Academia.eduAcademia.edu

René Vautier, Fanny Colonna: l'Algeria di ieri e quella di oggi

2015, LO STRANIERO

Mentre infuriava la “campagna di lancio” dell’ultimo Houellebecq (rapidamente interrotta dopo gli attentati parigini del 7-8 gennaio in un fugace istante di lucidità o di convenienza), se n’erano da poco andati in punta di piedi due “grandi”: Fanny Colonna, antropologa storica e sociologa fuori dai canoni, e René Vautier, ribelle con la macchina da presa, che avevano incarnato, vivendolo intensamente ciascuno a modo suo, il legame complesso e contraddittorio che la storia ha lasciato in eredità a due sponde del Mediterraneo, l’Algeria e la Francia. Fanny Colonna era nata nel 1934 a Theniet-el-Haâd, a sud-est di Algeri, ed è morta a Parigi nel novembre scorso; René Vautier, bretone, era nato nel 1928 a Camaret-sur-Mer ma viveva da anni a Cancale dove è morto ai primi di gennaio. Nel momento in cui l’area mediterranea torna a essere il baricentro degli equilibri mondiali dopo decenni di predominanza dello scacchiere atlantico, è utile ricordare questi due percorsi intellettuali che pur essendo quanto mai diversi ci raccontano un’altra storia della vicenda franco-algerina (e, più in generale, mediterranea), testimoniando di uno scarto, di un’altra possibilità. Di un’ostinata battaglia di intelligenza e libertà, sicuramente minoritaria ma non per questo meno importante.

75N9 anno XIX numero 179 maggio 2015 € 10,00 RIVISTA MENSILE DIRETTA DA GOFFREDO FOFI N1l Emmanuel Carrère intervistato da Caramore e Lagioia Borja su Podemos / Giagnoni su Selma Battiston e Leogrande sullo Stato Islamico Baranelli su Renato Solmi / Giacchè su Judith Malina Brazzoduro su René Vautier / Del Paso su José E. Pacheco Mereghetti su Manuel de Oliveira Poesie di Paul Celan arte cuotura ScIeZ a S cIetà arte cuotura ScIeZ a S cIetà Il racconto Capuano Gianinazzi Rielli S P E D . I N A B B . P O S T. D . L . 3 5 3 / 2 0 0 3 ( c o n v. i n L . 2 7 / o 2 / 2 0 0 4 n ° 4 6 ) a r t . 1 , comma 1, DCB ROMA Internazionale, il settimanale che parla dei fatti di casa tua. Ogni venerdì in edicola. arte cultura scien a società anno XIX • numero 179 • maggio 2015 RIVISTA MENSILE DIRETTA DA GOFFREDO FOFI Mensile anno XIX maggio 2015 n. 179 Redazione via Nizza, 56 – 00198 Roma tel: 06-32828231; fax: 06-32828240 e-mail: [email protected]; [email protected] sito web: www.lostraniero.net Editore Contrasto s.r.l. via Nizza, 56 – 00198 Roma tel: 06-328281 sito web: www.contrastobooks.com Stampa Arti Grafiche La Moderna Promozione Promedi Piazza Malpighi, 6 – 40123 Bologna tel: 051-344375 Distribuzione Messaggerie Libri via Verdi, 8 – 20090 Assago (MI) tel: 02-45774200 Redazione Goffredo Fofi (direttore), Alessandro Leogrande (vicedirettore), Vittorio Giacopini, Nicola Lagioia, Emiliano Morreale Segreteria di redazione Anna Branchi Grafica Fausta Orecchio Collaboratori Cecilia Bartoli, Giuliano Battiston, Ornella Bellucci, Marcello Benfante, Gianfranco Bettin, Giacomo Borella, Andrea Brazzoduro, Maurizio Braucci, Marisa Bulgheroni, Franco Carnevale, Marco Carsetti, Domenico Chirico, Francesco Ciafaloni, Giorgio De Marchis, Nicola De Cilia, Carlo Donolo, Enzo Ferrara, Grazia Fresco Honegger, Giancarlo Gaeta, Piergiorgio Giacchè, Alberto Grossi, Stefano Guerriero, Roberto Koch, Stefano Laffi, Luca Lambertini, Franco Lorenzoni, Marcello Lorrai, Luigi Manconi, Giulio Marcon, Carlo Mazza Galanti, Paolo Mereghetti, Giorgio Morbello, Luigi Monti, Maria Nadotti, Andrea Nanni, Renato Novelli, Fausta Orecchio, Antonio Pascale, Lorenzo Pavolini, Damiano Pergolis, Luca Rastello, Angela Regio, Alberto Rocchi, Nicola Ruganti, Rodolfo Sacchettini, Paola Splendore, Carola Susani, Neliana Tersigni, Alessio Trabacchini, Alessandro Triulzi, Emilio Varrà, Cristina Ventrucci, Nicola Villa, Gabriele Vitello, Dario Zonta, Giovanni Zoppoli Direttore responsabile Goffredo Fofi Si collabora su invito della redazione; i manoscritti non vengono restituiti. L’editore si dichiara disponibile a corrispondere il pagamento dei diritti di cui non è stato possibile raggiungere i detentori. Finito di stampare aprile 2015 Reg. Tribunale di Roma n. 201/99 del 27.04.99 MAGGIO 2015 179 5 Fuga di morte e altre poesie Paul Celan a cura di Luigi Reitani persuasioni 16 Podemos e la democrazia Jordi Borja 20 Jihad, sulla pelle dei musulmani Giuliano Battiston 27 La zona grigia, tra l’Isis e Primo Levi Alessandro Leogrande 30 “American Sniper” visto dall’Iraq Domenico Chirico 31 Da Selma a Montgomery, 50 anni dopo Silvia Giagnoni 37 Le minacce agli amministratori Gianfranco Bettin, con Riccardo Bottazzo 40 Gioco d’azzardo, un paradosso italiano Alberto Grossi 44 Disobbedire alla Storia Gianfranco Bettin arte e parte 50 Due incontri con Emmanuel Carrère Una storia che ci riguarda incontro con Nicola Lagioia 60 Cosa significa essere cristiani? incontro con Gabriella Caramore 68 71 il racconto Perché amo il cinema Emmanuel Carrère René Vautier, Fanny Colonna: l’Algeria di ieri e quella di oggi 116 129 Omaggio a José Emilio Pacheco Fernando del Paso Elettrocardiodramma Leonardo Capuano Andrea Brazzoduro 78 La galleria Andrea Gianinazzi 140 La raccolta Daniele Rielli operez iorni 82 Judith Malina e il Living Theatre Piergiorgio Giacchè 84 Ricordo di Renato Solmi Luca Baranelli 87 Claudio Morganti legge Campana Graziano Graziani 90 Il cinema di Frederick Wiseman Stefano Fedele 94 La copertina di questo numero è di Michele Rocchetti; le illustrazioni sono di George Herriman (1880-1944), per rendere omaggio a “Krazy Kat”, il più geniale fumetto delle origini; i disegni in apertura di sezione sono di Oreste Zevola; il logo è di Mimmo Paladino. Ritratto di Manuel de Oliveira Paolo Mereghetti 96 Il film d’esordio di Laura Bispuri Dario Zonta 98 Nanni Moretti allo specchio Emiliano Morreale 99 Come si disegna un soldato Alessio Trabacchini 103 Un romanzo di Angelo Fiore Marcello Benfante 108 I revenants di Luciano Curreri Gabriele Fichera 110 Ricordo di Lidia Croce Goffredo Fofi 122 Letto, visto, ascoltato Andrej Platonov, Eric Ambler, Raul Montanari, Pier Antonio Quarantotti Gambini / Bennett Miller, Yimou Zhang Hanno collaborato a questo numero: Ornella Bellucci, Giorgio De Marchis, Michele De Mieri, Francesca Ferretti, Gloria Grandinetti, Luca Lenzini, Valentina Notarberardino, Ludovico Orsini, Daniele Papalini, Simona Parisi, Fernando Pelosi, Andrea Piva, Rosa Polacco, Alessandra Riccio, Tania Russo, Annio Sardelli, Simone Tonucci, Valerio Tretta, Nicola Villa, Armando Dadò editore, Radio3 Rai, “Libri come” e il festival cinematografico di Locarno. 71 ARTE E PARTE René Vautier, Fanny Colonna: l’Algeria di ieri e quella di oggi di Andrea Brazzoduro Mentre infuriava la “campagna di lancio” dell’ultimo Houellebecq (rapidamente interrotta dopo gli attentati parigini del 7-8 gennaio in un fugace istante di lucidità o di convenienza), se n’erano da poco andati in punta di piedi due “grandi”: Fanny Colonna, antropologa storica e sociologa fuori dai canoni, e René Vautier, ribelle con la macchina da presa, che avevano incarnato, vivendolo intensamente ciascuno a modo suo, il legame complesso e contraddittorio che la storia ha lasciato in eredità a due sponde del Mediterraneo, l’Algeria e la Francia. Fanny Colonna era nata nel 1934 a Theniet-el-Haâd, a sud-est di Algeri, ed è morta a Parigi nel novembre scorso; René Vautier, bretone, era nato nel 1928 a Camaret-sur-Mer ma viveva da anni a Cancale dove è morto ai primi di gennaio. Nel momento in cui l’area mediterranea torna a essere il baricentro degli equilibri mondiali dopo decenni di predominanza dello scacchiere atlantico, è utile ricordare questi due percorsi intellettuali che pur essendo quanto mai diversi ci raccontano un’altra storia della vicenda franco-algerina (e, più in generale, mediterranea), testimoniando di uno scarto, di un’altra possibilità. Di un’ostinata battaglia di intelligenza e libertà, sicuramente minoritaria ma non per questo meno importante. NUMERO 179 MAGGIO 2015 L’anticolonialista con la macchina da presa Aveva una scheggia di cinepresa conficcata nella testa. Era successo nel 1957, durante la guerra d’indipendenza, in uno scontro a fuoco con l’esercito francese nelle Nememcha, a est, verso il confine con la Tunisia, dove René Vautier aveva da poco raggiunto le file dei partigiani algerini: operato d’urgenza nella Ddr sopravvive per miracolo e il suo nome di battaglia diventa Farid-el-Baraka (Farid “il fortunato”). Nel maquis però molti lo chiamavano semplicemente Si Nema (dall’appellativo arabo “Si”, che vuol dire “signore”: monsieur cinéma, e dunque Si Nema). Da allora l’Algeria e la lotta degli algerini sarebbero stati l’affaire di tutta una vita, come testimoniano i quindici film – su un corpus in realtà molto più vasto, in gran parte perduto – recentemente raccolti in cofanetto da una piccola ma pugnace “coopérative audiovisuelle”, Les Mutins de Pangée: René Vautier en Algérie, 1954/1988 (nel libretto che accompagna i quattro dvd si segnala, tra l’altro, il bel testo della storica delle immagini Marie Chominot, René Vautier, l’Algérie au cœur). Per Vautier, come per tanti di quella generazione (in Italia viene subito da pensare a Giovanni Pirelli e al suo réseau, ma non solo), le lotte anticoloniali appaiono rapidamente come la logica prosecuzione e l’aggiornamento della lotta antifascista (nel 1954, quando inizia la guerra d’indipendenza algerina, sono passati meno di dieci anni dalla Liberazione). Non è il cinema la vocazione iniziale di Vautier: al liceo di Quimper legge i testi di Victor Hugo sulla necessità di scacciare i prussiani nel 1870 e ne ricava, insieme ai compagni con cui forma un “gruppo di poesia resistente”, la convinzione che bisogna agire. È il 1943 e René Vautier non ha ancora sedici anni. 72 ARTE E PARTE NUMERO 179 MAGGIO 2015 Prima di scegliere il cinema, infatti, questo figlio di operai si è battuto armi alla mano nella Resistenza. È un’esperienza fondativa ma anche dolorosa: Vautier ne uscirà non tanto pacifista quanto consapevole che, nella lotta, il suo posto è un altro: lascia allora le granate e sceglie la macchina da presa. Dice in un’intervista contenuta nel libretto: “Quando si hanno granate, si tende a utilizzarle, per la causa, ma quando se ne vedono poi gli effetti su qualcun altro, a sedici anni, o diventi un killer oppure provi a trovare un’altra soluzione”. È così che, a guerra conclusa, Vautier aderisce al partito comunista e entra all’Institut des hautes études cinématographique (Idhec), due opzioni per lui complementari. Nel 1949, la Ligue de l’enseignement commissiona al neodiplomato un documentario sulla vita nei villaggi dell’Aof, l’Afrique occidentale française. Ma Vautier ne marche pas. Invece di esaltare come richiesto gli aspetti positivi della “missione civilizzatrice” (e educativa), mostra la violenza materiale su cui si fonda il colonialismo francese in Mali e in Costa d’Avorio: lavoro forzato, sopraffazione, repressione militare. Il risultato è un poema visivo incendiario, preciso come una lama sin dal titolo: Afrique 50. Censurato e poi “scomparso” per quarant’anni, è entrato nella leggenda come “il primo film anticolonialista francese”, anche perché il suo giovanissimo autore (ha ventidue anni), nonostante nel 1944 sia stato insignito dell’Ordre de la Nation da de Gaulle per fatti di Resistenza, paga la sua libertà con un anno di galera (prima nella prigione militare di Saint-Maixent-l’École, poi a Niederlahnstein, nella Germania sotto occupazione francese). Esce nel giugno del ’52, più convinto che mai che la strada intrapresa sia quella giusta e inizia a lavorare a un nuovo film, Une nation, l’Algérie (perduto). Basandosi in particolare sulle memorie dei generali conservate alla Bibliothèque Nationale, ricostruisce la violenza della conquista militare dell’Algeria nel 1830 (la “guerra totale” di cui aveva scritto Tocqueville). Nel film Vautier dice chiaramente che “l’indipendenza dei tre dipartimenti francesi d’Algeria è ineluttabile, e che è tempo di discutere di questa indipendenza prima che troppo sangue scorra da una parte e dall’altra del Mediterraneo”. Subito censurato, Une nation, l’Algérie vale al regista una nuova condanna, stavolta per “attentato alla sicurezza dello stato”. È così che Vautier entra in clandestinità e nel 1956 va in Tunisia dove gira un paio di corti, tra cui Les anneaux d’or, con la tunisina Claudia Cardinale al debutto, orso d’argento a Berlino nel 1958. A Tunisi Vautier contatta il Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln) che gli fa passare la frontiera: raggiunge le unità combattenti delle Aurès-Nememcha (la wilaya 1) e resta nel maquis a filmare durante tutto il 1957. Tornato a Tunisi mostra il girato ad Abane Ramdane, che al congresso del Fln (Soummam, agosto ’56) ha ricevuto mandato di mediatizzare la lotta sul piano internazionale e di creare gli archivi della rivoluzione, la memoria visiva dell’Algeria in guerra. Il confronto con Abane non è sempre facile. Rispetto ad altri registi/operatori come Pierre Clément che si pongono direttamente al servizio del Fln, Vautier vuole mantenere la propria autonomia. Abane avrebbe preferito addirittura che il regista diventasse algerino ma il bretone non è d’accordo. Insisterà anzi sempre su questo punto, mantenendo ben presente il fatto di essere francese, di parlare in quanto francese (o meglio bretone), comunista, senza volersi cioè assolutamente sostituire agli algerini, senza voler parlare in loro vece. Vautier rifiuta 73 ARTE E PARTE NUMERO 179 MAGGIO 2015 di diventare membro del Fln: vuole mostrare cosa succede in Algeria senza essere agli ordini di nessuno, mostrare perché le persone combattono e contribuire in questo modo alla soluzione del conflitto. Un cinema per capire, improntato al motto: “Filmo ciò che vedo / Ciò che so / Ciò che è vero” (détournement dei celebri versi resistenziali di Éluard con cui si chiude L’honneur des poètes II Europe, mai 1944). È su questa base che Abane e Vautier trovano un accordo. Il regista avrebbe avuto piena libertà sul montaggio; il Fln sarebbe stato libero di aggiungere alle immagini il commento arabo che gli pareva. L’altro punto di accordo è che il regista avrebbe formato gli algerini alla tecnica cinematografica. Finito il montaggio di Algérie en flamme a Berlino Est, Vautier porta in Egitto la copia per Abane come d’accordo. Ma al Cairo gli dicono che Abane non c’è (è stato appena fatto fuori in Marocco, dai suoi). Il film comunque piace, tranne una sequenza degli ultimi minuti dove si vede un gruppo di partigiani piangere i compagni caduti. Inaccettabile. Un djounoud non piange. Vautier protesta: Abane si era impegnato a non toccare il montaggio, quelle immagini non sono inventate, toglierle sarebbe un tradimento nei confronti dei combattenti e della loro umanità. Poi propone una scommessa: se lui perde, il Fln potrà fare del film ciò che vuole. Vautier scommette che chi gli chiede di togliere la sequenza non ha mai visto un djounoud, non ha mai visto il maquis, è un uomo d’apparato. Quelli ridono e gli dicono che ha vinto la scommessa. Le lacrime dei partigiani restano ma la vittoria è amara per il regista che, vittima dei giochi di potere interni al Fronte di liberazione, si ritrova sbattuto per venticinque mesi in una prigione clandestina, a Denden, a ovest di Tunisi. Dopo i francesi, stavolta sono gli algerini a metterlo dentro. Ha scritto Michel Boujut a proposito di Vautier: “è il regista che ha avuto più problemi con la censura… e anche quello che gliene ha dati di più”. Completamente riabilitato dopo l’indipendenza, nell’estate del 1962 Vautier partecipa alla fondazione del Centre Audiovisuel di Algeri che dirige fino al 1965 lavorando con la prima generazione di registi (Guenifi, Lakhdar-Hamina…). Parallelamente si investe in un progetto di alfabetizzazione visiva, i ciné-pop, che portavano con un camion il cinema nei villaggi dell’Algeria profonda, seguiti da appassionati dibattiti. Nel 1966 torna in Francia e si unisce al gruppo Medvedkine di Chris Marker. Troppi i progetti realizzati in un cinquantennio di “cinema d’intervento sociale” per renderne conto qui: sull’inquinamento, il femminismo, le lotte operaie, il razzismo o l’autonomismo bretone (vedi l’appassionante autobiografia Caméra citoyenne, Apogée 1998). Insieme ai nuovi progetti, Vautier continua però fino alla metà degli anni ottanta un lavoro enorme di registrazione di interviste sulla guerra d’indipendenza algerina, da una parte e dall’altra del Mediterraneo (500 interviste, 680 ore di registrazioni). Da questi materiali nasce Avoir vingt ans dans les Aurès, sicuramente il suo film più noto (grand prix della critica a Cannes nel 1972). È uno dei primi film di finzione sulla guerra finita appena dieci anni prima: non è un documentario ma, assicurava il regista, “l’autenticità di ogni scena può essere confermata da almeno cinque persone”. Al centro della narrazione c’è il progressivo imbestiarsi di un’unità di soldati di leva bretoni. Dieci anni dopo l’esperimento di Stanley Milgram sull’autorità, pensando alla “guerra d’Algeria” ma dal lato francese – il “suo” – 74 ARTE E PARTE NUMERO 179 MAGGIO 2015 Vautier si chiedeva: “come si possono mettere dei ragazzi nella condizione di comportarsi come criminali di guerra?” Antropologa del terzo spazio Mi è più difficile scrivere di Fanny Colonna, che ho avuto la fortuna di frequentare e con cui avevo lungamente discusso, a margine del seminario mensile del Centre d’histoire sociale della Sorbona, appena qualche settimana prima della sua scomparsa. Di Fanny mi avevano subito colpito lo sguardo luminoso, l’intelligenza, l’ironia, e la sincera curiosità per le ricerche dei più giovani che ascoltava incoraggiava e commentava con generosità (anche quando non si trattava dei “suoi”, cosa rara nel girone accademico). L’avevo cercata perché era una delle migliori specialiste delle Aurès, le montagne popolate di berberi chawya nel sud est dell’Algeria, “terreno” della mia ricerca. Ma anche – e forse soprattutto – per quel suo modo originalissimo di indagare la storia sociale dell’Algeria sfuggendo alla trappola binaria colono/colonizzato (come pure: dominio/oppressione, città/campagna, cultura scritta/cultura orale, eccetera) per cercare invece di restituire la complessità della “situazione coloniale” (Balandier) nella sua concreta contraddittorietà, interessandosi più ai percorsi di individui particolari che alle idee e ai dibattiti. Introducendo un volume che raccoglieva i risultati di una ricerca collettiva da lei coordinata, Fanny Colonna scriveva: “Ribelli, rivendicativi o rassegnati, gli uomini di ogni sorta presi in queste tempeste hanno inventato, ciascuno individualmente o a volte in gruppo, le loro lotte. Cinque registri della rivendicazione identitaria sono qui presenti: il Bandito berbero montanaro; l’europeo, detto altrimenti ‘pied-noir’, che non si sente né francese, né algerino (né ebreo); l’Altro, che vuole diventare francese semplicemente per vivere; l’Algerino, pronto a provare che è francese da molto tempo; il ragazzo di origine maghrebina, infine, francese di diritto per lo jus soli che però cerca di salvaguardare la propria ipseità. Quel che colpisce di più in tutto questo è il lato pragmatico, ‘primordiale’, della rivendicazione, quasi completamente scevro d’ideologia” (Traces, désir de savoir et volonté d’etre: l’après-colonie au Maghreb, a cura di Fanny Colonna e Loïc Le Pape, Sindbad 2010, p. 20). Un metodo di lavoro che, appropriandosi criticamente della microstoria, compiva una rivoluzione copernicana, sostituendo una categoria pratica a una categoria analitica: al centro dell’indagine non stava più infatti la domanda cosa è l’identità, ma come funziona. Un gesto tanto più radicale in Algeria dove, come ha osservato uno dei suoi critici più acuti, Abdelmalek Sayad, il nazionalismo si è formato in risposta alla colonizzazione, nella forma di una contro-storia opposta ma speculare a quella francese, “‘nazionalizzando’ l’opposizione (binaria) intrinseca all’ordine coloniale” (Abdelmalek Sayad, Histoire et recherche identitaire, Bouchène 2002, p. 22). Proprio per questa sua ostinata propensione a sparigliare le carte, il lavoro di Fanny Colonna si è sempre mosso ai margini del mondo universitario (in Algeria come in Francia), per il quale è rimasta “un oggetto non identificato” (cos’è infatti la sua? Antropologia storica? Sociologia? Etnologia? Storia sociale?), e che l’ha quindi ricambiata accogliendo i suoi libri con un silenzio educato. Quella di Fanny Colonna è tutta una storia di radicale marginalità. Figlia di un amministratore di quello che nell’“Algeria francese” si chiamava “comune misto”, a M’sila, giovanissima 76 ARTE E PARTE NUMERO 179 MAGGIO 2015 cresce in un ambiente di pied-noir per nulla ostile alla popolazione “indigena”. Offesa dalla violenza che in Algeria organizza e divide il mondo degli “europei” da quello dei “francesi musulmani”, si politicizza nell’ambiente del cattolicesimo progressista, corrente animata da figure come André Mandouze, Pierre Chaulet o Pierre Colonna (che diventerà suo marito). Questo gruppo – piccolissimo in rapporto alla comunità pied-noir, che già rappresenta appena un decimo della popolazione algerina – si riunisce nell’Association de la jeunesse algérienne pour l’action sociale e pubblica una rivista, “Consciences maghrebines”, la cui declinazione al plurale (coscienze magrebine) è già un programma. Il gruppo, che dialoga con il movimento nazionalista all’origine dell’insurrezione nel 1954, è fautore dell’indipendenza di una nazione algerina multietnica, una posizione non solo estremamente minoritaria rispetto all’attaccamento della comunità pied-noir all’imbroglio dell’“Algeria francese” ma anche marginale (e poi definitivamente proscritta) nelle file del Fronte di liberazione nazionale (Fln). E tuttavia il sogno di un’Algeria dove possano coesistere, non gerarchicamente ordinate, tutte le molteplici appartenenze che caratterizzano la regione è pervicacemente radicato tra questi “europei” al punto che, pur avendo perso il padre nel 1955 per mano del Fln, alla fine della guerra Fanny Colonna opta per la cittadinanza algerina (rinunciando a quella francese) e si stabilisce col marito ad Algeri. “Noi non aiutiamo il Fln”, diceva Pierre Chaulet, ricordato dallo storico Mohammed Harbi alle esequie parigine di Fanny, “noi siamo algerini come voi: la nostra terra, la nostra patria è l’Algeria, noi la difendiamo con voi. Noi siamo del Fln”. Dopo l’indipendenza Colonna riprende gli studi universitari ad Algeri, dove si laurea con una tesi su Mouloud Feraoun, diretta da Mouloud Mammeri. Diventata assistente di sociologia ad Algeri, si inscrive in dottorato con Pierre Bourdieu a Parigi (“più per il suo metodo e il suo rigore scientifico che per le sue teorie o per la sua visione dell’Algeria”: Retour sur Les versets de l’invincibilité, intervista a cura di Jean-Pierre Van Staëvel, “Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée”, n. 135, luglio 2014). Da allora vivrà sempre tra l’Algeria e la Francia, senza disporre di niente altro che di un permesso di soggiorno (da rinnovare ogni dieci anni), come i lavoratori algerini. Dopo un primo libro sulla scuola coloniale e gli istitutori algerini, negli anni settanta-ottanta avvia un cantiere di ricerca ventennale sulla regione delle Aurès. Utilizzando un ampio e originale ventaglio di fonti (interviste, archivi, letteratura) Colonna mostra nei Versets de l’invincibilité (Fnsp 1995) l’inadeguatezza dello schema di Ernest Gellner che oppone islam urbano e islam rurale, che sarebbe stato sconfitto dal primo. Dall’indagine empirica tra le famiglie marabutiche delle Aurès appare infatti una realtà molto più complessa, fatta di circolazioni e scambi tra i due mondi, perché le famiglie mandano i figli dalle zone rurali a studiare a Constantine dove entrano in contato con l’islah di Ben Badis, la corrente riformista dell’islam. L’immagine della società rurale (statica e impermeabile all’esterno) cambia radicalmente, così come il rapporto dei contadini col sapere. Negli “anni neri” del terrorismo islamista Fanny Colonna è minacciata per le sue prese di posizione femministe e nel 1993 si ferma, in esilio, a Parigi senza che questo le impedisca di continuare a operare pazientemente come passeur tra le due rive del Mediterraneo, a tes- 77 ARTE E PARTE sere legami, a mettere in contatto studenti e ricercatori dei due paesi, pensando sempre a come mantenere un equilibrio, a come contrastare lo spirito predatorio delle università del nord nei confronti del sud del mondo, come quando mi disse: “cerca però anche di insegnare in Algeria, non si può prendere soltanto”. “Oggi abbiamo quasi completamente dimenticato”, si legge nel suo ultimo, bellissimo, libro, “che il lungo periodo d’oppressione coloniale fu anche l’occasione d’incontri – diversi a seconda dei decenni, delle religioni e degli ambienti – tra le popolazioni conquistate e i nuovi arrivati. Di questa evidenza, che ha toccato nel profondo la vita delle persone, delle loro famiglie, e dunque dell’Algeria intera, non sappiamo praticamente nulla, o molto poco”. È questa l’ipotesi all’origine della sua ultima straordinaria ricerca edita, Le meunier, les moines et le bandit: des vies quotidiennes dans l’Aurès du XX siècle (Sindbad 2009). Récits, “racconti”, recita il sottotitolo di questo libro così anomalo per oggetto, forma narrativa, fonti utilizzate. Un libro dall’impianto microstorico, come appare sin dal clin d’œil del titolo, esplicito riferimento al mugnaio (meunier) di Carlo Ginzburg. Ma c’è un mugnaio anche al centro dell’indagine di Colonna: è Jean-Baptiste Capelletti, di origini italiane, molto pratico del mondo degli chawya di cui parla la lingua, compagno di due donne delle Aurès senza essere convertito, amico dei pères blancs ma anche dei banditi e scopritore-inventore di una grotta paleolitica… Un caso limite indubbiamente eppure rivelatore, come il Menocchio di Ginzburg, di una rete complessa di contatti, conflitti e circolazioni. Mi sembra utile a questo proposito ricordare un articolo dove Fanny Colonna cita il caso di un’università algerina che non ha ammesso alla discussione una tesi di laurea in ragione del suo oggetto di ricerca “locale”, “particolare”, “singolare”, dunque illegittimo. In reazione a questo gesto di esclusione, Colonna lancia un appello veemente a ricollocare i soggetti, gli attori plurali della storia “là dove sono sempre stati, nel ‘locale’, nella loro specificità individuale, famigliare, regionale, religiosa; in breve, nella sfera privata, domestica, affettiva – se non in opposizione, allora a fianco del pubblico, del nazionale, dello Stato. Questo dovrebbe presupporre una rinuncia a totalizzazioni, sintesi e a ogni visione onnicomprensiva e prescrittiva di “cultura”, “società” o “religione”, e a fortiori di “Stato” o “Algeria” – il che non implica necessariamente un ritorno a monografie ed enciclopedie. Soltanto allora sarà possibile accogliere lavori sul frammentario, sul discontinuo, cercando nuove forme di scrittura” (The Nation’s “Unknowing Other”: Three Intellectuals and the Culture(s) of Being Algerian, or the Impossibility of Subaltern Studies in Algeria, in Nation, Society and Culture in North Africa, a cura di James McDougall, Routledge 2003, p. 167). NUMERO 179 MAGGIO 2015 Come stupirsi allora se il quotidiano “el-Watan” di Algeri ha pubblicato un necrologio sottilmente perfido, non riconoscendo Fanny come cittadina ma come “amica dell’Algeria”, lei che aveva rinunciato alla cittadinanza francese e aveva scelto di essere seppellita a Costantina, a fianco del padre?