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anno XIX
numero 179
maggio 2015
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RIVISTA MENSILE DIRETTA
DA GOFFREDO FOFI
N1l
Emmanuel Carrère intervistato da Caramore e Lagioia
Borja su Podemos / Giagnoni su Selma
Battiston e Leogrande sullo Stato Islamico
Baranelli su Renato Solmi / Giacchè su Judith Malina
Brazzoduro su René Vautier / Del Paso su José E. Pacheco
Mereghetti su Manuel de Oliveira
Poesie di Paul Celan
arte cuotura ScIeZ a S cIetà
arte cuotura ScIeZ a S cIetà
Il racconto
Capuano
Gianinazzi
Rielli
S P E D . I N A B B . P O S T. D . L . 3 5 3 / 2 0 0 3 ( c o n v. i n L . 2 7 / o 2 / 2 0 0 4 n ° 4 6 ) a r t . 1 ,
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anno XIX • numero 179 • maggio 2015
RIVISTA MENSILE DIRETTA DA GOFFREDO FOFI
Mensile anno XIX
maggio 2015
n. 179
Redazione via Nizza, 56 – 00198 Roma
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Redazione Goffredo Fofi (direttore),
Alessandro Leogrande (vicedirettore),
Vittorio Giacopini, Nicola Lagioia, Emiliano Morreale
Segreteria di redazione Anna Branchi
Grafica Fausta Orecchio
Collaboratori Cecilia Bartoli, Giuliano Battiston,
Ornella Bellucci, Marcello Benfante, Gianfranco
Bettin, Giacomo Borella, Andrea Brazzoduro,
Maurizio Braucci, Marisa Bulgheroni, Franco
Carnevale, Marco Carsetti, Domenico Chirico,
Francesco Ciafaloni, Giorgio De Marchis, Nicola
De Cilia, Carlo Donolo, Enzo Ferrara, Grazia Fresco
Honegger, Giancarlo Gaeta, Piergiorgio Giacchè,
Alberto Grossi, Stefano Guerriero, Roberto Koch,
Stefano Laffi, Luca Lambertini, Franco Lorenzoni,
Marcello Lorrai, Luigi Manconi, Giulio Marcon, Carlo
Mazza Galanti, Paolo Mereghetti, Giorgio Morbello,
Luigi Monti, Maria Nadotti, Andrea Nanni, Renato
Novelli, Fausta Orecchio, Antonio Pascale, Lorenzo
Pavolini, Damiano Pergolis, Luca Rastello, Angela
Regio, Alberto Rocchi, Nicola Ruganti, Rodolfo
Sacchettini, Paola Splendore, Carola Susani, Neliana
Tersigni, Alessio Trabacchini, Alessandro Triulzi,
Emilio Varrà, Cristina Ventrucci, Nicola Villa, Gabriele
Vitello, Dario Zonta, Giovanni Zoppoli
Direttore responsabile Goffredo Fofi
Si collabora su invito della redazione; i manoscritti
non vengono restituiti. L’editore si dichiara disponibile
a corrispondere il pagamento dei diritti di cui non è
stato possibile raggiungere i detentori.
Finito di stampare aprile 2015
Reg. Tribunale di Roma n. 201/99 del 27.04.99
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5
Fuga di morte e altre poesie
Paul Celan
a cura di Luigi Reitani
persuasioni
16
Podemos e la democrazia
Jordi Borja
20
Jihad, sulla pelle dei musulmani
Giuliano Battiston
27
La zona grigia, tra l’Isis e Primo Levi
Alessandro Leogrande
30
“American Sniper” visto dall’Iraq
Domenico Chirico
31
Da Selma a Montgomery, 50 anni dopo
Silvia Giagnoni
37
Le minacce agli amministratori
Gianfranco Bettin, con Riccardo Bottazzo
40
Gioco d’azzardo, un paradosso italiano
Alberto Grossi
44
Disobbedire alla Storia
Gianfranco Bettin
arte e parte
50
Due incontri con Emmanuel Carrère
Una storia che ci riguarda
incontro con Nicola Lagioia
60
Cosa significa essere cristiani?
incontro con Gabriella Caramore
68
71
il racconto
Perché amo il cinema
Emmanuel Carrère
René Vautier, Fanny Colonna:
l’Algeria di ieri e quella di oggi
116
129
Omaggio a José Emilio Pacheco
Fernando del Paso
Elettrocardiodramma
Leonardo Capuano
Andrea Brazzoduro
78
La galleria
Andrea Gianinazzi
140
La raccolta
Daniele Rielli
operez iorni
82
Judith Malina e il Living Theatre
Piergiorgio Giacchè
84
Ricordo di Renato Solmi
Luca Baranelli
87
Claudio Morganti legge Campana
Graziano Graziani
90
Il cinema di Frederick Wiseman
Stefano Fedele
94
La copertina di questo numero
è di Michele Rocchetti;
le illustrazioni sono
di George Herriman (1880-1944),
per rendere omaggio a “Krazy Kat”,
il più geniale fumetto delle origini;
i disegni in apertura di sezione
sono di Oreste Zevola;
il logo è di Mimmo Paladino.
Ritratto di Manuel de Oliveira
Paolo Mereghetti
96
Il film d’esordio di Laura Bispuri
Dario Zonta
98
Nanni Moretti allo specchio
Emiliano Morreale
99
Come si disegna un soldato
Alessio Trabacchini
103
Un romanzo di Angelo Fiore
Marcello Benfante
108
I revenants di Luciano Curreri
Gabriele Fichera
110
Ricordo di Lidia Croce
Goffredo Fofi
122
Letto, visto, ascoltato
Andrej Platonov, Eric Ambler,
Raul Montanari, Pier Antonio
Quarantotti Gambini / Bennett
Miller, Yimou Zhang
Hanno collaborato a questo numero:
Ornella Bellucci, Giorgio De Marchis,
Michele De Mieri, Francesca Ferretti,
Gloria Grandinetti, Luca Lenzini,
Valentina Notarberardino, Ludovico
Orsini, Daniele Papalini, Simona Parisi,
Fernando Pelosi, Andrea Piva, Rosa
Polacco, Alessandra Riccio, Tania
Russo, Annio Sardelli, Simone Tonucci,
Valerio Tretta, Nicola Villa, Armando
Dadò editore, Radio3 Rai, “Libri come”
e il festival cinematografico di Locarno.
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ARTE E PARTE
René Vautier, Fanny Colonna:
l’Algeria di ieri e quella di oggi
di Andrea Brazzoduro
Mentre infuriava la “campagna di lancio” dell’ultimo Houellebecq (rapidamente interrotta dopo gli
attentati parigini del 7-8 gennaio in un fugace istante di lucidità o di convenienza), se n’erano da poco andati in punta di piedi due “grandi”: Fanny Colonna, antropologa storica e
sociologa fuori dai canoni, e René Vautier, ribelle con la macchina da presa, che avevano
incarnato, vivendolo intensamente ciascuno a modo suo, il legame complesso e contraddittorio che la storia ha lasciato in eredità a due sponde del Mediterraneo, l’Algeria e la
Francia. Fanny Colonna era nata nel 1934 a Theniet-el-Haâd, a sud-est di Algeri, ed è morta a
Parigi nel novembre scorso; René Vautier, bretone, era nato nel 1928 a Camaret-sur-Mer ma
viveva da anni a Cancale dove è morto ai primi di gennaio.
Nel momento in cui l’area mediterranea torna a essere il baricentro degli equilibri mondiali
dopo decenni di predominanza dello scacchiere atlantico, è utile ricordare questi due percorsi intellettuali che pur essendo quanto mai diversi ci raccontano un’altra storia della
vicenda franco-algerina (e, più in generale, mediterranea), testimoniando di uno scarto, di
un’altra possibilità. Di un’ostinata battaglia di intelligenza e libertà, sicuramente minoritaria
ma non per questo meno importante.
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L’anticolonialista con la macchina da presa
Aveva una scheggia di cinepresa conficcata nella testa. Era successo nel 1957, durante la
guerra d’indipendenza, in uno scontro a fuoco con l’esercito francese nelle Nememcha, a
est, verso il confine con la Tunisia, dove René Vautier aveva da poco raggiunto le file dei partigiani algerini: operato d’urgenza nella Ddr sopravvive per miracolo e il suo nome di battaglia diventa Farid-el-Baraka (Farid “il fortunato”). Nel maquis però molti lo chiamavano semplicemente Si Nema (dall’appellativo arabo “Si”, che vuol dire “signore”: monsieur cinéma,
e dunque Si Nema). Da allora l’Algeria e la lotta degli algerini sarebbero stati l’affaire di tutta
una vita, come testimoniano i quindici film – su un corpus in realtà molto più vasto, in gran
parte perduto – recentemente raccolti in cofanetto da una piccola ma pugnace “coopérative
audiovisuelle”, Les Mutins de Pangée: René Vautier en Algérie, 1954/1988 (nel libretto che
accompagna i quattro dvd si segnala, tra l’altro, il bel testo della storica delle immagini Marie
Chominot, René Vautier, l’Algérie au cœur).
Per Vautier, come per tanti di quella generazione (in Italia viene subito da pensare a Giovanni
Pirelli e al suo réseau, ma non solo), le lotte anticoloniali appaiono rapidamente come la
logica prosecuzione e l’aggiornamento della lotta antifascista (nel 1954, quando inizia la
guerra d’indipendenza algerina, sono passati meno di dieci anni dalla Liberazione). Non è
il cinema la vocazione iniziale di Vautier: al liceo di Quimper legge i testi di Victor Hugo sulla
necessità di scacciare i prussiani nel 1870 e ne ricava, insieme ai compagni con cui forma
un “gruppo di poesia resistente”, la convinzione che bisogna agire. È il 1943 e René Vautier
non ha ancora sedici anni.
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Prima di scegliere il cinema, infatti, questo figlio di operai si è battuto armi alla mano nella
Resistenza. È un’esperienza fondativa ma anche dolorosa: Vautier ne uscirà non tanto pacifista quanto consapevole che, nella lotta, il suo posto è un altro: lascia allora le granate e
sceglie la macchina da presa. Dice in un’intervista contenuta nel libretto: “Quando si hanno
granate, si tende a utilizzarle, per la causa, ma quando se ne vedono poi gli effetti su qualcun
altro, a sedici anni, o diventi un killer oppure provi a trovare un’altra soluzione”.
È così che, a guerra conclusa, Vautier aderisce al partito comunista e entra all’Institut des
hautes études cinématographique (Idhec), due opzioni per lui complementari. Nel 1949, la
Ligue de l’enseignement commissiona al neodiplomato un documentario sulla vita nei villaggi dell’Aof, l’Afrique occidentale française. Ma Vautier ne marche pas. Invece di esaltare
come richiesto gli aspetti positivi della “missione civilizzatrice” (e educativa), mostra la violenza materiale su cui si fonda il colonialismo francese in Mali e in Costa d’Avorio: lavoro
forzato, sopraffazione, repressione militare. Il risultato è un poema visivo incendiario, preciso
come una lama sin dal titolo: Afrique 50. Censurato e poi “scomparso” per quarant’anni, è
entrato nella leggenda come “il primo film anticolonialista francese”, anche perché il suo
giovanissimo autore (ha ventidue anni), nonostante nel 1944 sia stato insignito dell’Ordre
de la Nation da de Gaulle per fatti di Resistenza, paga la sua libertà con un anno di galera
(prima nella prigione militare di Saint-Maixent-l’École, poi a Niederlahnstein, nella Germania
sotto occupazione francese). Esce nel giugno del ’52, più convinto che mai che la strada
intrapresa sia quella giusta e inizia a lavorare a un nuovo film, Une nation, l’Algérie (perduto). Basandosi in particolare sulle memorie dei generali conservate alla Bibliothèque Nationale,
ricostruisce la violenza della conquista militare dell’Algeria nel 1830 (la “guerra totale” di
cui aveva scritto Tocqueville). Nel film Vautier dice chiaramente che “l’indipendenza dei tre
dipartimenti francesi d’Algeria è ineluttabile, e che è tempo di discutere di questa indipendenza
prima che troppo sangue scorra da una parte e dall’altra del Mediterraneo”. Subito censurato,
Une nation, l’Algérie vale al regista una nuova condanna, stavolta per “attentato alla sicurezza dello stato”. È così che Vautier entra in clandestinità e nel 1956 va in Tunisia dove gira
un paio di corti, tra cui Les anneaux d’or, con la tunisina Claudia Cardinale al debutto, orso d’argento a Berlino nel 1958.
A Tunisi Vautier contatta il Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln) che gli fa passare la
frontiera: raggiunge le unità combattenti delle Aurès-Nememcha (la wilaya 1) e resta nel
maquis a filmare durante tutto il 1957. Tornato a Tunisi mostra il girato ad Abane Ramdane,
che al congresso del Fln (Soummam, agosto ’56) ha ricevuto mandato di mediatizzare la
lotta sul piano internazionale e di creare gli archivi della rivoluzione, la memoria visiva
dell’Algeria in guerra.
Il confronto con Abane non è sempre facile. Rispetto ad altri registi/operatori come Pierre
Clément che si pongono direttamente al servizio del Fln, Vautier vuole mantenere la propria
autonomia. Abane avrebbe preferito addirittura che il regista diventasse algerino ma il bretone non è d’accordo. Insisterà anzi sempre su questo punto, mantenendo ben presente il fatto
di essere francese, di parlare in quanto francese (o meglio bretone), comunista, senza volersi cioè assolutamente sostituire agli algerini, senza voler parlare in loro vece. Vautier rifiuta
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di diventare membro del Fln: vuole mostrare cosa succede in Algeria senza essere agli ordini di nessuno, mostrare perché le persone combattono e contribuire in questo modo alla
soluzione del conflitto. Un cinema per capire, improntato al motto: “Filmo ciò che vedo / Ciò
che so / Ciò che è vero” (détournement dei celebri versi resistenziali di Éluard con cui si chiude L’honneur des poètes II Europe, mai 1944). È su questa base che Abane e Vautier trovano
un accordo. Il regista avrebbe avuto piena libertà sul montaggio; il Fln sarebbe stato libero
di aggiungere alle immagini il commento arabo che gli pareva. L’altro punto di accordo è che
il regista avrebbe formato gli algerini alla tecnica cinematografica.
Finito il montaggio di Algérie en flamme a Berlino Est, Vautier porta in Egitto la copia per
Abane come d’accordo. Ma al Cairo gli dicono che Abane non c’è (è stato appena fatto fuori
in Marocco, dai suoi). Il film comunque piace, tranne una sequenza degli ultimi minuti dove
si vede un gruppo di partigiani piangere i compagni caduti. Inaccettabile. Un djounoud non
piange. Vautier protesta: Abane si era impegnato a non toccare il montaggio, quelle immagini non sono inventate, toglierle sarebbe un tradimento nei confronti dei combattenti e
della loro umanità. Poi propone una scommessa: se lui perde, il Fln potrà fare del film ciò che
vuole. Vautier scommette che chi gli chiede di togliere la sequenza non ha mai visto un
djounoud, non ha mai visto il maquis, è un uomo d’apparato. Quelli ridono e gli dicono che
ha vinto la scommessa. Le lacrime dei partigiani restano ma la vittoria è amara per il regista
che, vittima dei giochi di potere interni al Fronte di liberazione, si ritrova sbattuto per venticinque mesi in una prigione clandestina, a Denden, a ovest di Tunisi. Dopo i francesi, stavolta sono gli algerini a metterlo dentro. Ha scritto Michel Boujut a proposito di Vautier: “è
il regista che ha avuto più problemi con la censura… e anche quello che gliene ha dati di
più”.
Completamente riabilitato dopo l’indipendenza, nell’estate del 1962 Vautier partecipa alla fondazione del Centre Audiovisuel di Algeri che dirige fino al 1965 lavorando con la prima generazione di registi (Guenifi, Lakhdar-Hamina…). Parallelamente si investe in un progetto di
alfabetizzazione visiva, i ciné-pop, che portavano con un camion il cinema nei villaggi
dell’Algeria profonda, seguiti da appassionati dibattiti.
Nel 1966 torna in Francia e si unisce al gruppo Medvedkine di Chris Marker. Troppi i progetti
realizzati in un cinquantennio di “cinema d’intervento sociale” per renderne conto qui:
sull’inquinamento, il femminismo, le lotte operaie, il razzismo o l’autonomismo bretone
(vedi l’appassionante autobiografia Caméra citoyenne, Apogée 1998). Insieme ai nuovi
progetti, Vautier continua però fino alla metà degli anni ottanta un lavoro enorme di registrazione di interviste sulla guerra d’indipendenza algerina, da una parte e dall’altra del
Mediterraneo (500 interviste, 680 ore di registrazioni). Da questi materiali nasce Avoir
vingt ans dans les Aurès, sicuramente il suo film più noto (grand prix della critica a Cannes
nel 1972). È uno dei primi film di finzione sulla guerra finita appena dieci anni prima: non
è un documentario ma, assicurava il regista, “l’autenticità di ogni scena può essere confermata da almeno cinque persone”. Al centro della narrazione c’è il progressivo imbestiarsi di un’unità di soldati di leva bretoni. Dieci anni dopo l’esperimento di Stanley
Milgram sull’autorità, pensando alla “guerra d’Algeria” ma dal lato francese – il “suo” –
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Vautier si chiedeva: “come si possono mettere dei ragazzi nella condizione di comportarsi come criminali di guerra?”
Antropologa del terzo spazio
Mi è più difficile scrivere di Fanny Colonna, che ho avuto la fortuna di frequentare e con cui
avevo lungamente discusso, a margine del seminario mensile del Centre d’histoire sociale della
Sorbona, appena qualche settimana prima della sua scomparsa. Di Fanny mi avevano subito colpito lo sguardo luminoso, l’intelligenza, l’ironia, e la sincera curiosità per le ricerche
dei più giovani che ascoltava incoraggiava e commentava con generosità (anche quando
non si trattava dei “suoi”, cosa rara nel girone accademico).
L’avevo cercata perché era una delle migliori specialiste delle Aurès, le montagne popolate di berberi chawya nel sud est dell’Algeria, “terreno” della mia ricerca. Ma anche – e forse
soprattutto – per quel suo modo originalissimo di indagare la storia sociale dell’Algeria sfuggendo alla trappola binaria colono/colonizzato (come pure: dominio/oppressione, città/campagna, cultura scritta/cultura orale, eccetera) per cercare invece di restituire la complessità
della “situazione coloniale” (Balandier) nella sua concreta contraddittorietà, interessandosi più ai percorsi di individui particolari che alle idee e ai dibattiti.
Introducendo un volume che raccoglieva i risultati di una ricerca collettiva da lei coordinata, Fanny Colonna scriveva: “Ribelli, rivendicativi o rassegnati, gli uomini di ogni sorta presi
in queste tempeste hanno inventato, ciascuno individualmente o a volte in gruppo, le loro lotte.
Cinque registri della rivendicazione identitaria sono qui presenti: il Bandito berbero montanaro; l’europeo, detto altrimenti ‘pied-noir’, che non si sente né francese, né algerino (né
ebreo); l’Altro, che vuole diventare francese semplicemente per vivere; l’Algerino, pronto a
provare che è francese da molto tempo; il ragazzo di origine maghrebina, infine, francese di
diritto per lo jus soli che però cerca di salvaguardare la propria ipseità. Quel che colpisce di
più in tutto questo è il lato pragmatico, ‘primordiale’, della rivendicazione, quasi completamente scevro d’ideologia” (Traces, désir de savoir et volonté d’etre: l’après-colonie au
Maghreb, a cura di Fanny Colonna e Loïc Le Pape, Sindbad 2010, p. 20). Un metodo di lavoro che, appropriandosi criticamente della microstoria, compiva una rivoluzione copernicana, sostituendo una categoria pratica a una categoria analitica: al centro dell’indagine non
stava più infatti la domanda cosa è l’identità, ma come funziona. Un gesto tanto più radicale in Algeria dove, come ha osservato uno dei suoi critici più acuti, Abdelmalek Sayad, il
nazionalismo si è formato in risposta alla colonizzazione, nella forma di una contro-storia
opposta ma speculare a quella francese, “‘nazionalizzando’ l’opposizione (binaria) intrinseca all’ordine coloniale” (Abdelmalek Sayad, Histoire et recherche identitaire, Bouchène
2002, p. 22). Proprio per questa sua ostinata propensione a sparigliare le carte, il lavoro di
Fanny Colonna si è sempre mosso ai margini del mondo universitario (in Algeria come in
Francia), per il quale è rimasta “un oggetto non identificato” (cos’è infatti la sua? Antropologia
storica? Sociologia? Etnologia? Storia sociale?), e che l’ha quindi ricambiata accogliendo i
suoi libri con un silenzio educato.
Quella di Fanny Colonna è tutta una storia di radicale marginalità. Figlia di un amministratore di quello che nell’“Algeria francese” si chiamava “comune misto”, a M’sila, giovanissima
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cresce in un ambiente di pied-noir per nulla ostile alla popolazione “indigena”. Offesa dalla
violenza che in Algeria organizza e divide il mondo degli “europei” da quello dei “francesi
musulmani”, si politicizza nell’ambiente del cattolicesimo progressista, corrente animata
da figure come André Mandouze, Pierre Chaulet o Pierre Colonna (che diventerà suo marito). Questo gruppo – piccolissimo in rapporto alla comunità pied-noir, che già rappresenta
appena un decimo della popolazione algerina – si riunisce nell’Association de la jeunesse
algérienne pour l’action sociale e pubblica una rivista, “Consciences maghrebines”, la cui
declinazione al plurale (coscienze magrebine) è già un programma. Il gruppo, che dialoga
con il movimento nazionalista all’origine dell’insurrezione nel 1954, è fautore dell’indipendenza
di una nazione algerina multietnica, una posizione non solo estremamente minoritaria rispetto all’attaccamento della comunità pied-noir all’imbroglio dell’“Algeria francese” ma anche
marginale (e poi definitivamente proscritta) nelle file del Fronte di liberazione nazionale
(Fln). E tuttavia il sogno di un’Algeria dove possano coesistere, non gerarchicamente ordinate, tutte le molteplici appartenenze che caratterizzano la regione è pervicacemente radicato tra questi “europei” al punto che, pur avendo perso il padre nel 1955 per mano del Fln,
alla fine della guerra Fanny Colonna opta per la cittadinanza algerina (rinunciando a quella francese) e si stabilisce col marito ad Algeri. “Noi non aiutiamo il Fln”, diceva Pierre Chaulet,
ricordato dallo storico Mohammed Harbi alle esequie parigine di Fanny, “noi siamo algerini come voi: la nostra terra, la nostra patria è l’Algeria, noi la difendiamo con voi. Noi siamo
del Fln”.
Dopo l’indipendenza Colonna riprende gli studi universitari ad Algeri, dove si laurea con una
tesi su Mouloud Feraoun, diretta da Mouloud Mammeri. Diventata assistente di sociologia ad
Algeri, si inscrive in dottorato con Pierre Bourdieu a Parigi (“più per il suo metodo e il suo
rigore scientifico che per le sue teorie o per la sua visione dell’Algeria”: Retour sur Les versets
de l’invincibilité, intervista a cura di Jean-Pierre Van Staëvel, “Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée”, n. 135, luglio 2014). Da allora vivrà sempre tra l’Algeria e la
Francia, senza disporre di niente altro che di un permesso di soggiorno (da rinnovare ogni
dieci anni), come i lavoratori algerini.
Dopo un primo libro sulla scuola coloniale e gli istitutori algerini, negli anni settanta-ottanta avvia un cantiere di ricerca ventennale sulla regione delle Aurès. Utilizzando un ampio e originale ventaglio di fonti (interviste, archivi, letteratura) Colonna mostra nei Versets de l’invincibilité (Fnsp 1995) l’inadeguatezza dello schema di Ernest Gellner che oppone islam
urbano e islam rurale, che sarebbe stato sconfitto dal primo. Dall’indagine empirica tra le
famiglie marabutiche delle Aurès appare infatti una realtà molto più complessa, fatta di circolazioni e scambi tra i due mondi, perché le famiglie mandano i figli dalle zone rurali a studiare a Constantine dove entrano in contato con l’islah di Ben Badis, la corrente riformista dell’islam. L’immagine della società rurale (statica e impermeabile all’esterno) cambia radicalmente, così come il rapporto dei contadini col sapere.
Negli “anni neri” del terrorismo islamista Fanny Colonna è minacciata per le sue prese di
posizione femministe e nel 1993 si ferma, in esilio, a Parigi senza che questo le impedisca
di continuare a operare pazientemente come passeur tra le due rive del Mediterraneo, a tes-
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sere legami, a mettere in contatto studenti e ricercatori dei due paesi, pensando sempre a
come mantenere un equilibrio, a come contrastare lo spirito predatorio delle università del
nord nei confronti del sud del mondo, come quando mi disse: “cerca però anche di insegnare in Algeria, non si può prendere soltanto”.
“Oggi abbiamo quasi completamente dimenticato”, si legge nel suo ultimo, bellissimo,
libro, “che il lungo periodo d’oppressione coloniale fu anche l’occasione d’incontri –
diversi a seconda dei decenni, delle religioni e degli ambienti – tra le popolazioni conquistate e i nuovi arrivati. Di questa evidenza, che ha toccato nel profondo la vita delle persone, delle loro famiglie, e dunque dell’Algeria intera, non sappiamo praticamente nulla,
o molto poco”. È questa l’ipotesi all’origine della sua ultima straordinaria ricerca edita, Le
meunier, les moines et le bandit: des vies quotidiennes dans l’Aurès du XX siècle (Sindbad
2009). Récits, “racconti”, recita il sottotitolo di questo libro così anomalo per oggetto,
forma narrativa, fonti utilizzate. Un libro dall’impianto microstorico, come appare sin dal
clin d’œil del titolo, esplicito riferimento al mugnaio (meunier) di Carlo Ginzburg. Ma c’è
un mugnaio anche al centro dell’indagine di Colonna: è Jean-Baptiste Capelletti, di origini italiane, molto pratico del mondo degli chawya di cui parla la lingua, compagno di
due donne delle Aurès senza essere convertito, amico dei pères blancs ma anche dei
banditi e scopritore-inventore di una grotta paleolitica… Un caso limite indubbiamente
eppure rivelatore, come il Menocchio di Ginzburg, di una rete complessa di contatti, conflitti e circolazioni.
Mi sembra utile a questo proposito ricordare un articolo dove Fanny Colonna cita il caso di
un’università algerina che non ha ammesso alla discussione una tesi di laurea in ragione
del suo oggetto di ricerca “locale”, “particolare”, “singolare”, dunque illegittimo. In reazione
a questo gesto di esclusione, Colonna lancia un appello veemente a ricollocare i soggetti,
gli attori plurali della storia “là dove sono sempre stati, nel ‘locale’, nella loro specificità individuale, famigliare, regionale, religiosa; in breve, nella sfera privata, domestica, affettiva
– se non in opposizione, allora a fianco del pubblico, del nazionale, dello Stato. Questo
dovrebbe presupporre una rinuncia a totalizzazioni, sintesi e a ogni visione onnicomprensiva e prescrittiva di “cultura”, “società” o “religione”, e a fortiori di “Stato” o “Algeria”
– il che non implica necessariamente un ritorno a monografie ed enciclopedie. Soltanto
allora sarà possibile accogliere lavori sul frammentario, sul discontinuo, cercando nuove
forme di scrittura” (The Nation’s “Unknowing Other”: Three Intellectuals and the Culture(s)
of Being Algerian, or the Impossibility of Subaltern Studies in Algeria, in Nation, Society and
Culture in North Africa, a cura di James McDougall, Routledge 2003, p. 167).
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Come stupirsi allora se il quotidiano “el-Watan” di Algeri ha pubblicato un necrologio sottilmente perfido, non riconoscendo Fanny come cittadina ma come “amica dell’Algeria”, lei
che aveva rinunciato alla cittadinanza francese e aveva scelto di essere seppellita a Costantina,
a fianco del padre?