del 1929 (Per un ritratto di Proust) e alla Dottrina
della similitudine del '33 (Lehre vom Ähnlichen), che rielaborato costituirà il saggio
Sulla facoltà mimetica69. Il pensiero del critico berlinese intratterrà un rapporto
decisamente diverso da quello del traduttore tradizionale: la tematica del ricordo,
trasfigurata nel meccanismo del risveglio, costituirà uno dei temi centrali del pensiero
benjaminiano negli anni successivi. Se la Recherche di Proust, da un punto di vista,
concerne il tentativo di portare a nuova vita la pienezza della vita dell'infanzia nello
sforzo di una ricostruzione, per tramite della memoria individuale e involontaria,
dall'altro lato tratta di una qualità, di una modalità di esperienza, che il narratore cerca in
quella memoria. Il tempo dell'infanzia è perduto, ma lo spazio del ricordo non
costituisce un vuoto. Come dire che la rammemorazione nel testo di Proust «non è una
ricerca del passato che nella misura in cui la memoria vi localizza una modalità perduta
di esperienza»70. In Proust la memoria involontaria riporta al passato nella forma di una
ripetizione, trasfigurata, di una particolare esperienza. Questa ripetizione si configura
come un'analogia sensibile, nel cui spazio il narratore vede il tempo abrogarsi, e in cui il
soggetto si trova come sospeso rispetto all'esperienza del tempo presente. La memoria
involontaria pone di fronte all'esperienza perduta, ovvero alla disgregazione e alla
fugacità delle esperienze sensibili riportate alla mente, un'essenza atemporale, quella
dell'identità delle esperienze che si ripetono, attraverso appunto la “relazione” costituita
dal ricordo. Ciò che è perduto si ripresenta in questo spazio in una forma mediata,
frammentata dal passare del tempo, che è l'inesorabile movimento a causa del quale la
68 Cfr. W. BENJAMIN, Die Aufgabe des Übersetzers (1921), trad. it. Il compito del traduttore, in
Angelus Novus. Saggi e Frammenti., cit. pp. 39-52.
69 Cfr. W. BENJAMIN, Über das mimetische Vermögen (1991), trad. it. Sulla facoltà mimetica, Ivi, pp.
71-74.
70 Traduzione ad opera del redattore da cfr. K.R. GREFFRATH, Proust et Benjamin, in cfr. AA.VV.,
Walter Benjamin et Paris, Les Éditions du Cerf, Parigi 1986, pp. 113-114.
35
ricerca di una verità, di una «esperienza non-deficiente»71 del passato, si rende
necessaria. In Benjamin l'oggetto di questa ricerca, di questa operazione di recupero, si
costituisce nella memoria poiché solo questa possiede un così vasto potere, quello cioè
di stabilire delle similitudini indipendentemente dall'immediatezza temporale del
vissuto. L'immagine in cui l'inizio di questa indagine si rivela è in Proust quella del
risveglio. Per meglio dire: come il soggetto che si risveglia comincia tastoni a
raccogliere le immagini in un tentativo di progressivo orientamento, così l'operazione
del ricordo costituisce un tentativo di deframmentazione, a partire dal disordine delle
immagini offerte dalla memoria involontaria. L'immagine del risveglio, con cui si apre
la Recherche du temps perdu, sarà ripreso da Benjamin nell'itinerario nel ricordo
costituito da Infanzia berlinese intorno al 190072 – redatto a partire dal 1932. I differenti
testi di questa raccolta non lasciano trapelare una cronologia, la tessitura di ricordo si
snoda in maniera interrotta, non lineare, attraverso la sequenza naturale dalla nascita
all'età adulta. La struttura della narrazione è lontana dall'essere quella di una lineare
esposizione di un racconto sulla propria infanzia. Nella tessitura del ricordo interviene
uno spirito critico adulto, che si proietta, quasi in uno sforzo di superare il realismo
della semplice ripetizione di quel ricordo, nell'immagine di un'infanzia cittadina
rinvigorita dal pensiero. Il bambino Benjamin si trova all'interno di una città-labirinto
come un flâneur surrealista, che alla ricerca della parte più remota e misteriosa del
Tiergarten, o dell'isolamento dal mondo in una loggia nella casa dei nonni, si ritrova
sulla pendenza della ricostruzione del passato e si trasforma in storico. Questa raccolta
di più di quaranta testi si pone, nella visione pregnante che ne darà Burkhardt Lindner 73,
come uno specchio autobiografico dell'opera sui passages parigini, il cui progetto si era
avviato intorno al 1927, in concomitanza con le prime letture surrealiste. Questo tema
sarà approfondito più avanti nel testo, quando, a seguito di una adeguata analisi,
potremmo parlare degli esiti di questi “mosaici” paralleli.
All'impegno di traduttore – anche la pubblicazione dei tomi della Recherche non
giungerà ad una fine - corrisponde il desiderio di venire a contatto con il mondo
culturale parigino. Già in questo periodo, e in quello successivo del viaggio in Unione
Sovietica gli interessi di Benjamin si erano concentrati nell'impegno di critico,
71 Ivi, p. 120.
72 W. BENJAMIN, Berliner Kindheit um Neunzehnhundert (1987), trad. it. Infanzia berlinese intorno al
1900. Brani scelti., in W. BENJAMIN, Immagini di città, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino, 2007,
p. 107.
73 Cfr. B. LINDNER, Le Passagen-Werk, Enfance Berlinoise et l'archéologie du «passé le plus récent»,
in AA.VV., Walter Benjamin et Paris., cit., pp. 71-82.
36
recensore e saggista, in una serie di contributi in cui chiama a raccolta molteplici
elementi filosofici e letterari. Vale forse la pena accennare all'«esperienza
incomparabile»74 del soggiorno sovietico, per chiarire la posizione politica di Benjamin
in questo periodo. Mosca rappresentava a quell'epoca una meta obbligata per gli
intellettuali che avevano osservato da occidente la rivoluzione, e che desideravano
osservare da vicino cosa significasse vivere in una “civiltà” socialista. Il ritorno di molti
aveva segnato un netto rifiuto nei confronti dell'organizzazione della società sovietica,
in atteggiamento critico soprattutto verso il carattere antilibertario, in ambito culturale e
politico , dell'apparato burocratico e statale concentrando nelle mani del partito (è il
caso di Gide o di Céline). La sua visita era dovuta innanzitutto alla volontà di
confrontarsi direttamente con la situazione. L'appoggio era offerto dall'amica, l'attivista
lettone Asja Lacis – che aveva incontrato a Capri nel 1924 e che aveva “spinto”
Benjamin verso il comunismo – e al suo futuro marito, il drammaturgo e critico teatrale
Bernard Reich. Le pagine del Diario Moscovita si rivelano scandite su un duplice piano:
da un lato il carattere privato, il rendez-vous con l'amica che non corrisponde il suo
interesse amoroso, che resterà tuttavia sul piano platonico; dall'altro il carattere, per noi
più importante, dell'interesse politico-culturale. Riguardo alle impressioni sulla città di
Mosca, potremmo dire che forse l'incomparabilità dell'esperienza di cui parla Benjamin,
che aveva rivelato a Scholem di essere tornato da quel viaggio ricco più di immagini
che di teorie, consiste proprio nel felice incontro con il mondo culturale russo. Da
questo punto di vista Benjamin è assillato dal desiderio di conoscere quanto più
possibile la cultura russa e la sua situazione attuale, impegnandosi grazie al ben
introdotto Reich a stabilire rapporti con esponenti della vita artistica e letteraria
sovietica, in modo anche da risolversi riguardo ai dubbi dell'iscrizione al partito
ventilata da tempo. Il suo giudizio sarà ambivalente: pur senza retrocedere sulla sua
simpatia – fondata su considerazioni di carattere etico-politico e da un convinto
antifascismo piuttosto che all'adesione ceca alla linea del comunismo sovietico o del
comunismo ortodosso –, le considerazioni sui condizionamenti del partito nei confronti
degli intellettuali – e anche sull'atteggiamento dei burocrati e delle classi dirigenti –,
renderanno
definitivo
l'allontanamento
di
Benjamin
dalle
file
del
partito.
Allontanamento ancor più ragionato, dato che l'adesione al partito gli avrebbe potuto
offrire una virtuale stabilità oltre che una integrazione nel tessuto culturale:
74 W. BENJAMIN, Moskauer Tagebuch (1980), trad.it. Diario Moscovita, Einaudi, Torino 1983, p. 148.
37
Entrare nel partito? Vantaggi decisivi: una solida posizione, un mandato, sia pure
virtuale. Un contatto organizzato, garantito, con la gente. Contro: essere comunista
in uno stato dove governa il proletariato significa il completo abbandono
dell'indipendenza privata. […]. Nel partito: l'enorme vantaggio di poter proiettare i
propri pensieri in un campo di forze per così dire precostituito. Ma sul restarne
fuori e sulla sua ammissibilità decide in ultima analisi la domanda se sia possibile
collocarsi all'esterno con un tangibile vantaggio per se […], senza passare dalla
parte della borghesia né pregiudicare il lavoro […].75
Sul piano politico le speranze della rivoluzione gli appaiono ancora vivide, come ci
testimonia anche il confronto con la città di Mosca che,da un punto di vista più
descrittivo, ci viene restituita nell'immagine di una città vivissima impegnata a tenere il
passo con la nuova politica economica dello stato sovietico. Senza conoscere una parola
di russo Benjamin non esita a tuffarsi nella vita dilagante della città, osservandone la
rigogliosa vita quotidiana, la varietà del commercio ambulante, dell'artigianato, per
richiamare poi queste impressioni in scritti anche più tardi (si vedano ad esempio Sul
giocattolo russo, o Elogio della bambola, o la breve recensione Sulla situazione
dell'arte cinematografica in Russia).
Di ritorno dalla Russia sarà di nuovo a Berlino, che lascerà ad intermittenza. L'attività di
pubblicista, avviatasi sostanzialmente nel 1924, si era rivelata come l'unica fonte di
sussistenza negli anni precedenti (anche il viaggio in Russia è reso possibile solo dai
fondi raccolti per collaborazioni con riviste, due su tutte la “Literarische Welt” e la
“Frankfurter
Zeitung” con cui collaboravano anche Theodor W. Adorno e Max
Horkeimer, e la scelta di lavorare in tal senso ci presenta anche l'immagine di un autore
che, rifiutata l'impostazione di una filosofia sistematica, o quantomeno sistematizzata in
opere “canoniche”, si dirige più volentieri verso la forma del frammento, lasciando che
sia lo spirito della sua ricerca a permeare di se i materiali, tratti dal giornalismo così
come dalla letteratura minore, dalla letteratura psichiatrica a quella per l'infanzia, dalla
pubblicistica fino ad opere di carattere scientifico. Per dire meglio: diventano
assolutamente irrilevanti, nella sua critica, i criteri di autorità o i canoni di letterarietà in
base a cui catalogare i testi da approfondire. Dove la critica accademica si preoccupa in
genere di rilevare gerarchie di significato e importanza, le intenzioni di Benjamin si
dirigono verso una “valorizzazione dei libri a livello di conoscenza”:
75 Ivi, p. 85.
38
La nostra critica letteraria è legata alla nuova pubblicazione. […] Le informazioni
si succedono alle informazioni di giorno in giorno, di ora in ora. Le conoscenze
non possono competere con esse in fatto di velocità. Sono allora a disposizione
reazioni che, nei recensori, rispondono agli stimoli letterari (alla nuova
pubblicazione) con la stessa velocità con cui i libri si succedono l'uno all'altro.
[…]. Che al processo per cui i libri sono “giudicati” in questo modo se ne possa
contrapporre un altro completamente diverso, che consiste nel valorizzarli a livello
di conoscenza , è un fatto che non ha bisogno di dimostrazione. Il punto di vista
estetico diventa allora improvvisamente insufficiente, l'informazione del pubblico
diventa una cosa secondaria, il giudizio del recensore irrilevante. […]. Che la
valorizzazione dei libri a livello di conoscenza diventi identica con la loro
“valutazione” letteraria – questo raro optimum della critica non presuppone soltanto
il critico perfetto: egli stesso può raggiungere questa meta solo quando ha come
oggetto la grande opera.76
La “grande opera” non è qui da identificare con l'opera di successo o il testo
universalmente accreditato: in questo possiamo probabilmente leggere il rifiuto delle
mode culturali o della “frettolosità saccheggiatrice dei giornali”, cui Benjamin opporrà
la passione di bibliofilo e collezionista. Si veda ad esempio il breve scritto del 1931 –
Tolgo la mia biblioteca dalle casse77 – dove nella smania di una peculiare forma di
possesso il bibliomane, che vede «la libertà di tutti i libri […] nello stare da qualche
parte tra i suoi scaffali»78, riecheggia, come in altri testi dello stesso periodo, il tema del
ricordo: nel carattere dell'oggetto come “reliquia”, implicito in quella particolare forma
di possesso che è il collezionare, è all'opera il progetto di un recupero propedeutico ad
una ricostruzione dialettica, storica, del ricordo:
Se è vero che ogni passione confina col caos, quella del collezionista confina col
caos dei ricordi. Ma voglio dire di più: il caso e il destino che, al mio sguardo,
colorano il passato, sono, nello stesso tempo, presenti in maniera sensibile nel
consueto disordine di questi libri.79
Già in questo tipo di rapporto con i libri, in questa passione del bibliofilo per il libro
76 W. BENJAMIN, Critiche e Recensioni, Einaudi, Torino 1979, pp. 179-180.
77 W. BENJAMIN, Ich packe meine Bibliothek aus (1991), trad. it. Tolgo la mia biblioteca dalle casse, in
W..BENJAMIN, Opere complete IV. Scritti del 1930-1931, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino,
2002.
78 Ivi p. 544.
79 Ivi, p. 539.
39
anche come oggetto, «al quale in vita sua mai aveva dedicato un pensiero e ancor meno
un desiderio»80, si può forse porre un collegamento con il surrealismo, cui Benjamin
aveva riconosciuto il merito – lo dirà nello scritto del '29 dedicato a questa corrente,
parlando del significato dell'amor cortese in Breton, e del rapporto, poi paradigmatico
per la poetica del movimento, di Nadja con determinati oggetti e immagini nel romanzo
omonimo81 – di aver intuito, prima di tutti, le «energie rivoluzionarie che appaiono nelle
cose “invecchiate”, nelle prime costruzioni in ferro, nelle prime fabbriche, nelle prime
fotografie, negli oggetti che cominciano a scomparire, nei pianoforti a coda, negli abiti
vecchi più di cinque anni, nei ritrovi mondani, quando cominciano a passare di moda.
Quale sia il rapporto di queste cose con la rivoluzione – nessuno può saperlo più
esattamente di questi autori»82. Nei capitoli successivi vedremo più precisamente, anche
attraverso una lettura più approfondita di Breton, in cosa consiste e come si raccorda
alla poetica surrealista questo recupero del «suranné»83 anche in chiave politica.
Nella medesima forma di esperienza, quella di un recupero che è anche un
raccoglimento, si colloca l'interesse, sviluppato già a partire dal '24, per la letteratura
dell'infanzia (Kinderliteratur). L'”esperimento” pedagogico di Benjamin si colloca al di
fuori di ogni intento specialistico, e anzi Schiavoni nota come per lui le disavventure per
la letteratura dell'infanzia siano cominciate – come si legge nella conferenza del 1929
Letteratura per l'infanzia – proprio quando questa finisce «nelle mani degli
specialisti»84. Fu dunque attraverso l'avvertita necessità del ricorso all'infanzia come
“regno dei ricordi”, a cui si collega l'ansia del collezionista nel riscattare il libro-oggetto
dalle leggi di mercato a indurre Benjamin a radunare – quasi come il catalogo delle
«“reliquie”
di una ritrovata ingenuità85», la sua Kinderbuchsammlung. Questo gli era
stato possibile, oltre che grazie all'entusiasmo della sua prima moglie Dora, anche
grazie al “saccheggio” della biblioteca materna.
Questa bibliofilia sui generis, […], aveva finito per persuadere Benjamin che, tutto
sommato, per il materialista storico quale egli intese proporsi fosse sovente più
80 Ivi, p. 544.
81 Cfr. A. BRETON, Nadja (1928), trad. it. di G. FALZONI, Einaudi, Torino, 2007.
82 W. BENJAMIN, Der Surrealismus. Die letzte Momentaufnahme der europäischen Intelligenz (1929),
trad. it. Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei.,in Aura e Choc. Saggi sulla
teoria dei media, a cura di A. PINOTTI e A. SOMAINI, Einaudi, Torino 2012, p. 324.
83 J. LEENHARDT, Le passage comme forme d'expérience: Benjamin face à Aragon. , in cfr. AA.VV.,
Walter Benjamin et Paris., cit., p. 164.
84 W. BENJAMIN, Burattini, streghe, briganti. Illuminismo per ragazzi (1929-1932)., a cura di
G.SCHIAVONI, Il Melangolo, Genova 1989, p. 289.
85 G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità., cit., p. 159.
40
istruttivo e proficuo il volgersi alle opere di autori trascurati, […], anziché ai soli
autori consacrati dalle antologie, aderenti al decorso “canonico” della storia
culturale.86
Al tema dell'infanzia saranno dedicati degli sforzi significativi: è il caso di un folto
gruppo di partecipazioni radiofoniche, trasmesse dal 1927 al 1933 sulle frequenze della
Berliner Funkstunde o della Südwestdeutsche Rundfunk, in cui risaltano già i temi del
ricordo e del sogno, in relazione all'esperienza infantile, che ritroveremo in qualche
modo negli scritti di Strada a senso unico e dell' Infanzia Berlinese.
In questo contesto, dalla fine degli anni venti, si configura in Benjamin l'interesse
sempre crescente rivolto alle avanguardie in senso lato e al surrealismo, in quanto fucina
di potenziali rivoluzionari e di temi con cui intrattenere un confronto. Si colloca in
questo periodo, a partire dall'estate del '27, l'inizio di quel Passagenarbeit, nome con cui
nelle sue corrispondenze Benjamin designava il lavoro sulla Parigi, capitale del XIX
secolo. I passages costituiranno un luogo simbolico per il surrealismo, dove Benjamin
tenterà piuttosto una risoluzione del loro enigma. Per entrambi queste gallerie simbolo
della modernità, rappresenteranno il luogo dove si conforma una particolare forma di
esperienza. Su questo tema, e in particolare sul rapporto con Aragon, ci soffermeremo
più avanti, dopo aver effettuato una ricognizione sui temi che il surrealismo stesso
propone e che Benjamin raccoglierà poi come spunto per il progetto sui passages.
86 Ivi, p. 160.
41
Capitolo II
Il Surrealismo
-Le origini del movimento: dal rapporto con Dada al primo Manifesto del surrealismo
Il movimento surrealista nasce nel contesto storico del primo dopoguerra. In esso
confluiscono istanze che erano già state significative per il Dada, con cui il primo
Surrealismo intrattiene di fatto un legame, concettuale e biografico, riscontrabile anche
nell'incontro e nella frequentazione effettiva tra esponenti di una o dell'altra tendenza.
Questo incontro diventa possibile quando Tristan Tzara, autore di un Manifesto Dada
nel 1918 e “caposcuola” di un movimento che si vuole però più simile ad un'esperienza
comune che ad una “scuola” di pensiero, giunge nella città di Parigi, nel 1920,
rompendo il relativo isolamento svizzero del gruppo.
L'origine dell'esperienza Dada era in qualche modo legata alla sua localizzazione:
durante gli anni del primo conflitto mondiale, a partire dal 1916, un gruppo di giovani
artisti provenienti da luoghi e contesti differenti si riunisce, a Zurigo, nel disprezzo della
carneficina bellica in corso oltre i confini svizzeri, e nel disagio di fronte a quelle
strutture economiche, politiche e culturali, che l'avevano resa possibile. L'esigenza di
Tzara e degli altri, tra cui Hans Arp, Hans Richter, Marcel Janco, è in questo periodo
quella di trovare una nuova modalità di espressione che possa veicolare, in maniera
anticonvenzionale rispetto ai movimenti artistici precedenti, contenuti opposti a quelli
imposti dal sistema socio-politico che aveva generato la guerra. In questo senso il Dada
sviluppa, nell'urgenza storica di opporsi all'assurdità della barbarie bellica, un'esperienza
umana ed estetica di estrema rottura con le istanze della cultura borghese e ottocentesca,
in cui saranno centrali il rifiuto della logica razionalista così come del sentimentalismo
romantico, dell'ideologia a livello politico così come del concetto stesso di arte, intesa
come formazione storico-culturale monolitica. Questa contestazione totale è espressa
nei toni dissacranti del grottesco, dell'umoristico, del nonsense, della provocazione e
42
dell'irrisione verso tutto, e nella profusione eclettica delle produzioni Dada: sculture
realizzate con materiali riciclati o di uso quotidiano, composizioni musicali rumoriste,
parodie teatrali improvvisate, poesie costruite negando le strutture poetiche consuete o
scritti volutamente privi di un filo razionale o “romanzesco”. Luogo di ritrovo del
gruppo era il Cabaret Voltaire, nella cui baraonda espressiva – ed allo stesso tempo
contro l'espressione concepita romanticamente come messaggio, emanazione o forma di
un contenuto morale – erano messi in ridicolo i canoni dell'arte tradizionale, in
riferimento a tutto un apparato concettuale e formale che era quello della civiltà
cosiddetta moderna. Tutto ciò si esprimeva, nel senso di una negazione del valore
assoluto dell'arte borghese e museale, e in un rifiuto della rigidità e del manierismo
artistico, così come delle logiche e delle strutture produttive del mercato artistico e
letterario. Le attività del gruppo rappresentano una messa in discussione del mestiere e
del ruolo dell'artista, nel rapporto con gli editori e il pubblico, con la committenza e le
istituzioni, così come l'espressione di un disagio riguardo al ruolo idealizzato della
morale e dell'arte moralista nella società borghese e nella società in generale. Si tratta di
un approccio teso a rivendicare, attraverso una negazione delle costrizioni vigenti in
campo artistico e politico, un nuovo concetto di libertà, svincolata da qualsiasi canone
precedente del fare artistico o del comportamento sociale.
Non è questo il luogo di una riflessione esaustiva sulle sfumature del multiforme
contesto Dada. Sarà qui sufficiente segnalare, per poter stabilire i termini di un raccordo
più che biografico con il Surrealismo, alcuni aspetti importanti: la rottura operata da
Dada rispetto alle poetiche e all'immaginario della cultura ottocentesca, che si colloca a
sua volta nel quadro più ampio dei movimenti d'avanguardia europei del primo
Novecento (ad esempio Fauvismo, Cubismo letterario, Futurismo) , sarà paradigmatica
per il Surrealismo, quando si tratterà di definire i termini di un discorso che dalla
contestazione in campo formale portano alla prassi di un'esperienza politica. Dada era
privo di una progettualità politica e artistica, e tuttavia definisce per le avanguardie i
termini concettuali e formali della sovversione.
L'esperienza formale del gruppo Dada si era sviluppata in una pluralità di percorsi di
ricerca che investivano ogni aspetto dell'attività artistica, dalle arti visive al teatro, dalla
grafica alla letteratura, alla pubblicistica e all'interazione dei vari contesti. Questa
eclettica sperimentazione non esaurisce la sua propulsione quando viene, in parte, a
mancare una condizione sociale e politica estrema, come quella di guerra, da cui
spontaneamente era sorta la contestazione a tutto tondo che Tzara e compagni portavano
43
avanti. Seppure è possibile individuare nelle discriminanti sociali e politiche dell'epoca
le condizioni da cui, nel senso di una critica totale, scaturisce l'esperienza Dada, non
risulta corretto esaurire il senso di questa esperienza solo nel suo carattere di
opposizione alla guerra, le cui condizioni di base permangono anche alla firma dei
trattati di pace. Così come sarebbe impossibile spiegare l'urgenza che caratterizza
l'approccio Dada alla luce della sola necessità di sperimentazione formale, oppure a
partire da una concezione di avanguardia come “mossa” artistica razionalmente
progettata per inserirsi, pur rompendo i ponti col passato, in una tradizione.
Dada va letto come una sintesi creativa spontanea, che a partire dal rifiuto delle
condizioni sociali e culturali del tempo, pur rimanendo riluttante alla cristallizzazione in
un canone o alla “musealizzazione” della sua poetica, riuscirà a tramandare il senso
della propria missione artistica oltre la lettera, cioè oltre la “retorica” del messaggio
morale o dell'argomentazione logica che caratterizzavano le espressioni della cultura
borghese. La sperimentazione di nuove forme, che partiva da una messa in discussione
delle tradizionali modalità del fare artistico e dello stesso concetto di arte, aveva
permesso di sviluppare coefficienti intuizioni la cui vitalità si esprimerà anche dopo,
quando cioè la guerra finisce e Dada può rompere il suo isolamento. La “diaspora” del
Dada zurighese testimonia la traduzione di quell'esperienza in una serie di contesti, tra
cui quello parigino: la fine dell'isolamento segna una dissoluzione in qualche modo
annunciata nei contenuti, le cui motivazioni vanno ricercate nel rifiuto di costituirsi
come scuola e nel più ampio rifiuto del concetto borghese di Arte come formazione
monolitica.
Durante gli anni della guerra, gli artisti delle avanguardie francesi avevano potuto
osservare da lontano l'interessante attività di Dada, anche grazie ai contatti intrattenuti
da Tzara con Guillame Apollinare, Max Jacob, i fratelli Picabia, e all'interessamento
dello stesso André Breton che aveva lavorato alla “Nouvelle Revue Française” di
Gaston Gallimard, per poi approdare, assieme a Louis Aragon e Philippe Soupault, alla
redazione della rivista “Nord-Sud” di Pierre Reverdy. Grazie a quest'attività aveva
potuto sfogliare, già nel 1918, una rivista che si stampava in Svizzera: “Dada”. Più
tardi, nel marzo del 1919, Breton, Aragon e Soupault, fondano una propria rivista,
“Littérature”, organo di diffusione e critica letteraria, che nelle prime uscite raccoglie tra
gli altri scritti di Gide, Valery, Jacob, Reverdy, o anche di autori nascosti del “recente”
passato come Isidore Ducasse o Lautréamont, oltre a fungere da palestra di
sperimentazione per i giovani poeti della nuova generazione tra cui gli stessi redattori.
44
Già a partire dall'estate del 1919 però, il nucleo del futuro Surrealismo comincia a
realizzare la necessità di trovare una nuova fonte vitale, o meglio la chiave di una forma
mentis che avrebbe dovuto liberare il fare artistico dai canoni del rigore razionalista, e
dal sentimentalismo prosaico del realismo e del romanzo d'appendice. Il primo
Manifesto del surrealismo, pubblicato nel 1924, ci restituirà l'aneddoto di un
pomeriggio, nell'estate del 1919, in cui Breton e Soupault, sulla scorta in fondo di
questa necessità – o anche di un sentimento di prigionia rispetto ai classici modi di fare
“letteratura” - inventano – o forse si potrebbe dire che scoprono – il dettato automatico.
Nell'autunno del 1919 appaiono su “Littérature” i primi tre capitoli di Les Champs
Magnetiques, che sarà pubblicato integralmente nel 1920. Questa raccolta di testi
rappresenta la testimonianza originaria di una presa di coscienza estremamente
propulsiva per la nascita del Surrealismo. Saranno chiariti, più avanti in questo
paragrafo e in relazione ai Manifesti surrealisti, le caratteristiche di questa scoperta. Si
può qui segnalare come in questo periodo l'approccio del gruppo, che più tardi costituirà
il nucleo del Surrealismo, è leggibile come una totale insoddisfazione nei confronti della
letteratura del tempo, da cui scaturisce l'esigenza di trovare una nuova strada, un nuovo
modo di percepire il ruolo dell'arte o addirittura, se consideriamo il rifiuto del
razionalismo implicito nel carattere automatico del nuovo dettato surrealista, una nuova
percezione, che possa liberare un immaginario rinchiuso nel vicolo cieco delle
determinazioni imposte dalla cultura borghese.
Nel 1920, come abbiamo accennato, Tzara ed altri si trasferiscono a Parigi, portando
con se il germe ancora puro di Dada. Il rapporto che si viene a creare con il futuro
Surrealismo è innanzitutto quello di una collaborazione, ai limiti della commistione.
L'approccio Dada comincia ad informare di sé e della sua critica globale l'ambiente
delle avanguardie parigine, che alla fine della guerra si trova a dover ricontestualizzare
la propria esperienza culturale anche a fronte della recente distruzione bellica, sulla scia
della multiforme esperienza delle avanguardie il cui discorso si era in qualche modo
interrotto durante il conflitto.
Nel gennaio del 1920, durante una soirèe di “Littérature”, il Dada viene presentato
ufficialmente ai parigini in un atmosfera simile a quella delle serate al Cabaret Voltaire.
Il tredicesimo numero della rivista è interamente dedicato a Dada: nel numero del
maggio 1920 appaiono ben ventitre manifesti dadaisti, di cui due firmati da Breton.
L'avvenuta penetrazione dello spirito Dada si configura come un vento nuovo, che
scuote la coscienza artistica e letteraria della redazione della testata letteraria parigina,
45
che da qui non può più riconoscersi nelle poetiche della vecchia generazione,
intrappolate nei termini di una mentalità ancora ottocentesca e didascalica, e tanto meno
nella lettera oramai codificata e sterile delle recenti esperienze d'avanguardia (tra cui va
ricordato anche il Simbolismo). La coesione della redazione di “Littérature” con
l'esperienza Dada, però, non si consoliderà mai in una vera fusione. Ed anzi gli anni dal
1921 a 1923 vedono compiersi un progressivo allontanamento sulla base soprattutto di
una inconciliabilità sul piano della visione politica. Il disinteresse dei Dada per una
progettualità che riportasse anche sul piano della realtà sociale, o della coscienza
politica, le tensioni accumulate nella sovversione artistica, sancirà, per Breton e gli altri,
la necessità di sviluppare un nuovo approccio. Come segnala Ragozzino:
L'esperienza dadaista era nata all'insegna di una reale impossibilità di costruire ed
era stata marcata dalla profonda e appassionata necessità teoretica di fare tabula
rasa di tutto: Dada postulava l'azzeramento del presente e la negazione del passato
come condizioni necessarie al “fare” artistico ponendosi, infine, anche contro
l'arte.87
Dove per il Surrealismo si tratta di sviluppare un progetto artistico propedeutico ad una
liberazione dell'uomo sul piano globale. Se Dada rifiuta la progettualità,
il surrealismo, invece, è programmaticamente un progetto futuro. Pur ereditando lo
spirito critico di Dada, non nasce tout court dalle sue ceneri perché non nega né il
passato né il presente, e soprattutto riflette sul significato propedeutico e fattuale
dell'arte nell'ambito di un progetto di trasformazione globale.88
Alcuni procedimenti scoperti dai dadaisti come l'associazione casuale di immagini, il
fotomontaggio, la decontestualizzazione di oggetti o pratiche quotidiani, saranno
collegati nel Surrealismo ad un piano più psichico che meccanico, in riferimento alla
scoperta freudiana dell'inconscio e della psicanalisi. Durante la guerra Breton aveva
potuto leggere e apprezzare gli scritti di Freud, che conosce anche di persona, a Vienna,
nel 1921. Questo riferimento sarà importante quando si definirà il significato della sfera
onirica in relazione al pensiero surrealista.
La nascita ufficiale del movimento è sancita, nel 1924, dalla fondazione di un nuovo
organo di diffusione, “La Révolution surréaliste” - ad opera di Breton, Aragon, Pierre
Naville e Benjamin Péret -, redatta facendo capo al Bureau central de recherches
87 M. RAGOZZINO, Surrealismo, Giunti Editore, Firenze 1995, p. 23.
88 Ibidem.
46
surréalistes, nuova sede ufficiale del gruppo, e soprattutto dalla pubblicazione del primo
Manifesto del surrealismo, ad opera di André Breton.
Lo scritto viene pubblicato nell'ottobre del 1924 presso le Editions du Sagittaire, due
mesi prima che uscisse il primo numero de “La Révolution surréaliste”, che accoglierà
più tardi lo scritto diviso in parti. In questo testo, posto come prefazione a Poisson
soluble, una raccolta di prose di cui molte sono composte con il metodo del dettato
automatico, sono esposte le tematiche principali del pensiero surrealista di questa fase.
La creazione di un nuovo documento identitario, un Manifesto appunto dei propri
principi, segna il definitivo distacco dall'esperienza Dada, e in generale una
individuazione del movimento nei confronti di tutte le avanguardie precedenti. Per
stabilire un ultimo raccordo con i dadaisti, si potrebbe notare come nello spirito della
riflessione di Breton è ancora all'opera, attraverso la critica al romanzo realista o
d'appendice, e attraverso il disagio espresso nei confronti della condizione umana,
quella tensione distruttiva implicita nella contestazione Dada. In questo consiste il
retaggio forse più significativo dell'esperienza di Tzara e compagni. Tuttavia, la
tematizzazione espressa dal Manifesto non lascia dubbi sul fatto che il Surrealismo
dovesse costituire, agli occhi dell'autore, una forma di superamento della distruttività
nichilista di Dada, nel senso di una riflessione che ponesse le basi per una effettiva
trasformazione della vita umana e politica, nel senso anche di una costruzione per il
futuro.
Obiettivo principale della riflessione è quello di rivendicare, attraverso il ricorso alla
libertà di pensiero dell'uomo, lo spazio possibile di una liberazione più ampia, nella
sfera della coscienza così come in quella della letteratura. La necessità di questa
liberazione è data da un disagio nei confronti delle condizioni in cui si trova, potremmo
dire incatenata, la coscienza collettiva. Il riferimento è alla visione surrealista dell'uomo
moderno, asservito al lavoro, al cattivo gusto, alla morale utilitarista. Più nello specifico
l'accento è posto sullo stato d'inerzia in cui si svolge la vita di ogni individuo:
l'immaginazione, libera ed eminentemente creativa – capace di inventare mondi in cui
immedesimarsi - durante l'infanzia, è atrofizzata dall'educazione e dalla società, i cui
modelli borghesi tendono ad imprigionare l'esperienza umana nella logica di «un'utilità
arbitraria»89. Il senso stesso del Surrealismo sembra già condensarsi, in questa prima
fase dello scritto, in una missione, quella cioè di una liberazione che è allo stesso tempo
storica ed originaria , relativa ad una contingenza così come latente nella stessa logica di
89 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI, Einaudi, Torino 1987, p. 11.
47
insurrezione, contenuta sempre in potenza nella nozione di libertà, e tanto più nella sua
visione surrealista.
La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare,
indefinitamente, l'antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola
aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere
che ci è lasciata la massima libertà dello spirito.90
La libertà di cui parla Breton è innanzitutto quella goduta con l'immaginazione, a fronte
della rigidità dell'esperienza umana relegata nell'«atteggiamento materialista»91. L'uso
libero di questa facoltà non si risolve però nello “sragionamento” della follia,
dell'alienazione patologica come della “pazzia” clinica, di cui pure Breton
problematizza degli aspetti in un senso che afferma il suo atteggiamento
antipsichiatrico. Il «profondo distacco» degli alienati nei confronti di ogni critica o
castigo,
lascia supporre che attingano un grande supporto dall'immaginazione, che
apprezzino abbastanza il loro delirio per sopportare che sia valido soltanto per loro.
E, in effetti, le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile
di godimenti.92
La concezione dell'alienato clinico, il folle in qualche modo antisociale, contro se stesso
e contro la realtà, è rovesciata nell'immagine della follia come illusione assoluta, come
capacità di immedesimazione totale con una realtà altra. L'impossibilità dell'alienato di
percepire, di conoscere e pensare secondo le regole logiche e razionali, il suo Delirium,
rappresenta il passaggio attraverso una soglia - dal significato latino di delirare, ovvero
“uscire da un solco” - o un esilio volontario dal mondo reale. L'esperienza della
liberazione surrealista nel campo della percezione rassomiglia l'uscir fuori, l'essere
ebbro della follia, ma non ne raggiunge il supremo distacco dal mondo. In questo senso
il delirio, se così possiamo chiamarlo, della poesia surrealista, non è quello
autosufficiente dell'alienato, ma è simile piuttosto a quello autocosciente e “terapeutico”
della psicanalisi, della critica interiore e dell'indagine nell'ignoto e nel rimosso della
mente.
90 Ivi, p. 12.
91 Ivi, p. 13.
92 Ibidem.
48
Non sarà la paura della pazzia a farci lasciare a mezz'asta la bandiera
dell'immaginazione.93
La rottura surrealista risiede piuttosto nella ripresa dell'«immenso e ragionato sregolarsi
(dérèglement) di tutti i sensi»94, che già nel suo significato originale, quello di
«ineffabile tortura» o viaggio del Poeta-veggente all'interno di una più profonda
conoscenza – di se, della propria anima - intende rivendicare per la poesia la missione
profetica di indagine nell'«ignoto» di una nuova percezione, che liberi l'uomo dal
grigiore della esperienza quotidiana. Vero Poeta, colui che si riconosce come tale
nell'interezza del significato della poesia, nella sua natura di ricerca (o di “esperienza”,
“sperimentazione”) per una trasformazione – del mondo, della vita stessa - , è colui che
«si fa veggente»95 attraverso la conquista di un nuovo spazio immaginativo, da cui trarre
ispirazione – per scoprire «il nuovo, forme e idee»96 - per la “scoperta” di una nuova
lingua, universale, che guidi l'umanità verso la propria autocoscienza e la liberazione
collettiva. Questa dinamica, teorizzata rapsodicamente in una lettera inviata a Paul
Demeny nel maggio del 1871 passata alla storia come la Lettera del Veggente, farà poi
da paradigma per la definizione stessa di ogni esperienza che volesse riconoscersi come
avanguardia in campo letterario. L'insistenza sulla rottura tra “vecchio” e “nuovo” nella
poetica di Rimbaud è sintomatica del rifiuto della letteratura del tempo, ad esempio dei
cosiddetti “Parnassiani”, intrappolati in una letteratura sterile ed estetica che non poteva
dare nessun apporto al senso della poesia come era intesa dal giovane poeta; ma
rappresenta anche l'istituzione di una rivolta permanente nei confronti dell'abitudine,
dell'etica e della piattezza borghese, della letteratura come orpello, «prosa ritmata,
giuochetto»97, ed infine una tensione antagonista rispetto a tutta una visione del mondo,
quella borghese, che di fatto raggiunge nel XIX secolo dei picchi di diffusione mai
raggiunti prima di allora.
Può essere fruttuoso notare, per capire in che modo Rimbaud sia uno dei numi tutelari
del Surrealismo, come nella concezione rimbaudiana del Poeta-Veggente, ripresa in
qualche modo da Breton, vi sia già un'identificazione tra la conquista dello spazio
immaginario, da ricercare attraverso la rottura con i limiti della sola ragione, e la
necessità di restituire l'energia di una tale vertiginosa esperienza alla trasformazione
93
94
95
96
97
Ibidem.
A. RIMBAUD, Opere, trad. it. di D. GRANGE FIORI, Mondadori, Milano 1992, p. 454.
Ibidem.
Ivi, p. 457.
Ivi, p. 453.
49
integrale della vita, da compiersi, in Rimbaud attraverso l'invenzione di una lingua che
sia «anima per l'anima», che riassuma il Tutto dell'esperienza umana in un «pensiero
che uncina il pensiero e tira» 98.
Come in Rimbaud, anche nel Surrealismo non è possibile esaurire il senso del
dérèglement nell'identificazione tout court con una forma di ebbrezza irrazionale o di
follia. Si tratta piuttosto di un'esperienza in qualche modo controllata e de-regolata
dall'immaginazione, che guida il poeta e con lui l'umanità attraverso l'itinerario della sua
liberazione. Non si tratta più, in Rimbaud come negli esperimenti dei surrealisti, di
ritmare la parola poetica assecondando l'inerzia della vita umana nella società borghese,
“ritmare l'azione” di uno scenario svuotato dell'interiorità umana, di ridurre la bellezza o
la natura ad un gioco stilistico, o di svilire l'esperienza complessa del vivere nel ritratto
bozzettistico ed autoreferenziale del realismo letterario, quanto di indicare attraverso la
poesia un nuovo orizzonte. Il legame con Rimbaud sarà chiarito meglio dai riferimenti
diretti presenti nella Lettera alle veggenti99 del 1925.
Da questa concezione scaturisce anche la critica di Breton all'«atteggiamento realista,
che si ispira al positivismo, da san Tommaso ad Anatole France, […] avverso a qualsiasi
slancio intellettuale, […] fatto di mediocrità, di odio, di piatta sufficienza» 100. Esso
informerebbe di se la scienza, il giornalismo, l'arte, «adoperandosi a lusingare
nell'opinione pubblica i gusti più bassi: la chiarezza che confina con la stupidità, la vita
dei cani»101; anche il campo letteratura è, in definitiva, inquinato da tale approccio. Il
«nulla delle descrizioni»102 corrisponde alla “esteriorizzazione” totale del mondo del
romanzo realista, in cui la matrice autoriale nascosta, il progetto dell'autore, si nasconde
dietro il paravento della descrizione minuziosa del reale, per restituire una pretesa
oggettività.
L'autore se la prende con un personaggio e, dato questo, fa peregrinare il suo eroe
attraverso il mondo. Qualunque cosa accada, questo eroe, le cui azioni e reazioni
sono mirabilmente previste, è tenuto a non sventare, pur avendo l'aria di sventarli, i
calcoli di cui è oggetto.103
98 Ivi, p. 456.
99 Cfr A. BRETON, Lettera alle veggenti, in Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI, Einaudi,
Torino 1987, pp. 123-129.
100 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p.14.
101 Ibidem.
102 Ibidem.
103 Ivi, p. 15.
50
Non è presente, nel romanzo realista o nel romanzo d'appendice, lo spazio letterario di
una presa di coscienza, di un tramutarsi in vita del personaggio attraverso una
liberazione dal progetto del testo: l'horror vacui della descrizione sommerge il
personaggio, ne determina gli aspetti psicologici attraverso un'arbitrarietà tipologica, e
sommerge il lettore, che viene proiettato in uno scenario che nella sua minuziosità non
lascia spazio a ciò che l'immaginazione può esercitare nel processo della lettura .
Viviamo ancora nel mondo della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo
arrivare. [...] Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di
considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici,
invece, ci sfuggono.104
La visione positivista del mondo, che genera il realismo, aveva lavorato per estirpare
dallo spirito umano ogni certezza o credenza che non avesse fondamento in una
riscontrabilità metodica, o in una comunicabilità immediata attraverso una proiezione
scientifico-razionale dell'esperienza. La fonte di energie cui vuole attingere il
Surrealismo è quella proibita da questo approccio, o rilegata nell'ambito della
fantasticheria, della superstizione e, ancora, della follia. Il riferimento di Breton,
l'influenza che gli permette di scoprire, nell'uomo e per l'uomo, un mondo legittimo di
esperienze diverse da quelle del Positivismo, e quindi lontano dalla fiducia cieca nel
futuro come progresso economico, nella scienza e nella tecnica, è, come accennato,
quella della psicanalisi freudiana.
Si direbbe che si debba a un caso fortunato se di recente è stata riportata alla luce
una parte del mondo intellettuale, a mio parere di gran lunga la più importante, di
cui si ostentava di non tenere più conto. Bisogna renderne grazie alle scoperte di
Freud.105
L'interpretazione delle libere associazioni prima, e dei sogni poi, mira a recuperare,
nella lettura di Breton, quelle forze contenute nell'inconscio e in generale nella propria
interiorità, recondita, insabbiata da una esperienza sociale in cui l'uomo è estremamente
vincolato dalle determinazioni mentali del mondo razionale, il mondo della materia,
della “realtà logica”, della veglia. Lo scavo compiuto dal paziente, con l'ausilio del suo
interlocutore che lo guida in questo “ritorno” verso l'interno, verso l'interpretazione dei
104 Ivi, p. 16.
105 Ivi, p. 17.
51
propri stati subconsci ed onirici, deve rivelare dei nodi irrisolti nella sua storia rimossa,
per uno scopo terapeutico, che ha la dinamica dell'oltrepassare, del superamento critico,
e non più del trattamento medico forzato, che relega la patologia nel suo isolamento e
alimenta l'alienazione degli individui considerati folli e quindi esiliati dal mondo.
Un'operazione, l'interpretazione dei sogni106 appunto, che trova un contrappunto nella
necessità surrealista di conquistare nuovo spazio mentale, da cui trarre la forza che
potesse spingere l'essere umano verso una nuova riappropriazione, globale, di se stesso.
Se le profondità del nostro spirito celano tali forze capaci di dare incremento a
quelle di superficie, o di lottare vittoriosamente contro di esse, abbiamo tutto
l'interesse a captarle, a captarle per cominciare, per poi sottometterle, se sarà il
caso, al controllo della nostra ragione.107
Freud per primo si riferisce al sogno come ad un ambito della vita umana la cui
importanza intrascurabile sta nel fatto che condensa e riproduce in qualche modo
l'esperienza interiore, in maniera differente ed illuminante rispetto alla memoria
esercitata da svegli, o al comportamento dell'individuo durante lo stato di veglia. Il
sogno, per chi sa interpretarlo, riporta la mappatura di una vita altrimenti perduta, quella
dell'interiore che in qualche modo si ribella, attraverso l'astrazione dalla realtà cosciente
che avviene durante il sonno, alle determinazioni vincolanti della realtà, della continua
“veglia razionale” del pensiero positivista, che rifiuta tali stati non coscienti come
fondanti una possibile conoscenza. Per Breton e per il Surrealismo invece, l'indagine nel
sogno rende conto di una conoscenza del possibile, il cui tesoro incalcolabile andrebbe
altrimenti perduto. La veglia interrompe uno stato di percezione, così come viene
interrotta dal sonno la coscienza razionale della realtà. Questa coscienza, come il sogno
rispetto al razionalismo, può prendere le sembianze di un « fenomeno d'interferenza» 108,
o meglio di uno stato di percezione che, seppur saldo ad una serie di condizioni
materiali, presenta a sua volta una parziale instabilità.
Occorre notare che niente ci permette d'inferire che sussista una dispersione
maggiore negli elementi costitutivi del sogno.109
106
107
108
109
Cfr. S. FREUD, Die Traumdeutung, Franz Deuticke Verlag, Lipsia-Vienna, 1900.
A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p.17.
Ivi, p. 19.
Ibidem.
52
E anzi veglia e sonno costituiscono continuamente una interferenza reciproca. Sta
all'uomo, attraverso una memoria selettiva – quella liberata dal “monologo automatico”
nel Surrealismo –, stabilire la possibile interazione dello stato cosciente e razionale con
quello illimitato e “involontario” dell'esperienza onirica.
Nei limiti in cui si esercita (si ritiene che si eserciti), secondo ogni apparenza, il
sogno è continuo e reca tracce d'organizzazione. Soltanto la memoria [durante la
veglia] si arroga il diritto di farvi dei tagli, di non tener conto delle transizioni, e di
rappresentarci piuttosto una serie di sogni che il sogno.110
Il sogno e la veglia, o meglio la coscienza della veglia, tendono verso due opposti: da un
lato si ha una definizione del Se a partire dal nucleo interiore dell'uomo, l'inconscio, che
stabilisce determinati criteri di realtà – criteri di possibilità differenti, altri o alterati
rispetto a quelli che regolano la realtà “esterna”; dall'altro lato, l'esperienza umana si
definisce, quasi in negativo, rispetto all'esterno, alle leggi dimostrabili della scienza
positiva così come ai meccanismi conformanti o repressivi presenti nella società
moderna. Ciò che unisce questi due piani, ciò che orienta il loro discernimento, è la
memoria. Nel riferirsi ad una ricostruzione del sogno, così come nel ricostruire una
vicenda occorsa durante la veglia, la volontà si esprime attraverso la selezione operata
dalla memoria. Il sogno deve però continuamente riconquistare la sua integrità, e questo
richiederebbe una metodica, «una disciplina della memoria praticata per varie
generazioni»111. Sono gettate le basi per la missione più propria del Surrealismo, ovvero
annunciare l'inizio, la svolta di una presa di coscienza necessaria per consentire, nel
futuro o in un presente remoto dell'interiorità, la realizzazione del progetto di
liberazione costituito dalla riappropriazione del proprio spazio immaginario. E può
risultare forse risultare comprensibile come questa soluzione, che cerca la continuità tra
la veglia e il sonno, sia alla base del Surrealismo come visione del mondo.
Credo alla futura soluzione di quei due stati, in apparenza così contraddittori, che
sono il sogno e la realtà, in una specie di realtà assoluta, di surrealtà, se così si può
dire. È alla sua conquista che sto andando, certo di non arrivarci ma troppo
incurante della mia morte per non prefigurarmi in qualche modo le gioie di un tale
possesso.112
110 Ivi, p. 18.
111 Ivi, p. 20.
112 Ibidem.
53
La surrealtà rappresenta uno stato di sintesi creativa, a partire dall'opposizione tra realtà
e sogno. In letteratura, o almeno nel romanzo romantico, tale sintesi è espressa dal
meraviglioso, altro elemento che il paradigma positivista aveva relegato nel campo delle
attività non conoscitive, oppure nei limiti formali e concettuali di una esposizione
favolistica e pensata per l'infanzia. Il meraviglioso è emblema del bello, disinteressato
ad una convenientia con il reale attraverso una rappresentazione rigida della realtà, così
come ad una convenienza morale vincolante riguardo a ciò che è possibile immaginare.
Il meraviglioso rivela di un'epoca più di quanto la descrizione realistica può dire, poiché
rende conto dei ripiegamenti reconditi dell'immaginario umano. Il sogno si rivela allo
sveglio nello specchio del meraviglioso. L'immagine di un mondo irrigidito
dall'angoscia del possibile si rovescia nell'immagine fantastica di un mondo costituito
da elementi non identici a quelli reali, che rappresentano dei simboli che interpretati
costituiscono, per un'epoca, il senso dell'esperienza umana rispetto al bello.
Il meraviglioso non è uguale in tutte le epoche; partecipa oscuramente di una
specie di rivelazione generale di cui cogliamo soltanto il particolare: le rovine
romantiche, il manichino moderno o qualsiasi altro simbolo atto a mobilitare per un
certo tempo la sensibilità umana.113
L'indagine surrealista a partire dalla tensione che si crea in questa scissione
dell'individuo tra sogno e realtà è alla base della scoperta del dettato automatico. La
ricerca di un nesso creativo, di una sintesi che potesse essere strumento di unificazione
tra coscienza ed inconscio, e allo stesso tempo sovvertire il falso dualismo della coppia
realtà-follia, si avvale ancora una volta dei concetti freudiani. Breton sperimenta su se
stesso il metodo psicanalitico, nell'analizzare le rappresentazioni che dalla percezione
del reale possono condurre all'apparente allucinazione di una percezione distorta, o
meglio differente, della realtà. Egli cerca di ottenere da se stesso
un monologo proferito il più rapidamente possibile, sul quale lo spirito critico del
soggetto non eserciti alcun giudizio, che non venga quindi intralciato da alcuna
reticenza, e che sia quanto più esattamente è possibile il pensiero parlato.114
Sulla scorta di questo obiettivo, nel 1919, Breton, assieme con Philippe Soupault,
inventa, come accennato, il dettato automatico, le cui “regole” pratiche sono spiegate
113 Ivi, p. 22.
114 Ivi, p. 27-28.
54
nel Manifesto, nel paragrafo intitolato Segreti dell'arte magica surrealista115. Le
immagini e le associazioni prodotte nella scrittura automatica hanno come obiettivo lo
scardinamento dell'individualità, dell'autorialità nel processo creativo, e infine dei
principi logici che fanno da prisma alla rappresentazione logico-razionale della realtà, e
quindi anche alla scrittura “ragionata”. Obiettivo di questa operazione è in definitiva «la
divulgazione di un certo numero di proprietà e di fatti» 116, relativi alla parola così come
all'esperienza, «non meno oggettivi, in definitiva, degli altri»117, quelli cioè rilevati nella
rappresentazione “normale” della realtà. La nuova modalità di espressione pura,
costituita dall'attingere liberamente all'immaginazione, viene nominata “Surrealismo”,
in omaggio a Guillame Apollinaire, in cui Breton e Soupault avevano visto operare uno
spirito fino a un certo punto affine al loro. Il riferimento è anche alla parola
“Supernaturalismo”, utilizzata da Gérard de Nerval, che ne avrebbe posseduto
maggiormente lo spirito e la consapevolezza rispetto ad Apollinaire, che era surrealista
più nella lettera che nella teoria. Il movimento rivendica per sé questa denominazione, a
fronte della scoperta originaria delle energie rivoluzionarie contenute nelle immagini
attinte da una realtà non logica. Le dinamiche mentali ricostruite nel dettato automatico
rappresentano un'immagine del meccanismo originario del pensare, non pregiudicato da
“sovrastrutture” logico-razionali.
S U R R E A L I S M O, n.m. Automatismo psichico puro col quale ci si propone di
esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il
funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi
controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o
morale.
ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull'idea di un grado di realtà superiore
connesso a certe forme d'associazione finora trascurate, sull'onnipotenza del sogno,
sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri
meccanismi psichici e sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi
della vita. Hanno fatto atto di SURREALISMO ASSOLUTO Aragon, Baron,
Boiffard, Breton, Carrive, Creveil, Delteil, Desnos, Eluard, Gérard, Limbour,
Malcesine, Morise, Naville, Noll, Péret, Picon, Soupault, Vitrac.118
115
116
117
118
Ivi, pp. 33-36.
Ivi, p. 29.
Ibidem.
Ivi, p. 30.
55
Il testo procede con una serie di indicazioni riguardo alla pratica del Surrealismo come
metodo di scrittura. Alcuni autori del recente passato sono menzionati, riguardo a
determinati elementi, come surrealisti ante litteram: è il caso dello stesso Rimbaud «
nella pratica della vita»119, di Baudelaire, di Sade o Saint-Pol-Roux, citato anche
all'inizio dell'opera come precursore della visione del sogno come fonte inesauribile di
poesia. Bruno Pompili suggerisce:
Il riferimento che Breton ha fatto nel primo manifesto ai presunti rivelatori inconsci
del surrealismo nei secoli precedenti il nostro (Dante, Shakespeare, Swift, Young,
Chateaubriand, Sade, Constant,...) non aveva lo scopo, come a volte si è creduto, di
scoprire molti padri ad un atteggiamento nuovo per fondarlo sui loro nomi sotto un
profilo di eternità o almeno per rilevare una costante precisa nel tempo.120
Anche i riferimenti a personaggi più prossimi nel tempo (Baudelaire ad esempio,
Lautréamont, Rimbaud o Mallarmé, di cui pure lo stile del Breton pre-surrealista
riprende alcuni temi), o a quelli che erano stati «idealmente o praticamente» 121 vicini «al
progetto di messa in opera generale dello statuto aperto del surrealismo» 122 (ad esempio
Rimbaud, Nerval, Jarry, Reverdy, Apollinaire), rientrano in un punto di vista critico,
che apre la strada ad una rilettura della posizione intellettuale incarnata da quegli autori,
la cui opera viene valutata ora in relazione alla possibilità di un riutilizzo, di
un'interattività. Il richiamo a tutto un precedente di autori la cui visione può intrecciarsi
con quella di Breton, permette una rifunzionalizzazione degli elementi di quelle
poetiche, al fine di rafforzare e definire la forma dell'engagement critico nel reale, della
«presenza operativa nel mondo»123, rappresentata dal surrealismo come da qualsiasi
sforzo artistico che si ponesse, in qualche modo, come rottura dello spazio angusto della
realtà superficiale.
Caso particolare è quello di Jacques Vaché 124, la cui figura rimarrà nella memoria di
Breton, come quella di un artista che aveva pienamente realizzato l'unione di vita e
poesia. L'insistenza, concentrata sull'azione più che sulla lettera, sui toni del grottesco e
dell'irriverente, fanno dello scrittore, morto prematuramente nel 1919, un trait d'union
saldo tra lo spirito dell'avanguardia e l'esperienza surrealista. Lo spirito di Vachè
119 Ivi, p. 31.
120 B. POMPILI, Breton/Aragon. Problemi del surrealismo., Sindia Editrice, Bari 1972, p. 43.
121 Ivi, p. 44.
122 Ibidem.
123 Ibidem.
124 «Vaché è surrealista in me».: cfr A. BRETON, Manifesti del surrealismo, trad.it. di L. MAGRINI,
Einaudi, Torino 1987, pp. 31-32.
56
sopravviverà a lungo, a traverso Breton, nel surrealismo, e l'ironia dissacrante dei suoi
opuscoli (si vedano ad esempio le raccolte di Canard Sauvage) sarà ancora presente,
nella Antologia dello humour nero125, la cui prima pubblicazione risale al 1939.
Con il primo Manifesto sono gettate le basi per la nuova esperienza surrealista, che si
evolverà negli anni molto velocemente, fino all'adesione di Breton, Aragon, Eluard,
Péret et altri, al partito comunista (PCF) nell'aprile del 1927.
-Da “La Révolution surréaliste” a Nadja
La forma di esperienza inscritta nelle tematiche del primo Manifesto può tradursi, oltre
che nell'ambito letterario, sotto il segno di un'esperienza umana ed artistica globale. È in
questo senso che Breton tematizza, in Le Surréalisme et la peinture del 1925, la
possibilità di esprimere la rottura, operata con il recupero delle immagini oniriche e
mentali nella poesia, anche attraverso la forma grafica e pittorica, segnalando alcuni
esempi contemporanei (Masson, Ernst, Mirò, Tanguy) la cui sperimentazione è affine a
quella surrealista. La surrealtà scoperta nel Manifesto si presta anche ad una
rappresentazione figurativa, che attinga alle immagini del mondo inconscio e
dell'immaginazione per figurarsi le fattezze della propria esperienza psichica. Così come
per la scrittura, la scommessa della pittura, o meglio dell'arte figurativa surrealista in
toto, «consiste nel riuscire a raffigurare con modalità automatiche questa surrealtà» 126, la
cui rappresentazione rende conto visivamente dell'esperienza interiore, della
ricognizione in una realtà differente da quella esteriore del mondo razionale. La tecnica
del collage, o quella del frottage127 introdotta da Max Ernst, ad esempio, fanno da
contralto alle poesie composte mettendo assieme vari titoli di giornale, di cui le ultime
pagine del primo Manifesto offrono un esempio128. In queste tecniche, in cui viene meno
la necessità di un modello pittorico dal reale, e in cui in qualche modo l'oggetto poi
rappresentato è celato allo sguardo del pittore – il caso del frottage -, Ernst e altri
attuano pittoricamente i principi dell'automatismo psichico implicito nel “gioco” di
125 Cfr. A.BRETON, Anthologie de l'humour noir, Ed. Gallimard, Parigi 1939.
126 M. RAGOZZINO, Surrealismo, cit., p. 35.
127 Questa tecnica consiste nello sfregare una matita o un carboncino su un piano di disegno poggiato ad
una superficie, in modo da ottenere una immagine in rilievo (o in negativo) di quella superficie.
128 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 44-46.
57
associazioni del dettato automatico.
La possibilità di un'interazione tra le arti, che testimoniasse l'apertura – o anche
l'atteggiamento totalizzante - dell'esperienza surrealista, si realizza, a partire dal
dicembre del 1924, sulle pagine de “La Révolution surréaliste”, sulle quali compare
anche lo scritto di Breton sulla pittura. I primi direttori della rivista sono Pierre Naville
e Benjamin Péret, tra i surrealisti della prima ora.
Nel frontespizio del primo numero appare una nota sul fatto che il surrealismo non
volesse porsi come l'esposizione di una dottrina, e come in quel primo numero fossero
raccolti racconti di sogni, esempi di scrittura automatica, un'inchiesta sul suicidio, che
testimoniavano di una pratica che voleva allontanare da se, per principio, il pericolo di
una cristallizzazione, di una imbalsamazione artistica o dottrinale 129. E quindi un invito,
a chiunque volesse prender parte alla rivoluzione che la nascita del Surrealismo
annunciava, a farlo recandosi in Rue de Grenelle, nel VII arrondissement parigino, dove
si trovava la sede del Bureau central de recherches surréalistes, redazione e centrale
operativa del gruppo.
Già dai primi numeri l'organo di diffusione del movimento accoglierà tra le sue pagine
opere di Ernst, Tanguy, Dalì, Hans Arp, Joan Mirò, De Chirico, Paul Klee, Man Ray,
oltre agli scritti di autori già aderenti al Surrealismo tra cui Boiffard, Vitrac, Aragon,
Soupault e altri. Il secondo numero presenta dei disegni di Picasso, ancora De Chirico
ed Ernst, oltre ai primi passaggi del Manifesto del 1924, e alla prima parte di Les Reines
de la main gauche di Naville.
Quest'ultimo, codirettore con Peret di tre dei primi quattro numeri della rivista, pubblica
nel 1925 un articolo, Existe-t-il une peinture 'surréaliste'?, che segna già un distacco da
Breton, poiché esprime forti dubbi sulla possibilità di un'arte surrealista, e sulla
possibilità della stessa di trasformare integralmente la vita, di concretarsi cioè, in una
visione del reale. Naville si domandava se l'idea di rivoluzione dovesse poggiarsi
necessariamente sul surrealismo, o se piuttosto si trattasse di concetti sovrapponibili ma
non identici. La riflessione del gruppo, in generale e anche negli stessi Breton, Aragon,
Péret ed Eluard, è in questo periodo tesa a risolvere la questione legata alla modalità
129 Cfr. P. NAVILLE, B. PÉRET, Titolo, in AA.VV., “La Révolution surréaliste.”,anno I, numero 1,
Editions Jean-Michel Place, Parigi 1975, p. I. « Le surréalisme ne se présente pas comme l'exposition
d'une doctrine. Certaines idées qui lui servent actuellement de point d'appui ne permettent en rien de
préjuger de son développement ultérieur. Ce premier numero de la Rèvolution Surréaliste n'offre donc
aucune révélation définitive. Les resultats obtenus par l'écriture automatique, le récit de rêve, par
exemple, y sont représentés, mais aucun résultat d'enquêtes, d'expériences ou de travaux n'y est encore
consigné: il faut tout attendre de l'avenir ».
58
della trasformazione, in senso politico e sociale, dell'esperienza sovversiva espressa
nella poetica surrealista. La posizione assunta contro la guerra del Marocco (Guerra del
Rif130) avvicina il gruppo alla rivista “Clarté” di Henri Barbusse, più vicina
all'ortodossia marxista, e in generale agli ambienti di sinistra radicale che condannavano
l'ingiustizia di quel conflitto, cui aveva partecipato come soldato lo stesso Pierre
Neville. La collaborazione con questi ambienti sarà alla base dell'opuscolo intitolato La
Révolution, d'abord et toujours, ma la congruenza delle visioni del mondo espressa nel
rifiuto della guerra non risulterà tanto solida da nascondere una insanabile differenza di
opinioni sul ruolo dell'arte a livello sociale. La rottura con Barbusse prima e con Neville
poi, è sintomatica di una scossa in senso politico che di lì a poco coinvolge tutto il
movimento, e che verte principalmente sulla funzione data all'arte nell'ideologia del
Partito Comunista Francese. La direzione della rivista passa, già dalla fine del 1925,
nelle mani del solo Breton, che dal quinto numero in poi sarà il direttore e l'anima di
quasi tutte le edizioni fino a 1929. All'inizio del 1926, dopo essersi avvicinato
all'ideologia comunista attraverso la lettura di Lenin e Trockij, Neville aderisce
pubblicamente al PCF. Il suo definitivo distacco dal Surrealismo è segnato da un
articolo, La Révolution et les Intellectuels (Que peuvent faire les surréalistes), in cui
tenta di indirizzare l'esperienza della surrealtà nell'ottica rivoluzionaria del marxismo
ortodosso come unico meccanismo in grado di attuare la rivoluzione proposta in campo
artistico dal gruppo.Una lettura che Breton aveva da sempre avversato rivendicando il
rifiuto di ogni autorità ideologica, compresa quella del comunismo, rispetto ad una
modalità di percezione della realtà, quella del Surrealismo, che si vuole assolutamente
libera. Il rapporto con Naville e con il marxismo sarà chiarito da Breton nel Secondo
Manifesto del Surrealismo (1930)131, quando il principale esponente del movimento avrà
si preso parte al progetto globale di trasformazione agente in seno al comunismo, ma
rimarrà comunque ostile all'ortodossia cieca della dirigenza del partito, sottolineando
continuamente il ricorso ad un atteggiamento che traesse supporto dall'esperienza
estetica delle avanguardie, nel senso quindi di una rivoluzione non solo materiale ma
anche dell'immaginario.
“La Révolution surréaliste” rappresenta, negli anni dal 1924 al 1929, lo spazio di
130 Questa denominazione si riferisce ad una guerra coloniale, quella combattuta appunto tra i “ribelli”
del Rif, catena montuosa nel nord del Marocco, e gli eserciti di Spagna e Francia, tra il 1921 e il
1926,. Entrambi gli eserciti agivano sotto la protezione politica del Sultanato del Marocco, che
avversava i Rifani poiché osservanti riti e costumi differenti da quelli prescritti dal diritto religioso
islamico.
131 A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 59-116.
59
sperimentazione comune degli autori del gruppo iniziale (Aragon, ancora Péret, Pierre
Unik, Marcell Noll), ma anche il punto d'incontro con autori che partecipano
occasionalmente, tra cui Man Ray, Malkine, Mirò, e altri che saranno poi allontanati,
come Soupault, Queauneau, lo stesso Naville, o Antonin Artaud, direttore per un breve
periodo del Bureau de recherches surréalistes, e collaboratore del movimento dalla
prima ora. Sarà ancora una volta il Secondo Manifesto a chiarire il perché di queste
esclusioni, oltre che dell'odio feroce che si sviluppa tra Breton e il drammaturgo
marsigliese. La rivista accoglierà anche estratti dei manifesti del movimento così come
di romanzi poi pubblicati singolarmente, oltre alle locandine, corredate di riproduzioni
in scala o disegni autografi, delle esposizioni d'arte figurativa degli artisti legati al
gruppo. Se alcuni dei rapporti intellettuali che testimoniano della prima ora del
Surrealismo saranno perduti per sempre, altri, come quello con Naville, saranno
recuperati più tardi alla luce della nuova e più moderata considerazione sulla necessità
di una scelta di campo in senso politico, e cioè sull'adesione al PCF.
Il numero del marzo 1928 di “La Révolution surréaliste” presenta una riedizione
dell'articolo di Naville (La Révolution et les intellectuels), frammenti del Traitè du
style132 di Aragon, oltre agli estratti di un romanzo, Nadja, che Breton aveva pubblicato
di recente per Gallimard in versione integrale. Quest'ultimo testo, la cui costruzione
testimonia della volontà di sperimentare nella direzione di una nuova forma di romanzo,
da opporre a quella realista o naturalista, viene scritto tra l'estate e l'inverno del 1927,
poco dopo i fatti, dal vero, che vi sono riferiti.
La struttura del testo, se di vera è propria struttura è possibile parlare, testimonia di
questa composizione dilazionata, mediata da una riflessione, non automatica . Piuttosto
la concatenazione dei fatti che sono riferiti si lega a posteriori ad una dinamica
automatica, nel senso che Breton riflette su determinate influenze e aneddoti della sua
vita, ponendo tra essi, quindi tra la vita interiore e quella fattuale, delle concatenazioni
non vincolate alla logica del razionale o del non razionale. La necessità di una minima
progettazione è data dal fatto che l'autore deve spiegare, anche a se stesso, la situazione,
non scontata, entro cui i pochi fatti della vicenda possono accadere, e soprattutto perché
il suo incontro costituisce un evento eccezionale.
Lo scritto narra di una vicenda autobiografica, l'incontro con una donna, Léona
Delcourt, che si fa chiamare Nadja, nata a Lille nel 1902 e poi internata in manicomio
132 Cfr. L. ARAGON, Traitè du style (1928), trad. it. Trattato dello stile, a cura di D. GALLINGANI,
Alinea, Firenze, 1993.
60
dal marzo del 1927, poco dopo l'incontro con Breton a Parigi, fino alla morte avvenuta
nel gennaio del 1941. Così come il personaggio principale anche i luoghi, i pochi
personaggi collaterali, le conversazioni, le frasi laconiche che si imprimono nella
memoria, e tutto il mondo ritratto in Nadja, sono ripresi da fatti della realtà,
dalla cosiddetta e detestata realtà - e tutto è sconvolto, da cima a fondo, per
l'intervento di una figura di donna che è la negazione stessa del principio di
realtà.133
Nel testo si trovano moltissimi riferimenti al travaglio intellettuale che vive Breton in
questo periodo, ai luoghi dei suoi alloggi, delle sue peregrinazioni, agli amici e ai temi
del movimento surrealista in questa fase (ad esempio la visione del lavoro come
schiavitù, o l'atteggiamento antipsichiatrico chiarito nell'invettiva finale). E tuttavia la
dimensione di realtà dello scritto è in qualche modo messa in questione dall'esistenzalimite rappresentata dal personaggio Nadja. La prima parte del romanzo rappresenta una
soglia propedeutica per comprendere il significato della comparsa della donna, che
appare improvvisamente, come un'epifania non religiosa a compimento di un itinerario,
quello dell'autore – o del “personaggio” Breton – che dall'incontro è condotto ad una
riflessione “disperata” sulla verità stessa della realtà.
Le sessanta pagine di arrampicata a mani nude che precedono la sua comparsa ci
dicono innanzitutto che la figura narrante, oltre a cercare la propria identità, è
pronta a un incontro, è in attesa, è disponibile.134
Anche tra le righe del diario tenuto dall'autore per i giorni trascorsi con questa eterea
figura femminile, si legge ancora una volta la volontà, forse espressa meno
sistematicamente che nel primo Manifesto, di rifiutare ogni schematismo per rincorrere
fosse anche l'illusione di una libertà incondizionata. E Nadja è innanzitutto una
personificazione, forse davvero inconsapevole, di tale libertà: una libertà che si tiene in
equilibrio al margine del distruttivo, nei caratteri di una incontenibilità che fa vacillare
la definizione di sanità mentale come anche la definizione stessa di una identità secondo
i canoni consueti della razionalità. Tutte le certezze su cui riposano le schematizzazioni
dell'esperienza logico-razionale, che stanno a fondamento del romanzo tradizionale,
sono messe in questione a partire dalla problematizzazione dell'individualità espressa in
apertura.
133 D. SCARPA, Prefazione, in A. BRETON, Nadja, cit., p. VI.
134 Ivi, p. VII.
61
Chi sono, io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse
domandarmi semplicemente qui je hante : chi frequento, chi infesto.135
La prima parte del romanzo ha la forma di questa interrogazione, in cui l'Io viene
spogliato della presenza a se stesso per essere posto in questione, non secondo una
ricostruzione razionale dell'individualità – quella del materialismo e del razionalismo -,
ma nel senso piuttosto di un'apertura, necessaria, all'altro rappresentato poi da Nadja.
L'immagine dell'identità riferita ad un altra presenza, quella di uno spettro o di un
fantasma, «implica evidentemente un'allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per
essere colui che sono»136.
L'adagio cui si riferisce Breton è, come attesta Richter137, “Dis moi qui tu hantes, je te
dirai qui tu es”, e si collega, originalmente, ad una connotazione pedagogica: si riferisce
alle cattive frequentazioni, alle amicizie che portano su una cattiva strada, dove il verbo
hanter non è ancora riferito all'accezione, sviluppatasi poi, di “infestare”. La lettura
dell'adagio è giocata sull'ambiguità di questo “frequentare” qualcuno o “abitare”
un'individualità: Breton intende proiettarsi all'interno del suo testo, o meglio intende
trascrivere in Nadja una vicenda che non si costruisca secondo una struttura prefigurata
ma che possa farsi vita autonoma, indicando di volta in volta la direzione da seguire,
potremmo dire, in maniera automatica. E in questo senso l'esperienza dell'Io narrante
nei confronti del “personaggio” Breton che vive nelle pagine del romanzo è davvero
quella di un'immedesimazione, di una infestazione di quello stesso personaggio,e non di
una identificazione arbitraria poiché riferita ad un sistema di significati prestabiliti,
propria della «letteratura psicologica ad affabulazione romanzesca»138. Nella narrazione
l'autore non dispone i fatti e gli oggetti secondo un ordine predeterminante, ma cerca di
cogliere la sua stessa individualità nell'apertura al mondo del romanzo che fugge
davanti ai suoi occhi: in questo senso si può forse comprendere come l'idea di
“fantasma”, riferita all'Io stesso dell'autore, sia percepita «come immagine finita di un
tormento che potrebbe essere eterno»139, nel senso di ritorno infinito sulla questione,
insolvibile a partire da una prospettiva univoca, della propria identità . L'obiettivo di
Breton è quello di mettere in relazione l'Io dell'autore con la sua estrema alterità, con
l'ignoto di una realtà possibile – quella della libertà assoluta, o dell'amore inattuabile
135 A. BRETON, Nadja, cit., p. 5.
136 Ibidem.
137 Cfr. M. RICHTER, “Nadja” di André Breton: analisi della prima sequenza”, in “Rivista di
Letterature Moderne e Comparate”, anno XXXVI, numero 3, Pacini Editore, Pisa 1983, pp. 249-261.
138 A. BRETON, Nadja, cit., p. 11.
139 Ivi, p. 5.
62
per Nadja –, in opposizione ancora ad una concezione di realtà, rappresentata nel
razionalismo come attualità “granitica”, e che rinchiude, nel naturalismo, il mondo della
possibilità entro il piano di uno svolgimento prestabilito dall'autore.
Questa dinamica non è realizzata attraverso una riflessione in termini logico-filosofici,
cui pure si presterebbe la forma della domanda in apertura, che rivela un riferimento alla
seconda delle Meditazioni metafisiche cartesiane. Breton non intende operare una
confutazione, quanto piuttosto un rimando critico a quella forma di razionalità propria
del mondo borghese,e che, da Cartesio fino al Positivismo, aveva contribuito a
rinchiudere la vita nelle barriere della logica. Per evitare l'approccio strettamente
filosofico, che avrebbe riportato il discorso nella sfera di un logos – non solo cartesiano
ma riferito all'intero dell'apparato concettuale occidentale –- che Breton vuole fuggire,
egli tenta
piuttosto di slegare l'Io dal metodo della riconduzione alla soggettività
attraverso la deduzione logica (dall'agostiniano “Si fallor sum” al cartesiano “Cogito
ergo sum”). Come nel primo Manifesto la razionalità che si ripiega su se stessa come
giudice e principio ordinatore dell'esperienza, non è più sufficiente a definire i criteri
della vita umana nella sua complessità. L'autore non può più arrogarsi legittimamente il
diritto di farsi costruttore ed organizzatore di un mondo rappresentato ad arte, come nel
romanzo naturalista del XIX secolo, se deve innanzitutto cercare la risposta riguardo
alla sua stessa identità fuori da sé.
Se la verità dell'esperienza del reale è stabilita attraverso l'identificazione dell'individuo
nel meccanismo del suo pensiero, o prodotta in qualche modo attraverso un metodo,
come in Cartesio, presuppone delle leggi, delle regole che rendano conto del significato
specifico ed universale di tutti i termini. L'intento, o piuttosto la necessità di Breton, è di
delegittimare questa visione, al fine di scardinare una tale concezione della realtà e
dell'identità, troppo angusta per poter comprendere l'eccezionalità del suo incontro con
Nadja.
L'Io narrante è posto così nello spazio di un'eccezione alle regole di questa forma di
razionalità, che è quella che genera la pretesa oggettività del romanzo concepito, in
maniera convenzionale, secondo i canoni di un'autorialità totalizzante e ordinatrice.
L'autore di Nadja, o meglio l'Io che scrive, può scoprire lo spazio della propria
realizzazione solo all'interno di un campo di rimandi differente rispetto a quello logicofilosofico .
Non ho intenzione di riferire, in margine al racconto che sto intraprendendo, se non
63
gli episodi più incisivi della mia vita quale posso concepirla al di fuori del suo
piano organico, cioè nella misura in cui essa si consegna ai casi fortuiti, dal più
piccolo al più grande, nella misura in cui, contrastando all'idea comune che me ne
sono fatta, m'introduce in un mondo per così dire proibito: quello dei collegamenti
improvvisi, delle coincidenze pietrificanti, dei riflessi più forti di qualsiasi altro
impulso mentale, degli accordi risonanti come su un piano, dei lampi che ci
metterebbero in grado di vedere, ma di vedere davvero, se non fossero ancora più
rapidi degli altri.140
Il «mondo per così dire proibito» di cui parla Breton è quello attraverso il quale è
condotto da Nadja, che incontra il 4 ottobre del 1926, mentre si trova a passeggiare
senza meta all'orario di chiusura degli uffici, già in questo differente dalla “massa” di
coloro che sono sottomessi, attraverso il lavoro, alle determinanti di un'utilità
strettamente materiale. Da subito l'autore è colpito dalla figura di questa donna, che «va
a testa alta, al contrario di tutti gli altri passanti» 141, e che come lui vaga senza una
destinazione precisa. Da subito l'incontro si rivela come un enigma, che il poeta sente il
bisogno di approfondire. È lo stesso enigma che forse Nadja vede negli occhi di Breton,
quando «sorride, ma in maniera assai misteriosa [...] come con cognizione di causa»142,
come se intuisse a sua volta la particolarità del momento. Il diario prosegue riferendo
delle conversazioni dei due: Nadja parla della sua vita, delle sue difficoltà economiche,
che traspaiono anche dal suo abbigliamento, senza tacere al poeta nulla dei suoi
sentimenti, come se parlasse ad uno spirito riconosciuto come profondamente affine. I
due si frequentano per diversi giorni, Breton fa leggere a Nadja dei testi surrealisti, si
accompagnano in una peregrinazione casuale tra i discorsi e per le vie di Parigi che
rivela ancora di più la predestinazione di quegli eventi, o meglio che apre sempre di più
l'autore alla “rivelazione” sempre possibile costituita da questa donna. Ogni giorno
Nadja si rivela nella sua crescente incontenibilità, e ogni giorno il “gioco” sulla propria
e sull'altrui identità intrapreso dalla stessa infittisce l'enigma che rappresenta agli occhi
dell'autore. Se il primo incontro si era svolto nel segno di un'affinità immediata, gli
incontri successivi scivolano sempre più nel carattere vertiginoso che prende la china
delle conversazioni con la donna, rasentando talvolta la follia o l'allucinazione. Il
rapporto con Nadja diventa allora, attraverso la sua imprevedibilità, un'immagine del
140 Ivi, pp. 11-12.
141 Ivi, p. 51.
142 Ivi, p. 52.
64
caso fortuito e della coincidenza, che rivela a Breton ed al lettore l'intreccio di tutta una
serie di episodi, che nel passato preannunciavano questo incontro e nel presente lo
rivelano sempre più nella sua surrealtà. Un passo menzionato (“L'esprit nouveau”) di
Le Pas Perdu (1924), una raccolta di saggi e articoli di Breton sulle tematiche del
Surrealismo, riferisce un aneddoto che coinvolge lo stesso Breton con Aragon e Derain:
i tre avevano incontrato, a pochi minuti di distanza, una donna, che aveva attirato
magneticamente la loro attenzione. Quando si incontrano i tre faticano a comprendere
con cosa avessero avuto a che fare, tanto da spingersi
a tornare nei luoghi stessi dove ci era apparsa quella vera e propria sfinge sotto i
tratti di una affascinante giovane che andava da un marciapiede all'altro a
interrogare i passanti, quella sfinge che ci aveva risparmiata uno dopo l'altro.143
e che non riescono più a trovare. Questo episodio finisce per prefigurare in qualche
modo la comparsa di quella Sfinge che è Nadja, così come la trama di Les Détraquées
( un dramma cui Breton aveva assistito qualche anno prima al Théâtre des Deux
Masques)144, prefigura la sua sorte di abbandono e reclusione. Allo stesso modo una
serie di episodi viene retrospettivamente messo in relazione ai fatti delle giornate con
Nadja. Scorrendo le pagine del diario si chiarisce come la storia di questo incontro non
sia leggibile semplicemente come la storia di un “colpo di fulmine”, o di un amore
irrealizzato: Nadja rappresenta piuttosto uno di quei «lampi che ci metterebbero in
grado di vedere, ma vedere davvero»145 di cui parla l'autore in apertura. La vicenda si
trasforma allora nel racconto di una rivelazione, di una illuminazione improvvisa che
getta luce sull'identità stessa dell'Io che nelle prime pagine del testo viene evacuato dalle
sue determinazioni terrene. La domanda «Chi sono, io?» si riflette allora in un'altra
questione: chi è Nadja?
Cosa rappresenta questa donna, che intrecciando come un oracolo questioni e pensieri
apparentemente sconnessi tende, come l'immaginazione nel primo Manifesto, alla
conquista di uno spazio di libertà incondizionata 146, che è anche una ricognizione in un
territorio prossimo alla follia?
143 Ivi, p. 62.
144 Ivi, pp. 32-39.
145 Ivi, nota 56.
146 Cfr. A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., p. 12: «La sola immaginazione mi rende conto di
ciò che può essere, e questo basta a togliere un poco il terribile interdetto: basta, anche perché io mi
abbandoni ad essa senza paura di essere tratto in inganno (come se fosse possibile un inganno
maggiore). Dove comincia a diventare nociva e dove si ferma la sicurezza dello spirito? Per lo spirito,
la possibilità di errare non è forse la contingenza del bene?».
65
È significativo come, tra le 44 tavole del romanzo che recano foto, ritratti, disegni della
stessa Nadja, non sia presente il suo ritratto. E quando il 9 ottobre Breton, alla ricerca di
un recapito della donna fa domandare come raggiungerla lei risponde che non è
possibile raggiungerla. L'incontro concordato con Nadja non va cercato, e Breton
piuttosto si imbatte in lei come se la sua apparizione fosse predestinata: si tratta forse
dell'incontro previsto da Mme Sacco con una donna che avrebbe occupato
inconsciamente il pensiero dell'autore, e nei caratteri di ineluttabilità che assume la loro
frequentazione è possibile scorgere dei segnali che collocano la loro comune esperienza
nel segno di un destino non eludibile. Il personaggio Breton sembra scoprire a poco a
poco l'intreccio sinistro di corrispondenze tra la sua vita precedente e quell'incontro.
Come qualche giorno più tardi, quando compare un mendicante, «come non ne ho mai
visti presentarsi da nessuna parte147», che insiste per lasciare ai due delle cartoline sulla
storia di Francia.
Quella che mi tende, insistendo perché la prenda, riguarda alcuni episodi del regno
di Luigi VI e di Luigi VII (mi ero proprio allora occupato di quell'epoca, e ciò in
relazione alle “Corti d' Amore”, per cercare di immaginare quella che poteva essere
in quell'epoca la concezione della vita).148
Ancora una coincidenza, che rivela la fascinazione, in quel periodo, di Breton per i temi
dell'”amor cortese”, e poi del realismo magico medievale, in cui si condensano gli esiti
di un pensiero legato all'arcaismo delle corrispondenze rituali, dei rimandi celesti
nascosti nei ripiegamenti delle vicende terrene, dei significati celati in un tipo di
associazioni differenti da quelle logiche e “mondane”. Così come nell'amore mistico la
figura dell'amata è talvolta trasfigurata in un oggetto irraggiungibile, che fa tendere
colui che la cerca verso una celeste virtù, la decifrazione dell'oracolo Nadja è l'allegoria
per un obiettivo, più alto, che consiste nel puntare, attraverso la propulsione di questa
rincorsa infinita, a scoprire la verità di una realtà diversa. In quest'ottica, come la critica
ha più volte notato, la figura di Nadja gioca il ruolo di una guida – un “fuoco fatuo” verso un movimento di rottura permanente, come a dire che incarna la logica
eternamente “sovversiva” del Surrealismo. Da subito la donna appare come una figura
surreale, ma l'arrancare di Breton, la sua sorpresa continua rispetto all'enigma da lei
rappresentato, lo conducono in una diversa dimensione di surrealtà rispetto a quella cui
147 A. BRETON, Nadja, cit., p. 79.
148 Ibidem.
66
conduce, ad esempio, l'isolamento ragionato della scrittura automatica. La surrealtà di
Nadja si presenta più come il richiamo ad un significato da decifrare, perché celato,
nell'immagine mitica di un oracolo o di una sfinge. Lei stessa si ritrae, negli sconcertanti
disegni riportati nel libro, nella forma di una sirena, un personaggio mitico con poteri
“sovrannaturali”, e si riconosce nella figura di Melusina, spirito o fata ibridata con un
serpente149. Ed è in questa forma allegorica, di sirena o Sfinge che Nadja pone Breton
nello sconcerto, richiamandolo, secondo un destino inevitabile, ad una interrogazione
globale sulla vita stessa .
Risulta in questo punto necessario chiarire in che modo quella che può dirsi “immagine
mitica” di Nadja, può incontrarsi con la diffidenza di Breton e dei surrealisti nei
confronti delle immagini codificate e quindi, in certa misura, con le immagini
prototipiche del mito. Come attesta Solinas:
Nella riflessione del surrealismo storico convivono paradossalmente l'esaltazione
per l'universo mitico ed una visione del linguaggio basata sul rigetto delle forme
codificate. La pratica della scrittura automatica, ed ancor di più il procedimento di
costruzione dell'immagine poetica […] corrispondono al tentativo di obliterare lo
stesso ordine concettuale della conservazione, garante della riutilizzabilità infinita
di una riserva di identità e significati fissati.150
La configurazione del personaggio Nadja all'interno di uno scenario mitico rientra nel
quadro più ampio della «costruzione dell'immagine poetica»151 attuata secondo i
“precetti” del Surrealismo. Nella stessa direzione agiscono i suoi disegni, contratti in
una oscurità che solo il commento di Breton riesce in qualche modo a spiegare per il
lettore. L'immagine surrealista si colloca al di là dello spazio definitorio della
descrizione, sostituisce in qualche modo lo stimolo ottico ad una costruzione letteraria
che direbbe troppo o troppo poco, indica il riferimento ad un diverso modo di narrare
dovuto ad un diverso modo di percepire ciò che si narra, per cui è necessario “mostrare”
qualcosa che funga, per chi legge, da guida. Questa sostituzione si colloca nello spazio
della metafora, nel senso di un rimando ad un significato attraverso un'immagine
abitualmente riferita ad un ambito differente, ma non compie a pieno l'identificazione di
149 Più tardi, l'araldica rinascimentale la rappresenterà nelle fattezze di una sirena .
150 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton.
Una proposta d'analisi., p.123, in Cfr. AA.VV.,“Paragrafo. Rivista di letteratura e immaginari.”,
anno 2006, numero I, Edizioni Sestante / Bergamo University Press, Bergamo 2006, pp. 123-141.
151 Ibidem.
67
quei significati attraverso una sostituzione pedissequa dei termini del discorso.
Le svariate proposte di interpretazione del meccanismo metaforico, al di là
dell'eterogeneità teorica delle loro prospettive, sono comunque accomunate nel
considerare il processo di generazione di senso della figura come un'azione
scandita su due tempi successivi: ad un'impennata iniziale, con cui il discorso
sembra smarcarsi improvvisamente da ogni regola di coerenza, segue il momento
interpretativo, che consente al lettore di decifrare l'immagine.152
L'immagine mitica di Nadja si mantiene sospesa tra questa « impennata iniziale » ed
una interpretazione finale, mancante in questo caso, che dia conto a pieno del senso
metaforico della stessa. La metafora agisce qui nel senso di un'analogia, che riporta in
termini condivisibili l'intuizione di un oltre che rimarrebbe altrimenti non riferibile.
L'immagine poetica in questo caso, seppur simile ad un nesso metaforico, non può
esprimere, se non come rimando necessario per una lettura collettiva, pienamente il
senso della identificazione di significato che avviene attraverso la metafora poetica
tradizionale. Nel caso dell'immagine surrealista,
la distanza fra le realtà che essa collega è tale da non consentire alcuna
interpretazione a posteriori capace di gettare la luce rigenerante sul senso del plesso
verbale.153
Attraverso la sovrapposizione, che mano a mano si attua nel romanzo, del personaggio
Nadja con una figura mitica, Breton testimonia della meraviglia suscitata in lui da
quell'incontro e dal significato che andava assumendo. In quest'ottica, l'accostamento al
testo delle immagini - le fotografie dei luoghi citati di Parigi - non costituisce soltanto la
soluzione di un problema espressivo oppure, in accordo con una dinamica pur presente
nel Surrealismo, una sostituzione tesa a sottolineare il vuoto della descrizione
naturalista. È come se l'autore volesse render conto, tratteggiando la figura criptata di
questa donna e del mondo che con lei l'autore abita – la città di Parigi vista “come in
sogno” -, della sua stessa meraviglia. Le immagini di Place Maubert, del mercato delle
pulci, del castello di Saint-Germain, e degli altri luoghi citati, sono poste davanti al
lettore per restituire la mappatura della vicenda, ma anche per mostrare la sorpresa
152 Ivi, p. 125.
153 Ivi, p. 126
68
generata dal fatto che quell'incontro, l'apparizione dell'«anima errante» 154 Nadja,
potessero manifestarsi proprio lì, in quegli stessi luoghi altrimenti sommersi dal grigiore
dell'ordinarietà. Queste immagini
sono talismani privati esposti al pubblico, sono il residuo romantico che si affaccia
così spesso dalla prosa di Breton. Sono i segni della presenza di Nadja. Sono
l'invito (sfida? preghiera?) rivolto al lettore affinché varchi la soglia della persona
concreta e vivente: delle due persone del romanzo.155
All'interno di questo scenario – potremmo dire, di questo immaginario -,
l'identificazione della donna in una immagine mitica è ciò che permette di stabilire una
connessione tra un significato collettivo e l'eccezionalità della incontro di Breton con
Nadja, come per tradurre al livello di una coscienza non solo individuale la rivelazione
sempre possibile costituita da quella esperienza umana. La forma mitica, allora, ha la
funzione di trasportare la vicenda privata sul piano di una riconoscibilità collettiva,
poiché
prevede la cristallizzazione dei suoi contenuti in forme prototipiche, in motivi e
schemi che, per quanto sottoposti a variazioni costanti, fanno della riconoscibilità il
proprio carattere specifico, tanto da costituirsi come luoghi di una memoria
condivisa.156
Tuttavia, la figura di Nadja non accede, per così dire, all'“Olimpo” di questa
cristallizzazione. Poco dopo il periodo della frequentazione con Breton la donna sarà
internata nel manicomio di Vaucluse. La reclusione riporta il personaggio Nadja, finora
raffigurato nella distanza incolmabile del mito, alla dimensione umana della persona
Nadja: e tuttavia il suo internamento rende conto una volta in più della sua distanza dal
mondo157, non nel senso del mito ma sotto il segno di una differenza incolmabile tra
l'anelito alla libertà presente in lei e le piatte categorie di sanità mentale della società
borghese. Da qui nasce l'invettiva, feroce, contro la psichiatria e la categoria degli
psichiatri, con tanto di fotografia, nome e cognome di un medico.
154 Cfr. A. BRETON, Nadja, cit., p. 57.
155 D. SCARPA, Prefazione, Ivi, p. IX.
156 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton.
Una proposta d'analisi., 2006, cit., p. 123.
157 Cfr. A. BRETON, Nadja, cit., p. 117 : «L'essenziale è che, per Nadja, non penso che possa esserci
una differenza estrema tra l'interno di un manicomio e l'esterno».
69
Bisogna non essere mai penetrati in un manicomio per sapere che là dentro i pazzi
li fanno, così come nei riformatori si fanno i banditi.158
L'opinione di Breton nei confronti della psichiatria come organo di controllo poliziesco
della libertà mentale degli individui è tale che afferma che ucciderebbe coloro che
indossano l'uniforme della sanità psichica istituzionalizzata, se fosse rinchiuso in
manicomio, alla«prima remissione
concessa»159 dal suo delirio, per guadagnare
almeno il vantaggio di trovarsi isolato in quel delirio. Così come si suppone isolata
Nadja, alla cui follia Breton non aveva posto argine, ma che anzi aveva forse, durante la
loro frequentazione, alimentato, ad esempio leggendo come poesia delle lettere deliranti
di Nadja, volendo disconoscere in fondo, quei canoni borghesi di sanità che generano un
confine netto tra follia e “normalità”.
L'assenza ben nota d'una qualsiasi frontiera tra la follia e la non-follia non mi
dispose ad accordare valore differente alle percezioni e alle idee che si
attribuiscono all'una e all'altra.160
Ciò che l'autore aveva scoperto in Nadja, ciò che lo aveva dissuaso dal cercare di
opporre una barriera di sanità, o di infondere in lei un maggiore «istinto di
conservazione»161, era la forza di un'idea che lei, in quanto vita forte e debole allo stesso
tempo, serviva e rappresentava.
L'idea, cioè, che la libertà acquisita quaggiù a prezzo di mille rinunce, e tra le più
difficili, esige che si goda di essa senza restrizioni nel tempo in cui è data, senza
considerazioni pragmatiche di sorta, e ciò che perché l'emancipazione umana,
concepita in definitiva nella sua forma rivoluzionaria più semplice, che è pur
sempre l'emancipazione umana sotto tutti gli aspetti, sia chiaro, secondo i mezzi di
cui ciascuno dispone, resta la sola causa degna d'essere servita.
La parte finale del romanzo è tesa in un lirismo di difficile resa critica. Breton ripercorre
mentalmente i luoghi che testimoniano per lui della rivelazione rappresentata da Nadja.
Rivelazione che si esprime infine, come nel caso dell'episodio narrato della passeggiata
158
159
160
161
Ivi, p. 118.
Ivi, p. 120.
Ivi, p. 122.
Ivi, p. 121.
70
notturna in auto sulla strada da Versailles a Parigi 162, con la consapevolezza che
accettare l'amore nel suo significato di avvenimento assoluto, verificatore della vita,
vorrebbe dire rinunciare definitivamente alla prigionia di questo mondo, «il mondo
esterno, questa storia da far dormire in piedi» 163. Rinuncia definitiva che si esprime
anche nell'affidarsi completamente , da parte di Breton, all'idea rappresentata da Nadja,
a quel Tu verificatore senza il quale non è possibile obliterare un Io.
Tu che, per quanti mi ascoltano, non devi essere un'entità ma una donna, tu che
prima di tutto sei una donna, nonostante tutto ciò che in te mi ha piegato e mi piega
alla suggestione che tu sia la Chimera.164
L'enigma rappresentato da Nadja è in qualche modo sciolto, la sua immagine mitica
dissolta nella concreta presenza di una donna che arresta il rimando ad una sostituzione
ripetitiva e infinita di immagini enigmatiche, e quindi di significati e forme codificate.
La sua bellezza, la bellezza che interamente lei rappresenta, rifiuta la statica che è del
mito così come della logica, «chiusa cioè dentro il suo “sogno di pietra”, perduta per
l'uomo nell'ombra di quelle Odalische, al fondo di quelle tragedie che si pretendono
concluse nel giro di una sola giornata»165, e rifiuta anche la dinamica estrema di una
bellezza ineffabile, lontana, posta al di là di ogni raggiungibilità. La bellezza di Nadja è
quella della vita umana, né statica né dinamica, racchiusa nell'inafferrabilità della sua
forza, così come nella fissità dell'idea di libertà che reca con se.
La bellezza sarà CONVULSA o non sarà.166
-Louis Aragon e Le Paysan de Paris
Così come quella di Breton, la figura di Louis Aragon rappresenta uno di punti fermi del
Surrealismo storico. Il suo rapporto con il movimento non è quello di un adepto quanto
più quello di un “padre”, seppure in maniera più distaccata e talvolta opposta a quella
del caposcuola ufficiale Breton. Come accennato, Aragon collabora già con quest'ultimo
162
163
164
165
166
Ivi, p. 129.
Ivi, p. 132.
Ivi, p. 134.
Ivi, p. 136.
Ivi, p. 137.
71
e con Soupault, entrambi conosciuti alla facoltà di medicina,
alla redazione di
“Littérature”. Nell'ottobre del 1924 firma con gli stessi ed altri Un cadavre, pamphlet
redatto in occasione della morte di Anatole France che invitava a gettare nella Senna
tutta la letteratura, obsoleta, che in qualche modo quell'autore rappresentava. Nello
stesso mese, che è anche quello della pubblicazione del primo Manifesto del
surrealismo, esce, sulla rivista “Commerce”, Une vague de rêves167, che in maniera
quasi parallela al testo di Breton sviluppa dei temi centrali per tutto il movimento,
prefigurando anche il tema della surrealtà, oltre a concentrarsi sul legame tra
quest'ultima e il sogno, senza però collocare la sua indagine nel segno della psicanalisi
freudiana. L'ondata di sogno che trasporta Aragon, e con lui quella che sembra una
intera generazione di sognatori, attraverso le pieghe recondite della città di Parigi come
in uno stato di sonnambulismo, è quella che guida la conquista di una nuova
dimensione, la surrealtà appunto, come stato mentale dove i concetti sono affastellati e
indistinguibili, nell'orizzonte condiviso della religione, della magia, del sogno, della
poesia, dell'intossicazione e della follia. L'esperienza di questa surrealtà si pone come
l'esercizio di una disciplina autoipnotica, o di un dormiveglia indotto da sostanze
narcotiche, che permetta il superamento mentale della distinzione tra reale e non reale,
per accedere ad una dimensione nuova, quella appunto del surreale. Aragon riferisce
come la smania di raggiungere questa nuova percezione avesse investito moltissimi
giovani poeti, che in questa dimensione ricercavano inconsciamente la via per accedere
ad una rivelazione, che alcuni si compiacevano di rimandare all'infinito poiché
assuefatti alla meraviglia di quella situazione, di quel vagare o lasciarsi guidare dai
segnali onirici, dalle allucinazioni visive, tattili e sonore, che sommergevano la
percezione di questi moderni flâneurs. Una esemplificazione di cosa potesse portare, sul
piano letterario, l'esercizio della parola poetica nel restituire le immagini di questa
nuova forma di realtà, è data dal Paysan de Paris (Il paesano di Parigi168), pubblicato
presso Gallimard nel 1926.
Il romanzo permette di ribadire, su una prospettiva differente e forse più coerente
rispetto a Nadja, il rapporto esistente tra l'immagine surrealista e l'immagine mitica.
L'utilizzo di quest'ultima risulta anche qui, come in Breton e in molti surrealisti,
funzionale ad una collettivizzazione dell'immagine, e quindi alla comprensibilità
condivisa di un significato codificato.
167 Cfr. L. ARAGON, Une vague de rêves (1924), Seghers, Paris, 1970.
168 Cfr. L. ARAGON, Le paysan de Paris (1926), trad. it. Il paesano di Parigi,trad. it. di P. CARUSO,
EST, Milano
1996.
72
Se la lingua dei miti è per definizione sovra-personale, se la leggenda si vuole
racconto non riconducibile ad un'origine, una storia che non deriva da nessuno e
appartiene a tutti, allo stesso modo la celebrazione surrealista della sfera mitica
tende a trasmettersi attraverso il mezzo di una sorta di voce collettiva.169
In Aragon questa dinamica va ricompresa a partire dal recupero, già da Une vague de
rêves, delle immagini della surrealtà a partire da una deambulazione “notturna”, o
meglio immersa nel fluido immaginifico di uno stato mentale, il sogno – qui anche il
sogno ad occhi aperti di Robert Desnos, riportato anche in Nadja –, per antonomasia
riferito al momento notturno e non cosciente del sonno. In questa dimensione può
guadagnare spazio il mito come immagine arcaica, significato riconoscibile, all'interno
di uno scenario che testimonia del meraviglioso presente, per chi sa raggiungerlo, nella
vita quotidiana.
Al mito appartiene un orizzonte conoscitivo che ignora in parte le norme costrittive
del pensiero positivo, della logica diurna; un orizzonte in cui trova posto il
meraviglioso, onnipresente idolo del pensiero surrealista.170
Nel Paysan de Paris, il narratore in prima persona, lo stesso Aragon, accompagna il
lettore nel chiuso di un passage parigino, il “Passage de l'Opéra” – al tempo della
composizione,
cioè
nel
1924-1925,
la
galleria
stava
per
essere
distrutta
dall'avanzamento del boulevard Haussmann – e poi nell'aperto del Parco dei ButtesChaumont. In questi luoghi si configura per l'autore l'esperienza di una rivelazione,
quella che consiste appunto nella sovrapposizione, alla realtà, di una “patina onirica”, in
cui gli oggetti e i personaggi del passage prendono vita, si cristallizzano come forme di
una nuova immagine di natura. Questa natura “sovrannaturale” informa di se la
percezione della realtà, ed è in questo modo che gli episodi altrimenti terreni del
racconto possono tendere verso una conformazione all'immagine mitica, attraverso cioè
una trasfigurazione allegorica, in cui le figure particolari, i “personaggi” e gli oggetti del
“Passage de l'Opéra”, le statue e le grotte del Parc de Buttes-Chaumont, assumono il
carattere di un significato eterno e impersonale, da ricercare nelle trame di quella
“mitologia del moderno” che nel testo si costituisce.
169 G. SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell'immaginazione e concezione mitica in André Breton.
Una proposta d'analisi., cit., p. 129.
170 Ivi.
73
Nelle pagine del testo il mito – la natura sovrannaturale di ciò che appartiene al
mito – è associato alla potenza rivelativa cui assurgono gli incontri con gli esseri
animanti ed inanimati dei passages parigini, una volta che agli stessi si applica il
détournement immaginativo del flâneur. […] Colto dallo sguardo deformante di
Aragon il dato reale è investito di un'energia auratica, che gli assegna la valenza
epifanica dell'evento straordinario. […] La nuova mitologia professata dal
surrealismo corrisponde ad una percezione del quotidiano cui è restituita la
componente magica, incantata, la meraviglia, appunto.171
In che modo possa verificarsi questa forma di astrazione dalla realtà, consistente nello
sviluppare una differente «percezione del quotidiano»172, viene chiarito nella Prefazione
ad una mitologia moderna173, in cui Aragon definisce i caratteri che hanno
contraddistinto la sua ricerca. Questa si presenta innanzitutto come una critica alle
forme logico-dialettiche della filosofia razionalista, che si è spinta nella spirale della
propria determinazione interna. La storia del sapere si è costituita come continua
confutazione dei sistemi precedenti, ha portato allo sviluppo di differenti sistemi
dialettici ma raramente ad una messa in discussione della dialetticità stessa della realtà, i
cui fondamenti di verità venivano questionati. In questo senso i temi di questa
prefazione ricalcano, in certa misura, quella delegittimazione dei saperi presente nel
Manifesto del 1924, racchiusi nei limiti del discorso logico-filosofico, che aveva
permesso di rivendicare il valore cognitivo di un'esperienza che liberasse l'uomo
attraverso la liberazione del mondo immaginario.
La certezza è realtà. Da questa credenza fondamentale deriva il successo della
famosa dottrina cartesiana dell'evidenza. Non abbiamo finito di scoprire le
disastrose conseguenze di quest'illusione.174
Ancora una volta si tratta di liberare ciò che dalla cultura positivista è stato bollato come
errore, allucinazione, sragionamento. Liberare l'immaginazione, nel senso di accedere a
quel «regno nero, che l'occhio umano evita»175, il regno dell'errore «con le sue
caratteristiche ignote»176, in cui viene meno la determinazione, come nella'“illusione”
171
172
173
174
175
176
Ibidem.
Ibidem.
Cfr. L. ARAGON, Il paesano di Parigi, cit., pp. 13-16.
Ivi, p. 13.
Ivi, p. 14.
Ibidem.
74
delle filosofie razionaliste o materialiste, di una soglia netta, ancora una volta tra reale e
non reale. È in questo spazio che può prendere forma quella configurazione surrealista
dell'immagine mitica sopra menzionata.
Il narratore che accede inizialmente al “Passage de l'Opéra” è allo stesso tempo il
flâneur Aragon, che si incammina nel dedalo di gallerie, negozi, cafés, librerie, case
d'appuntamento, come a volersi perdere in un labirinto microcosmico inserito nel
contesto più ampio del labirinto cittadino. Tra i numerosi mitologemi (ad esempio la
donna come viatico ad una verità superiore, l'immobiliare Haussmann come un mostroTitano che si fa avanti per divorare tutto ciò che incontra), che prendono forma
attraversando il passage, quello del labirinto, caro già ad altri autori surrealisti,
costituisce di sicuro quello di maggiore interesse, poiché rinvia direttamente al carattere
iniziatico dell'esperienza umana177. La prova iniziatica del labirinto è vissuta come
traversata attraverso le tenebre ctonie del passage, come attraversamento di una soglia,
propedeutico al raggiungimento di quello stato di percezione che dischiude le porte
dell'insolito, dell'illusione rivelatrice, del sogno cosciente e del meraviglioso. Questa
soglia è soprattutto una demarcazione interiore: l'immagine del labirinto rappresenta lo
spazio del reale ma rispecchia anche, metaforicamente, il flusso della coscienza e
dell'immaginario del poeta che intraprende questo viaggio. Nel Paysan de Paris il
narratore, che è anche colui che attraverso questo labirinto si muove, intraprende questa
sorta di viaggio iniziatico scoprendo una Parigi non ufficiale, dimenticata come lo
spazio di un sottoscala dalla memoria collettiva, sparpagliata nelle pieghe dello spazio
urbano. Colui che narra, ricerca la sua iniziazione al mistero di un Universo differente,
il cui culto si esprime nella indagine nel surreale e nell'espressione di questa dimensione
attraverso la parola poetica automatica. Questa ricerca si pone nella forma di una
discesa, nei bassifondi della città come nelle profondità ctonie della terra, che ha il
compito di ricondurre il profano degli oggetti mondani alla sacro di quell'immaginario
mitico. In un certo senso questa dinamica rappresenta allegoricamente la missione del
poeta surrealista. Egli tenta di ritrovare le immagini del meraviglioso nel quotidiano,
istituendo delle corrispondenze inattese tra gli elementi del reale. Il compito del poeta è
quello, in qualche modo, di ricreare, riprodurre la propria esperienza del surreale.
Quest'obiettivo, rassomiglia quello del neofita che cerca di decifrare i segnali offerti dal
labirinto del passage.
177 Riguardo al mitologema del labirinto nell'opera di Benjamin si veda, oltre al complesso del
cosiddetto Passagenwerk: cfr. W. BENJAMIN, Einbahnstrasse (1928), trad. it. Strada a senso unico.,
a cura di G. SCHIAVONI, Einaudi, Torino, 2006.
75
Vale la pena aprire una breve parentesi sui passages, per comprendere il significato che
assumeranno nel confronto che tratteremo. Queste costruzioni, che possono considerarsi
la prima forma di galleria commerciale, rappresentano, per il XIX secolo, consistente in
un nuovo modo di rapportarsi dell'individuo alla merce, che come oggetto legato ad una
“moderna”
forma
di
produzione,
quella
industriale,
si
può
dire
nasca
contemporaneamente ai primi passages, cioè dai primi dell'800, e più tardi, dal 1833, in
misura crescente durante la prefettura di Barthelot, conte di Rambuteau. La necessità di
queste gallerie, entro cui la vita commerciale poteva rifugiarsi dal traffico di un sistema
stradale ancora scarso e dal maltempo, era rientrata nell'ottica di risanamento dei vecchi
quartieri centrali della città, a seguito dell'aumento demografico scaturito dall'avvenuta
industrializzazione della crescente area metropolitana. Avevano inoltre rappresentato,
nelle intenzioni degli architetti post-rivoluzionari, il concetto di uno spazio
“democratico”, semplicemente in quanto “accessibile a tutti”, nell'ottica di una doppia
funzionalità: integrare la funzione di un rinvigorito commercio (di un nuovo
commercio) con la “vivibilità” della galleria. Non solo attività strettamente commerciali
ma anche cafès, botteghe di barbieri, lo studio di una clairvoyante, una casa di
appuntamenti. Si tratta, considerando anche le nuove attrazioni rappresentate ad
esempio dai
“Panoramas”
(ad
esempio diorama,
cosmorama,
diafanorama:
generalmente si tratta di una sorta di cabina oscura dove, inserendo un gettone, era
possibile osservare le prime immagini in movimento attraverso un visore steroscopico),
di una nuova modalità di coesistenza sociale entro una nuova forma di un intérieur
concepito ad arte; una “moderna” concezione dello scambio democratico inaugurata
sotto il segno di un nuovo modo dello stare: l'intrattenimento. Gli stessi materiali (ferro,
vetro, marmo) utilizzati nella costruzione delle gallerie e nella loro illuminazione (a gas
anziché ad olio) portano il segno dell'avvenuta “modernizzazione” dei modi di
produzione, espressa nella larga disponibilità di materie fino ad allora di difficile
lavorazione ai fini dell'edilizia o di difficile reperibilità.
La modernità si condensa in una maniera espressiva nei passages situati al centro
della metropoli: modernità, acme della Neuzeit così come prima epoca che si è
riconosciuta come tale.178
Più tardi, già a partire dall'opera di “hausmanizzazione” della città di Parigi, avvenuta
178 Cfr. F. DESIDERI, «Le vrai n'a pas de fenétres...». Remarques sur l'optique et la dialectique dans le
Passagen-Werk de Benjamin, in AA.VV. , Walter Benjamin et Paris, cit., p. 198.
76
durante il Secondo Impero, le nuove trasformazioni della città e il rivolgimento delle
attività nell'aperto dei grands boulevards, ingloberanno sempre di più le strutture dei
caseggiati dove queste gallerie si incastravano, costringendo talvolta con l'esproprio o
deviando il flusso commerciale altrove, all'abbandono di questi luoghi. La nascita dei
cosiddetti grandi magazzini, alla fine del secolo, rappresenterà un ulteriore sviluppo del
commercio in relazione alla città, decretando in qualche modo la progressiva
obsolescenza dei passages. Ciò che questi luoghi avevano rappresentato, ovvero
l'introduzione di un nuovo meccanismo del consumo e del commercio, gettava le basi
materiali per una preistoria della “civiltà capitalista”. Ed è da un punto di vista quasi
archeologico che Benjamin interverrà nell'analizzare i “reperti” del XIX secolo, di cui i
morenti passages rappresentano, all'epoca in cui scrive –contemporaneamente ai
surrealisti-, la testimonianza enigmatica.
Dal lavoro sui passages parigini si sarebbero sviluppati, diventando talvolta dei testi
leggibili singolarmente, moltissimi saggi. Si pensi agli scritti sopra citati, alla Piccola
storia della fotografia, al saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica179, che nelle intenzioni dell'autore avrebbe dovuto servire come chiave di lettura
del progetto, come punto di vista prospetticamente incuneato nel discorso sull'arte
contemporanea in relazione alle forme artistiche del XIX secolo; oppure agli appunti di
viaggio o alle annotazioni diaristiche su Parigi e Berlino; alle impressioni su Napoli e la
sua «porosità» per risalire fino all'interesse per Baudelaire e la figura del flâneur, agli
scritti sul surrealismo: da Kitsch onirico180, pubblicato nel 1927 su “Die neue
Rundschau” e apparso con il titolo Glossa sul surrealismo, fino al saggio, del 1929, che
rappresenta forse lo scritto più diretto nei confronti del surrealismo in particolare e delle
avanguardie in generale, e che prenderemo in esame più avanti, dopo aver chiarito, in
relazione alla poetica di Aragon, dei caratteri che getteranno una luce ulteriore sul
progetto dell'opera sui passages e sulla critica del surrealismo posta tra le sue righe.
Le prime letture surrealiste di Benjamin ci sono tramandate, nella forma di un rapimento
o di una lettura decisamente partecipe, da un carteggio con Theodor W. Adorno del 1935
– quindi in una riflessione retrospettiva: agli inizi del Passagenarbeit «c'è Aragon, il
Paysan de Paris del quale la sera a letto non riuscivo mai a leggere più di due o tre
179 Cfr. W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1935), trad.
it. L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica., a cura di F. DESIDERI, Donzelli,
Roma, 2012.
180 Cfr. W. BENJAMIN, Traumkitsch (1927), trad. it. Kitsch onirico, in Aura e Choc. Saggi sulla teoria
dei media., a cura di A. PINOTTI, A. SOMAINI, Einaudi, Torino, 2012, pp. 317-319.
77
pagine, perché il batticuore diventava tanto forte che dovevo mettere da parte il
libro»181. Il paesano di Parigi, assieme con la Prefazione ad una mitologia moderna
preposta al testo come a marcarne la soglia, aveva rappresentato in qualche modo
l'innesco del lavoro sui passages, sia nel senso di una vera e propria ispirazione, che
nella forma di un nodo da sciogliere. Benjamin ribadirà spesso l'importanza del modello
come del refuso. L'”interesse ardente” è bilanciato da una distanza cosciente nei
confronti del movimento, testimoniata, già dal novembre del 1928, in una lettera inviata
a Scholem in cui parla del lavoro che si è proposto – quello sulla Parigi “capitale” di un
epoca –, che presenterebbe una «troppo evidente vicinanza al movimento
surrealista»182 , prossimità «comprensibile e fondata», che l'aveva portato ad
approfondire anche il suo distacco, come per respingere il pericolo di una correlazione
che avrebbe potuto vedere il complesso del suo lavoro assumere, per la critica, «l'eredità
del surrealismo»183. Più tardi, all'epoca dei primi tentativi di formulazione complessiva
del Passagenarbeit perché potessero incontrare una diffusione, nella sezione dei
materiali e appunti per la ricerca, troviamo annotazioni che testimoniano la decisa
volontà di demarcare il suo lavoro, e che portano sinteticamente alla luce delle nozioni
che costituiscono di fatto il terreno di confronto:
Delimitazione della tendenza di questo lavoro rispetto ad Aragon: mentre Aragon
persevera nella sfera del sogno, qui deve essere trovata la costellazione del
risveglio. Mentre in Aragon permane un'elemento impressionista – la “mitologia” e questo impressionismo va reso responsabile di molti informi filosofemi del libro
– qui si tratta invece di una risoluzione della “mitologia” nello spazio della storia.
Naturalmente questo può accadere solo risvegliando un sapere non ancora
cosciente del passato.184
Disponiamo ora di due coppie di nozioni, il sogno e il risveglio, la “mitologia”
aragoniana e la sua risoluzione, la cui elaborazione in Benjamin costituirà uno dei nuclei
principali del confronto con il l'autore surrealista.
É qui il nodo della questione, e la riflessione di Aragon è cruciale per tutto il
surrealismo nel suo rapporto con la modernità: dove cercare, nella mutata coscienza
della realtà, diventata «fuggitiva» con il sopravvento della technè, l'elemento mentale
capace di modularsi ad un ritmo differente da quello del pensiero razionale, scandito
181
182
183
184
cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, a cura di E. GANNI, Einaudi, Torino 2002, p. 107.
Ivi., p.1038.
Ibidem.
Ivi, p. 1095.
78
dall'evidenza della certezza riscontrabile in un mondo ancora “cadenzato” in maniera
stabile. Anche affidarsi ad una visione fisicalista, circoscritta a ciò che con i sensi è
possibile dedurre, non renderà giustizia alla fugacità di questa esperienza del moderno.
E del resto la deduzione a partire dai sensi non è salva dal doversi confrontare con teorie
in termini astratti.
Nulla può assicurarmi della realtà, nulla può escludermi che per interpretarla io mi
fondi sul delirio, né il rigore di una logica, né la forza d'una sensazione.185
Il caso enigmatico è per Aragon quello delle scienze matematiche, in cui l'ordine
naturale dell'enumerazione e del rapporto numerico è reso “vero” dalla costruzione di
una struttura ad hoc di elementi totalmente astratti. In questo senso il razionalismo,
nella forma della sua astrazione della realtà, può dirsi insufficiente nel cogliere la
velocità, la complessità dell'esperienza moderna. Ciò che guiderà la “sperimentazione”
nel campo aperto dell'errore, specchio della realtà cangiante del mondo tecnico, sarà
allora una diversa forma di astrazione, che consisterà in una consapevole adesione
all'“immaginazione”, al sogno o meglio ad un vagare onirico, da contrapporsi a quella
facoltà immaginativa (e taciuta come tale) del pensiero che contraddistingue per Aragon
l'astrazione razionale. L'errore è liberato dal ruolo di negativo che aveva nei saperi
razionali per essere ripreso e riutilizzato nella mistificazione allegorica e onirica del
reale.
Ora so che non si tratta affatto di grossolane trappole, ma di curiosi itinerari verso
una meta che mi può rivelare solo essi e nient'altro.186
Questa premessa è una dichiarazione programmatica. Ad un'ottica dialettica si
contrappone, nel senso di un consapevole tentativo di superamento della visione
razionale, quella filtrata dal sogno e dall'ebbrezza onirica. Questo sforzo, che è
soprattutto impegno immaginativo – anche nel senso dell'utilizzo preponderante
dell'immagine onirica ai fini di una costruzione di significato –, si rivolge, nell'itinerario
ideale di Aragon nel Passage de L'Operà, ad una realtà pervasa dall''imminenza della
morte: lo sguardo disincatato sul sapere razionale viene rovesciato nell'affermazione di
un “sapere effimero” del passato, osservato nel momento transitorio del suo trapasso.
L'immaginazione si affaccia allora nella forma di un vero e proprio strumento
185 Ivi, p. 16.
186 Ibidem.
79
conoscitivo, che deve permettere il superamento del sapere razionale. Più tardi nel testo,
il Discorso dell'immaginazione187 legittima ancora la posizione di questa facoltà
conoscitiva tra le altre, anche riguardo al senso dell'immagine nel pensiero surrealista:
Il vizio chiamato Surrealismo è l'impiego sregolato e passionale dello stupefacente
immagine, o piuttosto della provocazione senza controllo dell'immagine per se
stessa e per ciò che essa comporta, nell'ambito della rappresentazione, di
perturbazioni imprevedibili e di metamorfosi: poiché ogni immagine ogni volta vi
costringe a rivedere tutto l'Universo.188
Il rilievo critico delle contrapposizioni duali della filosofia razionalista (verità/errore,
realtà/illusione) si trasforma in un rifiuto, che non è propriamente un'abolizione, quanto
la constatazione dell'insufficienza della ragione ai fini di una vera conoscenza della
realtà, nello spazio di una mutata esperienza umana. In questo è forse racchiusa la
dimensione tragica della riflessione di Aragon, e in questo senso è forse possibile
leggere la cifra di quella mitologia di cui il paysan dell'epopea aragoniana funge da
interprete originale .
Miti nuovi nascono sotto ciascuno dei nostri passi […]. Varia ogni giorno il
moderno sentimento dell'esistenza. Una mitologia si forma e si disnoda. È una
scienza della vita propria solo di chi non ne ha esperienza alcuna. È una scienza
vivente, autocreatrice e suicida.189
I passages diventano allora un luogo dove si conforma una procedura gnoseologica. Il
suo percorso non mira a tramandarsi in una consapevolezza razionale, a trasmettere
cioè, alla coscienza del secolo ventesimo, la “verità” storica delle evidenze del XIX
secolo; piuttosto si tratta di raccogliere il materiale apparentemente inerte di un secolo
irrimediabilmente passato nella funzione di una nuova esperienza, fondante una nuova
visione e quindi una nuova epistemologia. L'interno del passage, in cui l'immagine
diventa strumento per una mappatura onirica del reale, è l'oggetto di un sapere effimero,
non la rivendicazione di una validità di un impossibile sapere irrazionale, e la dovizia di
particolari esposta nella descrizione delle boutiques, dei cafès, o delle case
d'appuntamento non è funzionale ad un intento di ricostruzione storica dialettica: tutto
ciò sta per essere distrutto e reca la traccia di un tempo demodé (la moda è la sapienza
187 Ivi, p. 62.
188 Ivi, p. 64.
189 Ivi, p. 17.
80
dell'effimero) e defunto, o meglio è forse proprio l'osservare il passage privato della sua
essenza naturale - quella di essere il luogo espositivo delle specialitès e delle
nouveautés dell'industria – lo stratagemma che Aragon utilizza per collocare quella
esperienza nell'ambito di una determinazione arcaica.
Il mito si presenta allora nella duplice funzione di apparato allegorico e di medium
epistemologico, e il passage fornisce la duplice immagine metaforica di tempio
“sconsacrato” della modernità e di passaggio liminale tra una realtà attuale ed una,
“fantasmagorica”, in cui è l'ebbrezza onirica a determinare le corrispondenze del reale:
Non si adorano più gli dei sulle altitudini. Il tempio di Salomone è passato nelle
metafore, dove ripara nidi di rondini e livide lucertole. Lo spirito del culto
disperdendosi nella polvere ha disertato i luoghi sacri. Ma altri luoghi fioriscono tra
gli uomini, altri luoghi dove gli uomini si abbandonano alla loro vita misteriosa, e
che poco a poco nascono a una religione profonda. La divinità non vi abita ancora,
ma vi si forma.190
Il flâneur aragoniano è il personaggio che attraversa e traccia, nell'immaginazione,
l'itinerario di un nuovo culto misterico. L'ingresso in questo mistero ci porta in un regno
sospeso, non storico, non dialettico, ma appunto relegato, attraverso l'ebbrezza onirica
racchiusa nell'immagine, nell'ambito arcaico dell'immagine mitica. Il dérèglement della
scrittura onirica rappresenta il luogo di raccolta e concentrazione delle forze oniriche: le
catacombe di questo nuovo “culto dell'effimero”, sono ricavate le rotture del testo di
Aragon, che richiamano la più generale rottura operata dal surrealismo con le poetiche
tradizionaliste.
Un passo falso, l'incepparsi di una sillaba, rivelano il pensiero d'un uomo. Vi sono,
nell'instabilità dei luoghi, simili serrature che chiudono male sull'infinito. La dove
si coltiva la più equivoca attività dei viventi, l'inanimato rispecchia talvolta i loro
moventi più intimi: le nostre città sono così popolate di Sfingi fraintese che il
passante sognatore non vi si sofferma se non in forma distratta e meditabonda,
perché non gli pongono questioni mortali. […]. La luce moderna dell'insolito, ecco
tutto ciò che ormai lo attira.191
In questa lettura il senso sintetico dell'opera è quello di un epitaffio del XIX secolo, in
cui l'enigma della preistoria del XX viene rilegato in una dimensione mitologica: la
190 Ivi, p. 21.
191 Ibidem.
81
continuità del moderno con i miti della propria preistoria è interrotta dall'inattualità
della prospettiva onirica, che si pone in qualche modo, per essenza, sprovvista di una
progettualità. L'esperienza del Passage de l'Opera è
anche l'esperienza, a livello
dell'inconscio collettivo, di una narcosi diffusa. Se il mito si pone come istanza
interpretativa del reale si utilizza in fondo ancora una chiave “astratta” per leggere il
passato, che nello sforzo di liberarsi dallo stretto della conoscenza razionale si vincola
alla logica dell'oblìo. Il testo aragoniano si chiude nel ritmo di un rintocco funebre sub
specie aeternitatis:
Ciò che m'importava tanto, la mia povera certezza, in questa grande vertigine in cui
la coscienza si sente un semplice pianerottolo degli abissi, che è mai divenuta? Non
sono che un momento di una caduta eterna. Il piede perduto non lo si ritrova mai. Il
mondo moderno è quello che sposa le mie maniere d'essere.192
In questo quadro la “caduta eterna” conferisce al sogno il senso di incubo collettivo, o di
una “fantasmagoria” del reale, che Benjamin leggerà come un “permanere nella sfera
del sogno”, e quindi nell'atteggiamento di un oblìo, o nella volontà impressionista di
istituire uno schema simbolico del mondo per non ricorrere ad una dialettizazione
storica di questi simboli.
In questo punto si innesta la sua critica, e da qui il suo lavoro si vorrà separato
concettualmente da Aragon e dal surrealismo. In questo punto teorico della sua lettura
nasce probabilmente l'idea di un lavoro che correggesse la visione nichilista del poeta
francese, opponendovi una resistenza dialettica: questa rottura servirà da innesco per il
lavoro sui passages.
192 Ivi, p. 103.
82
Capitolo III
Dal lavoro sui passages alle Tesi di filosofia della storia.
- Dal progetto del Passagenwerk al saggio sull'opera d'arte
All'inizio lo studio di Benjamin avrebbe dovuto avere la forma di un contributo
giornalistico, da scrivere assieme all'amico Franz Hessel. L'idea si allargò però a
dismisura nella sua mente, e l'articolo si trasformò nel progetto di uno studio di più
ampio respiro. Il titolo iniziale era I «passages» di Parigi. Una fantasmagoria dialettica
(Pariser «Passagen». Eine dialektische Féerie.).193 Come è stato notato «il termine
Féerie contenuto nel sottotitolo alludeva sin da subito al fatto che la cultura
ottocentesca, riassunta emblematicamente nella figura architettonica dei passages era
una cultura immersa nell'alone di un “sogno” incantato, un'atmosfera auratica che
doveva però essere affrontata con un atteggiamento “dialettico”, ossia come un “sonno”
da cui era necessario uscire mediante lo choc di un risvegli»194.
La necessità primaria di Benjamin è quella di sviluppare teoricamente un disincanto
(Entzauberung) nello spazio del linguaggio, e di restituire allo sguardo storico la
dialetticità, favorendo il recupero dei sedimenti del passato (del passato dei genitori, di
un passato estremamente prossimo), nel senso di un superamento – la nozione è ripresa
dall'Aufhebung hegeliana ma la sua applicazione non sarà mai dogmatica – e di una
193 Nel riferirci al complesso del Passagenwerk ci riferiamo essenzialmente alla mole dei materiali editi
nell'edizione dei Gesammelte Schriften curata da Tiedemann e Schweppenhäuser, cui fa riferimento
l'edizione italiana dell'opera, intitolata I «passages» di Parigi, curata da Ganni, cui si riferisce questa
trattazione. Un esempio di espunzione, a partire dall'edizione tedesca dell'opera omnia, di un testo
antologico del lavoro benjaminiano (che, ricordiamolo, è tanto un progetto di Benjamin, quanto un
tentativo della critica di compiere un'opera rimasta incompiuta), è rintracciabile in: cfr. W.
BENJAMIN, Das Passagen-Werk, a cura di R. TIEDEMANN, H. SCHWEPPENHÄUSER,
Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1982.
194 Cfr. A. PINOTTI, A. SOMAINI, Introduzione alla Sezione VII, in W. BENJAMIN, Aura e Choc.,
cit., p. 348.
83
demitologizzazione (Entmythologisierung).
Il sogno deve essere ricompreso in una dimensione storica e collettiva, “naturale” nel
senso che esiste un rapporto pienamente “esistenziale” del sogno con la realtà. Si tratta
di far luce, attraverso questo nuova visione collettiva del sogno, anche sul sogno
individuale.
Differenza con Aragon: far rientrare tutto ciò nella dialettica del risveglio e non
farsi cullare stancamente nel “sogno” o nella “mitologia”. Quali sono i suoni del
primo mattino che abbiamo incluso nei nostri sogni? La “bruttezza” di ciò che è
“fuori moda” non è altro che una serie di voci travisate del mattino che parlano
della nostra infanzia.195
La prima fase di lavorazione del Passagenwerk ruota sulla coppia, cui abbiamo
accennato, sogno-veglia, a partire dall'autunno del 1927, fino alla fine 1929. Sono di
questi anni anche alcuni saggi dedicati direttamente al surrealismo: il già citato Kitsch
onirico, e soprattutto Il Surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei. 196
La problematicità di alcuni nessi evidenziati nella lettura di Aragon,viene forse più
chiaramente alla luce confrontandosi con il breve scritto del 1929, in cui troviamo una
diretta, seppur enigmatica, presa di posizione rispetto al surrealismo e alle avanguardie
in generale. Benjamin si schiera in una posizione mediana, o piuttosto da una posizione
esterna, per osservare dal suo punto di vista sia i temi e gli scritti surrealisti, sopra tutti
Aragon e Breton, che il corrispettivo sul piano politico della loro poetica: dalla sintesi di
questa relazione Benjamin farà scaturire la sua critica, considerando, in rapporto anche
al suo lavoro, il ruolo storico del surrealismo.
Lo scritto si apre innanzitutto con una “difesa” del movimento nel senso di una
opposizione alla lettura borghese e “filistea”, quella dei «saccenti»197 che non ritengono
di dover andare oltre quelle che ritengono le caratteristiche, una volta per tutte essenziali
e canonizzate, del movimento: agli occhi dei conservatori i numi tutelari del surrealismo
(si pensi al Rimbaud della Saison en enfer, e quindi al dérèglement dei sensi come
superamento della logica razionalista, o al suo rifiuto del cattolicesimo; ai Chants de
Maldoror198 di Lautréamont, nell'elemento visionario e di “insurrezione” contenuto nella
195 Cfr. W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 988.
196 Cfr. W. BENJAMIN, Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei.,in Aura e Choc.
Saggi sulla teoria dei media., cit., pp. 320-333.
197 Ivi, p.321.
198 Cfr. LAUTREÀMONT, Chants de Maldoror (1869), trad. it. I canti di Maldoror, a cura di L.
SALVATORE, Arcipelago, Firenze, 2012.
84
sua poetica; ad Apollinaire, i cui rapporti, diretti,vivi, con il movimento surrealista, si
chiariranno meglio più avanti) lo collocano nell'inventario dei movimenti della
“decadenza”. La critica misconosce i significati ultimi del pensiero surrealista, leggendo
superficialmente il «culto del male»199, in cui era implicita una critica al «dilettantismo
moraleggiante» della politica, come atteggiamento luciferino e maudit, «come pendant
dell'art pour l'art»200, ; oppure additando nei surrealisti l'ennesima «cricca letteraria che
ha imbrogliato l'onorevole pubblico»201, favorendo una lettura (quella della “critica
estetica” di cui si parlava in opposizione al metodo benjaminiano) sbilanciata sul piano
del canone poetico o della storia della letteratura. Tali posizioni critiche, di stampo
conservatore, ma provenienti anche da sinistra, finiranno per determinare anche la
posizione politica del movimento, la cui unità sarà minata negli anni proprio da
questioni di appartenenza politica. Il riferimento è a Pierre Naville, che pure aveva
intuito in La Révolution et les Intellectuels la dialettica coesistente tra la nuova plasticità
della poesia surrealista e un atteggiamento rivoluzionario, e alla sua recente adesione al
Partito Comunista. La lista dei nomi, di cui la Vague de rêves di Aragon aveva costituito
l'elenco, restituiva l'immagine di uno «stadio eroico» 202 che per Benjamin era terminato.
Poco più tardi, nel 1930, questo venir meno dell'unità del movimento sarà testimoniato
da Breton nel Secondo Manifesto del Surrealismo203, che sancirà l'esclusione di Robert
Desnos, di Soupault e di altri, oltre a testimoniare l'acida diatriba tra Breton e Artaud,
che vedrà quest'ultimo letteralmente respinto dalla cerchia del surrealismo. Il critico
tedesco voleva evidenziare come il Surrealismo si trovasse in una fase di transizione,
posto di fronte ad una necessaria decisione, nella «posizione estremamente scoperta tra
fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria»204 (posizione in cui lo stesso Benjamin si
era trovato nei confronti del comunismo), il che significava anche dal punto di vista più
strettamente artistico decidere tra l'adagiarsi sui propri temi e sulla propria poetica (per
diventare in qualche modo una scuola, per veder congelata la propria lettera in un
canone), oppure scoprire quel meccanismo dialettico - pur annunciato nelle sfere del
sogno o nel recupero del sotterraneo -, di rottura, di “superamento della mitologia nello
spazio della storia”:
In questi movimenti c'è sempre un momento in cui la tensione originaria della setta
199
200
201
202
203
204
W. BENJAMIN, Il surrealismo. L'ultima istantanea sugli intellettuali europei., cit., p. 321.
Ibidem.
Ivi, p. 320.
Ivi, p. 321.
Cfr. A. BRETON, Manifesti del surrealismo, cit., pp. 59-129.
Ivi, p. 320.
85
segreta deve esplodere nella lotta pratica, profana per il potere e il dominio,o
annullarsi come tale, trasformandosi in una manifestazione pubblica.205
Quando il surrealismo – scrive Benjamin-,
irruppe sui suoi fondatori nella forma di un'ispiratrice ondata di sogni, esso apparve
come sommamente integrale, definitivo, assoluto. Tutto ciò con cui veniva a
contatto si integrava. La vita pareva degna di essere vissuta solo quando la soglia
che c'è tra la veglia e il sonno era come cancellata, in ciascuno, dai passi di mille
immagini fluttuanti; il linguaggio pareva veramente tale solo là dove il suono e
l'immagine, l'immagine e il suono erano ingranati l'uno nell'altra con tale
automatica esattezza e in modo così felice che non restava più alcuna fessura dove
infilare il gettone senso.206
Il linguaggio poetico ha nel surrealismo la massima priorità, non nel senso di un mero
dominio dell'estetica, ma come veicolo di un'esperienza, che ricorre al sogno come fonte
di immagini, ma anche e soprattutto come luogo dello scardinamento dell'identità:
Nella compagine dell'universo il sogno allenta l'individualità come un dente
cariato.207
Proprio quest'allentamento costituisce l'esperienza, l'esperimento che i surrealisti hanno
portato avanti nella scrittura automatica, ed è ciò su cui verte il vero nucleo di senso del
movimento.
Ciò che manca alla realizzazione ultima di questa esperienza, ciò che non è raggiunto
dalla semplice ebbrezza o dall'estasi religiosa, che sono più esperienze propedeutiche o
transitorie, ha la forma per Benjamin di una «illuminazione profana», «una ispirazione,
materialistica, antropologica»208, i cui caratteri saranno chiariti più avanti nel nostro
testo, quando si parlerà del concetto di storia.
Il motto che, per Benjamin, sintetizza la missione politica della poetica surrealista,
suona come la definizione di un obiettivo di portata storica, nei confronti soprattutto del
capitalismo:
Conquistare le forze dell'ebbrezza per la rivoluzione.209
205
206
207
208
209
Ivi,p. 321.
Ibidem.
Ibidem..
Ibidem.
Ivi, p. 331.
86
La critica di Benjamin alla situazione contingente del gruppo surrealista riguarda
l'avvicinamento al comunismo, portato avanti prima da Naville, seguito poi a modo
tutto loro da Breton e Aragon. Secondo «l'osservatore tedesco» che può valutare da una
migliore prospettiva, quella allo stesso tempo esterna e partecipe della critica radicale,
l'adesione al comunismo ortodosso costituisce una forma di cristallizzazione di quelle
«forze dell'ebbrezza», da utilizzare altrimenti per tentare di scardinare la logica, di
matrice ancora una volta mitica, della violenza politica ciclica.
Dove sono i presupposti della rivoluzione? Nel cambiamento del modo di pensare,
o in quello dei rapporti esterni? È questa la domanda cruciale, che determina il
rapporto di politica e morale e che esige una completa chiarezza. Il Surrealismo si è
sempre più avvicinato alla sua risposta comunista. E ciò significa pessimismo su
tutta la linea. Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte dell'umanità europea, ma
soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i
popoli, tra i singoli.210
In questo contesto l'unica possibilità del Surrealismo sta, per il critico tedesco,
nell'organizzazione di quel pessimismo, inteso come rinuncia ma anche come stato
passibile di remissione, verso la conquista di uno spazio pienamente immaginale in cui
scoprire la possibilità di un azione politica. In altre parole, quello di «organizzare il
pessimismo»211, sarebbe uno sforzo teso ad allontanare dalla politica la metafora morale
dell'ideologia – ciò che costituisce il sostrato morale del capitalismo o del comunismo
stesso come “religioni” - , per istituire, entro lo spazio dell'immagine come medium
puro212, una liberazione dello spazio della percezione. Tale processo di liberazione, in
cui si rispecchia l'opposizione centrale nella critica al surrealismo – cioè quella tra
immagine mitica e immagine dialettica - è un processo la cui immagine è quella del
risveglio. Nell'elaborazione di tale processo si chiude, in qualche modo, il cerchio che
dalla critica della violenza passando per l'analisi del capitalismo come fenomeno
religioso caratterizzante XIX secolo, permetterà al teorico tedesco di pervenire al suo
peculiare “materialismo storico”, ovvero ad una visione politica della storia, il cui
obiettivo è un rivolgimento dialettico dello sguardo storico sul passato. In questa
accezione è possibile leggere quella che Benjamin chiama «svolta copernicana» insita
210 Ivi, p. 331-332.
211 Ibidem.
212 Ritorna in questo contesto l'ideale, espresso già a partire dallo scritto Per la critica della violenza, di
una politica dei «mezzi puri» come carattere necessario di un fare politico che uscisse fuori,
relativamente all'epoca, dalla logica del parlamentarismo di matrice weimariana.
87
nella sua concezione di risveglio dialettico.
Quest'ultimo passaggio teorico dell'importante “testo di transizione” sul surrealismo, è
quello che condensa un nucleo teorico fondamentale nella genesi del Passagenarbeit.
Gli anni dal 1927 al 1935 segnano in questo senso un lungo periodo intermedio, tra
quelle che abbiamo precedentemente segnalato come fasi differenti della produzione di
Benjamin.
Nella sezione K della raccolta del Passagenwerk213, risalente a quegli anni, i frammenti
riportati permettono di ricostruire quantomeno lo scenario teorico entro cui Benjamin
intendeva innescare tale risveglio dialettico, da svilupparsi nell'ambito di una
«disciplina del risveglio che investa varie generazioni» 214:
Il risveglio come processo graduale che si fa strada nella vita del singolo come in
quella delle generazioni. Il sonno come loro stadio primario. L'esperienza giovanile
di una generazione ha molto in comune con l'esperienza del sogno. Il suo aspetto
storico è un aspetto di sogno. Ogni epoca possiede questo lato incline ai sogni. Per
il secolo scorso esso emerge con estrema chiarezza nei passages. Mentre però
l'educazione delle passate generazioni ha fornito loro nella tradizione,
nell'istruzione religiosa, un'interpretazione di questi sogni, l'educazione tende
invece semplicemente alla distrazione dei bambini […]. Ciò che si intende operare
nelle pagine che seguono è un esperimento di tecnica del risveglio: il tentativo di
prendere atto della svolta copernicana e dialettica della rammemorazione.215
Nell'ottica del risveglio come rammemorazione si scopre una sovrapposizione di due
concetti: quello del risveglio, elaborato a partire dall'indugiare del surrealismo nella
dimensione onirica, e quello del ricordo, la cui fisionomia si riferisce al meccanismo
proustiano della rammemorazione come recupero ad originem della storia individuale.
Il sogno da cui il XX secolo deve necessariamente, per Benjamin, ricostruire una
visione dialettica della storia, è un sogno collettivo perché si codifica nella dimensione
sociale della civiltà capitalista216, sarebbe a dire, ancora una volta, nella logica di una
ripetizione mitica del potere, che implica la ripetizione del veto alla rivoluzione e quindi
alla liberazione dell'uomo. In questo senso il processo del risveglio acquista una
213 Cfr. W. BENJAMIN, «Traumstadt und Traumhaus, Zukunftsräume, anthropologischer Nihilismus,
Jung» (1991), trad. it. «Città di sogno e casa di sogno, sogni a occhi aperti, nichilismo antropologico,
Jung», in I «passages» di Parigi, cit., pp. 432-452.
214 Ivi, p. 438.
215 Ivi, p. 432.
216 «Il capitalismo fu un fenomeno naturale col quale un nuovo sonno affollato di sogni avvolse l'Europa,
dando vita ad una riattivazione delle forze mitiche.». Ivi, p. 436.
88
dimensione politica e allo stesso tempo salvifica: la sua necessità è scandita dall'istanza
morale di una liberazione più ampia della semplice acquisizione di una posizione
dominante nella lotta per il potere, quanto nell'istituzione di un concetto di storia
depurato da connotazioni mitiche.
La svolta copernicana della visione storica è la seguente: si considerava «ciò che è
stato» come un punto fisso e si assegnava al presente lo sforzo di avvicinare a
tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi
e il passato deve diventare il rovesciamento dialettico, l'irruzione improvvisa della
coscienza risvegliata. La politica consegue il primato sulla storia. I fatti diventano
qualcosa che ci è accaduto giusto in quest'istante, fissarli è compito del ricordo. E
in effetti il risveglio rappresenta il caso esemplare del ricordare: il caso in cui
riusciamo a ricordarci di ciò che è più prossimo, più banale, più a portata di mano
[…]. C'è un sapere non-ancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla
superficie ha la struttura del risveglio.217
Se la prospettiva della liberazione è quella del risveglio, tale prospettiva si esprime nel
tentativo di recuperare, tramite una riscrittura della storia “insabbiata” del XIX secolo, il
passato prossimo come preistoria del presente, e dell'orizzonte percettivo del futuro.
L'operazione di Benjamin non è, ancora una volta, quella del recupero funzionale alla
conservazione di una tradizione, quanto l'elaborazione di una lettura critica, attraverso la
cultura materiale e fenomenica di un'epoca – il primo capitalismo, l'epoca del moderno
- , di una concezione politica che potesse opporsi al dogma mitico come a quello
religioso. Nei passages e in ciò che hanno rappresentato fino alla propria progressiva
scomparsa, la cultura materiale del XIX secolo tesse la tela di un significato recondito,
che i surrealisti per primi hanno saputo cogliere. Come se il desueto e il sotterraneo
avessero acquistato, nel contesto di una cultura che consuma ciò che utilizza ponendolo
nell'oblìo, nel dimenticatoio, un significato rivelatore. Lo storico Benjamin sta di fronte
alla preistoria del presente che si esprime nei passage come il critico Benjamin di fronte
alla pergamena, in cui il contenuto di verità si è celato con il tempo. Sotto la patina
onirica di cui si maschera la realtà delle gallerie commerciali, si cela lo scheletro morale
del XIX secolo. Scrivere la storia di questi luoghi vuol dire riconoscere una legittimità
al mondo che la abita, riscattare in esse il senso proprio dell'esperienza ai tempi del
capitalismo industriale. Per ritrovare, nei passages ancora racchiusa come in un
217 Ivi, p. 433.
89
microcosmo, la struttura percettiva che sta, storicamente, alla base della nostra.
Non solo le forme fenomeniche della collettività sognante del XIX secolo non
possono essere in alcun modo cancellate dal pensiero, non solo esse lo
caratterizzano in modo più decisivo di quanto sia mai accaduto a ogni altra epoca
del passato: esse sono anche, se ben interpretate, di enorme importanza pratica, ci
fanno conoscere il mare in cui navighiamo e la riva da cui salpammo. In una
parola, è qui che deve inserirsi la «critica» del XIX secolo. Non la critica del suo
meccanicismo e macchinismo, ma quella del suo storicismo narcotizzante, della
sua smania di mascheramenti, in cui pure si nasconde un segnale di vera esistenza
storica, che i surrealisti sono stati i primi a cogliere. Decifrare questo segnale è
quanto si propone la seguente ricerca. E la base rivoluzionaria e materialistica del
surrealismo è una garanzia sufficiente del fatto che, nel segnale di vera esistenza
storica che è qui in questione, il XIX secolo faccia pervenire la propria base
economica alla sua più alta espressione.218
Il “materialismo” che Benjamin ascrive alle intuizioni dei surrealisti come anche alla
sua ricerca, consiste nel rivolgere l'attenzione critica in direzione della cultura materiale
del capitalismo. Una civiltà basata sulla produzione e sul consumo ciclici, si
autodetermina come tale proprio in quanto legata ad oggetti di consumo, al prodotto
industriale come corredo necessario all'immaginario: la critica dovrà innestarsi proprio a
partire dai residui contenuti entro tale cultura manifesta, lasciando da parte l'inventario
storicistico per privilegiare una rilettura del senso di quel sistema culturale alla luce
dell'esperienza del mondo da parte dell'individuo. Tale critica condivide con lo spirito
del surrealismo sia l'oggetto cui si rivolge che la forma di espressione. Le avanguardie,
e in particolare Dada e il Surrealismo, avevano portato avanti, nella scoperta/invenzione
di nuove tecniche compositive (si pensi al citato frottage, al dettato automatico, ma
anche al montaggio cinematografico e al collage artistico), una nuova concezione di
creazione artistica, che potesse riflettere l'esperienza frammentaria della realtà come si
presentava all'alba del XX secolo. Allo stesso modo l'incompiuta rappresentata dal
Passagenwerk si compone di frammenti, appunti enigmatici, citazioni e articoli di
giornale, come a voler racchiudere entro le proprie pagine non tanto, ancora una volta,
una teoria sistematica che spiegasse il meccanismo del progresso – come era per
Benjamin il marxismo ortodosso -, quanto l'insegnamento segreto – occulto solo nel
218 Ivi, pp. 435-436.
90
senso di occultato dalla storia dei vincitori - celato nell'analisi storica (e non
semplicemente storicistica) dell'allucinazione collettiva di un'epoca.
Da un lato la missione benjaminiana esercita una dinamica di recupero del passato,
dall'altra racchiude un'aspirazione alla liberazione, al risveglio, che sottintende la
volontà critica di “consumare” quella cultura del passato, così come l'interprete del
sogno ricostruisce i nessi sintomatici presenti nel racconto delle immagini oniriche. Lo
storico si fa allora prima di tutto interprete di quell'allucinazione onirica collettiva che è
l'esperienza del moderno nella civiltà capitalista. A tal proposito Benjamin annota, nella
citata sezione K del cosiddetto Passagenwerk, come il superamento dell'indugiare
surrealista nell'immagine onirica dovesse costituirsi come opposizione, sul piano
psicanalitico, alla teoria junghiana del sogno come luogo d'apparizione degli archetipi
mitici della coscienza collettiva. Anzi potremmo dire che Benjamin tenta in tutti i modi
di divincolarsi da ogni concezione del sogno che insistesse troppo su una dimensione, in
teoria,
collettivamente
significante,
per
insistere
sulla
dimensione
sociale
dell'immaginario espresso nella dimensione onirica individuale. In questo senso risulta
forse chiarificato ulteriormente il senso della critica benjaminiana al surrealismo: voler
interpretare il significato dei sogni all’interno di un contesto onirico non è sufficiente
per cogliere il senso di un’epoca storica. Per far questo occorre portare alla luce le
origini del passato e le implicazioni “sociali” del sogno, attraverso appunto un risveglio
come dialettizzazione dell'immaginario contenuto nel sogno del XIX secolo, entro lo
spazio storico e politico del XX secolo.
La contrapposizione che Benjamin evoca tra sogno e risveglio si apre ad una serie di
riferimenti. Da un lato è chiara l'allusione a Proust e al topos con cui si apre la
Recherce: l'immagine del risveglio segna l'inizio di una ricostruzione, che va sempre più
a ritroso nel tempo, dello spazio immaginario del protagonista, quindi nell'ottica di un
recupero del passato che è innanzitutto riappropriazione della propria individualità.
Dall'altro il tema del risveglio introduce, soprattutto nella mistica ebraica, il significato
di un voler superare distruggendo, o anche l'atto di portare luce entro l'oscurità, che
pertanto si presenta come notte destinata a diradarsi. In quest'ultimo senso agisce,
sotterraneamente alla tematica del risveglio storico, una concezione della storia che
troverà compimento soltanto negli ultimi appunti lasciati dal critico tedesco, e in
particolare nelle Tesi sulla filosofia della storia, trattate in seguito.
Dal punto di vista della critica al surrealismo, il risveglio introduce un punto di distacco,
in cui la persistenza del sostrato mitico nell'immaginario surrealista viene presa come
91
idolo critico primario, da cui partire per istituire, a partire dalla città di Parigi vista in
sogno, proprio come i surrealisti, una rivolta perenne alle istanze conservatrici e
totalitarie implicite nello stato di narcosi collettiva in cui versava il XIX secolo.
L’ossessione con cui Benjamin si confronta, nei suoi materiali preparatori al
Passagenwerk, con le posizioni dei surrealisti, dimostra l’importanza che attribuiva al
superamento dell’onirico e del mitologico. Ma dimostra anche che la sua risposta voleva
collocarsi sul limite di una soglia: quella, cioè, della scrittura di un libro che
conservasse tutte le caratteristiche di un’analisi critica nei confronti della società e della
produzione artistica, ma che possedesse anche delle qualità letterarie. In questo senso la
sua operazione vedeva nei surrealisti dei sodali, ma anche e soprattutto un punto critico
da cui partire per lo sviluppo di una critica complessiva alle forme del moderno,
lavorando a partire dall'interno stesso delle teorie dell'avanguardia.
In questo contesto si inserisce il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua
riproducibilità tecnica, apparso nel 1936219, in cui l'analisi delle forme d'arte contingenti
trova forse un'espressione più sistematica, anche in relazione alla questione della
percezione, non più naturale ma storicamente determinata anche grazie all'opera delle
nuove forme artistiche del '900.
- Frammenti introduttivi alle Tesi di filosofia della storia.
Il saggio del 1936220, forse il più letto e citato nella produzione benjaminiana, racchiude
una serie di problematiche che di per se potrebbero occupare lo studio di anni. Ciò che
forse risulta più pregnante ai fini della presente ricerca è il fatto che in questo saggio, da
un lato si chiarisce cosa intenda Benjamin per approccio “materialistico” e “dialettico”
alla storia e all'arte; dall'altro chiarisce forse ulteriormente la posizione politica e teorica
del critico tedesco nei confronti del comunismo.
La riflessione benjaminiana su cosa significhi un approccio materialistico e dialettico
alla storia e all’arte sta sullo sfondo del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua
219 Per la storia editoriale del testo, che già attorno al periodo della prima pubblicazione vede riedizioni e
rimaneggiamenti: cfr. F. DESIDERI, I Modern Times di Benjamin, in L'opera d'arte nell'epoca della
sua riproducibilità tecnica, cit., pp. VII-XLV.
220 Nello studio dell'opera si sono tenute presenti le variazioni presenti nelle tre versioni reperibili, tutte
contenute nell'edizione citata di riferimento.
92
riproducibilità tecnica , che nella “premessa” è presentato come una raccolta di “tesi
sopra le tendenze dello sviluppo dell’arte nelle attuali condizioni di produzione”. In
apertura del saggio viene citato un passaggio di un breve testo di Paul Valéry, La
conquête de l’ubiquité221, pubblicato nel 1931 nella raccolta Pièce sur l’art. In questo
testo Valéry si interroga sui mutamenti in atto nella nozione stessa di arte, a seguito dei
notevoli avanzamenti concettuali e tecnici dovuti al progresso dei modi di produzione
come alla maturazione di nuove visioni artistiche e nuovi modi di riproduzione e
trasmissione delle opere.
Su un piano generale, lo scenario evocato da Valéry è quello di una società futura in cui
sarebbe possibile suscitare un flusso di immagini visive o di sensazioni uditive con un
semplice gesto, una società caratterizzata dalla possibilità di fruire una realtà sensibile
prefabbricata e “confezionata” per essere consumata a domicilio. In questo aumentato
potere di riprodurre e diffondere le opere, che Valéry vede già compiersi nel caso della
musica, risiederebbe la possibilità di sganciare la fruizione dell’opera d’arte dall’hic et
nunc della sua collocazione materiale o della sua esecuzione per renderla accessibile nel
momento spirituale più comodo e adatto.
La stessa riflessione sui mutamenti in atto nello statuto e nella fruizione dell’arte in
seguito all’elaborazione di nuove tecniche di riproduzione e trasmissione delle opere
che anima il breve testo di Valéry è al centro del saggio di Benjamin, che ha come
presupposto la grande diffusione della fotografia e del cinema nei primi decenni del
secolo e il lavoro di sperimentazione condotto su queste due forme espressive da
avanguardie artistiche come il dadaismo, il surrealismo o il costruttivismo. A differenza
di Valéry, Benjamin conferisce però alla propria analisi una valenza esplicitamente
politica, in quanto nelle nuove forme di produzione e trasmissione dell’arte messe in
atto da cinema e fotografia vede la possibilità di liberare l’esperienza estetica dal
sostrato religioso-sacrale che ne accompagnava la fruizione da parte della borghesia
ottocentesca, impedendo l’instaurazione di un nuovo rapporto tra l’arte e le masse. E
anzi lo scopo del saggio si condensa proprio nella volontà politica di elaborare una
concezione artistica, nell'ottica di un nuovo scenario tecnico, i cui fondamenti non
fossero in nessun caso utilizzabili ai fini del fascismo 222. Se la riproducibilità è in se una
221 Cfr. P. VALERY, La conquête de l’ubiquité (1931), trad. it. La conquista dell'ubiquità, in Scritti
sull'arte., Guanda, Milano, 1993.
222 In questo carattere di repulsione verso l'utilizzabilità ai fini politici sbagliati, risiede un ulteriore
carattere “profetico” del pensiero di Benjamin rispetto alla nostra attualità, dove non di rado il
mercato, come appendice della cultura capitalista dominante, si appropria di idee e concetti generati
dalle masse per utilizzarli a fini commerciali e renderli in ultima istanza, vendibili e consumabili,
93
caratteristica insita nella creazione stessa, ciò che sfugge alla pura definizione materiale
per sconfinare in una dimensione che si vuole politica in opposizione al fascismo, è il
portato immaginario che l'arte, e in particolare le nuove tecniche della fotografia e del
cinema, portano con se.
I concetti qui introdotti per la prima volta nella teoria dell'arte si distinguono da
quelli più usuali per il fatto di essere completamente inutilizzabili ai fini del
fascismo. Sono invece utilizzabili per la formulazione di istanze rivoluzionarie
nella politica dell'arte.223
La riproduzione intesa come imitazione manuale di disegni, quadri o sculture è sempre
stata parte integrante della pratica artistica, dell’apprendimento e della messa in
circolazione delle opere. Nel caso della musica, poi, l’opera stessa esiste innanzitutto
come ri-esecuzione . Ciò che interessa a Benjamin , però, non è la riproduzione intesa
in questo senso bensì la riproduzione tecnica delle opere d’arte, qualcosa che nella
storia si è manifestato progressivamente nelle pratiche della fusione del bronzo, del
conio delle monete, della silografia e della litografia come riproduzione della grafica e,
soprattutto, della stampa come riproducibilità tecnica della scrittura. Con l’invenzione
della fotografia e del cinema, la riproducibilità del visibile attinge a una dimensione
nuova,
sganciandosi
ulteriormente
dal
condizionamento
della
manualità
e
velocizzandosi enormemente. Di fronte a una tale rivoluzione tecnica, il compito del
critico, secondo Benjamin, consiste nel riflettere sul modo in cui questo tipo di
riproducibilità dell’opera d’arte finisce per imporre una ridefinizione dello statuto stesso
dell’arte nella sua forma tradizionale.
La tesi centrale del saggio di Benjamin risiede nell’affermazione che nella riproduzione
fotografica di un’opera viene a mancare un elemento fondamentale.
Anche nel caso della riproduzione più perfetta manca una cosa: il Qui e Ora
dell'opera d'arte – la sua esistenza unica nel luogo in cui essa si trova. Ma in
quest'unica esistenza, e in nient'altro, si è compiuta la storia a cui essa, nel corso
della sua durata, è stata sottomessa.224
Nell’unicità della collocazione spazio-temporale dell’opera risiede il fondamento
sua autorità come “originale”, ossia la
sua
capacità
di
assumere
il ruolo
ovvero per neutralizzare quelle idee in un campo di azione altrimenti potenzialmente pericoloso.
223 W. BENJAMIN, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 46.
224 Ivi, p. 48.
94
di testimonianza storica. La trasmissione di un’eredità culturale poggia infatti sul
permanere nel tempo dell’unicità e dell’autorità delle opere e sulla loro conservazione e
celebrazione in spazi dedicati, come i musei, o nei quali esse si radicano nella loro
unicità (una chiesa, un palazzo). Benjamin riassume i valori di unicità, autenticità e
autorità dell’opera d’arte nella nozione di “aura” , un termine ricorrente nel lessico
storico-artistico ed esoterico di inizio secolo nell’accezione di “aureola” (come quella
che circonda le immagini dei santi) o in quella, assai più ambigua, di “alone” che
circonda e avvolge ogni individuo, come negli scritti di carattere misterico o teosofico.
Possiamo riassumere queste caratteristiche nel concetto di aura e dire: ciò che
deperisce nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte è la sua aura. Il
processo è sintomatico; il suo significato rinvia ben oltre l'ambito dell'arte.225
Tale deperimento o declino dell'aura (Verfall der Aura) determinato dall’avvento dei
mezzi di riproduzione tecnica delle opere, sarebbe il sintomo, secondo Benjamin , di un
più vasto mutamento «nei modi e nei generi della percezione sensoriale» 226: a ogni
periodo storico corrispondono infatti determinate forme artistiche ed espressive
correlate a determinate modalità della percezione, e la storia dell’arte deve essere
accompagnata da una storia della percezione o addirittura ad una storia dello sguardo.
Benjamin constata come nella società a lui contemporanea, attraverso la diffusione
dell’informazione e delle immagini, tenda ad affermarsi sempre più un’esigenza
di avvicinamento, alle cose e alle opere 227. Ciò che però viene meno, in un’epoca
caratterizzata dal bisogno di «rendere le cose, spazialmente e umanamente,
più vicine»228 è quel peculiare intreccio di vicinanza e lontananza nel quale risiede,
secondo Benjamin, l’essenza dell’aura. Decadimento dell’aura significa svanimento di
quell’intreccio tra lontananza, irripetibilità e durata che caratterizzava il rapporto con le
opere d’arte tradizionali, e tale processo segna l'avvento di una fruizione dell’arte basata
sull’osservazione fugace e ripetibile di riproduzioni.
Originariamente, le opere d’arte erano parte inscindibile di un contesto rituale, prima
magico e poi religioso; la loro autorità e autenticità, la loro aura, era determinata proprio
225 Ivi, p. 50.
226 Ivi, p. 49.
227 «Ogni giorno si fa valere in maniera sempre più irrefutabile il bisogno di impadronirsi dell'oggetto, a
distanza più ravvicinata, nell'immagine o piuttosto nella copia, nella riproduzione […]. Unicità e
durata sono in questa tanto strettamente intrecciate, quanto in quella (l'originale dell'opera) fugacità e
ripetibilità.». Ivi, p. 52.
228 Ibidem.
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da questa appartenenza al mondo del culto. In forme secolarizzate, l’atteggiamento
rituale e culturale nei confronti dell’arte sarebbe poi trapassato nelle forme profane del
culto della bellezza, che nasce nel Rinascimento e dura fino alle ultime derive del
Romanticismo. L’avvento della riproducibilità tecnica e la sua diffusione mediante la
fotografia segnano per la prima volta la possibilità di emancipare l’arte rispetto
all’ambito del rituale: venendo meno i valori dell’unicità e dell’autenticità, si apre la
possibilità di conferire all’arte una nuova valenza politica, al valore cultuale (Kultwert)
dell’opera si sostituisce progressivamente il valore espositivo (Ausstellungswert).
Il discorso benjaminiano sulla fine dell’aura non è quindi riconducibile a una forma di
nostalgia, bensì è un tentativo di individuare le potenzialità ancora non del tutto
esplicitate della riproducibilità, condensate ad esempio nelle potenzialità dell'arte
cinematografica. Così come era per le masse proletarie sovietiche 229, l'augurio di
Benjamin è che l'arte cinematografica possa rendersi veicolo di una nuova percezione di
se delle masse e non, come nel cinema di propaganda, strumento di indottrinamento e
assoggettamento.
La rappresentazione cinematografica, a differenza di quella teatrale, è fatta
di mediazione , differimento, scomposizione: le azioni che ci si presentano nella loro
sequenzialità sono girate in momenti diversi, e ciò che vediamo è il risultato di una serie
di scelte legate all’inquadratura e al montaggio. A differenza del pittore – che è come
un mago nel mantenere la distanza tra sé e ciò che è oggetto della rappresentazione e nel
conferire un’autorità auratica alla rappresentazione stessa- l’operatore cinematografico è
come un chirurgo ; penetra nelle immagini, le frammenta, le scompone, ne ridefinisce la
sequenza, finendo però per eliminarne l’aura.
La capacità di ridefinire il rapporto tra l’arte e le masse aperta dal cinema, dunque,
risiede per Benjamin nella possibilità di una fruizione collettiva nella quale la critica
non è soffocata da una forma di devozione cultuale nei confronti dell’immagine. Tale
dinamica è felicemente realizzata laddove non sia presente, come nel cinema di
propaganda o nel culto dell'immagine politico, un culto della personalità. È il caso del
divismo così come, in senso più direttamente politico, dell'altro divismo, quello della
personalità politica, problematica che possiamo immaginare di pressante attualità
all'epoca in cui il saggio sull'opera d'arte veniva redatto, sarebbe a dire proprio negli
anni di ascesa e splendore del nazifascismo europeo. L'auspicio finale di Benjamin è
229 Cfr. W. BENJAMIN, Sulla situazione dell'arte cinematografica in Russia, in Aura e Choc., cit., pp.
256-260.
96
quello di una politicizzazione dell'arte, e soprattutto del cinema, nel senso indicato.
Come accennato l'analisi dello scritto sulla riproducibilità dell'opera d'arte solleva delle
questioni che aprono il testo in una serie di direzioni. Talvolta la critica contemporanea
ha voluto vedere in questa fase del pensiero benjaminiano le tracce di una “teoria dei
media”, azzardando una definizione forse non proprio in linea con i tempi in cui il
saggio veniva scritta, ma che retrospettivamente risulta calzante, poiché coglie un
carattere fondamentale della riflessione di questo periodo. A partire dalle
consapevolezze sviluppate nel confronto con le avanguardie Benjamin potrà elaborare,
nell'alveo più ampio della tematica della liberazione politica da attuarsi nello spazio
della percezione, quella che sarà la sua concezione della storia. Nel complesso del
Passagenarbeit, in cui si può a ragione inserire il saggio su L'opera d'arte nell'epoca
della sua riproducibilità tecnica, risulta fondamentale l'elaborazione del compito dello
storico. Benjamin individua come compito del materialismo storico il superamento
dell’atteggiamento contemplativo e neutrale assunto dallo storicismo per introdurre una
visione dialettica della storia.
In questo contesto, il termine di riferimento obbligato all'interno dell'opera di Benjamin
è rappresentato dallo scritto Sul concetto di storia230, la cui raccolta è nota anche con il
titolo di Tesi di filosofia della storia231. Tuttavia, la lettura delle diciotto Tesi presenta
delle difficoltà oggettive, se non corredata dal chiarimento preliminare di alcuni
caratteri dello scritto. Nelle tesi la necessità è quella di trasmettere, in maniera più densa
ed immediata possibile, quanto negli anni precedenti aveva costituito il materiale
multiforme della ricerca del filosofo tedesco.
Il contesto storico-politico in cui le Tesi vengono redatte rende necessaria una
concisione che non permette lo sviluppo di un'opera vera e propria. Si tratta di tracciare,
230 Cfr. W. BENJAMIN, Über den Begriff der Geschichte (1991), trad. it. Sul concetto di storia., a cura
di G. BONOLA , M. RANCHETTI, Einaudi, Torino, 1997.
231 Il titolo di Tesi di filosofia della storia, che corrisponde sostanzialmente alla forma dello scritto, risale
presumibilmente alla nudità in cui gli ultimi aforismi di Benjamin si presentano nella prima
“pubblicazione”, ovvero un'edizione commemorativa del 1942, rilasciata ad un pubblico ristretto
come numero speciale della Zeitschrift für Sozialforschung, già fuori produzione dall'autunno del
1941: cfr. Walter Benjamin zum Gedächtnis, a cura di T. W. ADORNO, M. HORKHEIMER, Institut
für Sozialwissenschaften, Los Angeles, 1942. In questa forma le tesi hanno trovato molte riedizioni,
principalmente in raccolte e antologie. Di queste, l'edizione italiana cui si riferisce la presente
trattazione è quella contenuta nella raccolta “classica” curata da Renato Solmi, la cui prima edizione
risale al 1962: cfr. Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e Frammenti., 2006, cit., pp.
71-86. La dicitura più ampia data alla raccolta delle tesi assieme ad una modesta quantità di frammenti
preparatori e riferimenti interni, con il titolo di Über den Begriff der Geschichte, si deve all'edizione
critica dei Gesammelte Schriften, fortemente voluta da Scholem e dallo stesso Adorno: cfr. W.
BENJAMIN, Gesammelte Schriften, Band I, a cura di T. W. ADORNO, G. SCHOLEM, Suhrkamp
Verlag, Frankfurt a. M., 1991, pp. 691-706.
97
di fronte alla visione di una catastrofe imminente, la mappa di una serie di
corrispondenze nella selva della produzione benjaminiana. Il nazionalsocialismo, giunto
all'apice del potere, libera la sua forza sanguinaria da sempre latente; lo stalinismo si è
ormai sviluppato in un totalitarismo di massa, la cui sostanza non differisce, se non
ideologicamente, dall'autoritarismo nazi-fascista; la firma del patto MolotovRibbentrop, il cosiddetto patto di non aggressione, stipulato nell'agosto del'39 tra la
Germania nazista e l'Unione Sovietica, sancisce definitivamente, per Benjamin, una
delusione che già poteva leggersi nel suo rimandare, fino alla fine, l'iscrizione al partito.
La redazione delle Tesi è concepita in opposizione diretta alla demagogia politica che
chiaramente mostra il patto agli occhi di Benjamin. In questo senso le Tesi sono un
documento direttamente “militante”: la delusione ispirata dal patto germano-sovietico si
rovescia nella visione di un obiettivo, quello dello storico materialista, che è quello di
liberare la storia dalla visione demagogica che soggiace sia all'ideologia nazista sia a
quella stalinista, sia ad ogni potere costituito che si legittimi entro il ciclo “eterno” della
violenza mitica. A tal proposito la decima delle Tesi rivela il significato politico diretto,
nel senso di contingente, dello scritto.
I temi che la regola monastica assegnava ai frati per la meditazione avevano il
compito di renderli estranei al mondo e alle sue faccende. Le riflessioni che
veniamo svolgendo qui sono scaturite da un'analoga determinazione. In un
momento in cui i politici nei quali avevano sperato gli oppositori del fascismo
giacciono a terra e confermano la loro sconfitta col tradimento loro stessa causa,
esse si propongono di liberare i figli del secolo politico dalle pastoie in cui quelli li
hanno irretiti. Questa considerazione muove dal fatto che l'ottusa fede di quei
politici nel progresso, il loro confidare nella loro «base di massa», e infine il loro
servile inquadramento in un apparato incontrollabile, sono stati tre aspetti della
stessa cosa. E cerca di dare l'idea di quanto costerà cara, al nostro pensiero
abituale, una concezione della storia che eviti ogni complicità con quella a cui si
attengono ancora questi politici.232
La critica alla classe politica come asservita ad una logica storica demagogica e che
tradisce i suoi stessi principi, non si rivolge solo allo stalinismo, ma anche alla
socialdemocrazia tedesca che aveva, da un certo punto di vista, permesso l'avvento del
nazismo; la relazione, invece, tra il comunismo ortodosso e il materialismo di Benjamin
232 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 39.
98
si presenta più complicato, nel senso che pur prendendo, in questa fase, le distanze
dall'ortodossia comunista, permangono nelle sue concezioni delle teorie che trovano
origine in Lenin o in Trockij. La delusione più cocente rimane comunque quella nei
confronti del comunismo di marca sovietica, che stipulando un trattato di pace con il
nemico peggiore tradisce di fatto la sua intima, o almeno originaria, vocazione politica
nel contesto della seconda guerra mondiale: quella cioè di difendere una posizione
politica in opposizione al potere fascista. Il materialismo storico intende porsi allora non
solo come alternativa necessaria, ma anche come atteggiamento teorico deideologizzato, nel senso che non sarà l'adesione ad un codice di pensiero che ne
determinerà il valore. Come nota Moroncini:
La verità è che il materialismo viene prima, logicamente e temporalmente, del
marxismo: il materialismo è una posizione etica, dunque non una teoria né
tantomeno una visione del mondo, che emerge nel momento stesso in cui si
costituisce –un evento storico anch'esso- quel campo d'esperienza che siamo
abituati a chiamare filosofico e che, come ogni campo d'esperienza umana, è
attraversato da conflitti, da forze contrapposte, da lotte la cui posta in gioco è in
primo luogo addirittura il diritto stesso di qualcuno a farne parte e a portarne il
nome senza correre il pericolo di essere considerato un usurpatore.233
Il documento delle Tesi, come testimone principale della concezione politica di
Benjamin, si presenta come un documento che afferma l'indipendenza ideologica del
materialismo da qualsiasi concetto di storia fondato nell'alveo della logica dell'autorità
politica. La presa di distanza, che nei confronti del fascismo può dirsi, anche sulla base
delle considerazioni precedenti, certa, si attua qui, più decisamente che altrove, anche
nei confronti dell'ortodossia comunista. L'occasione storica che genera lo scritto, ne
costituisce anche il sostrato etico-politico. Nel momento tragico della estrema delusione
politica, nel sopraggiungere forse avvertito della fine, la verità del concetto
benjaminiano di storia si differenzia, in maniera coerente con tutta la produzione
politica dell'autore tedesco, dall'idea di storia che soggiace sia alla visione del
comunismo che a quella del nazismo.
L'urgenza della situazione in cui lo scritto è stato redatto ne ha condizionato,
probabilmente, sia la genesi che la ricezione. Da un lato, la natura delle tesi, in
233 B. MORONCINI, Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin.,
Mimesis, Milano, cit., p. 171.
99
ottemperanza ad un carattere forse generale ed essenziale di molta produzione
benjaminiana, è quella di dischiudere ad ogni passo, «come ogni metodo veritiero» 234,
un nuovo problema. Rispetto all'intero degli scritti di Benjamin le tesi stanno come
un'interfaccia, una mappa sinottica di un problema unico, ma che trova la sua
realizzazione necessariamente nella dislocazione delle innumerevoli tematiche della sua
produzione, e nella vertigine concettuale che le tesi cercano di contenere. Queste
possono essere viste, nel loro carattere di testo sì rifinito ma comunque non definitivo,
come un tentativo estremo di sintesi di alcuni temi, che pure trovano spazio
nell'antologia del Passagenwerk e respiro nell'opera intera di Benjamin, la cui
risoluzione si presenta, agli occhi dell'autore che vede sopraggiungere la fine, come
inderogabile. Come giustamente osservato:
Tesi di filosofia della storia sono presenti nel pensiero di Benjamin sin dai suoi
primi scritti; la stesura che risale agli ultimi mesi della sua vita volontariamente
interrotta ne rappresenta solo la formulazione finale, o almeno quella che così è
stata fissata dalla morte. In realtà la leggenda della pesante valigia che l'esule
trasportava a fatica sulle montagne del confine con la Spagna, senza mai volersene
separare, suggerisce l'immagine di un testimone, o di un talismano, da portare oltre
la frontiera, e le tesi si prestano a questa interpretazione, la più suggestiva.235
Nel senso sopra indicato di sintesi, gli aforismi emblematici delle tesi chiudono un
cerchio in cui si gioca, paradossalmente, il senso totale di una riflessione che, per la sua
natura di critica radicale, corrosiva ed incessante, si è voluta asistematica e, per così
dire, labirintica. Le tesi si presentano, già dalla prima lettura, come un documento di
sconcertante sincretismo tra i vari elementi della riflessione benjaminiana di quegli anni
e non solo. Se una prova empirica di tale unità può essere fornita accostando, con un
salto nel tempo di circa venti anni, le Tesi al già discusso Frammento Teologicopolitico, la traccia per un orientamento iniziale va cercata ancora una volta nel
Passagenwerk, in particolare nel già citato Konvolut N236, in relazione principalmente al
metodo dialettico del materialismo storico.
La sezione introduce una serie di nessi concettuali la cui elaborazione risulta decisiva
234W. BENJAMIN, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo., cit., p. 53.
235G. BONOLA, M. RANCHETTI, Introduzione, in cfr. W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p.
VII.
236 Cfr. W. BENJAMIN, «Erkenntnistheoretisches, Theorie des Fortschritts» (1991), trad. it. «Elementi
di teoria della conoscenza, teoria della progresso», in I «passages» di Parigi, cit., pp. 510-549.
100
per comprendere il contesto teorico delle tesi: innanzitutto viene relativamente chiarita
la posizione del materialismo storico sia nei confronti del marxismo, che nei confronti
del concetto di storia dello storicismo; in secondo luogo, si definisce, in maniera più
perentoria che altrove, l'opposizione del materialismo storico sia alla storiografia
tradizionale, che all'idea di progresso. In quest'ultimo punto la critica alla civiltà
capitalista trova una nuova e più ampia formulazione. Tale critica, con una dinamica
simile ma, potremmo dire, potenziata da un più ampio spettro di concetti, si rispecchia
in questa fase nella formulazione di un compito, quello del materialista storico – che è
anche il wahre Politiker del perduto progetto giovanile – , il cui obiettivo è quello di
scardinare il concetto di storia che soggiace alla storiografia dominante, quella cioè che
celebra i vincitori e con loro l'ideale del progresso con cui la cultura del XIX secolo si
identifica.
[Come] uno degli obiettivi metodologici di questo lavoro si può considerare il dare
dimostrazione di un materialismo storico che abbia annichilito in sé l'idea di
progresso. Proprio su questo punto il materialismo storico ha tutte le ragioni di
prendere recisamente le distanze rispetto alle forme abituali del pensiero borghese.
Il suo concetto fondamentale non è il progresso, bensì l'attualizzazione.237
L'idea, o piuttosto l'ideale del progresso, diventa un totem critico poiché investe
integralmente il concetto di storia proprio della cultura borghese. Il progresso, che forse
più di ogni religione moderna prima del XIX secolo era stato l'ago della bilancia di una
storiografia asservita alla cultura dominante, alla storia scritta dai vincitori, alla
borghesia europea che era in procinto di affrontare una crisi morale di proporzioni
inedite, assume in questo contesto lo stesso significato che assume, nello scritto sul
Capitalismo come religione, il nesso colpevolizzazione/indebitamento nell'ambito del
culto capitalista. Ovvero si tratta di un meccanismo che materialmente produce delle
rovine, delle macerie238, la cui ricomposizione storica spetta all'opera critica del
materialismo storico, e la cui natura è basilare nella costruzione del concetto di storia su
cui si fonda la storiografia borghese, cui l'opera di Benjamin intende opporsi.
237 Ivi, p. 514.
238 «Il concetto di progresso va fondato nell'idea della catastrofe. Che “tutto continui così” é la
catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Così
Strindberg – in Nach Damaskus? -: l'inferno non è qualcosa che ci attenda, bensì questa vita qui». Ivi,
p. 531.
101
Il concetto di progresso dovette muovere in senso contrario alla teoria critica della
storia dall'istante in cui non fu più applicato come metro a determinati mutamenti
storici, ma ebbe invece la funzione di misurare la tensione tra un leggendario inizio
della storia e una sua fine altrettanto leggendaria. In altre parole: appena il
progresso diviene il marchio del corso complessivo della storia, il suo concetto si
inserisce nel contesto di un'ipostatizzazione acritica anziché in quello di
un'interrogazione critica.239
Nel momento in cui il progresso si impone acriticamente come valore fondamentale
nella ricostruzione storica – ciò che non marcia al ritmo del progresso rischia
l'occultamento dalla storia dei vincitori -, il compito morale del materialista storico sta
nello spezzare il legame tra l'idea del progresso e quella di un compimento, di
un'escatologia implicita nella dinamica del progresso, così come viene intesa dallo
storicismo. In questo si concretizza ancora una volta quel «rendere giustizia ai
fenomeni» che, in relazione alla critica dell'opera d'arte, era già centrale nello scritto
sulle Affinità elettive e nei saggi di quel periodo. L'accezione del progresso, di cui lo
storicismo costituisce per Benjamin una sorta di corredo teorico, sta alla base dell'idea
di una storia universale, in cui le vicissitudini più disparate della storia sarebbero
relativamente giustificate dall'idea di un punto terminale nella storia in virtù di cui tutto
accade, e in cui le antitesi del reale sono appiattite entro il quadro di un compimento, di
una sintesi o di una “fine della storia” nel suo svolgimento materiale 240. Il tempo entro
239 Ivi, pp. 537-358.
240 La questione della critica allo storicismo potrebbe costituire il materiale di molte tesi specifiche,
ognuna in relazione ad un particolare autore che rientra nella costellazione critica di Benjamin: si
pensi ad esempio a Dilthey, a Rickert, o anche a Nietzsche, con il quale le Tesi intrattengono un
rapporto nozionistico ma centrale. Tuttavia i termini della questione sono in questo caso esplicitati nel
riferimento critico alle concezioni sulla storia di Marx e in particolare di Hegel. Il confronto con i due
autori è diffuso e sotterraneo nel pensiero di Benjamin, nel senso che solo in alcuni frammenti
troviamo un confronto diretto o una diretta citazione, ma più in generale l'opposizione è sottintesa e
lasciata all'interpretazione: tale atteggiamento è forse frutto della volontà, più che di smontare
criticamente un sistema con un “controsistema”, di cercare un superamento critico delle dottrine dei
due, che potesse farsi veicolo di una logica di pensiero assolutamente differente. Nel caso di Marx, il
materialismo storico di Benjamin si costituisce al suo interno come una eterodossia critica. Nel caso di
Hegel, il confronto riguarda sia il concetto di storia che la connessa questione dell'arte, e si configura,
come vedremo, nello sforzo di superare la visione hegeliana di “fine della storia”, così come il saggio
sull'opera d'arte problematizzava la questione della “morte dell'arte”. Più in generale, l'idea della storia
universale coinvolge una costellazione di pensiero che dal Rinascimento, attraverso Kant prima
(soprattutto cfr. I. KANT, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico., in Scritti di
storia, politica e diritto., a cura di F. GONNELLI, Laterza, Bari, 2009) ed Hegel e lo storicismo poi,
finisce per influenzare in maniera determinante il pensiero del positivismo, in cui il concetto di storia
universale si intreccia, sul piano politico e sociale, con la “mano invisibile” di Smith dell'utilitarismo.
La linea di questa evoluzione presenta senz'altro dei punti concettuali oscuri, e non è questo il luogo
per tracciare un quadro tanto ampio. Quanto sopravviva, oggi, dello spirito di quell'utilitarismo
classico che, ad un livello non solo materiale, influenza così tanto la cultura del XIX secolo, rimane
102
cui si svolge la storia della tradizione storiografica borghese, è un tempo vuoto e
omogeneo, su cui si dispiega in progressione il tessuto che costituisce la visione
culturale di un epoca. La storiografia borghese diventa un testo preparato nella logica e
nell'attesa di un compimento escatologico che deve, in un futuro non definibile ma
sempre ricorrente, realizzarsi , a rigor di sistema, nella venuta di un regno di Dio: in
altre parole, lo storicismo proietta, sullo sfondo di una narrazione che celebra il
progresso, la concezione secondo la quale tutto ciò che accade costituisce un continuum
storico ininterrotto, in cui determinati parametri si ripetono concorrendo alla
realizzazione ultima di un progetto di matrice superiore, o semplicemente alla
costruzione di un epica storica che rimanda, come a compimento di un progetto cui lo
storicismo applica il suo timbro metafisico, all'ordine dell eterno.
La concezione storicistica dell'accadere, in altre parole, presuppone l'idea della
storia come di un gigantesco «corteo trionfale»; essa però, soggiunge Benjamin,
finisce per essere una mera ratificazione della storia nella sua fatticità, una
sottomissione al fluire del tempo e alla continuità, laddove il passato – in quanto
vergangen – diviene mera funzione del presente […]. Il patrimonio culturale è un
bottino che viene esibito dai vincitori nei loro trionfi e la tradizione non è che il
patrimonio di un passato di cui lo storicismo offre l'immagine «eterna».241
Nel rintocco di eternità della storiografia borghese riecheggiano il concetto della
ripetizione mitica della violenza – l'immagine mitica diventa qui l'immagine arcaica – ,
così come la critica alla elaborazione nietzscheana dell'eterno ritorno 242. Come nel caso
della violenza mitica, l'essenza dell'eterno ritorno sta nella ripetizione e quindi, dal
punto di vista di un concetto dialettico di tempo storico, nel permanere di un pattern che
è quello della cultura dominante.
questionabile da un punto di vista formale, ma si può forse riconoscere, senza troppi problemi, che
quello spirito permane, sostanzialmente, come carattere radicato nella cultura materiale della società
attuale.
241 G. SCHIAVONI, Walter Benjamin. Il figlio della felicità., cit., pp. 373-374.
242 Il rapporto di Benjamin con Nietzsche rappresenta un ennesima possibilità di trattazione specifica:
nel caso della critica all'eterno ritorno, la cui nozione viene appiattita sulla logica della ripetizione
mitica, vale lo stesso principio critico che fa di Nietzsche, nello scritto sul capitalismo di inizio anni
'20, uno dei sacerdoti apocrifi del culto capitalista. In altre parole, la logica dell'eterno ritorno soffre
ancora, per Benjamin, di un concetto di storia legato alla cultura borghese o dominante, e pertanto non
riesce a tirarsi fuori dalla logica arcaica della violenza e del potere. «Ripensando ancora una volta nel
diciannovesimo secolo il pensiero dell'eterno ritorno, Nietzsche si presenta come colui in cui si
compie nuovamente il mitico decreto del fato.».W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, 2002, cit., p.
103
La fede nel progresso, in una perfettibilità infinita – un compito infinito, nella
morale – e l'idea dell'eterno ritorno sono complementari. Esse costituiscono le
indissolubili antinomie rispetto alle quali dev'essere sviluppato il concetto
dialettico del tempo storico. Di fronte a questo l'idea dell'eterno ritorno sembra far
parte proprio di quel «piatto razionalismo» di cui si accusa la fede nel progresso, e
quest'ultima si rivela altrettanto appartenente al pensiero mitico quanto l'idea
dell'eterno ritorno.243
Il materialismo storico deve intervenire alla base di tale concezione, e la responsabilità
storica del materialista, simile a quella del critico nei confronti dell'opera, è quella di
rendere giustizia, ancora una volta, ai fenomeni insabbiati da tale storia dei vincitori,
nella responsabilità morale rispetto ai vinti, agli oppressi, o a tutti coloro che non
partecipano al corteo trionfale del progresso inteso come fondamento e simbolo del
continuum storico.
Un'idea di storia che si fosse liberata dallo schema della progressione in un tempo
omogeneo e vuoto, riporterebbe finalmente in campo le energie distruttive del
materialismo storico, che per tanto tempo sono state paralizzate. Comincerebbero
così a vacillare le tre postazioni più importanti dello storicismo. Il primo colpo
deve essere portato contro l'idea della storia universale. L'idea che la storia del
genere umano sia composta dalle storie dei popoli, è una scappatoia della pura e
semplice pigrizia del pensiero, oggi che l'essenza dei popoli è oscurata tanto dalla
loro attuale struttura quanto dai loro attuali rapporti reciproci. L'idea di una storia
universale sta e cade con l'idea di una lingua universale. Finché quest'ultima
possedeva un fondamento, fosse esso teologico, come nel medioevo, oppure logico,
come da ultimo in Leibniz, la storia universale non era un'idea impossibile. Invece,
come è stata praticata a partire dal secolo scorso, la storia universale può essere
sempre solo una sorta di esperanto.244
In questo senso, il testo ufficiale di una cultura – l'emanazione culturale di un ordine
costituito attraverso una violenza che pone e conserva –, può dirsi documento di una
complementare barbarie.
129.
243 Ibidem.
244 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., pp. 76-77.
104
La barbarie è inscritta nel concetto della cultura stessa: come concetto di un tesoro
di valori che viene considerato indipendentemente non dal processo di produzione
in cui nacquero i valori, ma da quello in cui essi perdurano. In questo modo, essi
servono all'apoteosi di quest'ultimo, per quanto barbaro possa essere.245
Lo storicismo costruisce la sua narrazione all'interno di un campo di forze precostituito,
che è quello della cultura dominante, e l'epica che accompagna tale narrazione è ciò che
riconduce la storia in tale forma entro la dimensione mitica. In questo senso, come epos
del potere e della cultura ufficiale, il testo della storia di un'epoca «non è mai un
documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie» 246. La
critica al documento storiografico della cultura come testo del continuum storicista (in
cui si rispecchiano per altro sia l'opposizione tra Kunstkritiker e Kunstrichter nello
scritto sul romanticismo del 1919, sia la questione della “politicizzazione” dell'arte
come veicolo di rottura critica con la cultura borghese, centrale dallo scritto sul
surrealismo al saggio sull'opera d'arte), costituisce il secondo punto critico sul quale
Benjamin intende attaccare lo storicismo. Nell'indagine materialistica della storica il
momento epico, come tratto essenziale alla costituzione del tessuto della
cultura/barbarie, deve essere interrotto, o meglio «fatto esplodere nel corso della
costruzione»247. Nel raccontare la sua storia, la storiografia si immedesima con il
vincitore, si rispecchia nella perfezione di un disegno ben congegnato, il tempo eterno
del potere.
Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno
vinto sempre. L'immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio
dei dominatori di turno […]. Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al
corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro giacciono a terra. Anche
il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si
designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel
materialista storico un osservatore distaccato. Infatti tutto quanto egli coglie, con
uno sguardo d'insieme, del patrimonio culturale, gli rivela una provenienza che non
può considerare senza orrore […]. Non è mai un documento della cultura senza
essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso
stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato
245 W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 524.
246 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 31.
247 Ivi, p. 77.
105
dall'uno all'altro.248
La narrazione stessa della storia diventa impossibile, se non come ricostruzione
articolata criticamente del discontinuum che la dialettica del materialismo storico
introduce, rifuggendo sia il tempo continuo e progressivo dello storicismo che quello
ciclico del mito e dell'eterno ritorno, visti come aspetti differenti di una medesima
tradizione. Il concetto di tradizione rappresenta un nodo centrale nella comprensione
delle Tesi. Rispetto a questo punto si avverte innanzitutto l'accento sulla responsabilità
morale del materialismo, già menzionata, che risiede nel salvare, dal patrimonio
culturale del dominio, la «tradizione degli oppressi»249. Salvare la storia degli oppressi
significa: far esplodere l'immagine storicistica di un continuum storico che accompagna
il ciclo mitico, cioè il ciclo della ripetizione del potere, che attraverso l'epica che la
storiografia ufficiale crea si legittima e si autocelebra. La pagina già scritta, il dettato
escatologico dello storicismo, celebrano il corteo trionfale dei dominatori, e tale corteo
porta in processione un drappo denominato “tradizione culturale”. La tradizione degli
oppressi va invece evidenziata nella rottura del testo storico dei vincitori. La pagina
stessa della storia deve essere concepita come un discontinuum, e l'articolazione in tale
nuova dimensione temporale della ricostruzione storica deve procedere, per così dire,
per balzi, per frames, per immagini dialettiche.
Nel concetto di immagine dialettica, che troviamo già in opposizione all'immagine
mitica nelle sezioni del Passagenarbeit che riguardano il surrealismo, Benjamin
concentra uno snodo teorico fondamentale per comprendere l'irruzione, in una tale
visione della storia, della dimensione messianico-teologica. L'immagine, o meglio le
immagini dialettizzate del passato e del presente, sono gli elementi che permettono di
mettere in collegamento il tempo discontinuo della tradizione degli oppressi, con una
ricostruzione storica critica, e quindi con l'adesso del tempo messianico.
Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul
passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con
l'adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione
di arresto. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente
temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l'adesso è dialettica: non di
natura temporale, ma immaginale. Solo le immagini dialettiche sono immagini
autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L'immagine letta, vale a dire
248 Ivi, p. 31.
249 Ivi, p. 43.
106
l'immagine nell'adesso della conoscibilità, porta in sommo grado l'impronta di
questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura.250
Il rapporto tra il passato e il presente, e quindi il meccanismo dalla tradizione culturale
stessa, non si da nell'analisi del materialismo come un processo, di matrice naturale e
incontestabile, quanto piuttosto come l'articolazione, il montaggio, il collage di
immagini secondo una dialettica storica. Ciò che si condensa nell'individuazione di tali
immagini costituisce cioè che Benjamin chiama «l'attimo della conoscibilità» 251, sarebbe
a dire che nelle immagini fissate e articolate nel tempo discontinuo del materialismo, si
concretizza di volta in volta, nell'immagine dialettica, la chance rivoluzionaria che
consiste nell'istituzione dell'ordine dell'attuale, ovvero l'ordine critico del discontinuum
storico come legittima dimensione dell'articolarsi della storia: il tempo presente, il
tempo dell'adesso. La storia si produce – e come il testo dell'opera d'arte, si consuma –
attraverso l'articolazione di questi attimi fulminei, non più revocabili, la cui forza
politica è riscattabile solo nella dialettizazione di tali momenti nell'attualità
rivoluzionaria dell'adesso (Jetztzeit). Il pericolo cui si oppone tale meccanismo è quello
della scomparsa, dell'insabbiamento, della fine non solo della tradizione rivoluzionaria
degli oppressi, ma anche del ricordo di tale situazione: il pericolo è l'impermanenza del
lutto nei confronti della rivoluzione, nel senso che dove anche la minima traccia si
cancella sotto il testo squillante e sfarzoso della cultura ufficiale, più difficile sarà lo
scavo dei resti252. Obiettivo del materialismo è quello di restituire la costruzione della
storia all'adesso della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit), entro cui tale scavo, o
meglio tale “riesumazione” può compiersi. Da un certo punto di vista, la struttura di tale
articolazione è la medesima del risveglio, nel senso che, grazie all'immagine dialettica,
il passato di un'epoca determinata viene ad assumere, nella sua attualizzazione in un
immagine presente, il significato di uno choc, di un balenare fulmineo e involontario
-quello della memoria proustiana-, di un risveglio, o ancora di una riesumazione operata
250 W. BENJAMIN, I «passages» di Parigi, cit., p. 516.
251 Ibidem.
252 Una simile dinamica si ritrova, anni prima, negli aforismi sulla memoria occasionati, principalmente,
dallo studio di Proust: «Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un
individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico stato
di cose – di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa […]. Così
i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo
nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro […]. Il ricordo reale deve dunque offrire anche
un'immagine di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto archeologico non
deve limitarsi a indicare gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che
è stato necessario attraversare in precedenza.». Cit.,W. BENJAMIN, Ausgraben und Erinnern (1991),
trad.it., Scavare e ricordare., in Aura e Choc. Saggi sulla teoria dei media., cit., p. 363.
107
attraverso la rammemorazione come raccolta storicamente ispirata delle immagini del
passato. Così nella sesta tesi:
Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato
davvero». Vuol dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di
pericolo. Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del
passato nel modo in cui s'impone imprevista al soggetto storico nell'attimo del
pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi
destinatari. Per entrambi il pericolo è uno solo: prestarsi ad essere strumento della
classe dominante. In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la
trasmissione del passato (la tradizione) al conformismo che è sul punto di
soggiogarla. Il messia infatti viene non solo come il redentore, ma anche come
colui che sconfigge l'Anticristo. Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della
speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure
i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di
vincere.253
Nell'ordine dell'attuale come vero luogo in cui va inscritta la costruzione della storia,
Benjamin condensa l'idea di uno svolgimento temporale non omologabile alla
temporalità continua delle scienze naturali. La dimensione dell'adesso benjaminiano
contiene, nello stesso luogo, l'immagine del passato così come il germe del futuro, e la
valenza politica della necessità ascritta all'attualizzazione di tale progetto di storia segna
ancora una volta il legame tra teoria storica e prassi rivoluzionaria nella particolare
lettura di Benjamin.
La consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi
rivoluzionarie nell'attimo della loro azione. La grande rivoluzione introdusse un
nuovo calendario. Il giorno inaugurale di un calendario funge da compendio storico
accelerato. E, in fondo, è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di
festa, che sono giorni della rammemorazione. Dunque i calendari non misurano il
tempo come gli orologi: sono monumenti di una coscienza storica di cui in Europa
da cento anni sembra non si diano più le minime tracce.254
La critica è ancora una volta allo storicismo, il cui procedimento è additivo: ovvero «si
253 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 27.
254 Ivi, p. 49.
108
accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia» 255, collocando
la massa dei fatti entro un tempo omogeneo e contenitivo. Alla base della storiografia
materialista si pone invece un nuovo principio di ricostruzione, basato sulla
rammemorazione come istituzione di un nesso atemporale tra gli eventi del passato e del
presente. Il materialista si pone all'oggetto storico quando esso si compone entro la
costellazione del presente, come monade256. Nella Tesi XVII il materialista storico
riconosce nella monade
«il segno di un arresto messianico dell'accadere o, detto
altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso» 257. In
altre parole, dove lo storicismo proietta, entro un tempo continuo e progressivo, la
storicità dei nessi fattuali come svolgimento di una idea escatologica di storia
universale, nel materialismo storico di Benjamin, i fatti storici diventano tali in virtù di
un nuovo concetto di storia e della sua relativa tradizione, entro cui sia possibile la
dialettizzazione del tempo storico nell'orizzonte dell'adesso. L'adesso, o Jetztzeit, si
configura come modello di temporalità disomogenea: esso è memoria salvifica o
rammemorazione (Eingedenken) dell'istante, dell'adesso della conoscibilità storica.
Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della
storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è
diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti
migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra
le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la
costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata
epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell'adesso, nel quale
sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico.258
-Teologia e materialismo nelle Tesi: l'angelo della storia
Sia da un punto di vista concettuale che testuale siamo già nel pieno delle Tesi. Ciò che
255 Ivi, 57.
256 La monade, in senso non strettamente leibniziano, rimanda qui alla dialettica entro cui si compie la
ricostruzione storica materialista. Essa racchiude il concetto dell'arrestarsi del pensiero nella
saturazione delle tensioni storiche, istituita tra le immagini dialettizzate delle diverse epoche. Per un
approfondimento del lemma in relazione alle Tesi: cfr. G. BONOLA, M. RANCHETTI, Lemmi, Ivi,
pp.187-189.
257 Ivi, p. 52-53.
258 Ivi, p. 57.
109
a questo punto del discorso introduce una nuova problematica è l'affacciarsi prepotente,
nel discorso benjaminiano, della dimensione messianica. Il testo delle Tesi apre, forse
solo in maniera più evidente che altrove, la questione di una connotazione anche
teologica del discorso sulla storia. L'accostamento, nel pensiero del critico tedesco, di
una dimensione teologica e di una politica, trova già in tempi non sospetti, come si è
osservato, delle testimonianze.
La dimensione teologica delle Tesi risulta, pur senza volerne fare una bandiera tematica,
centrale, e in esse agisce la spinta ritrovata dell'elemento messianico ebraico, per cui il
nuovo meccanismo critico benjaminiano si configura, potremmo dire, come una crasi
concettuale tra una dimensione direttamente politica, quella del materialismo, ed una
dimensione teologica, quella del messianesimo. La dinamica per cui questi due piani del
discorso, apparentemente inconciliabili, possono unirsi nelle tesi in una conformazione
concettuale unica, risulterà forse più chiara da quanto segue nel testo. Tuttavia è forse
necessario chiarire subito in che modo, nell'economia delle tesi, sia da valutare
l'ebraismo di Benjamin, altrove considerato, non senza ragioni, marginale o troppo
eterodosso per rientrare in tale tradizione.
La stessa ambivalenza delle tesi, intravista da molti e tematizzata ricorrentemente
come un'irrisolta alternativa tra prospettive inconciliabili quali il materialismo
storico e il messianismo politico, pur derivando da una lettura concettuale corretta,
si rivela in realtà filologicamente falsa, perché all'interno della cultura ebraica è
tutt'altro che assurdo pensare il messianismo in termini storico-politici così terreni
e concreti da poter ipotizzare anche una qualche forma di materialismo messianico
o di messianismo materialistico. Se però si assume questa compatibilità come
fulcro dell'interpretazione, le riflessioni dell'ultimo Benjamin vengono più
nettamente ricondotte nell'alveo di una dimensione di pensiero ebraico mai del
tutto abbandonato, il lungo percorso sotterraneo ritorna ad affiorare con forza
proprio nelle tesi.259
Proprio riguardo al processo della rammemorazione come modalità primaria di
esperienza della storia nel senso materialista, nei materiali delle Tesi (in forma
leggermente diversa anche nel Passagenwerk) troviamo un frammento che chiarisce in
che maniera tale modalità di appercezione dell'immagine storica di un'epoca si fondi su
un terreno che non è solo quello di un ripensamento delle condizioni materiali
259 G. BONOLA, M. RANCHETTI, Introduzione, p. XV.
110
della storia.
Nella rammemorazione noi facciamo un'esperienza che ci vieta di concepire la
storia in modo fondamentalmente ateologico, per quanto non ci sia lecito tentare di
scriverla in concetti teologici.260
In altre parole: l'esperienza costituita dal ricordare qualcosa del passato, dal tornare con
il pensiero ad un momento che è già stato, apparentemente senza relazione con il
presente, si connota dell'attesa che un presente finora incompiuto possa compiersi. Tale
carattere, tale aspirazione alla redenzione è ciò che impedisce al materialismo storico di
configurarsi come un sapere essenzialmente profano. La rammemorazione genera una
tensione nei confronti del passato così come del presente e del futuro. Secondo tale
esperienza, quanto nelle immagini del presente e del passato si manifesta come profano,
non è sufficiente a definire quell'esperienza come pienamente storica. L'esperienza del
ricordo rivela un secondo piano di lettura, quello inappariscente della teologia, entro il
quale pienamente si rivela l'aspettativa redentrice o messianica dell'adesso
benjaminiano.
Da un lato dunque, non è possibile ricomprendere la storia in modo che sia, per
principio, ateologica; dall'altro, questa comprensione non può tradursi in concetti
teologici. Dunque è proprio la dimensione teologica della riflessione sulla storia a
costituire un punto problematico nella lettura delle Tesi: poiché la teologia funge in
questo caso da elemento di disturbo, poiché fa trasparire un lato nascosto della storia,
che la rammemorazione avverte nel suo processo.
Eppure ogni altro concetto di storia – ogni altro modo di afferrarla e tradurla in
scrittura – al cospetto di tale esperienza, non afferra e arresta niente, ma nuota nella
corrente del tempo, che volgarmente esprime in immagine l'accadere storico; e, in
essa, si appaga della parvenza della sua continuità, del suo lato puramente profano,
identificandosi con i vincitori che di volta in volta stabiliscono le forme della sua
tradizione [...]. Questo lato nascosto dunque – il teologico di cui c'è Erfahrung
(esperienza) – è l'indicibile della storia per il pensiero.261
Benjamin prescinde, nel definire la deontologia teorica del materialista storico, da
260 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 85.
261 F. DESIDERI, Del teologico nelle Tesi. Sul concetto della storia., in AA. VV., Caleidoscopio
benjaminiano, a cura di E. RUTIGLIANO, G. SCHIAVONI, Istituto italiano di studi germanici,
Roma, 1987, p. 292.
111
concetti puramente teologici nel definire che cosa la storia sia e come si dia
all'esperienza. Teologia e materialismo formano nelle Tesi un chiasmo, il cui
scioglimento concettuale sta nella differenza tra esperienza storica e di concetto di
storia. La funzione dell'Erinnerung nel discorso di Benjamin non è guidata da
un'organizzazione concettuale, ma si presenta come del tutto involontaria. La sua prima
funzione non è quella di essere ricostruzione logica del nesso tra momento presente e
momento ricordato, ne di mediare a partire dalla sua immagine una trama, un nesso, una
linearità all'interno di un continuo. La rammemorazione piuttosto estrae una cellula
temporale dal corpo del passato. Compito del materialismo storico, nel contesto delle
Tesi, è proprio quello di spezzare la mediazione nel tempo, entro cui si costituiscono,
nelle forme dell'eterno ritorno come nel progresso, le forme del tempo mitico. Si tratta
per Benjamin di smascherare il carattere “artificiale” della natura nella costruzione dello
storicismo.
Da questo, che non è altro che un “operare” dentro la tradizione storica, dentro
l'immagine del passato, non restano che frammenti -prodotti e insieme liberati
dall'impulso distruttivo del pensiero, originato dal ricordo involontario. Soltanto da
questi frammenti, delle macerie, delle scorie che rimangono delle lacerazioni che il
pensiero pratica nell'apparenza che avvinghia e abbacina la storia, si compone, quel
laboratorio sperimentale di costruzioni possibili nella «terra desolata» del
presente.262
Nel rapporto tra un tempo della rammemorazione, che si costituisce come un operare
involontario del pensiero tra le macerie di un tempo storico discontinuo, e un tempo
della costruzione storica si articola la possibilità per il materialismo di prendere a suo
servizio la teologia. Il riferimento in questo caso è all'immagine presentata da Benjamin
nella prima delle Tesi, come a voler evidenziare una soglia teorica fondamentale nella
comprensione di un concetto di storia rinnovato: in essa è raccontato l'aneddoto, da
riferire ad una novella di Poe263, di un automa, costruito in modo tale da battere
chiunque nel gioco degli scacchi. Un manichino, che rappresenta il materialismo
storico, siede di fronte al giocatore fumando un narghilè. Un sistema di specchi, in cui si
rivela il gioco di rimandi tra dimensione teologica e politica nella storia materialista, da
262 Ivi, p. 299.
263 Cfr. E. A. POE, Il giocatore di scacchi di Maelzel (1835), trad. it. a cura di G. CROCCO, Theoria,
Roma-Napoli, 1985.
112
l'illusione di poter avere una visione d'insieme dell'avversario e dello scenario di gioco.
In realtà, un nano, abilissimo negli scacchi, manovra il manichino, assicurandosi la
vittoria.
Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere
deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere
senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti
noto, è piccola e brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.264
L'immagine suggerisce un'allegoria rivelativa nel comprendere l'intreccio di dimensioni
teoriche presenti nelle Tesi. In tale operazione critica di discernimento, l'esperienza del
ricordo è esperienza di un immagine, che illumina per un istante, nel territorio del
passato, un lato dello storico, quello teologico, finora rimasto celato. La luce che
illumina il presente, come un lampo, è quella dell'attualità, dell'adesso come tempo
presente gravido di passato. Questo lampo, che apre per un tempo determinato uno
squarcio nell'intreccio temporale, interrompe il tempo mitico, fa baluginare per un
attimo la possibilità di recuperare l'apparentemente irreversibile, riaprendo ancora una
volta il fascicolo della storia degli oppressi, riaprendo ferite che si credevano
definitivamente dissolte nell'acido del tempo storicista. L'esperienza storica è esperienza
di questo lampo, in cui risuona l'eco di un tempo che il pensiero, nella sua funzione
logica, non può afferrare direttamente. All'interno di questo tempo – il tempo dell'aura,
così come il tempo perduto – l'adesso trapassa dalla preistoria cui era relegato nel tempo
attuale della storia materialista265. Nel recupero di un momento preciso nel tempo
risiede, dal punto di vista del concetto di storia, un'aspirazione alla redenzione, al
riscatto della felicità possibile di quel momento.
Quanto si avverte nell'istante è l'irripetibilità di un momento della vita passata, la
264 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 21.
265 Qui il riferimento è alla seconda delle Tesi: «Questa riflessione comporta che l'immagine di felicità
che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della
nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è solo nell'aria che abbiamo
respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi.
In altre parole, nell'idea di felicità risuona ineliminabile l'idea di redenzione. Ed è lo stesso per l'idea
che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non
sfiora forse anche noi un soffio dell'aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c'è, nelle voci
cui prestiamo ascolto, un'eco di voci ora mute? Le donne che corteggiamo non hanno delle sorelle da
loro non più conosciute? Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che
sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione
che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo
diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa.»: Ivi, p. 23.
113
sua irripetibile lontananza. È questa lontananza ad ammantare di un'aura particolare
quel momento, che dischiude il presentimento e il desiderio di felicità. Il presente
che conosce tale immagine, sa infatti la non recuperabilità di questo tempo
irripetibile ed è proprio da questo sapere, che nasce l'impulso a salvarlo – la
volontà di redenzione del così fu.266
Nel volgersi indietro della memoria si fa esplodere il corso della storia come pura
successione di nessi deterministici o fattuali. La vis rammemorativa del pensiero agisce
come potenza
controfattuale, trasformando l'immagine del passato, non più
monumentum come nello storicismo, nella fonte di un'interrogazione ultima sulla
possibilità stessa di una redenzione dei fenomeni. Tale interrogazione, è però destinata a
rimane irrisolta. Nel suo tentativo di sciogliere la costruzione della storia, e con essa la
tradizione, da ogni nesso mitico, la storia stessa si trasforma nell'immagine di una
continuità da dissolvere. Davanti alle immagini proposte dalla memoria risulta decisiva,
come era stato per lo scritto sul linguaggio del 1919, la dimensione auricolare del fare
critica. In questo tratto si rivela ancora una volta il carattere anintenzionale della verità
nella visione di Benjamin.
L'ascolto della tradizione che rischia di essere cancellata significa, per lo storico,
riconoscere «l'indistruttibilità della vita suprema in tutte le cose»; dare ai «senza
nome» - alla cui memoria è dedicata la costruzione storica – la dignità simbolica
del nome.267
Salvare nominando è il compito morale ultimo dello storico. Nel suo ascoltare, ciò che è
stato nel passato non è più lasciato a marcire tra le rovine lasciate dalla storia come
continuum progressivo, ma diventa l'immagine di una possibilità altra, che il critico
materialista cerca di ricostruire dalla ricomposizione, dal montaggio dei frames residuali
della cultura di un'epoca. L'aspirazione ad un atemporale riscatto dei fenomeni
conferisce allo storico benjaminiano l'aspetto dell'angelo della storia, così come ritratto
nel dipinto Angelus Novus di Paul Klee. In questa immagine, cara a Benjamin al punto
di considerarla tra le cose più importanti del suo patrimonio, si esplicita meglio che nei
tentativi di spiegare il nesso materialismo, teologia, quale sia la funzione ultima dello
storico materialista, e in che cosa consista l'aspirazione teologica delle Tesi.
266 F. DESIDERI, Del teologico nelle Tesi. Sul concetto della storia., cit., p. 301.
267 Ivi, p. 300.
114
C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo
che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi
occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della
storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a
noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa
incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben
trattenersi, destare i morti e ricomporre l'infranto. Ma dal paradiso soffia una
bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo può più
chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le
spalle, mentre cresco verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che
noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.268
Di fronte alla catastrofe del tempo moderno l'angelo di Klee inorridisce: paralizzato
dalla bufera del progresso l'angelo della storia addita a noi il bisogno di cercare altrove,
nel discontinuo della storia e non nel suo concatenamento, una possibilità di salvezza.
Benjamin sembra proiettare nel suo angelo la disperazione dello storico materialista di
fronte al disastro accumulato a causa di una concezione di storia guidata dal progresso,
e insieme l'estrema speranza di una possibilità, attraverso il materialismo, di redenzione
di quei fenomeni, che sul piano del reale si concretizza in una idea di felicità che
implica il concetto di liberazione, di riscatto, di redenzione dei fenomeni nell'alveo di
una nuova visione storica.
Redimere le macerie della storia, sarebbe a dire dare senso o ancora rendere giustizia
alla storia delle vittime: tali macerie restano però mute, laddove la storia rimane quella
della tradizione ufficiale. Per questo l’Angelus di Klee guarda angosciato il passato,
mentre il vento, la bufera del progresso, lo spinge via, quando vorrebbe restare tra
quelle vittime per salvarle nominandole, restituendogli un significato di fronte
all'eternità. In Benjamin, l’unica redenzione possibile rimane quella offerta dalla
memoria: solo serbando la memoria degli sconfitti, e perciò testimoniando del loro
scacco, dell'insensatezza della loro sconfitta e delle loro sofferenze, si può interrompere
il giogo del tempo mitico entro cui si svolge la storia vincitori, ovvero la visione della
storiografia ufficiale che resta ancora all’ipotetico e incontrovertibile dato di fatto
escludendo l’ambito delle possibilità non date. La forza messianica dell'angelo sta nella
capacità di star sospeso, a fungere sempre da monito per Benjamin, tra il tempo di un
Giudizio a venire, e il tempo attuale della Jetztzeit. Nel suo sbigottimento di fronte al
268 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia., cit., p. 37.
115
silenzio che proviene dalle macerie della storia sta il monito, sempre attuale, che guida
l'instaurazione nell'attualità di un «ordine profano» del futuro, da ricercarsi
nell'orizzonte del passato -il passato della rammemorazione, che è differente dal passato
del mito- che la bufera del progresso allontana sempre più.
-Conclusioni: attualità di Benjamin
Condensare il discorso sull'attualità delle tematiche benjaminiane a confronto con la
nostra attualità non è una questione semplice. Così come per la comprensione dei
concetti dell'autore le difficoltà, date in maggior parte dall'intrecciarsi di varie tematiche
e piani argomentativi, sono un chiaro sintomo del fatto che, nelle sue varie sfumature, la
riflessione di Benjamin può costituirsi nell'alveo di una serie di discorsi anche
considerevolmente lontani. Una ricostruzione dei rivoli, che a partire dalla mole
difforme della produzione dell'autore tedesco, si riversano nel discorso sul
contemporaneo, richiederebbe un'approfondimento filologico capace di condensare, in
una infinita glossa critica, un vademecum concettuale coerente, in cui ogni concetto
potesse osservarsi nella luce rischiarata di una “unità sistematica”. Tuttavia, come
accennato nella prima parte di questa trattazione, una ricostruzione tematica di tale
precisione sarebbe quantomeno avventurosa: non si vuole, senza neanche averne
l'autorità, scoraggiare l'impresa di uno studio che, se condotto rispettando i criteri dello
stesso Benjamin, potrebbe aiutare la comprensione talvolta confusa e contraddittoria
dell'autore. Piuttosto si intende evidenziare come, per sua natura, la produzione di un
autore spesso considerato sfingetico come Benjamin, sfugga costantemente ad ogni
tentativo di cristallizzazione, e pertanto anche ad ogni lettura che tenti di dare un
giudizio complessivo sul pensiero del critico tedesco. A tal proposito, si potrebbe
indicare un percorso di comprensione corretto proprio in una visione preliminare, che
tenga conto ancora una volta dell'incollocabilità di questo autore, e, in virtù di tale
carattere, della possibilità, oggi quanto mai attuale, che il testo benjaminiano si presti ad
un'applicazione multidisciplinare che non leda la coerenza delle istanze filosofiche che
l'autore porta avanti. Quale sia il grado di compatibilità tra i diversi periodi della
116
produzione benjaminiana è stato forse efficacemente evidenziato nello scritto che
precede questa conclusione. Tuttavia ciò che non viene esplicitato nelle pagine del
presente studio può essere forse chiarito, senza la pretesa di imporre una visione
dominante, da una lettura simultanea delle diverse incarnazioni del fare filosofico in
Benjamin. Nella definizione del compito, di volta in volta, del critico (designato come
chimico, paleografo, archeologo o «pescatore di perle»269), del cronista, del
collezionista, del flâneur, del materialista storico, è sempre all'opera lo stesso principio
fondamentale: si tratta di strappare ai vincitori, lembo per lembo, la banderuola che
segna la legittimità storica della critica letteraria, della cronaca, dell'esperienza del reale
così come della visione storica. Nel testo benjaminiano è sempre in atto,
indipendentemente dal contesto disciplinare o terminologico, quel movimento di rottura
con il conformismo borghese che nelle Tesi trova una tematizzazione diretta. Questo
elemento può forse costituire un primo punto di approccio generale, o meglio un
elemento rivelatore, riguardo al discorso sull'unità e sull'identità del pensiero di
Benjamin. Nell'insieme dell'opera, le varie figure del pensiero benjaminiano si ribellano
di volta in volta contro un avversario che ha l'aspetto cangiante di un esercito invasore
muto, l'esercito del progresso nello scenario della società capitalista moderna, e con
esso la tradizione della cultura dei dominatori. L'avanzata di tale avversario è muta
perché non si realizza, immediatamente, in un singolo aspetto, quanto piuttosto nel
dispiegarsi, e nel farsi parte del tessuto sociale, di quel drappo che è il tessuto della
cultura ufficiale: attraverso la forma delle città, le forme dell'arte, così come attraverso
lo stato della vita quotidiana nella società del capitalismo avanzato. Nel caso della
critica letteraria radicale, contro il classicismo o contro la critica di natura estetologica;
nel caso della cronaca in opposizione al giornalismo frettoloso e moraleggiante della
stampa, che si trasforma in maniera sempre più evidente in una funzione del potere; nel
caso del collezionista, che vede nella sua biblioteca un porto salvo per oggetti -e con
essi modi di esperienza del reale- altrimenti dimenticati, o nel caso del flâneur, in cui si
incarna un'esperienza del reale che fa della metropoli moderna lo scenario onirico e
inquietante di una rivelazione profana inscritta tra le luci al neon dei magasins; in tutti
questi casi, che si riassumono, da un lato, nell'interesse per Baudelaire 270, dall'altro nella
269 Cfr. H. ARENDT, Walter Benjamin (1892-1940), a cura di F. FERRARI, SE, Milano, 2009.
270 La figura di Baudelaire costituisce un punto centrale nell'opera di Benjamin: la riflessione sul poeta
non si riduce solo all'aspetto strettamente letterario (è il caso delle traduzioni e delle recensioni redatte
sin dall'inizio degli anni '20), ma a partire da tale interesse si attualizza, attraverso la figura
baudelairiana del flâneur, nella coscienza del portato politico e per certi aspetti “profetico” che tale
figura comporta. In effetti, non è sbagliato affermare che l'incompiuta opera sui passages abbia come
117
definizione del compito del materialista storico, la critica è al conformismo cui conduce
l'immedesimazione con la cultura/barbarie dei dominatori.
Nel caso specifico della sua biografia, il conformismo di cui si fa portavoce lo
storicismo, assume una connotazione più tragica nel momento in cui, come approccio
alla politica ed alla storia, informa di se lo scenario sociale di un'epoca intera. Il
pensiero di Benjamin è indubbiamente un pensiero della crisi, della catastrofe, dettato,
soprattutto nell'ultima parte, dall'urgenza di una situazione storica che rispecchia
fedelmente la visione, in negativo, dell'autore tedesco. Tale carattere può dirsi diffuso
nel corpus degli scritti benjaminiani, certamente almeno dal progetto perduto di una
Politik, ma si realizza compiutamente solo nell'elaborazione, negli anni sempre più
consapevole, di un meccanismo critico, di un modo di pensare, che non potesse in
nessun modo essere assimilato alle logiche del potere, e che si costituisse, invece, come
modello di un pensiero realmente alternativo, nell'ottica di una liberazione non più solo
esteriore e materiale -come era per il marxismo- ma anche e soprattutto percettiva,
coscienziale, infine sociale e politica.
Proprio in questo contesto, il saggio Per la critica della violenza, forse l'unico
documento “completo” di quel progetto pervenuto ai giorni nostri, rappresenta la prima
tappa in cui la modernità, talvolta definita “profetica”, di Benjamin, si affaccia
prepotentemente. In questo scritto troviamo una definizione del potere costituito – come
violenza che pone e conserva diritto – che sarà germinale per gli studi contemporanei
sul potere, in particolare in Foucault271, sebbene non ci siano scritti del pensatore
francese che dichiarano esplicitamente l'influenza di Benjamin. Lo stesso carattere
spettrale del controllo poliziesco che troviamo nello scritto sulla violenza, farà da
sfondo alla percezione foucaultiana di una società del controllo, entro cui gli individui
vengono integralmente assoggettati al biopotere esercitato dai moderni meccanismi
tematiche portanti lo studio della lirica di Baudelaire, così come l'analisi delle figure da lui osservate
(il flâneur, il dandy, le prostitute), vittime sacrificali e vettori temporali della società del capitalismo
avanzato, così come l'assetto urbanistico della città di Parigi in questo contesto storico-sociale. Tra i
molti scritti sul poeta francese, quello che forse riassume in maniera più concisa il significato
dell'interesse per Baudelaire è un saggio del 1938, edito per la prima volta nella primavera del 1939
sulla Zeitschrift für Sozialforschung, all'epoca ancora stampata in tedesco dall'Institute for Social
Research, già rilocato a Los Angeles: cfr. Über einige Motive bei Baudelaire (1939), trad. it. Di alcuni
motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti., 2006, cit., pp. 89-130. La tematica di
Baudelaire alimenta gli studi benjaminiani ancora oggi. È recente l'edizione di un testo, possibile a
partire da ritrovamenti manoscritti di Agamben nel 1981 alla Bibliothèque Nationale di Parigi, che
antologizza materiali nuovi ed altri già editi nelle raccolte dell'opera sui passages: cfr. W.
BENJAMIN, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato.,a cura di G.
AGAMBEN, B. CHITUSSI, C. C. HÄRLE, Neri Pozza, Vicenza, 2012.
271 In particolare: cfr. M. FOUCAULT, L'archeologia del sapere, Bur Rizzoli, Milano, 1999.
118
istituzionali272, intuizione che troverà culmine nella nascita del concetto, centrale nel
dibattito teorico odierno, di biopolitica, per cui si rimanda allo scritto già citato sulla
Nascita della biopolitica. Lo stesso Foucault riprende da Benjamin anche il concetto di
una filosofia come critica radicale, che rispetto alla storia si configura come approccio
archeologico: il materialista che spazzola la storia contropelo trova una nuova immagine
nel filosofo come archeologo delle forme culturali. L'origine di un'epoca va ricercata
sempre nella costellazione estesa della sua realizzazione concettuale attraverso la storia:
in questo senso il filosofo fa “archeologia”, nel momento in cui cerca di stabilire una
relazione tra una situazione presente e la sedimentazione storica che, a partire da un
passato anche estremamente remoto, reca fino al tempo attuale la traccia di determinati
caratteri culturali.
Tale relazione diventa possibile nel momento in cui lo svolgimento, progressivo e
continuo della storia come intesa dallo storicismo – e in questo la critica di Benjamin ha
fatto scuola – viene interrotto dalla dirompente esplosività dell'immagine dialettica. Non
si tratta più di iscrivere la narrazione storica entro lo sfondo omogeneo di uno
svolgimento continuo, ma il tessuto della storia si costituisce accostando le une alle
altre, dialetticamente, le immagini del passato riscattate dalla rammemorazione. In
quest'ottica, risulta, forse, comprensibile, anche la necessità -non una casuale
vicissitudine- di dover costituire l'opera che potesse fornire una glossa critica alla storia
del XIX secolo, cioè il Passagenwerk, proprio nell'impossibilità della continuità
narrativa, imitando in questo le tecniche poetiche e visive delle avanguardie. Sul piano
della tecnica narrativa e della visione storica e sociale è possibile collegare direttamente
Benjamin alle avanguardie, così come la presente trattazione ha cercato di evidenziare
nel capitolo relativo al surrealismo. In questo senso l'opera di Benjamin è influenzata ed
influenza, anticipandone in qualche modo l'approccio decostruttivista, sia le
avanguardie artistiche, sia quelle posizioni teoriche di estrema rottura con la società
dell'immagine, come ad esempio è il caso di Debord o del situazionismo 273. Da un certo
punto di vista potremmo dire, con Agamben, che nel cinema di Debord, e in parte
nell'esperimento delle Histoire(s) du Cinema di Godard, più che altrove, trova un
contrappunto pratico la visione benjaminiana della narrazione storica, che a partire dal
tessuto discontinuo della storia, raccoglie immagini la cui vera natura storica viene
rivelata nella giustapposizione -nella dialettizzazione- con altre immagini 274, che in
272 Cfr. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. (1975), Einaudi, Torino, 2005.
273 Cfr. G. DEBORD, La società dello spettacolo (1967), Massari, Viterbo, 2002.
274 Cfr. G. AGAMBEN, Il cinema di Guy Debord, in AA. VV., Guy Debord (contro) il cinema, a cura di
119
questa dialettica acquistano la legittimità di storia. Agamben sostiene innanzitutto, per
avvalorare tale parallelo, che esiste un legame forte tra immagine, come oggetto del
cinema, e storia. Da un primo punto di vista, tale legame è giustificato dal significato,
appunto storico, che l'immagine può assumere agli occhi dello spettatore, nel momento
in cui l'immagine può rappresentare un elemento di interesse per il suo contenuto in
relazione al montato costituito dalla narrazione storica. In particolare le immagini del
cinema, così come quelle della pubblicità e della cronaca, conservano una forza interna
che permette di sbalzare tali immagini dal contesto cristallizzato della semplice finzione
o del semplice accaduto storicistico. Se l'immagine in quanto tale, nel cinema, e in
generale nei tempi moderni, non rappresenta più un oggetto isolato, un archetipo
collocato al di fuori della storia, ma piuttosto un immagine in movimento, caricata di
una tensione dialettica e quindi storica, allora è possibile istituire un legame tra le
immagini dialettiche del materialismo storico benjaminiano e l'utilizzo che del cinema
fa il situazionismo.
E' una carica di questo genere che Benjamin vedeva in ciò che chiamava immagine
dialettica e che secondo lui era l'elemento stesso dell'esperienza storica.
L'esperienza storica si fa attraverso l'immagine, e le immagini sono esse stesse
caricate di storia.275
Il tempo storico in cui tale meccanismo può realizzarsi non è certo il tempo della storia
cronologica, quanto piuttosto quello della storia in una dimensione messianica. Tale
dimensione temporale è riprodotta, come entro un laboratorio, dalla dinamica di
ripetizione ed interruzione propria del cinema di Debord. In tale meccanismo si
rispecchiano, dal punto di vista di Benjamin, i meccanismi della rammemorazione così
come quello dell'interruzione del continuum storico. La ripetizione, così come la
rammemorazione nel contesto delle Tesi, introduce la possibilità di istituire un nuovo a
partire da un immagine ricorrente.
La ripetizione restituisce la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente
possibile. Ripetere una cosa è renderla di nuovo possibile. E' qui che risiede la
prossimità tra la ripetizione e la memoria. Perché nemmeno la memoria può
renderci tale e quale ciò che è stato. Sarebbe un incubo. La memoria restituisce al
passato la sua possibilità. E' il senso di questa esperienza teologica che Benjamin
E. GHEZZI, R. TURIGLIATTO, Il Castoro/La Biennale di Venezia, Milano 2001, pp. 103-108.
275 Ivi, p. 103.
120
vedeva nella memoria quando diceva che il ricordo fa dell'incompiuto un compiuto
e del compiuto un incompiuto.276
Dall'altro lato, l'interruzione, altro carattere fondamentale della cinematografia di
Debord, ha la funzione, in Benjamin assunta dallo choc del risveglio reso possibile dal
corso discontinuo della storia, di isolare l'immagine nel contesto di una critica alla
narratività del cinema borghese.
Non si tratta di un'interruzione nel senso della pausa, in un senso cronologico: è
piuttosto una potenza d'interruzione che lavora l'immagine stessa, che la sottrae al
potere narrativo per esporla in quanto tale.277
Lo stesso Benjamin aveva indicato nel cinema una forma artistica in cui si
concretizzava, o poteva concretizzarsi, una dimensione storica dell'immagine. In
qualche modo già i surrealisti e i dadaisti, pur rimanendo entro la propria poetica
“automatica” e decostruttiva, avevano interpretato precedentemente questa istanza278; in
altra maniera, la cinematografia proletaria sviluppatasi in Unione Sovietica in quel
periodo, testimonia, in un senso però più direttamente politico, dell'utilizzabilità
dell'immagine ai fini della costruzione di una coscienza di classe; in maniera simile,
negli stessi anni, in Italia e Germania il cinema viene utilizzato come strumento di
propaganda, in entrambi i casi fornendo interminabili ore di filmati per chi volesse
aprire il capitolo, probabilmente istruttivo a suo modo, dell'utilizzo del cinema ai fini di
indottrinamento delle masse. Nel caso del situazionismo, è possibile forse istituire un
legame più profondo, oltre che con le osservazioni di Benjamin sul cinema in toto, cui si
riferiscono i precedenti paralleli, nel senso che l'articolarsi di ripetizione ed interruzione
costituisce un punto di incontro forse più saldo della semplice affinità estetico-teorica.
Alla base del situazionismo, così come della critica alla costruzione epica della storia in
Benjamin, sta una critica radicale al concetto di espressione:
La corrente concezione dell'espressione è dominata dal modello hegeliano secondo
il quale ogni espressione si realizza attraverso un medium (sia un'immagine, una
parola o un colore) che alla fine deve dissolversi nell'espressione compiuta. L'atto
espressivo si compie una volta che il mezzo, il medium, non è più percepito in
276 Ivi, p. 107.
277 Ivi, p. 108.
278 Si pensi ai primi cortometraggi di Luis Buñuel, o al breve Entr'acte (1924) di René Clair, da
annoverare tra i manifesti postumi dell'arte cinematografica Dada.
121
quanto tale. Occorre che il medium scompaia in ciò che ci fa vedere, nell'assoluto
che si mostra e che risplende in esso. Al contrario, l'immagine che è stata lavorata
attraverso la ripetizione e l'interruzione è un mezzo, un medium che non scompare
in ciò che ci fa vedere. E' ciò che chiamerei un "mezzo puro", che si mostra in
quanto tale. L'immagine si mostra in se stessa invece di scomparire in ciò che ci fa
vedere.279
L'immagine apparentemente sconnessa proiettata da Debord nasconde in realtà una
chiave di lettura pienamente contemporanea della storia, e il parallelo che istituisce
Agamben in questo caso con l'immagine storica in Benjamin rileva la reale portata etica
e politica del cinema così come del discorso benjaminiano sui media.
Più in generale in Benjamin, il discorso sui media assume un significato molto più
ampio in relazione alla dimensione storico-politica in cui il discorso sull'arte viene
inserito. In questo senso il saggio su L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità
tecnica costituisce un punto fondamentale nella ricezione di Benjamin critico d'arte o
teorico dei mass-media.
In questo saggio sono espressi almeno due coefficienti teorici che permettono di
affermare decisamente l'attualità di Benjamin. Da un lato, la politicizzazione dell'arte
auspicata alla fine dello scritto, come presa di coscienza, da parte del fare artistico, della
necessità di spezzare proprio con il discorso artistico il monopolio percettivo ricercato
dai meccanismi del capitalismo, risulta oggi quanto mai attuale. Dall'altro, proprio la
necessità di liberare la percezione e la sensibilità dall'avanzamento di quell'invasore
costituito dalla pubblicità, dalla mercificazione dell'immaginario, dall'entertainment,
ancora dal conformismo come veicolo talvolta obbligato del proprio orizzonte culturale,
in ultima istanza dalla fantasmagoria materiale che nei passages trova la prima
espressione moderna, si configura come istanza etica oggi ancora valida nel rivendicare
lo spazio di una libertà ancora non conquistata. In corrispondenza ad un cambiamento
nella struttura e nelle modalità del fare artistico, sopraggiunge un cambiamento parallelo
nel campo della percezione e della ricezione dell'arte. Con la perdita dell'aura, con
l'avvento della riproducibilità tecnica, l'arte da un lato si emancipa dalla sua parassitica
esistenza in relazione al rito, dall'altro il carattere cultuale viene sostituito da una
progettazione, da un confezionamento, da una politicizzazione dell'oggetto artistico,
prima sconosciuta. Entro l'appropriazione del carattere politico di tale oggetto, come
veicolo ed emblema di un determinato modo di percepire ed esperire la realtà, si gioca il
279 Ibidem.
122
carattere rivoluzionario del pensiero benjaminiano, di fronte all'invisibile nemico del
capitalismo. La perdita dell'aura segna allora non soltanto l'avvento di una nuova
possibilità di liberazione -della percezione così come delle potenzialità politiche
racchiuse nell'immaginario-, ma segna anche l'inizio della presa di coscienza, etica,
della necessità di “combattere” per sottrarre l'oggetto artistico privo della sua aura alla
bufera del progresso, o in altre parole al conformismo della tradizione dei vincitori 280.
In questo senso il pensiero di Benjamin risulta, forse ancora oggi, sconfitto, e tuttavia la
ricezione di Benjamin negli ambiti più disparati ha favorito in un certo senso lo
sviluppo di una coscienza critica antagonista a tale “atrofizzazione” della percezione. È
il caso, raramente citato nei documenti ufficiali, delle sottoculture contemporanee che
della ri-conquista di un immaginario liberato da quello della cultura dominante fanno
una bandiera. Una lista dei “movimenti” e delle “esperienze” in tal senso rivoluzionarie
dovrebbe partire dall'elaborazione teorica per trovare sbocco, oltre che nelle
avanguardie artistiche, anche in quegli esperimenti quotidiani, individuali o collettivi, di
distacco critico dalle istanze della società del capitalismo avanzato. O in altre parole in
tutte quelle pratiche, che in un modo o nell'altro, si pongono coscientemente di fronte
alla barbarie culturale del proprio tempo, siano esse di carattere teorico, artistico, o
anche strettamente pratico.
La necessità, ancora oggi, di un tale esercizio nell'antagonismo, è dato dal fatto che il
nemico contro cui Benjamin combatteva, non ha ancora smesso di vincere. Anzi oggi
più di prima non vi sono alternative a tale vittoria schiacciante e oppressiva, se non
quella di portare testardamente avanti un perenne “assalto al cielo” delle nostre
concezioni culturali. Il nemico oggi come allora non si maschera, ma oggi forse più di
allora si insinua ovunque possa strumentalizzare a suo favore delle forze politiche. È il
caso delle innumerevoli forme di soft power cui siamo soggetti: l'intrattenimento come
atrofizzazione del gusto, della sensibilità, della capacità stessa di immaginare un tempo
– passato, presente, futuro – differente; è il caso della individuazione massificata dei
prodotti di consumo, evidenziato dalla dimensione social di ogni prodotto materiale e
culturale; è il caso della demagogia politica imperante, sia nell'alveo del potere
costituito che in quello, che si vorrebbe antagonista, dell'opposizione politica.
In questo contesto, oggi come allora la necessità critica del pensiero sta nella capacità di
280 Per l'argomentazione in questo passaggio si rimanda ad un articolo, irreperibile in lingua italiana, di
Habermas: cfr. J. HABERMAS, Consciousness raising or redemptive criticism. The contemporaneity
of Walter Benjamin., in “New German Critique. An interdisciplinary journal of german studies.”, n.
17, Duke University Press, Durham, 1979, pp. 30-60.
123
strutturare un discorso teorico che possa interrompere, almeno per chi vuole ascoltare, la
catastrofe prolungata del progresso. Oggi forse più di allora è necessario tenere le redini
del proprio sguardo critico, per poter strutturare o semplicemente generare un discorso,
che non sia in nessuna maniera strumentalizzabile, che non possa essere in nessun modo
utilizzato dal nemico.
124
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