Academia.eduAcademia.edu

LETTERE SULL'ITALIA

2024, LETTERE SULL'ITALIA - TOMO I

Antoine Laurent Castellan (Montpellier, 1772 – Parigi, 1838) è stato un importante pittore vedutista francese. Di ritorno dal suo viaggio in Turchia e Grecia, egli attraversò l'Italia. Nel 1819 pubblicò, in tre volumi, le sue "Lettres sur l'Italie", illustrate con 50 vedute disegnate e incise da lui stesso. Questa è la traduzione in italiano del primo volume.

INTRODUZIONE Antoine Laurent Castellan (Montpellier, 1772 – Parigi, 1838) è stato un importante pittore vedutista francese. Il suo genere pittorico ebbe grande diffusione nella seconda metà del settecento, soprattutto per l'approccio che questi pittori viaggiatori hanno avuto nei confronti dei luoghi visitati; essi cercavano una testimonianza visiva, diremmo oggi documentaristica, del paesaggio, dei luoghi archeologici, dei ruderi, ma anche degli abitanti, e di tutto lo scenario naturalistico. Castellan visitò la Turchia, la Grecia, l'Italia e la Svizzera e pubblicò diverse serie di lettere su quei luoghi, illustrate con vedute disegnate e incise da lui stesso. La sua opera più nota: "Moeurs, usages, costumes des Othomans", pubblicata nel 1812, fu molto apprezzata da Lord Byron. Di ritorno dal suo viaggio in Turchia e Grecia, egli attraversò l'Italia. Nel 1819 pubblicò, in tre volumi, le sue "Lettres sur l'Italie", che formano l’oggetto di questo mio lavoro di traduzione. Nella lettera XI, lo stesso Castellan definisce la sua opera un "grande e magnifico libro", e noi dobbiamo fidarci del giudizio estetico di un artista 1 del suo calibro. Il mio personale giudizio, specie sulla parte relativa al passaggio da Brindisi, forse influenzato dal fatto che i luoghi descrittivi sono quelli della mia vita, conferma questa grandezza e magnificenza. La descrizione è appassionata, sempre colta e competente, ed è accompagnata da illustrazioni di notevole qualità, incise dall'autore. La narrazione è ben costruita, scorrevole e, a volte, di grande impatto emotivo. L'autore è senza dubbio un antesignano della multimedialità. Le sue descrizioni scenografiche dei luoghi e degli avvenimenti sono come dei collegamenti "video" inseriti qua e là nel testo letterario. Cito ad esempio, sempre dalla parte relativa a Brindisi: la tempesta (lett. VI); la processione del Corpus Domini (lett. VII); il ballo di Ginevra (lett. IX) e la sua triste storia, che culmina in una scena crepuscolare di grande effetto emotivo; le serenate, l'amicizia, la riconoscenza, le descrizioni degli stati d'animo, i toni nostalgici, la toccante tenerezza delle separazioni, ed alcune considerazioni filosofiche; infine, la descrizione, come in un affresco, dei siti storici romani di età imperiale (lett. XI): il bacino navale, il foro, il molo alto con la piattaforma delle colonne... Egli introduce questi ultimi oggetti stimolando la nostra 2 fantasia con la frase: "Que l'on se represente ...", stabilendo così una sorta di collegamento ideale fra la sua e la nostra immaginazione, che secondo me è ancora più efficace di un video, in virtù della forza dell'esposizione letteraria che offre, a ciascuno di noi, la possibilità di "vedere", con gli occhi della mente, attingendo cioè al bagaglio della propria esperienza, i volti, i luoghi e le scene della narrazione. Sarebbe questa la ragione per cui si preferisce leggere un romanzo anziché vedere il film da esso tratto. Un altro esempio di inserto multimediale ci viene dato alla fine del terzo volume delle Lettres, dove sono pubblicati alcuni spartiti musicali. Si tratta delle "Airs de la Tarentule", eseguite dai musici che accompa-gnavano il ballo gi Ginevra sopra citato. Mi è sembrato davvero strano che altri italiani non siano rimasti colpiti dalla bellezza di questa importante opera e non abbiano avuto voglia di tradurla nella nostra lingua. Io lo faccio, con mio grande diletto e compiacimento, spero in maniera adeguata. Spero, con questo lavoro di traduzione, di contribuire a ravvivare, con l'attenzione del lettore, la memoria di questo importante pittore viaggiatore, le cui pregevoli opere, come quelle di 3 numerosi altri suoi colleghi, si vanno ormai spegnendo, sotto l'inesorabile azione del tempo, perdendosi inutilmente nell'oblio. Luciano Ancora 4 LETTERE SULL’ITALIA ______________________________ LETTERA PRIMA Partenza da Corfù. – Ritorno sulle coste di quest’isola. – Aspetto del paese. – Riflessioni sul suo clima, i suoi abitanti, ecc. Corfù, 7 agosto 1797. La Grecia, che abbiamo lasciato con rammarico, e l'Italia, dove erano diretti tutti i nostri desideri, ci hanno fatto considerare Corfù come un fastidioso ostacolo, una barriera che eravamo impazienti di oltrepassare. Infatti quest'isola, situata tra due paesi ugualmente interessanti, offre nell'aspetto del paese, nello stile delle costruzioni, e perfino nelle abitudini degli abitanti, solo un misto di pitture greche e italiane senza colore, composte di lineamenti indecisi e fisionomie senza carattere. 5 Fino ad allora, sorretti, esaltati da grandi ricordi, sopportavamo meglio il caldo del clima, la fatica, i fastidi della strada, ma qui ci siamo lasciati andare ad un apatico scoraggiamento che si è esteso a tutte le nostre facoltà, assorbendole in un insieme: quello dell'attesa. Esistevamo solo nel passato; desideravamo il futuro e prestavamo poca attenzione al presente. Cos’altro dirò di quest’isola di cui non posso pentirmi e che sarei riluttante a descrivere? Restammo lì quindici giorni, e vivemmo lì, per così dire, solo di notte. Infatti, il calore del sole era tale, durante il giorno, che diventava quasi impossibile restarvi, e se lo avessimo fatto, gli abitanti, che si tengono appartati, ci avrebbero accusato di follia. Accadde una sola volta che attraversammo la Place d'Armes a mezzogiorno per andare a casa del comandante francese, e le nostre facce furono bruciate; l'epidermide si staccò addirittura e non si rinnovò se non molto tempo dopo. Così giacevamo tutto il giorno, ansanti, madidi di sudore e divorati da sciami di mosche. Incapaci della minima applicazione, non sapevamo né leggere né maneggiare la 6 penna o la matita. Tutte le nostre facoltà si erano spente, e abbiamo appena recuperato un po' di energia, quando il sole ha lasciato l'atmosfera, lasciando ancora dietro di sé le tracce del suo focoso passaggio; le pareti e la terra stessa erano calde e mantenevano il calore fino al giorno successivo. Uscivamo dalle case solo la sera, per respirare più liberamente nelle passeggiate e al mare; però alle tre di notte (le undici) la gente correva a teatro, meno per gusto, è vero, che per ozio: la brava gente del posto sfidava il caldo che presto divenne soffocante; avere il piacere di sfoggiare squisiti ornamenti e di brillare per un momento alla luce dei lampadari e delle candele accese in tutti i palchi che diventano salotti di compagnia. I visitatori vanno lì, offrono gelati, caffè e dolci, e si divertono con giochi di vario genere, del tutto estranei a quelli sul palco. Del resto, lo spettacolo non consisteva che in piatte arlecchinate e in scherzi indecenti, che tuttavia non scandalizzavano nessuno; nemmeno gli ecclesiastici, che senza scrupoli occupavano i primi posti. Privati per molto tempo di ogni tipo di rappresentazione teatrale, ci è piaciuto rivedere 7 questo apparato di decorazioni, questo movimento scenico, questa mescolanza di declamazione, musica e danze; e questa competizione della buona compagnia che costituiva la parte più piacevole dello spettacolo. Inoltre, abbiamo sentito, per la prima volta, questo linguaggio ritmato, sonoro e melodioso, che ci incanterà poi nei teatri di Napoli, Roma e Firenze. Ma questo debole compenso non mi avrebbe indotto a prolungare ulteriormente la mia permanenza su quest'isola; e consideravo il momento della partenza come quello della nostra liberazione. Ci siamo imbarcati stamattina e, dopo essere stati alternativamente sconvolti dai venti, oppure incatenati dalla bonaccia, ci ritroviamo sulle coste dell'isola. Al tormento dell'impazienza si aggiungeva quello del caldo insopportabile. Stretti insieme durante quella lunga giornata in una barca aperta, e senza altro riparo che la vela che imperfettamente ci garantiva dai raggi perpendicolari del sole, respiravamo un'aria infiammata; l'acqua, come uno specchio ustorio, sembrava riflettere il fuoco. Tuttavia i nostri marinai greci avrebbero 8 fatto attenzione a non trattenersi in mare durante la notte; era quindi necessario remare faticosamente per raggiungere la riva. Lo scoraggiamento li aveva già colti; i canti gioiosi che li animavano nel lavoro erano cessati, e le loro forze erano esaurite, quando finalmente poterono gettare l'ancora in un piccolo golfo accessibile solo alle barche. Mentre l'equipaggio si prendeva cura delle manovre, feci notare l'aspetto pittoresco di questo luogo all'unico rimasto dei miei ex compagni di viaggio il cui carattere, i gusti e i sentimenti simpatizzavano con i miei. Il nostro isolamento, in un Paese dove tutto ci era estraneo, ci rendeva un bisogno, direi addirittura un dovere, di un legame più intimo, che doveva diventare ancora più stretto, attraverso il continuo scambio di fiducia e di buoni uffici che ____________________________________ (1) - Il signor Stanislas Léveillé, ingegnere capo di ponti e strade. Degli altri artisti francesi coi quali eravamo stati a Costantinopoli, alcuni erano rimasti a Corone nella Morea, ci separammo con difficoltà, e solo con l'intenzione di visitare più liberamente la Grecia e l’Italia. 9 avremmo ricercato invano fuori. Inoltre, condividiamo i nostri progetti, le nostre azioni, i nostri piaceri e i nostri dolori. Le nostre anime sono in armonia, ricevono le stesse impressioni, le raddoppiano condividendole, e lo spettacolo della natura ci sembra molto più ammirabile quando. godiamo insieme delle sue bellezze. Quello che abbiamo davanti agli occhi ha un effetto estremamente pittoresco: questo golfo è circondato da rocce e alte montagne; formando un anfiteatro ricoperto da una bella vegetazione. L'aspetto di questo posto è fresco e allegro seppure selvaggio, disabitato e senza alcuna traccia di colture; ad esso si aggiunge il suo contrasto con le coste aride e bruciate, che abbiamo avuto davanti agli occhi per quasi tutta la giornata. Gli ultimi raggi del sole non fanno altro che dorare la cima di due enormi cipressi piantati, come per disegno, ai lati della campagna che dominano con una sorta di orgoglio; ma la loro superba testa è agitata dai venti, mentre gli altri alberi sono al riparo da ogni attacco, e la loro chioma è immobile. Il mare è tranquillo e trasparente; l'assenza del sole e la vicinanza boscosa, che conferisce all'aria 10 più elasticità, ci invitano a godere del resto della giornata, per esplorare questa valle. Camminavamo tra lentischi e oleandri rinfrescati dalle acque di una fontana il cui serbatoio era circondato da limoni in fiore. Alcuni tratti di mura, abbracciati dalle tortuose ramificazioni di una vecchia vite; altri alberi piantati in modo regolare e ricoperti di frutti hanno dimostrato che questo luogo ormai selvaggio un tempo era abitato. Infatti, sebbene isolata, circoscritta e quasi inaccessibile, questa terra fertile doveva offrire tutte le risorse necessarie alla vita; era forse il ritiro di un uomo saggio disilluso dai piaceri della società, o che cercava di dimenticare nella solitudine i dolori dell'esistenza e le vanità del mondo: ma senza dubbio non ebbe famiglia, né compagno, né posteri; non aveva nemmeno un amico che gli chiudesse gli occhi, perché questo asilo sarebbe stato rispettato. Queste rovine, che offrono le tracce di una catastrofe non molto antica, e che la nostra fantasia si compiace di renderne piacevole il soggiorno, sono diventate motivo di congetture 11 che hanno suscitato un vivo interesse su questi luoghi. L'evento che li ha convertiti alla solitudine non ha certo nulla in comune con queste grandi sventure di cui la storia conserva il ricordo. Ma questa disgrazia, per essere volgari, è forse meno reale ed è più da compatire la famiglia di Atride che quella del pastore morente, vittima di un incidente mortale? In ogni caso, come mai, su un'isola molto popolata, nessuno viene a raccogliere questi frutti, a potare questi alberi, a dirigere queste acque che scorrono ignorate e quasi inutili? Ci sono paesi che non possono bastare alla moltitudine di abitanti che vi affluiscono, che competono per la propria sussistenza, e che sono infine costretti dalla necessità di trasportare le loro case in un altro emisfero: qui, sotto il clima più bello e più sano, la natura prodiga i suoi tesori in solitudine per gli unici ospiti dell’aria dei boschi, a meno che il caso non vi porti temporaneamente un viaggiatore che, come noi, conosce. apprezza e assapora i benefici di una Provvidenza sempre attiva. 12 Fummo distratti dalle nostre fantasticherie dal fischio dello skipper che ci richiamava a bordo. Con esso i marinai preparavano il loro frugale pasto serale. olive conservate sott'olio e una sorta di polenta a base di farina di broccolo. Gli osservatori più rigidi del periodo quaresimale greco si accontentano di biscotti strofinati con aglio. Prima di concedersi il sonno di cui tanto avevano bisogno, abbassarono i pennoni e piegarono perfino l'albero maestro; spensero con grande cura il fuoco che avevano acceso sulla spiaggia, precauzione di cui si servono per sottrarsi durante la notte alla vista dei corsari che si aggirano costantemente in queste zone; ci hanno dato la soluzione dell’enigma che ci ha tanto tenuti impegnati. Infatti, dapprima sorpresi di scoprire che un luogo che offriva tanti vantaggi fosse deserto, ora ci sentiamo molto meglio di come non fosse mai stato abitato. Inoltre non dobbiamo aspettarci di trovare su queste coste esposte a crudeli depredazioni barbaresche, dei campi coltivati, ornati di case; lo zelo della religione cristiana accusa i governi di debolezza o di negligenza colpevole. Non dovrebbero piuttosto 13 organizzare una nuova crociata e finalmente unirsi per scrollarsi di dosso un giogo tanto gravoso? 14 LETTERA II. Ancoraggio nell’isola di Corfù. – Villaggio miserabile. – Viaggiatori Albanesi. – Contrasto fra Greci ed abitanti delle isole Veneziane. Corfù. Verso la fine della notte i nostri marinai salparono; ma fecero solo un tentativo infruttuoso di attraversare il canale. Il vento che si precipitava nell'Adriatico, e che si rifletteva sulla catena montuosa dell'Epiro, li respinse e li gettò in un altro piccolo porto dell'isola di Corfù. Il nostro sonno non era stato disturbato e il rumore appariva inseparabile da tali manovre; con mia grande sorpresa, mi sono ritrovato trasportato, come per magia, in un luogo sconosciuto, e che ha molto meno incanti. La scena è cambiata, è scomparsa la rustica valle; invece dei due cipressi, vedo su un ripido pendio le rovine di un'antica fortezza di cui si distinguono le doppie porte, alcune miserabili fattorie e una chiesetta, a sostituire la nostra bella campagna. 15 L'apparenza. di questo. luogo, è arida e ripugnante. Quanto amavo di più la mia solitudine! Ho visto la natura lì in tutta la sua selvaggia semplicità; Potevo sognarlo a mio piacimento, popolarlo a mio piacimento con ninfe o driadi; Nausicaa e le sue compagne potrebbero offrirsi al nostro sguardo…. Ma ecco, il modo per avere illusioni? Ho solo davanti agli occhi un villaggio come ce ne sono tanti; e i suoi tristi dintorni rifiutano tutti i divagamenti del pensiero. È abitato da pochi poveri greci. Le donne e i loro bambini, all'ombra sotto tettoie ricoperte di canne, sono occupate a stigliare la canapa mentre gli uomini, gelosi del privilegio dei capifamiglia, sono accovacciati e circondati da una nuvola di tabacco. Godono dell'ozio e dimenticano, in una sorta di apatia, le preoccupazioni della casa e i lavori agricoli, di cui sembrano lasciare tutto il peso ai loro compagni, che trattano come schiavi. Inoltre la terra sembra colpita dalla sterilità; il caldo seccò le sorgenti e bruciò l'erba dei pascoli. Vedo solo rocce nude; rovine deserte, campi sassosi dove il grano è chiaro e denso, qualche vite 16 semispoglia, qua e là cespugli spinosi, da cui crescono bagolari dai frutti duri e gracili palme. Questa è l'immagine che si è presentata al nostro sguardo dall'alto di una montagna dove salimmo a fatica, e da dove scoprimmo, per parecchie leghe intorno, un paese il cui aspetto distruggeva la piacevole idea che ci eravamo formati dell'antico regno di Alcinoo. Tuttavia abbiamo visto sbarcare diverse truppe di albanesi, in fuga dalla tirannia dei turchi, e venire in quest'isola per cercare, se non l'abbondanza e la ricchezza, almeno la libertà di esercitare in pace la loro industria. Il costume molto pittoresco di questi ex sudditi di Pirro ne esalta la bellezza; annuncia la disinvoltura e perfino un certo lusso. Sono quasi tutti alti, ben proporzionati e robusti, e appaiono agili e intelligenti. Le donne non sono velate; i lineamenti dei loro volti sono belli e regolari; sebbene siano molto scuri, il loro aspetto è gradevole, perfino gentile; e il loro approccio non è privo di grazie. Molto laboriose, non fanno perdere nemmeno il tempo del viaggio. Piegate allora sotto il peso di bagagli molto pesanti, filano mentre camminano una canna 17 spaccata che serve da conocchia; viene fatto passare attraverso la loro cintura, e un pezzo quadrato di pelle non finita, i cui due lembi sono uniti nella fessura della canna, che contiene e avvolge una quantità di canapa di lino sufficiente per il tempo del viaggio. Esse allietano il loro cammino con canti che ripetono all'unisono. Mentre percorrevano una ad una gli stretti sentieri delle montagne, i loro mariti dispersi battevano i cespugli per scacciare la selvaggina che uccidevano con grande abilità a colpi di fucile. Queste armi sono leggermente diverse dalle nostre. La canna è di piccolo diametro ma molto lunga; inoltre la loro portata è più ampia di un terzo. La parte inferiore del calcio è curvata a forma di mezzaluna, in modo da adattarsi perfettamente alla spalla; la culatta è arricchita con raffinati ornamenti in rame, argento o madreperla, intarsiati. Per evitare che la canna subisca deformazioni, cosa che sarebbe facile data la sua lunghezza, è collegata, a distanze molto ravvicinate, da cerchi di rame che portano gli anelli di una cintura destinata a sospendere l'arma dietro la schiena. La polvere e la mina sono distribuite in due piccoli 18 sacchetti, realizzati ad arte, in pelle ricamata in diversi colori. Queste tasche sono attaccate davanti alla cintura che porta anche una pistola, un coltello nel fodero e l'essenziale borsa per il tabacco. Questi albanesi, audaci, intraprendenti, abituati alle armi, costantemente in guerra. con i loro vicini, e molto inclini a lasciare il loro paese dove si trovano non possedendo nulla che provveda a malapena al loro sostentamento; furono tentati dalla vicinanza delle isole veneziane di cui si raccontavano loro le meraviglie; ma i Provveditori proibirono l'avvicinamento a questi Greci di cui temevano gli spiriti inquieti. Se dovessi credere alle voci pubbliche, potremmo paragonare questi governatori veneziani agli antichi proconsoli. Cercando di soffocare nei loro sudditi ogni energia, ogni spirito guerriero e indipendente, dovettero temere l'avvicinarsi di questi stranieri e la mescolanza del loro sangue ancora bollente con quello dei greci degenerati che abitavano Corfù e le altre isole veneziane. Questi ultimi, plasmati 19 dal giogo, abbandonandosi ad una colpevole noncuranza, si lasciarono privare dei frutti delle loro fatiche, e videro distrutti tra loro il commercio, l'agricoltura e ogni genere di industria. I Provveditori, che si succedettero in rapida successione, furono accusati di ingrassarsi frettolosamente delle sostanze di questi popoli, per poi andare a godere tra i loro connazionali le delizie del voluttuoso sovrano dell'Adriatico. I francesi, padroni di Corfù, devono, seguendo i principi che li guidarono, cercare di ritemprare l'animo dei corfioti e degli altri isolani; per guadagnare sostenitori, aprirono i loro porti a tutti i Greci perseguitati in patria, e che accorrevano in massa a cercarne un altro nelle Isole Ionie. Portano con sé lo spirito guerriero che li anima, l'amore per il lavoro e la severità dei costumi che li caratterizzano. Che essi, sfuggendo ad un giogo così pesante come quello dei turchi, non arrivino a corrompersi, con il pretesto di vigilare su se stessi, e a non scambiare le virtù native loro concesse con i brillanti vizi della civiltà, di cui non siamo riusciti a sbarazzarci completamente, nonostante la nostra cosiddetta rigenerazione! 20 LETTERA III. Uno sguardo particolare ai monti Acrocerauni durante la notte. - Isola di Fano. - Gli Scogli. Costa d'Italia. - Vascello in sosta. - Città di Otranto. - Ufficio della Sanità. - Cerimonia burlesca. - Note storiche. Otranto, 15 agosto. L'ordinaria traversata da Corfù in Italia dura solo ventiquattro ore; abbiamo esplorato per otto giorni la parte orientale di quest'isola, visitando dettagliatamente, nostro malgrado, i suoi porti minori e i suoi più piccoli approdi. Siamo incorsi nell'avversione di Nettuno? Ha egli deciso di spingere la nostra pazienza al limite? Finiremo la nostra odissea naufragando sulle rocce minacciose della Chimera, con un'escursione forzata attraverso i monti Acrocerauni, i cui cumuli di macigni vediamo alla nostra destra? Questi dubbi, queste paure, ci hanno accompagnato fino al nostro arrivo in Italia. 21 Durante la notte, la catena montuosa dell’Epiro ci ha offerto uno spettacolo singolare e imponente. Un denso fumo rossastro, rotolando lungo il pendio delle colline, ha circondato la loro parte superiore con una cintura infiammata; il vento diffondeva il fuoco, stendendone le linee sinuose, simili a torrenti di lava che rischiaravano le montagne, definendone i contorni con i loro riflessi più o meno vivi; anche il mare era infiammato, e tutti questi effetti erano simili ad una grande eruzione vulcanica. Ciò non era altro che il bruciare degli arbusti aromatici di quel paese; operazione con cui gli abitanti riforniscono il terreno, in primavera, con una vigorosa messe di arbusti che servono da pascolo alle greggi. Allo stesso tempo, colonne di fumo si alzavano anche all'orizzonte, sul versante della pianura della Puglia (1). Erano stoppie che venivano bruciate; se l'atmosfera era riscaldata da tutti questi ______________________________________ (1) - Adotteremo questa denominazione al posto di quella francese di "Pouille", che non da l'idea dell'etimologia del nome, che deriva dal latino "Apulia". 22 fuochi, c'era almeno il beneficio di purificare l'aria perniciosa di quest'ultima contrada. Dalle coste dell'Epiro, siamo stati rigettati dai venti sulle isole di Fano, o Scogli, vere e proprie insidie, dove abbiamo trovato solo un piccolo numero di abitanti affamati, che non potevano fornirci pane o viveri di alcun tipo, nemmeno acqua. La nostra impazienza era aumentata dal passaggio delle galere veneziane, che attraversavano velocemente il canale per mezzo del loro potente apparato di remi, e che avrebbero potuto trasportarci in pochi istanti a destinazione, se i capitani fossero stati disposti a renderci tale servizio. Una vera calamità si aggiunse poi alle nostre ansie; contando su una traversata ordinaria, le nostre provviste, che non avevamo risparmiato, erano finite, e fu necessario ridurci alla razione dei marinai; per maggiore sfortuna, il caldo aveva corrotto la nostra riserva d'acqua. Questo stato sfortunato, stava per diventare molto allarmante, quando una divinità propizia ci ha gratificato di un soffio favorevole di vento, che ci ha fatto superare il centro del canale; il nostro capitano, novello Acate, esclamò allora: Italia! Italia! 23 mostrandoci all'orizzonte il profilo di un terreno basso; Italia! Questa parola risuonò nei nostri cuori, facendoli battere con la stessa gioia che i compagni di Enea avevano vissuto, e anche con una sorta di commossa tenerezza, dalla quale non potevamo difenderci, sentendola come ogni artista avrebbe senza dubbio sentito al nostro posto. Le sponde dell'antica Puglia, come le descrive Virgilio, sono in netto contrasto con le scarpate che si vedono dall'altra parte. Potevamo già vedere le torri della città di Otranto; a vele spiegate, corriamo all'approdo, felici di vedere la fine delle nostre peripezie, quando una palla di cannone fischia passando sopra le nostre teste e colpisce la vela: il rumore e il fumo attirano il nostro sguardo verso il luogo da cui è partito il colpo, e riconosciamo all'altro capo della rada una galera in sosta, che ci ha fatto segno di ammainare le vele e inviare qualcuno al suo bordo; sarebbe stato poco saggio rifiutare un invito così pressante, e non abbiamo aspettato una nuova ingiunzione. I marinai spaventati lasciano cadere le vele; il capitano si imbarca immediatamente sulla scialuppa; il mio amico 24 vuole andare con loro; si allontanano a forza di remi, mentre noi aspettiamo l'esito di questo evento inquietante. Arrivati a bordo della galera, il loro capitano, ancora furioso per la nostra mancanza di considerazione per i suoi segnali, che noi non avevamo visto, minaccia di affondare la nostra debole barca; l'aveva presa per quella di pescatori che venivano verso di lui con intenzioni poco chiare; ma quando riconosce nel mio amico un francese, che avrebbe potuto lamentarsi della sua azione poco ortodossa, cerca di trasformare questa avventura in uno scherzo, vantandosi della precisione del suo tiro, che avrebbe attirato la nostra attenzione per dargli l'opportunità di fare la nostra conoscenza. Il mio compagno gli fa allora intendere che lo scherzo era stato un pó forte, e che avremmo preferito da lui meno precisione e più circospezione. Con il ritorno dei nostri ambasciatori, ci sentiamo liberi di correre all'ormeggio; gettiamo l'ancora all'ingresso del porto, vicino a una pila di rocce che sostengono una piccola chiesa (Fig.1). Senza perdere tempo ci mettiamo a terra per andare all'ufficio della Sanità, che abbiamo visto 25 Figura 1 26 in un angolo delle mura fuori città. Al nostro apparire, la folla che frequentava il litorale si è allontanata con precipitazione; il passaggio è rimasto libero, e noi arriviamo a un piccolo edificio quadrato a cui si accede da una scala esterna; lì troviamo i membri della commissione per la salute, seduti, o piuttosto stipati, su una sorta di piattaforma, al di fuori della nostra portata; noi ci siamo sistemati lungo il muro, di fronte a un lungo tavolo. Poi il presidente ha chiamato il capitano: quest'ultimo, consapevole degli usi sanitari, si avvicina all'ufficio per mostrare il ruolo del suo equipaggio e i passaporti. Non basta che egli legga questi documenti, bisogna che li srotoli uno dopo l'altro e li tenga con le sue mani sul suo petto; allora il segretario della Sanità ne legge ad alta voce tutto il contenuto e ripete l'appello dei singoli presenti. Quindi fanno al capitano una serie di domande, alcune delle quali fortemente indiscrete, ma a cui risponde con ambiguità. Tuttavia, è richiesto che lui giuri, come noi, su una croce formata con due canne, che la sua dichiarazione è veritiera; ci viene ordinato di 27 colpirci duramente i palmi delle mani, sotto le ascelle, le anche, e le altre parti in cui si manifestano ordinariamente i bubboni, segni caratteristici della peste. Non potevamo eseguire senza ridere questa strana formalità, che doveva essere ripetuta da ogni individuo, e che ogni tanto divertiva anche i membri del tribunale; ma avendo notato che uno di noi stava trattenendo i colpi, un moto di terrore, dipinto su tutti i volti, agita improvvisamente l'assemblea, e al colpevole viene ingiunto di dichiarare la causa di questo comportamento. Si tratta, dice, del dolore per una recente bruciatura. Dei testimoni affermano il fatto con un nuovo giuramento, e i nostri giudici si accontentano di questa spiegazione. Ci viene chiesto di mostrare le lettere scritte alle nostre famiglie e al console di Francia a Napoli, per chiedergli di abbreviare la nostra quarantena. È permesso al capitano di posarle sulla scrivania; ma o per goffaggine o per malizia da parte del greco, uno di questi rotoli di lettere cade sul vestito del presidente, che non può schivarne il contatto infelice: grande baccano, conflitto di opinioni, confusione generale. Il 28 presidente sarà costretto a dimettersi dallo incarico, o si spoglierà solo dei segni della sua dignità? Si adotta quest'ultimo partito; il vestito fatale è posto alla fine di una canna, e preso con cura da un cameriere che dovrà, a proprio rischio, sottoporlo alle irrorazioni e alle fumigazioni praticate in questo caso. Tuttavia, portano una stufa e le lettere sono triturate con un temperino, immerse nell'aceto e poi fatte asciugare e quasi bruciare sopra i carboni e al fumo degli aromatici, di un odore molto penetrante, per spogliarli di ogni miasma contagioso. Finalmente la barriera della tribuna si è aperta, ed è uscito un individuo, che doveva servire come nostro guardiano, responsabile e interprete. Questi, dopo essere stato indottrinato dal presidente, si è fatto avanti dalla nostra parte, ha dato un abbraccio al capitano, e ha toccato la mano di tutti, mettendosi così in condizione di condividere la nostra quarantena, la cui durata, malgrado le nostre proteste, era stata fissata in ventotto giorni. Lasciando l'ufficio della Sanità, avevamo fretta di procurarci le necessità di cui eravamo 29 stati privi per diversi giorni: gli abitanti ce le avevano fornite. Provviste di tutte le specie erano state portate a riva, e in particolare dei meloni, fichi, uva, arance e altri frutti, la cui vista e profumo ci hanno deliziato. Una linea è stata tracciata sulla sabbia tra noi ei mercanti; da entrambi i lati, eravamo attenti a non superarla; un cane, che aveva avuto la sfortuna di venire a compromettersi, è stato colpito con durezza. Tuttavia, alcuni oggetti, che a quanto pare sono stati considerati come ininfluenti, hanno stabilito una sorta di comunicazione amichevole tra noi e gli abitanti della città. Ci potevamo passare un bicchiere di liquore e bere insieme; offrivamo noi stessi, reciprocamente e in modo sicuro, una presa di tabacco, e accendevamo la pipa da quella del nostro vicino. Perché non siamo rimasti a Otranto! Sono sicuro che ci saremmo familiarizzati, ci sarebbero stati forniti dei servizi che normalmente si rifiutano a persone sospette. Ma, siccome non c'è un lazzaretto in questa città, dobbiamo completare la nostra quarantena a Brindisi, e ci è stato anche rifiutato il permesso di andarci via terra. Il 30 nostro capitano deve trascorrere qui alcuni giorni, per trattare degli affari; abbiamo così avuto modo di andare giù a terra, per arrampicarci sulle rocce che fiancheggiano la riva, da dove scopriamo lo sviluppo di tutta la città; non possiamo tuttavia avvicinarci di più ad essa. Otranto offre un aspetto molto pittoresco (Fig. 2). Possiamo vedere a destra la fine delle rocce a cui siamo autorizzati ad accedere; dal lato opposto, c'è una spiaggia che funge da porto di sbarco per le merci, e un marciapiede inclinato, terminato da due colonne, che conduce alla porta dalla città. Questa spiaggia funge da passeggiata per gli abitanti; nella sua depressione si vedono basse colline coronate da un fresco verde. La città si estende alla nostra sinistra e forma alla sua estremità un promontorio ricurvo. È costruita su una piattaforma rocciosa di cui le fortificazioni ricoprono la scarpata, mettendola al sicuro dalle mareggiate e dagli attacchi di artiglieria. La fortezza, che è stata costruita dal re Alfonso d'Aragona, e il cui piano è 31 Figura 2 32 difficile da indovinare, è dominata da una torre quadrata; porta in cima un campanile che serviva a suonare l'allarme sulla costa quando i turchi minacciavano un attacco. Il ricordo degli orrori dell'assedio sostenuto nel 1480 contro i musulmani, che si impadronirono della città, e che minacciano ancora questi paesi, impegna gli abitanti in un grande monitoraggio. Non so se lo sconvolgimento, di cui l'intera costa offre tracce, risale a quell'epoca sfortunata, o se va attributo a un terremoto; ma le mura della città, cedute da tutte le parti sotto il loro stesso peso, e crollate in sezioni enormi, sono ancora in piedi lungo la roccia a cui erano applicate, e dove distinguiamo il loro strappo. Resistono in questo stato allo sforzo delle onde che ne minano il piede, ribollendo attraverso i loro vasti detriti. La costruzione di queste mura è molto antica e forse risale ai Romani, se giudichiamo dal sistema di costruzione, che mostra piccole pietre legate con un cemento che ha modellato un insieme omogeneo e quasi inalterabile. 33 I terremoti sono comuni nel regno di Napoli. Nel 1450, a dicembre, ce ne fu uno che diffuse il terrore tra gli abitanti di questo paese, che durante tutto il mese, avevano continuamente paura di essere sepolti sotto le rovine delle loro case. La provincia di Otranto ne fu particolarmente colpita; la Terra di Lavoro, l'Abruzzo, l'intera Puglia erano coperte di rovine; alcuni castelli furono inghiottiti senza poterne più trovare un minimo di vestigia e trentamila persone perirono in questi disastri. Infine, per placare la rabbia celeste, il re Alfonso ordinò una processione che lasciò Brindisi per andare alla vecchia chiesa di Santa Maria di Leuca, situata sul promontorio di Otranto (1). ____________________________________ (1) - Questo promontorio, detto dagli antichi Iapigio o Salentino, da Plinio Ara Iapigia, e da Strabone Scopulo Iapigio, è chiamato anche Leuca, dal nome di una piccola città precedentemente distrutta, e di cui Lucano dice: Secretaque littora Leucae. 34 Ai tempi antichi esisteva un tempio in questo luogo; era quello di Minerva che Enea vide al suo arrivo in Italia (1). A questo proposito, vale la pena notare che, in generale, di tutti i templi delle divinità mitologiche, quelli di Minerva hanno resistito meglio alla distruzione, forse perché questa dea, considerata come quella della saggezza, godeva, anche tra i cristiani, di maggiore popolarità rispetto agli altri dei del paganesimo. Ad ogni modo, molti di questi templi sono stati convertiti in chiese. Possiamo menzionare quello di questa dea ad Atene, che, sebbene fosse uno dei più vecchi, sarebbe stato ancora integro senza lo sfortunato incidente che lo ha fatto saltare di recente. Vediamo anche a Roma il tempio di Minerva Medica, la chiesa di Santa Maria della Minerva, ecc. Possiamo anche notare che le statue di questa dea, con lievi cambiamenti, possono ____________________________________ (1) - Crebrescunt optatae aurae, portusque patescit jam propior, templumque apparet in aree Minervae. Eneide, lib. III. 35 essere servite al culto cristiano, e che le più antiche madonne hanno nella loro posa e nel drappeggio alcune relazioni con le statue di Minerva, soprattutto perché è solo nel quinto secolo che abbiamo iniziato a rappresentare la Vergine che tiene il piccolo Gesù. Le case della città di Otranto sorgono sopra la linea di macerie offerta dallo sgretolamento delle sue pareti crollate, e la incoronano in modo piacevole e pittoresco. Dalla semplicità delle loro masse, i tetti estremamente piatti, le terrazze che li finiscono, e le loro finestre piccole e distanziate, ho riconosciuto lo stile che i pittori danno agli edifici italiani, che differisce sostanzialmente da quello degli edifici di altri paesi. La diversità dei climi influenza la maniera di costruire: qui l'assenza di neve rende inutile l'attico inclinato, che sfigura i nostri monumenti. Il bisogno di respirare freschezza durante le notti e l'uso di dormire all'aperto, motivano le terrazze e le logge; le finestre, strette e rare, danno meno accesso al calore negli interni. In questo, gli italiani hanno 36 seguito l'esperienza e il gusto dei loro antenati; riconosciamo anche che hanno ereditato il loro genio, nel carattere di grandezza, semplicità e bellezza che danno a tutte le loro costruzioni, dalle semplici capanne, ai palazzi e templi. La città di Otranto, l'antica Hydrus o Hydruntum, si dice che sia stata costruita dai Cretesi. In epoca romana, era considerevolmente forte; il suo porto, uno dei più vicini alla Grecia, era e non ha cessato di essere molto mercantile, sebbene non offrisse molta sicurezza. Credo che fosse di Pirro l'idea folle di unire la Grecia all'Italia con un ponte, lungo non meno di tredici leghe, dalla costa dell'Epiro al promontorio di Otranto. Questa città è sempre stata fedele agli imperatori dell'est, e resistette per lungo tempo alle armi dei loro nemici, che successivamente si impadronirono della Grande Grecia. Totila, re dei Goti, per due volte cinse invano d'assedio le sue mura; nemmeno i Longobardi, sotto la guida di Alboino che fondò il principato di Benevento, poterono diventarne padroni; ma i Saraceni d'Africa, che avevano conquistato un gran numero di città della Calabria e della 37 Puglia, riuscirono infine a conquistare Otranto, e la governarono dall'814 fino al 1016, epoca in cui furono cacciati dai Normanni, che fondarono la monarchia delle Due Sicilie. Non avendo potuto esplorare l'interno di Otranto, non potevamo giudicare della sua ricchezza e della sua popolazione di tremila anime. Il porto è coperto delle merci, e l'approccio continuo dei bastimenti fa presumere che il commercio sia molto fiorente; anche la città sembra molto vivace. A sera, abbiamo visto delle vetture sulla spiaggia, più ricche che eleganti; cavalieri agili e ben vestiti; belle ragazze contadine, adornate con un corsetto di taffetà, una sottoveste in mussola a strisce bianche e con la testa coperta da un cappello di paglia, o un fazzoletto di seta. Fino a quando, molto prima di notte, l'aria ha risuonato di accordi musicali e voci melodiose, che si mescolavano al suono di ogni tipo di strumento. A giudicare dal gran numero di religiosi, i cui costumi erano molto vari, e dai seminaristi, 38 che si vedevano passare in gruppi numerosi, devono esserci in città diversi monasteri e istituti scolastici per la gioventù. Nel decimo secolo, le scuole di Otranto erano famose per lo studio del greco, ed essa conta due scrittori eruditi, Giovanni e Nicola di Otranto (1). Ci hanno parlato della cattedrale come di un monumento molto vecchio, adornato con bei marmi e con una bella pavimentazione a mosaico. C'è anche un ospedale, che funge da ritiro per i disabili, e dove pellegrini e poveri viaggiatori sono ricevuti e trattati per alcuni giorni. I dintorni dalla città producono grani abbondanti, verdure e frutta eccellenti. Gli aranci e gli alberi di limoni formano boschetti che noi vediamo da lontano, rammaricandoci di non poterli visitare. Alcune case eleganti sorgono in mezzo a questi boschetti balsamici; le colline sono ricoperte di viti e il vino che se ne ottiene è abbastanza buono; l'olio e il tabacco sono importanti oggetti del commercio locale. Infine, questa città è, dicono, più ricca e più piacevole di Lecce, capoluogo della provincia, anche se è infinitamente meno popolosa. 39 ____________________________________ (1) - All'inizio dell'undicesimo secolo, Nicola d'Otranto, monaco e abate dell'Ordine di San Basilio, fece diversi viaggi a Costantinopoli e in Grecia, dove aveva preso il gusto della letteratura. Con i molti manoscritti da lì riportati, egli allestì una delle più belle biblioteche di quel tempo, con libri di filosofia, logica e teologia. La città e il monastero furono presi dai turchi, nel 1480; la maggior parte di quei libri fu bruciata, e il resto trasportato a Roma e Venezia. Tra questi citiamo il lavoro di Quinto Calabro e le poesie di Coluto Licopolita. 40 LETTERA IV. Traversata da Otranto a Brindisi. - Aspetto di questa città. - Porto interno. - Nuovo lazzaretto. - Ormeggio nella rada. - Fontana antica. Brindisi, 20 agosto 1797. Abbiamo percorso rapidamente il tragitto da Otranto a Brindisi, dove dobbiamo trascorrere il tempo della nostra quarantena. Il vento ci è mancato entrando nel porto, ma non abbastanza da impedirci di raggiungere la costa occidentale, dove è stata calata l'ancora nei pressi di un serbatoio d'acqua e in vista di un castello costruito su delle rocce a fior d'acqua, e che occupa il centro del grande porto e ne domina entrambi gli accessi. I nostri cuori si sono aperti con la certezza che non dovevamo più dipendere dal capriccio dei venti e dall'incostanza dei mari e che, dopo un periodo di prigionia, troppo lungo per i nostri gusti, ci sarebbe stato finalmente permesso di vagare liberamente in una terra che noi consideriamo quasi come la 41 nostra patria. La certezza di essere capiti parlando il linguaggio delle arti e di trovare ad ogni passo motivi di studio e ispirazione, era per noi un divertimento anticipato. La barca ci ha trasportati al porto interno, dove si arriva attraverso uno stretto canale aperto recentemente per comunicare direttamente dal porto alla città; il vecchio passaggio è quasi riempito. Questo canale dà una via d'uscita alle acque del mare che, essendo in stagnazione, si erano corrotte, esalavano vapori mefitici e causavano malattie crudeli. Questa acqua inizia a prendere il suo flusso; prendendosi cura del porto, l'aria diventa più pura e le febbri sono meno mortali. Tuttavia, l'olfatto è ancora affetto da esalazioni nauseabonde. La città di Brindisi è costruita su un picco di terra il cui angolo principale è di fronte all'entrata del porto. In questo posto sorge un'alta colonna di marmo bianco, coronata da un capitello composito molto ricco; accanto c'è il piedistallo e la base di una colonna simile, che, ci è stato detto, si rovesciò improvvisamente e senza alcuna causa apparente, il 20 novembre 42 1528; sorprendentemente, il tamburo superiore della colonna cadde a piombo sul piedistallo e vi rimase; gli altri frammenti, sparpagliati a terra, erano ancora visibili nel 1674; successivamente, furono trasportati a Lecce, capitale della provincia, dove ora ornano la piazza principale, e supportano la statua del santo protettore. Gli altri edifici di Brindisi sono costruiti in pietra e in mattoni. Chiese coperte da tetti piani in terracotta, o da cupole ribassate, con campanili quadrati e portici sostenuti da piccole colonne, ci hanno offerto alla vista lo stile di architettura longobarda che ha preceduto quello del rinascimento dell'arte, stile di gran lunga superiore a quello di una folla di monumenti più recenti, dove la bellezza della massa scompare sotto il lusso di ornamenti inutili e ridicoli elementi architettonici di contorno. Vediamo anche qua e là elevarsi delle palme, dei cipressi e alcuni altri alberi che contrastano con le costruzioni, rendendo le linee estremamente pittoresche. Il porto è diviso in due braccia che affondano nelle terre a destra e a sinistra: abbiamo preso quest'ultima direzione per andare 43 al nuovo lazzaretto, costruito in fondo alla città e in riva al mare. La pianta di questo monumento è vasta e ben progettata: il padiglione principale è adornato da colonne doriche, terminanti in una cupola molto elegante e forata da diverse finestre, con frontoni e balaustre: l'interno è affrescato e decorato con stucchi. Questo edificio, decorato con gusto e di architettura pura, è circondato da altri piccoli padiglioni, di forma ottagonale, coperti ciascuno da un tetto piramidale molto piatto e forato da piccole finestre alte, poste a semicerchio. Questi servono ai contagiati come un ritiro durante le passeggiate: uno spazio abbastanza ristretto e circondato da mura, di cui ciascuno di questi padiglioni occupa il centro. Questi recinti sono provvisti di panchine di pietra, e vi si devono piantare degli alberi. Questi piccoli edifici, dipinti e decorati con modanature e cornici, dominati da una sala riunioni del comitato di salute, sono posti su una piattaforma rocciosa, e vi si arriva per delle scale scavate nel suo spessore. L'incontro di tutte queste costruzioni offre un aspetto piacevole e rimuove l'idea di una prigione, di cui tuttavia 44 rivelano lo scopo. Ma l'aridità del luogo, il fetore delle acque, e l'azione malsana degli intonaci appena finiti, hanno motivato il nostro rifiuto di entrare per primi in questo lazzaretto, la cui eleganza esteriore non ne ha nascosto gli inconvenienti; abbiamo preferito tornare alla nostra feluca, rimasta all'ancora in un luogo scoperto, e costantemente spazzato dai venti del mare aperto, che puliscono l'atmosfera. Le cerimonie dell'ufficio sanitario non sono state, in confronto, ridicole come ad Otranto e le precauzioni meno minuziose. Ma siamo stati gravati da domande alle quali il nostro titolo di francesi ha attribuito molta importanza, e che abbiamo in parte eluso, con il pretesto della nostra ignoranza del linguaggio, che capivamo meno del puro italiano. Il dialetto, impiegato in questa parte del regno di Napoli, ci sembrava corrotto da una quantità di espressioni straniere o professionali, e terminazioni in un accento sgradevole. È con piacere che siamo tornati di sera nel porto, per poter finalmente calpestare, sulla costa deserta, un prato erboso e respirare, 45 all'ombra di alcuni alberi, un'aria balsamica e rigenerante. La fresca vegetazione di questi prati e del fogliame è mantenuta dall'umidità nutriente delle acque di una fontana. La sua fonte, molto abbondante, sgorga dalle rocce che fiancheggiano la costa; essa riempie un vasto bacino sotterraneo, scavato nella massa rocciosa, il cui accesso presenta parecchie arcate semicircolari tagliate a scalpello. Non abbiamo potuto ignorare, in questo lavoro, la mano potente e laboriosa degli antichi a cui è stato attribuito. Plinio parla di questa fontana, situata nella parte ad ovest del grande porto. Essa è la stessa, senza dubbio, da cui si prendeva l'acqua che serviva ai soldati ed ai marittimi per i lunghi viaggi. La si diceva "incorruttibile" a causa delle sue proprietà, che noi non siamo stati in grado di verificare. Il Pratilli pensa che dei condotti segreti conducessero le acque di questa fontana a quella che si vede ancora in città, e che anche questo lavoro fosse opera di quegli antichi. Probabilmente avrò occasione di parlarne. Anche se lo spazio in cui potevamo andare era molto circoscritto, e che il nostro guardiano monitorava attentamente per impedirci di 46 superarne i confini, comunque ci divertiva l'idea di calpestare finalmente il suolo d'Italia, e non dipendere più dagli eventi di cui eravamo stati fino ad allora i giocattoli. 47 LETTERA V. Situazione critica in cui ci siamo trovati durante la quarantena. - Cause dell'insalubrità dell'aria. Brindisi ... La nostra gioia e la nostra sicurezza sono state di breve durata; sarebbe stato più saggio diffidare del futuro: ci stava preparando dei dispiaceri. Con il pretesto che era impossibile esercitare su di noi una sorveglianza efficace, che ci impedisse di comunicare con gli abitanti della costa e con i marinai che venivano a rifornirsi di acqua alla vicina cisterna, abbiamo ricevuto l'ordine di tornare nel porto interno, al lazzaretto e sotto gli occhi dei dipendenti dalla Sanità. Non so cosa abbia provocato questa loro avversione nei nostri confronti, ma essi hanno usato verso di noi un rigore straordinario. Ci è stato rifiutato ogni modo per ammorbidire la nostra situazione ed anche per evitare l'inclemenza dell'aria. Senza letti diversi dalle tavole della barca, senza una copertura diversa 48 dal cielo, privati non solo del superfluo che avremmo pagato a peso d'oro, ma spesso anche del necessario, ricevemmo solo l'indispensabile; ciò equivaleva a vivere nell'indigenza più assoluta; non si rispondeva alle nostre richieste se non imponendo le dure leggi della quarantena. Le nostre ripetute suppliche divennero inutili e perfino umilianti; noi ce ne siamo infine astenuti e prendendo il nostro male con pazienza, ci siamo limitati ad informare l'ambasciatore francese a Napoli della disumanità dei nostri guardiani, chiedendogli di abbreviare, se possibile, il tempo di una tale rigorosa prigionia, che metteva in serio pericolo i nostri giorni. Infatti, esposti senza tetto durante il giorno ad un sole cocente, non avevamo altra risorsa, per estinguere il calore interno che ci divorava, che tuffarci nell'acqua infetta; questo bagno, lungi dall'essere salutare, ci rinfrescava solo un momento, lasciandoci poi sul corpo un prurito insopportabile. Di notte, nulla ci proteggeva dall'influenza malsana dell’aria e della nebbia, che ci penetravano di un'umidità gelida, il cui contrasto era tanto più marcato quanto il caldo 49 della giornata era stato più forte. Le estremità delle insenature che circondano la città, e soprattutto il luogo in cui ci trovavamo, sono coperte di canne nere abitate soltanto da insetti e rettili insidiosi. Inoltre, il fondo delle acque, che regge in dissoluzione una massa di sostanza putrida, esala continuamente un gas fetido i cui globuli vengono a scoppiare sulla superficie del mare, facendolo ribollire. Un forte odore sgradevole si diffonde in lontananza e colpisce il senso dell'olfatto non appena il vento che lo insegue soffia verso questa parte della rada. Se al contrario lo spinge in città, esso diffonde quasi ovunque la sua influenza maligna su tutti gli abitanti, che non possono sfuggirgli se non muovendosi frettolosamente verso un cantone più salubre. Abbiamo persino notato pesci che sembrano in qualche modo scappare dal loro elemento avvelenato; essi corrono continuamente al di sopra della sua superficie, e vi si tuffano solo malvolentieri. Brindisi, ci hanno detto, contiene abbastanza case per ospitare fino a quarantamila abitanti; ma solo seimila vi abitano. La maggior parte dei ragazzi che nascono qui non raggiunge la 50 pubertà; gli altri, pallidi e deboli, trascinano un'esistenza dolorosa che spesso si conclude con terribili malattie. La sera, al tramonto, la città sembra deserta. Questo momento della giornata è davvero molto pericoloso; ma più tardi, quando il lavoro cessa, ed altrove si gode del resto del crepuscolo, nessuno qui lascia la città per vagare per la campagna, a respirare aria fresca e a concedersi all'allegria; non si sentono qui accenti gioiosi, né le canzoni che altrove si suonano. Se scorgo gente in giro, mi sembra di vedere delle ombre; camminano lentamente ed in modo instabile, con i volti stravolti e lividi che attestano che la morte li segue da vicino. La guarnigione del castello, che non viene rinnovata abbastanza spesso, perde fino ai tre quarti dei suoi uomini, e la popolazione diminuisce ogni giorno in maniera spaventosa, specialmente durante il gran caldo. Gli abitanti accusano Giulio Cesare di essere stato lui la causa dell'insalubrità della città, avendo chiuso l'ingresso al porto facendovi affondare delle navi che lo resero impraticabile, 51 facendone stagnare le acque. Ci hanno mostrato i relitti di queste antiche navi, il cui legno, molto ben conservato, aveva acquisito il colore dell'ebano ed ancora maggior durezza. Non credo però che quell'ostruzione risalga ad un tempo così remoto. È vero che, per tagliare la ritirata a Pompeo, Cesare costruì degli ostacoli che potevano solo temporaneamente impedire l'ingresso al porto; ma non c'è voluto molto tempo per rimuovere questi impedimenti (1). Augusto ed i suoi successori hanno avuto grande interesse a rendere questo porto perfettamente praticabile. Esso fu considerato, ancora per molto tempo dopo, come uno dei migliori porti di questa costa. Quindi bisognerebbe attribuire, lo stato in cui ora il porto si trova, alla negligenza ed all'indifferenza degli abitanti, che ______________________________________ (1) - La scoperta fatta dall'Ing. Pigonati di due file di pali, che sembrano essere gli stessi piantati da Cesare per ostruire l'entrata del porto, distrugge questa affermazione. Tuttavia, non si può concepire che Brindisi abbia potuto godere, molto tempo dopo, dei benefici di un porto molto frequentato, se questi ostacoli non fossero stati rimossi. 52 hanno trascurato le precauzioni necessarie per prevenirne la completa ostruzione. Per quanto riguarda la salubrità dell'aria, essa deve essere necessariamente aumentata; ma ai tempi di Cesare, questa contrada era già molto malsana. Egli vi perse, di ritorno dalla Spagna, gran parte delle sue truppe. Anche Cicerone si lamenta di essere stato costretto a soggiornarvi; e Virgilio vi trovò la morte. L'attuale re di Napoli, riconoscendo l'importanza di questo porto, dove non entrano più che delle barche, sta attualmente affrontando grandi spese per metterlo in grado di ricevere vascelli. Ma, sia per il difficile reperimento di lavoratori per lavori così estremamente malsani, sia per l'impiego di mezzi meccanici non molto rapidi ed efficienti, i lavori procedono lentamente, e non si notano sensibili miglioramenti nel risanamento dell'aria. Quanto è deplorevole lo stato attuale di questa città rispetto a quello che era al tempo dei Romani! Questo porto, ora congestionato, era aperto a navi di tutte le nazioni; riceveva le produzioni utili della Grecia e le ricche superfluità dell'India. Le flotte della repubblica 53 vi si riunivano, e da questo punto avanzato dominavano l'Adriatico, tenendo a bada la Grecia, e sempre pronte a partire per imporre il nome romano nelle sue colonie e su terre lontane soggette al suo potere, o per aprire alle sue legioni la via per nuove conquiste. Brindisi potrebbe ancora diventare la chiave dell'Adriatico; non si potrebbe fare un movimento in questo mare senza destare le sentinelle poste nel suo porto. Collocato tra l'Illiria e le isole ioniche, sarebbe il punto più favorevole per coltivare relazioni con questi paesi e fornire loro o riceverne aiuto di qualsiasi tipo. Questo porto, considerato come posto militare, sarebbe certamente il massimo bastione delle coste orientali d'Italia, in grado di ripararla da tutte le sorprese e da ogni attacco ostile; potrebbe infine diventare uno dei magazzini commerciali più favorevoli. Ma a tal fine sarebbe necessario restituire alla città i suoi precedenti vantaggi; il che non sarebbe impossibile, se si usassero mezzi più attivi, più potenti e degni, in una parola, di un risultato così importante. 54 LETTERA VI. Visita di un abitante di Brindisi e del console di Venezia. - Tempesta. - Arrivo di un vascello. - Distrazioni piacevoli. Non ci è stato mostrato finora alcun segno di benevolenza, e nemmeno di commiserazione: rassegnati al nostro destino, abbiamo aspettato pazientemente e senza avanzare reclami, ormai inutili, la fine della nostra quarantena, proponendoci di ripartire subito dopo da questa terra inospitale; quando abbiamo ricevuto la visita di un residente di Brindisi, che ha compensato la lunga indifferenza dei suoi concittadini, dei quali non condivideva i pregiudizi. Toccati da questi segni di un interesse tenero e sincero, che non ci aspettavamo e di cui avevamo estremo bisogno, il nostro stupore è cessato apprendendo che questo giovane apparteneva a una rispettabile famiglia della Provenza, da lungo tempo stabilitasi in questo paese, e che 55 aveva conservato un vivo attaccamento alla sua vecchia patria. Il nostro titolo di francesi era servito da raccomandazione a Don Pippo (1) (Philippe They), questo era il nome del nostro nuovo amico. Da quel momento in poi, egli non cessò di venire ogni giorno a portarci distrazioni piacevoli e parole di consolazione; ma sfortunatamente ciò era tutto quello che gli era permesso di offrirci. Tuttavia, egli riuscì a procurarci qualcosa che fu di grande aiuto per noi, come il farci conoscere gente nuova, fra cui il console veneziano, un uomo tanto amabile quanto istruito, che venne spesso, con conversazioni interessanti e spirituali, ad interrompere la triste monotonia della nostra lunga giornata. Egli ci ha mostrato dei cammei molto belli che aveva trovato rimescolando la terra del suo giardino, e ci ha detto che scavando al porto ____________________________________ (1) - Il titolo spagnolo di "don" era dato, nel regno di Napoli, a tutti gli appartenenti ad una classe più elevata, anche della borghesia. Pippo o Pippino sono diminutivi di Filippo. 56 erano stati scoperti molti frammenti antichi, epitaffi ed iscrizioni greche e latine. Erano state ritrovate anche le fondamenta di antichi monumenti, tra cui quelle di alcuni bagni termali, dove si utilizzavano le acque del mare, che vi arrivavano facilmente, trovandosi questi locali sotto il loro livello. Questo fatto dimostrerebbe che gli antichi conoscevano le proprietà curative di queste acque salate, di più facile uso per i più fortunati, rispetto a quello delle acque minerali, e la cui virtù curativa si estenderebbe forse ad un più gran numero di malattie. In un armadietto abbiamo trovato una tessera con queste parole disegnate in una cornice: "bene dormio". Per curiosità gli scavi si erano estesi lungo la costa e cominciavano a dare i loro frutti; ma si era sparsa la voce di ritrovamenti preziosi, e subito era giunto da Napoli l'ordine di far cessare immediatamente ogni indagine e di ricoprire gli scavi, con la minaccia di pene severe; il governo si riservava il diritto di continuare gli scavi a sue spese e per il suo 57 profitto. Questa misura probabilmente privò per molto tempo il pubblico di scoperte che potevano diventare molto interessanti. Una terribile tempesta, verificatasi in questi giorni, ci ha portato nuovi compagni di sventura, cioè di quarantena. I vascelli che avevamo già incontrato e che da allora non avevano mai smesso di attraversare questo tratto di mare, al momento della tempesta, si trovavano nella parte più stretta dell'Adriatico, e non potevano, senza rischio, correre verso la costa; essi lottavano disperatamente contro il vento che ve li spingeva contro. Noi li vedevamo alla luce dei fulmini che si riflettevano sulle loro vele bianche; un fulmine è scoppiato in mezzo a queste imbarcazioni; una di loro, a quanto ci è apparso, è stata colpita. L'abbiamo vista affondare e scomparire subito, mentre le altre si sono perse presto in lontananza. Si era sparsa la voce che su uno di questi vascelli erano morte le circa cinquecento persone che vi erano imbarcate; ma ora è certo che sono state in grado di salvarsi sulle coste di Corfù. 58 Un altro di questi vascelli, molto malandato, per una circostanza davvero straordinaria, aveva, durante la notte, distrutto l'ingresso del porto di Brindisi. Sempre spinto dal vento, si era avventurato nella stretta apertura del nuovo canale, ed era infine arrivato, nonostante la superficialità dell'acqua, fino alla metà del porto dove, molto sorpresi, lo abbiamo veduto il giorno successivo: un veliero così grande, non lo si vedeva lì da molto tempo (1). Non sappiamo, a meno di un secondo miracolo, come questo veliero naufragato possa riacquistare il mare aperto. Una discussione diplomatica tra il tribunale di Napoli e la Repubblica di Venezia, potrebbe rivolgersi a vantaggio degli abitanti _________________________________________ (1) - Secondo il Pigonati, alla fine di agosto del 1778, il canale aveva 20 palmi di profondità, così che navi da carico potevano entrare nella rada; il 26 giugno dello stesso anno era entrato nel porto di Brindisi un veliero olandese, per scaricare grano e caricare olio. Da allora sia il canale che il porto sono stati di nuovo abbandonati. 59 di Brindisi, se contribuisse a rendere la loro porta più accessibile. Questa repubblica intrattiene strette relazioni di amicizia con gli stati che hanno possedimenti sull'Adriatico e che le permettono di sfruttare estesi diritti relativi alla polizia di questo mare; essa li esercita con severità su tutti i piccoli vascelli che incontra, e ne abbiamo avuto esperienza quando siamo arrivati ad Otranto. Le sue navi estendono questa sorveglianza fino all'ingresso dell’Arcipelago, dove danno la caccia ai barbari che minacciano di sbarcarvi. I veneziani ricevono, ci è stato detto, sussidi a tale scopo da vari stati; essi si arrogano nei loro porti una sorta di supremazia, godendo privilegi che le navi di altre nazioni non ottengono. I loro passeggeri sono, tuttavia, anch'essi soggetti alle leggi della quarantena, ma in maniera meno rigorosa e per un tempo limitato a pochi giorni. L'arrivo di questo veliero è stato un felice diversivo per il nostro modo di vivere ed ha incrementato i nostri rapporti sociali. I nostri amici ci hanno anche procurato, in questa 60 occasione, una piacevole sorpresa; abbiamo visto avvicinarsi al nostro carcere galleggiante due scialuppe elegantemente ornate: una con Don Pippo e le sue gentili sorelle; l'altra era occupata da ufficiali veneziani e loro compagni. L'influenza del gentil sesso ha subito vivacizzato i nostri cuori, appassiti per un lungo isolamento e abbandono, sperimentato in paesi in cui anche un'occhiata alla bellezza diventa un crimine, dove la minima traccia di galanteria e anche la semplice cortesia sono considerate un tradimento, che infiamma immediatamente la gelosia e reclama vendetta! La vista dei nostri amici e di un gruppo di donne giovani e attraenti ci hanno riportato infine, ai modi educati e facili dell'Europa; potevamo rispondere alla cura toccante dell'amicizia e all'elegante civetteria delle nostre consolatrici, con effusioni di cuore, cosa che è un crimine solo in Turchia. Da quel momento, abbiamo dimenticato i modi rustici che avevamo contratto in quel paese di barbari e, al cospetto della grazia e della 61 bellezza, abbiamo sentito rinascere in noi il buon umore e l'urbanità francesi. Perfino il porto di Brindisi sembrava più ridente; vi echeggiavano degli accordi di musica e accenti di gioia. Le donne a volte cantavano, accompagnate dalla chitarra o dal mandolino, queste canzoni composte dai gondolieri di Venezia, le cui arie sono così semplici e melodiche da trasmettersi rapidamente di bocca in bocca, fino ad incantare tutta l'Italia, e passare addirittura in Grecia, dove ne abbiamo riconosciute diverse. Queste "barcarole" (1), cantate con l'accento proprio del dialetto veneziano, in cui abbondano le z, e che ingentilì la lingua di Dante, avevano un fascino particolare nella bocca dei nostri amici veneziani; e noi ci siamo uniti a loro, con le nostre voci poco esercitate, in questa dolce melodia, di cui volevamo imparare e ricordare il motivo. Una conversazione allegra seguiva a questi piccoli concerti e le nostre serate trascorrevano tanto più piacevolmente in quanto erano condite con un leggero vincolo: le barche dovevano 62 stare al sicuro, ad una certa distanza dalla nostra barca; qualsiasi comunicazione era proibita; potevamo trasmettere solo suoni. Una leggera infrazione a questo trattato avrebbe potuto compromettere la sicurezza dei nostri amici. _________________________________________ (1) - Canzoni in lingua veneta, cantate dai gondolieri a Venezia. Anche se le arie delle barcarole sono fatte per la gente del popolo, e spesso sono composte dagli stessi gondolieri, hanno tanta melodia e un accento così bello, che non c'è musicista in tutta Italia, a cui non interessi conoscerle e cantarle. 63 LETTERA VII. Note storiche su Brindisi. - Fine della quarantena. - Foresterie. In attesa dell'arrivo delle lettere che dovrebbero annunciare la nostra liberazione o la riduzione dei termini della nostra prigionia, e per occupare utilmente il mio tempo libero, traccerò un profilo storico, con il materiale che sono riuscito a procurarmi su Brindisi. Tutti gli storici sono d'accordo sulla remota antichità di questa città. Alcuni la chiamarono Brundusium o Brundisium; alcuni poeti Brenda, per facilitare la metrica; nel medioevo, Brundusiopolis. Varie le ipotesi sulla fondazione di Brindisi. Dovrebbe essere attribuita a Brendo, figlio di Ercole; agli Etoli, compagni di Diomede; infine, ai Cretesi; certamente i suoi abitanti furono coinvolti nelle antiche guerre tra i popoli dei confini fra la Messapia e i Tarantini. Quando 64 questi ultimi chiamarono Pirro in Italia, Brindisi, allora città capitale dei Salentini, condivise la punizione inflitta dai Romani alla città di Taranto. Essi la saccheggiarono, l'anno di Roma 487, ed usarono il pretesto della sua distruzione per rimanere i padroni di questo porto, che doveva aprire loro un passaggio sicuro e veloce verso la Grecia; vi fu fondata perfino una colonia nel 509. Sotto il loro dominio, questa città divenne in seguito molto fiorente, ed una delle più ricche e più importanti città d'Italia. Essa fu nel novero delle diciotto colonie che fornirono grande aiuto alla repubblica nel periodo della seconda guerra punica. Durante le guerre civili tra Cesare e Pompeo, Brindisi svolse un ruolo importante. (1). _______________________________________ (1) - Appiano e Cesare stesso hanno raccontato questi avvenimenti. Quest'ultimo ha descritto il porto e gli stratagemmi da lui messi in atto per assediare Pompeo; ma queste descrizioni sono un pó confuse. 65 Sappiamo che Pompeo si era ritirato a Brindi-si con le sue truppe; Cesare, che lo aveva inseguito per assediarlo in questa città, vi si stabilì e concepì un progetto di chiusura del porto con una diga ed una palizzata di sbarramento. Mentre le due parti combattevano con pari accanimento intorno a queste opere, ancora in corso di costruzione, le navi che avevano trasportato i senatori ed i consoli, con trenta coorti, sulle coste dell'Epiro, sostavano allora, non nel porto di Brindisi, come si crede comunemente, ma nella grande rada esterna; Pompeo ebbe quindi tutto il tempo di imbarcarvisi con i suoi uomini e fuggire a Durazzo durante la notte, lasciando solo due navi, le uniche probabilmente che si trovavano nel porto interno e che, tentando la fuga, si arenarono contro la diga in costruzione, che bloccava l'uscita del porto. Lucano (libro V) descrive il sito più esattamente. Questa manovra può essere considerata come uno stratagemma diversivo, utilizzato da Pompeo per attirare l'attenzione di Cesare su questo lato, mentre 66 il suo nemico allontanava le sue truppe e le imbarcava, all'esterno sulla costa opposta. L'ispezione dei luoghi mostra quanto fosse impossibile far fuggire da Brindisi anche una sola barca, per le precauzioni prese da Cesare, ingombrando l'entrata del porto. Questo progetto di ostruzione fu facile da eseguire, dal momento che tale passaggio non è mai stato molto più ampio di quanto non sia adesso, posto com'era tra due spuntoni di roccia distanti non più di venti tese uno dall'altro. Dopo aver distrutto in Spagna l'armata spagnola di Pompeo, Cesare si trasferì in Grecia, nell'Epiro, dove attese con impazienza l'arrivo delle truppe che aveva lasciato a Brindisi. Era di grande interesse per Pompeo impedire l'unione di queste forze nemiche; così inviò una flotta che doveva impadronirsi dell'isola su cui fu poi costruito il castello che domina ora la rada e l'ingresso del porto di Brindisi. Ma avendo Antonio sparso le sue truppe sulla costa, rendendosi di 67 fatto padrone di quel sito, la flotta nemica fu costretta a ritirarsi. Cesare, tuttavia, preoccupato per il ritardo del passaggio delle sue legioni, si risolse infine ad andare a prenderle lui stesso. Si travestì da schiavo, montò sulla barca di un pescatore, e partì nel mezzo della notte, nonostante l'avvicinarsi di una tempesta che presto mise quella fragile barca in grande pericolo. Il pescatore sgomento stava per tornare indietro; Cesare si fece allora riconoscere e gli si rivolse dicendo: - Che cosa temi? Tu porti Cesare e la sua fortuna! Bisognò, tuttavia, cedere a un elemento che era più forte dell'ostinazione umana (1). Conosciamo il seguito di questa guerra che terminò con la famosa battaglia che stabilì i ____________________________________ (1) - Questo fatto fu ricordato al ritorno di Carlo V dalla sua spedizione imprudente e sfortunata su Algeri; durante il suo ingresso pubblico a Napoli, fu esposto un dipinto raffigurante Cesare su una barca battuta dalle onde, con queste parole scritte sopra: Et transire dabunt et vincere Fata. 68 destini del mondo, nei campi di Farsaglia. Brindisi doveva ancora soffrire sotto Augusto, Antonio e Bruto. I suoi abitanti furono prima puniti per aver preso le parti di Ottaviano; godettero poi del lungo periodo di pace che fu concesso al mondo. Questa città rimase fedelmente attaccata ai destini dell'Impero, fino alla sua decadenza. Essa si trovò, con le altre città pugliesi, in fondo al periodo delle devastazioni dei barbari, che, a poco a poco si impadronirono anche di queste terre. Brindisi fu ridotta tre volte allo stremo; se il suo porto non fosse stato considerato sicuro ed importante, probabilmente sarebbe stata abbandonata del tutto, così come avvenne per molte altre città vicine. Totila, essendosi impadronito di Brindisi, ne fece radere al suolo le mura, in modo che non potessero servire da riparo ai Greci d'Oriente, che già reclamavano qualche diritto su questa città. Poco dopo, avendo Belisario e Narsete cacciato i Goti, questa città, così come tutto il resto della Magna Grecia, tornarono sotto il dominio degli imperatori, con Ruggero, 69 primo sovrano del regno di Puglia. Deve essere qui osservato, in onore di questa città, che per molto tempo le fu riservato l'appannaggio ed il titolo di capitale di quello che oggi chiamiamo il regno di Napoli. Quest'ultimo nome non apparve che molto più tardi, quando Napoli fu occupata da Carlo d'Angiò e divenne essa capitale, nel 1266; il regno di Puglia fu diviso nel 1501, tra Ferdinando e Luigi XII, re di Francia. Fu solo allora che l'espressione "regno di Napoli" venne usata negli atti, e che il sovrano iniziò ad adottare il titolo di Re delle Due Sicilie. Alla fine del XII secolo, Ruggero, figlio del re Tancredi d'Altavilla, ricostruì le mura di Brindisi, e fondò i due castelli tuttora esistenti, così come anche il Duomo (la cattedrale), edificio di grande carattere e dalla magnifica architettura. C'è una cerimonia notevole nel giorno della festa del Santo Sacramento (Corpus Domini), che viene portato in processione fuori dalla porta principale della cattedrale, dall'arcivescovo, accompagnato da dignitari, nobili e numerosi 70 capitoli. L'arcivescovo monta un cavallo bianco, coperto da un baldacchino dello stesso colore; uno dei dignitari più titolati, o il primo barone della provincia, tiene il cavallo per le briglie e le stecche del baldacchino sono rette dai nobili della città. Questa processione ha luogo al suono di tamburi e trombe e sotto il frastuono di colpi di pistola, fucilate e fuochi d'artificio. L'arcivescovo viaggia per le strade ed entra a cavallo nelle chiese. Ovunque gli vengono stesi ai piedi dei ricchi tappeti, palme, fogliame e fiori, e lui stesso è incoronato da una specie di diadema di fiori artificiali e fili d'oro e d'argento. Questa cerimonia è fatta in memoria del ritorno di San Luigi IX, re di Francia, dalla Terra Santa durante la VII crociata. Ecco come raccontano le cronache napoletane questo evento: Saladino, sultano dell'Egitto, avendo fatto prigioniero il re di Francia, volle rimandarlo nei suoi Stati, dietro la promessa di un forte riscatto, accettando in pegno, per la fede del monarca, un'ostia consacrata. Re 71 Luigi, ansioso di ritirare un così prezioso deposito dalle mani di un infedele, si imbarcò e, favorito dai venti, arrivò in pochi giorni a Brindisi. Lì, per una fortunata coincidenza, incontrò il suo amico imperatore Federico, al quale spiegò la sua preoccupazione; questo generoso principe lo rassicurò facendo subito coniare, nella stessa Brindisi, trentamila pezzi di denaro in oro e argento, recanti l'impronta di un tabernacolo, e sul rovescio l'aquila imperiale. Il re di Francia ritornò in Egitto; Saladino, sorpreso dalla puntualità del suo prigioniero e toccato dall'azione generosa del suo augusto amico, non volle essere da meno: restituì l'ostia consacrata, mise in libertà il re, e nobilmente rifiutò il pagamento del suo riscatto. Federico attendeva a Brindisi il ritorno della nave che, battuta dalla tempesta, naufragò all'ingresso del porto. Immediatamente l'arcivescovo, pieno di zelo, ma indebolito dall'età e dalle infermità, fu posto su un cavallo e così uscì dalla città, seguito dal suo clero, dai baroni del regno e dalla folla degli abitanti. Raggiunsero la nave 72 naufragata (1); il prelato ricevette l'ostia consacrata e la ricondusse in processione alla cattedrale, accompagnato dal re e dall'imperatore, che tenevano il cavallo per le briglie. Si aggiunga che le monete che Federico aveva coniato e che gli erano state restituite, presero, in quell'occasione, il nome di "tornese" e furono usate per la costruzione di una bella chiesa nella città di Manfredonia. Diversi uomini famosi vissero o nacquero a Brindisi; fra essi Eucratide, Filosofo epicureo, come riferisce la sua pietra sepolcrale e Marco Pacuvio, nipote del poeta Ennio. Questo Pacuvio, che scrisse alcune tragedie, e morì a Taranto, potrebbe essere lo stesso che, seguendo Plinio, ornò di dipinti il tempio di Ercole a Roma. ____________________________________ (1) - La trappola all'ingresso del porto che causò il naufragio, si trovava di fronte alle isole Pedagne, ed è ancora chiamata la Roccia del Cavallo. Una torre vicina porta lo stesso nome, e vi si trova, scolpito sulla porta, un calice con l'ostia. 73 Interrompo qui i dettagli storici su Brindisi: li riprenderò forse più avanti, con alcuni dettagli della città e dei suoi dintorni. Il corriere, così impazientemente atteso, è finalmente arrivato. Don Pippo è venuto, desideroso di portarci la lettera dell'ambasciatore francese indirizzata a noi, da cui abbiamo appreso che il tribunale sanitario generale stabilito a Napoli, da cui partono tutte le decisioni amministrative relative ai porti del regno (1), aveva gentilmente ridotto la nostra quarantena a ventotto giorni, a partire da quello della ____________________________________ (1) - Ogni porto marittimo ha il suo ufficio sanitario; ma non ci sono in tutto il regno, che una trentina di deputazioni, che hanno la facoltà di ricevere i vascelli soggetti a quarantena. Questo è il motivo per cui non siamo stati ricevuti a Otranto. Vengono versati, agli ufficiali della salute, dei contributi sulla visita delle imbarcazioni in quarantena e sulla registrazione dei documenti alla partenza. L'ammontare di queste tasse è valutato in mille ducati per ogni deputazione. 74 nostra partenza da Corfù; le nostre sofferenze si erano così ridotte ad un'altra settimana di attesa. Era necessario un certificato, firmato dal proprietario della barca, dai passeggeri e dall'equipaggio, per accertare quella data, e ne abbiamo incaricato don Pippo, il nostro zelante intermediario in tutti i nostri affari. Non appena gli altri nostri amici hanno saputo che stavamo per ottenere la nostra libertà, sono venuti a congratularsi con noi e ad offrirci ospitalità nelle loro case, dove era stata predisposta una foresteria per riceverci. Rispondendo, come dovevamo, a questo segno di benevolenza, noi lo abbiamo cortesemente rifiutato, avendo già dato incarico al nostro buon connazionale di affittarci una casa in città. Non esiste una sola locanda a Brindisi; l’ospitalità vi è esercitata con una franchezza e un disinteresse degno dei tempi antichi. Le persone benestanti organizzano un padiglione o un appartamento nella loro casa, dandogli il nome di foresteria: è destinato a ricevere 75 forestieri o viaggiatori; ed ivi praticano a tutti loro le virtù dell'ospitalità. Questa usanza è generale in gran parte del Regno di Napoli; anche nei villaggi, si trovano edifici destinati allo stesso uso dei caravanserragli dell'Oriente e delle ostellerie della Spagna. Questi edifici offrono di solito un grande cortile circondato da un porticato coperto dove si riparano cavalli, muli o bovini. Nel centro di questo cortile, c'è un pozzo con abbeveratoi di pietra; il primo piano è diviso in stanze dove si trovano materassini o tavole per sdraiarsi. Per quanto riguarda gli approvvigionamenti, si è costretti a portarseli dietro per il viaggio, o a procurarseli nelle fattorie. 76 LETTERA VIII. Soggiorno a Brindisi. - Antica casa di piacere. - Monumenti, tombe. - Mura della città, castello. Fontana di Tancredi. Brindisi, settembre. Siamo scesi dalla nostra barca per non più tornaci, faremo solo un'ultima apparizione all'ufficio della salute. La contumacia del vascello veneziano aveva gli stessi tempi della nostra. Tutti i nostri conoscenti erano riuniti sulla riva e ricevemmo le loro congratulazioni, senza tuttavia avvicinarci a loro, perché prima di entrare in seno alla società, dovevamo subire la visita del medico del lazzaretto. Questo si limitò a constatare il buon stato della nostra salute, a sentire il nostro polso, accelerato dalla gioia, e dopo aver dichiarato che non avevamo alcuna malattia contagiosa, ci autorizzò alla fine a comunicare con i nostri amici, ed a ricevere le testimonianze della loro soddisfazione. Abbiamo anche baciato con tenerezza il nostro 77 buon capitano, ed i marinai che avevano formato così a lungo la nostra società più intima. Meno sensibili di noi alle privazioni, hanno sempre cercato, coi loro servizi obbligati e attenti, di farci dimenticare il rigore e l'amarezza della nostra situazione. Noi scorgevamo nei loro modi rustici un fondo di bonomia e persino sensibilità; il loro francese rozzo e improvvisato contrastava vivamente con le maniere melensi e cortesi, ma fredde e dispregiative dei deputati della Sanità. Noi perdonammo, tuttavia, i loro severi procedimenti; ci piace credere che il loro fosse solo un eccesso di zelo nell'adempiere alle loro importanti funzioni. La folla ci ha seguiti fino a casa nostra. Don Pippo aveva preparato spuntini e rinfreschi di ogni tipo, e non abbiamo lasciato la compagnia che ci aveva portati fin lì, senza aver risposto ai numerosi brindisi fatti a nostro favore. Sappiamo che il nome di questa città esprime in tutta Italia i desideri che formiamo quando si beve alla salute di qualcuno. La parola brindisi deriva dall'abbondanza e dall'ottima qualità dei 78 vini brindisini, dalla propensione dei suoi abitanti ai piaceri di Bacco o da una società che aveva introdotto l'abitudine di improvvisare alcune rime ad ogni bicchiere di vino da bere; uso che esiste ancora in poche città d'Italia e forse anche da Roma. Uno studioso antiquario di Brindisi dà a questa parola un'etimologia più nobile e antica: la fa risalire di nuovo ai Romani che usavano l'espressione brindisi o brindare, accompagnando i loro genitori o gli amici fino a Brindisi, o nel riceverli al loro ritorno, come addio, auguri per il viaggio, e arrivederci (1). ______________________________________ (1) - Aulo Gellio cita così: Cum e Graecia in Ilaliam rediremus et Brundusium iremus: egressique e navi in terram in portu illo inclito spatiaremus. In una nota di viaggio del Barone di Riedesell si fa derivare la parola brindisi dal tedesco "ich bringdirs" espressione equivalente al "tibi propino" dei latini, che si usava dire bevendo in gruppo. Gli italiani pensano che l'uso di dire fare un brindisi, bevendo dalla salute di qualcuno, è equivalente a queste parole: arrivederci a Brindisi, che si pronunciano partendo. Francesco Redi è di questa opinione nel suo Bacco in Toscana: Io gir men voglio 79 Dopo molti brindisi, la compagnia si ritirò per farci godere in pace questi primi momenti di libertà, così preziosi dopo tanto tempo di cattività. Solo allora abbiamo assaporato la dolcezza di un'esistenza indipendente, e, nelle effusioni dell'amicizia, abbiamo potuto sbizzarrirci, con aspettative di successo, a progetti piacevoli per il resto del nostro viaggio. _____________________________________ Per mio gentil diporto, Conforme io soglio, Di Brindisi nel porto, Purchè sia carca Di brindisevol merce Questa mia barca. Su voghiamo, Navighiamo, Navighiamo infino a Brindisi: Arïanna, Brindis, Brindisi. Inoltre, questa espressione era usata dai Romani, come testimoniano questi versetti di Plauto: Poegnium, tarde cyathos mihi das, cedo sanè; Bene mihi, bene vobis, bene amicae meae. E penso ancora che risalga al tempo dei crociati, che consideravano il porto di Brindisi come il loro punto di riunione generale. 80 La nostra immaginazione era esaltata e, seguendo il nostro percorso sulla mappa, abbiamo divorato in anticipo lo spazio che ci separava da Napoli e da Roma. Non potevamo tuttavia rifiutarci ai desideri impazienti dei nostri amici che cercavano di trattenerci con pressioni gentili. Don Pippo, per distrarci dall'inevitabile tristezza, ci procurava oltre il necessario; il superfluo era presente in tutte le sue disposizioni: potevamo godere di un piccolo giardino dove maturavano il moscato, il fico e il melograno. Il nostro amico stava organizzando per noi un lungo soggiorno in questo paese; ci prometteva, fra vari divertimenti e piaceri, l'esplorazione di questa costa, poco nota ai viaggiatori, fornendoci un abbondante raccolta di studi pittoreschi e curiose ricerche. Impazienti di utilizzare la facoltà che avevamo di andare, venire e camminare in libertà e per soddisfare un primo moto di avida curiosità, abbiamo percorso la città in tutte le direzioni senza mettere nessun ordine nel nostro cammino. Dopo essere stati così a lungo costretti in una barca senza poter fare qualsiasi 81 esercizio, la dimensione dei luoghi e la lunghezza delle strade ci sono sembrate immense; alla più piccola novità emettevamo un'esclamazione di gioia o di sorpresa; la vista della campagna produceva su di noi un delizioso effetto. Questo gusto particolare è stato favorito in noi dalla visita ai resti di una casa di piacere che offriva uno spettacolo degno di tutta l'attenzione di artisti e amanti dell'antichità. Infatti, anche se gli edifici erano caduti in rovina, ed i giardini erano abbandonati alla cura della natura che vi era tornata in tutti i suoi diritti, non eravamo meno sorpresi che incantati nel riconoscere in questo luogo le caratteristiche principali di un'antica villa. Probabilmente queste caratteristiche le sono rimaste in quanto essa è appartenuta, fino ai primi secoli della nostra era, a famiglie benestanti, che, con qualche amorevole piccolo cambiamento, vi avevano goduto gli stessi benefici e gli stessi piaceri dei loro antenati, e non sono mai stati tentati di cambiare qualcosa nell'ordine e nell'antica distribuzione dei locali. 82 Essa non segue un piano molto regolare, approfittando semplicemente delle disuguaglianze del terreno, che supportano, in alcuni luoghi, delle terrazze in cui si trovano stanze basse, a volta, adornate da stucchi e dipinti, che servivano ai vecchi proprietari, e che potrebbero ancora essere usate come ritiro, durante il grande caldo. Quella che sembrava meglio conservata era un'ampia passeggiata (ambulacrum), ombreggiata da una vite molto antica, a giudicare dalle dimensioni dei ceppi, e che sorge e corre lungo dei pilastri di marmo. La maggior parte dei capitelli aveva la forma, molto singolare, di un cestino quadrato, sulle cui facce erano scolpiti in rilievo scene di agricoltura, o animali, come pecore, capre, ecc. Alcuni di questi capitelli, in cui si riconosceva uno stile di restaurazione visibilmente moderno, facevano meglio giudicare l'antichità degli altri. Ci è stato indicato un pilastro di marmo, di circa due piedi quadrati, e di una forma davvero singolare. Era cavo all'interno, dove mostra gli scaffali di una biblioteca, con montanti e 83 mensole di tre pollici di spessore; nel mezzo e sopra ciascuna mensola erano praticati due solchi abbastanza profondi. Questo bellissimo pezzo di marmo, alto dai sette agli otto piedi, era posto in giardino di fronte a un pergolato. Per cosa era usato? Abbiamo fatto questa domanda al proprietario, che ha risposto, senza esitazione, che ciascuna delle scatole doveva contenere un alveare, e che i solchi dovevano servire come entrata per le api. Era questa una sua opinione personale, o un residuo di tradizione di cui era solo il propagatore? Non ve lo so dire. Altri pensavano seriamente che ognuna di queste scatole serviva per mettere un formaggio che gocciolava nei solchi o che contenesse anfore o brocche di olio, ecc. Ma in queste ultime ipotesi, questo marmo sarebbe stato molto meglio metterlo in cantina, invece che nel giardino, in cui sembrava essere stato fondato e non portato per caso; argomento di discussione per archeologi. Una vasca di forma piuttosto bella, sostenuta da una base decorata con sculture molto degradate, ma che occupa ancora il centro di un 84 bacino, ci ha indicato molto chiaramente una fontana, la cui acqua però non arriva più all'altezza della vasca, ma si sta diffondendo intorno, e rende fortemente umida questa parte del giardino. Un gran numero di sezioni di colonne di marmo, alcune riccamente decorate con larghe foglie di alloro poste a guscio e circondate da una corda a spirale, altre scanalate e rigonfie, ad un quarto della loro altezza, con un ornamento di foglie di acanto, molti frammenti di marmo lavorato con delicatezza, non ci permettevano di dubitare che stavamo calpestando il terreno dell'antica casa delle delizie di un facoltoso romano che, ai tempi del declino della Repubblica e dei primi Cesari, vennero su questa costa per un ritiro più sicuro e favorevole, al minimo pericolo, ad un passaggio, con una parte dei loro tesori, nelle proprietà che avevano in Grecia e in Asia (1). Quando siamo tornati in città, ci hanno mostrato delle antiche tombe che erano state trovate scavando il terreno, e molte altre di cui le rovine si ergevano ancora sopra la sua superficie. Dopo aver costeggiato il cammino spesso interrotto 85 delle vecchie mura, abbiamo visto il castello, le cui torrette sono spesso ombreggiate dalle nuvole di corvi che ne sono gli unici abitanti. Ci hanno parlato, con compiacimento, dei lunghi assedi sostenuti da queste fortificazioni, e ci è stata indicata la loro solida costruzione composta da pietre perfettamente unite, che sembrano aver stancato i tempi. Da questo lato (al tramonto), Cesare avrebbe assediato Pompeo, e lui stesso non sarebbe entrato in città se gli abitanti non gli avessero aperto le porte. Di fronte a queste stesse mura, i Greci, sotto la guida del valente Giovanni Ducas, generale dell'imperatore Manuele I Comneno, vennero ad accamparsi nel 1155, il giorno prima di Pasqua; sotto il pretesto delle feste, vi rimasero diversi giorni in inattività per osservare da _____________________________________ (1) - Ho conservato solo una traccia confusa di questa villa e di tutti gli oggetti che vi ho visto; e sebbene li abbia disegnati, questi schizzi sono troppo imperfetti per mostrarli qui. Mi ero proposto di tornare al sito per farne una pianta dettagliata. Vedremo presto cosa mi ha impedito di eseguire questo progetto. 86 vicino le forti mura dalle quali non potevano strappare una sola pietra, anche usando la più potente macchina da guerra. I loro vari tentativi di offesa risultarono vani; perciò i greci si misero a scavare fino in fondo alle fondamenta delle mura, dando poi fuoco ai puntelli che avevano sostenuto la terra durante gli scavi. Quindi il muro crollò trascinando giù chi lo difendeva. Il nemico, tuttavia, non potette espugnare la fortezza; glielo impedì una seconda costruzione che resistette a tutti i suoi sforzi. Non lontano da qui, mi sono fermato per disegnare una vecchia fontana, detta Appiana, o grande fontana, ed ora Fontana di Tancredi (Fig. 3). Alcuni la attribuiscono ad Appio il cieco, altri a Traiano, e ne fanno risalire la costruzione allo stesso periodo dell'antica via che conduce alla città da questa parte. Questa fontana ha due riserve quadrate (1), _____________________________________ (1) - Ne ho indicata solo una nel mio disegno; la seconda si trova dall'altra parte. Il cartello e le iscrizioni occupano il centro del muro tra i due serbatoi. 87 Figura 3 88 aperte da un'arcata, con un tetto piramidale in pietra. Queste riserve sono alle estremità di un grande muro e sono unite da un canale, che serve da abbeveratoio per il bestiame, formando con questi il corpo di tutto l'edificio. Gli ornamenti del cartello e le iscrizioni che vediamo in mezzo al muro, visibilmente posti dopo, non risalgono al periodo indicato nelle iscrizioni, e non rispettano il piano generale dell'edificio. Respingendo l'opinione che attribuisce a Tancredi o a Ruggero suo figlio la costruzione di questo monumento, crediamo di riconoscevi uno stile più antico, e non quello che contraddistingue le opere dei principi normanni. Un acquedotto sotterraneo che spesso va a grande profondità, e dopo aver fatto una lunga deviazione, porta a questa fontana le acque del Cerano, un piccolo fiume a sette miglia di distanza dalla città, conferma il nostro modo di vedere; quest'opera, notevole per la sua audacia e solidità, è degna degli antichi, ai quali giustamente la attribuiamo. Nel 1618 venne nominato governatore di Brindisi un illustre benefattore: Pietro Aloisio de Torres. Egli usò 89 la fontana di Tancredi come una torre d'acqua; per mezzo di un nuovo acquedotto che passa sotto la torre di San Giorgio, alimentò diverse altre fontane costruite all'interno della città e sul porto. L'acqua è, secondo i medici, la migliore del paese; essa è sempre molto abbondante e non si è mai esaurita, nemmeno durante le grandi siccità che prosciugavano i pozzi e le altre fonti dei dintorni. Rientrando in città dal molo settentrionale del porto, abbiamo assistito ad una scena la cui descrizione fornirà materiale per la prossima lettera. 90 LETTERA IX. Tarantola, effetti del suo pungiglione. Guarigione dal tarantismo con la danza. Formalità osservate a tale riguardo. - Storia della malattia. Si è spesso messo in dubbio l'uso bizzarro della danza, per diversi giorni di seguito, con il pretesto di guarire le persone che sono state o che pensano di essere state punte dalla tarantola. Abbiamo appena assistito a questa pratica e posso quindi affermarne l'esistenza, senza tuttavia garantirne i risultati. Sappiamo che la tarantola è una specie di ragno che prende il nome dalla città di Taranto, dove è, dicono, molto comune. Lo si trova in alcuni altri cantoni del regno di Napoli; ma quello della Puglia è il più pericoloso, soprattutto durante l'estate. Si sostiene che dopo essere stato punto, il paziente non impiega molto a cadere in una profonda malinconia, e muore, a meno che non lo si soccorra. Di tutti i 91 rimedi in uso, il più efficace e persino l'unico che guarisca completamente è la musica. La puntura della tarantola è mortale? Non c'è cura per questa diversa dai suoni armonici e dalla pratica della danza, o il pericolo esiste solo nell'immaginazione degli ammalati? Se si consultano gli abitanti del paese, questi rispondono affermativamente alle prime due domande, e diverse opere accademiche possono fornire nozioni molto ampie su questo argomento. Per quanto riguarda l'ultima proposizione, sembra confermata l'opinione di quelli che credono che il pungiglione del grasso ragno sia una favola, e la maggior parte di coloro che credono di soffrirne, sono invece affetti da una specie di mania malinconica, i cui sintomi possono essere dissipati temporaneamente, se non curati del tutto, da un esercizio violento e dai suoni della musica. Anche gli antichi consideravano la musica come la cura più pulita per calmare l'effervescenza del sangue e l'acredine di alcuni stati d'animo (1), e quando questa risorsa era impotente, si ricorreva agli incantesimi, a cui la 92 moltitudine attribuisce ancora grande fiducia. Sappiamo dagli epigrammi di Asclepiade, che egli aveva liberato l'arte della guarigione da queste puerilità superstiziose. Tuttavia, i moderni prestano ancora un pò di fede all'efficacia della musica come rimedio calmante: se ne citano alcuni esempi, tra cui quello del famoso musicista J. Berryat, che la febbre continua aveva gettato nel delirio. Questi, nel calore dell'accesso, chiese di ascoltare un concerto. Alcuni amici presenti gli suonarono una cantata di Bernier; dai primi accordi, la faccia del paziente si fece serena, i suoi occhi calmi, le convulsioni si fermarono, versò lacrime di piacere; non appena ebbero finito, egli tornò nel suo stato precedente. Bisognava continuare con l'uso di un rimedio il cui successo era talmente felice. La febbre e _____________________________________ (1) - Secondo Vitruvio, la musica dovrebbe essere studiata da medici, architetti, ecc. I suoi effetti ammirevoli sono noti fin dai tempi di Saul. Platone, Aristotele, Dionigi di Alicarnasso, Diodoro di Sicilia, Pitagora e Aulo Gellio ne fanno menzione, e l'ultimo parla di medici musicisti. 93 il delirio erano sospesi durante i concerti, e l'ammalato riceveva un tale sollievo dalla musica, che fece cantare e anche ballare giorno e notte i suoi genitori e persino la sua guardia. Torniamo al tarantismo e ai suoi sintomi. La malattia attribuita al pungiglione della tarantola potrebbe essere anche causata dalla natura del clima, dall'aridità del suolo, dalla scarsità dei boschi e dal calore eccessivo. In effetti, queste cause tendono a sviluppare e a rendere pericolose molte altre indisposizioni; è risaputo che l'idrofobia regna dentro la Puglia più che altrove; l'umidità dell'aria calda e la sua gravità durante l'estate, possono far sì che piccole malattie diventino mortali in questo paese. Ma il tarantismo, che credevamo l'effetto di uno spirito colpito, non è meno reale, secondo l'opinione dei medici; e queste sono le ragioni per cui non lo si può prendere con leggerezza: uno che è stato punto dalla tarantola cade rapidamente in uno stato di profonda malinconia e assoluto sconforto; la sua faccia assume un aspetto cadaverico, il suo respiro è molto difficile, ha ansia e languore allo 94 stomaco, le sue membra si raffreddano, il suo corpo traspira un sudore gelido e gelatinoso, i suoi occhi, fissi e immobili, sono coperti da una nuvola, il suo respiro e il suo polso diventano sempre più deboli, la conoscenza diminuisce; alla fine, perde ogni sentimento e muore, se non gli è stato dato aiuto in tempo (1). Naturalmente, non si può fingere un tale stato e non si dovrebbe sospettare di frode la persona malata, a meno che non ci sia un certo vantaggio: questa malattia fa molto male, specialmente alle ragazze, per la loro costituzione; inoltre, il rimedio della musica è piuttosto costoso, bisogna pagare almeno un ducato al giorno ai musicisti, senza contare il dottore, ed il paziente balla per quattro e fino a _____________________________________ (1) - Tra i fatti autentici raccolti dai medici nella la provincia di Lecce, citiamo quello di un uomo di San Vito, tale Giovanni di Tommaso, sul quale il tarantismo produceva, oltre agli altri sintomi ordinari, il priapismo più violento: Onde per impedirgli che facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle mani legate. 95 sette giorni di seguito. Inoltre, questo esercizio, invece di rendere le ragazze e le donne più gradevoli, le deturpa; alcune, molto belle prima, sono diventate in tale occasione molto sgradevoli; infine, si ha opinione che il male sia periodico e che ritorni ogni anno fino alla vecchiaia: c'è molta cura, nelle famiglie di classe elevata, di nascondere al pubblico la conoscenza di un tale incidente; se una ragazza è punta della tarantola, la si fa ballare in un posto lontano dagli sguardi di tutti. Non è quindi né per interesse né per piacere che si fa ricorso a un rimedio costoso, che scredita così tanto coloro che ne fanno uso, che a Taranto e in altre città della Puglia, quando si sa che una donna è stata colpita dal tarantismo e che ha ballato per guarire sé stessa, si crede di farle ingiuria venendo a cantare sotto le sue finestre i brani dedicati alla guarigione della sua malattia. Qui si ha l'opinione che i pazienti fuggano la società, cerchino l'acqua con avidità e vi si precipitino, anche se sono guardati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da 96 oggetti dai colori molto vivaci. Ma non ho notato la loro presunta antipatia per il blu e per il nero. I nostri vestiti blu e i nostri cappelli neri non sembrano aver fatto la minima impressione sulla paziente di cui parlerò, o sugli spettatori, che ci hanno anche invitato a ballare con lei. Si sa comunemente che quando l'individuo affetto abbia perso i sensi, venga chiamato un musicista che prova diverse melodie molto allegre su uno strumento, e quando ha incontrato quella che piace al paziente, si veda immediatamente quest'ultimo muoversi in cadenza, alzarsi e mettersi a ballare. Ci è stato detto che le arie utilizzate per guarire il tarantismo sono state per molto tempo sempre le stesse, e che all'inizio erano suonate molto lentamente e gradualmente divennero molto vivaci e rapide, come avrete occasione di giudicare, avendo incaricato uno dei musicisti di scriverle e darmene una copia. Lascio questi dettagli, che tuttavia ho creduto necessari, e riprendo la mia narrazione, che presenterà i fatti in un modo più veloce e più 97 pittoresco, e soprattutto nello stesso ordine che avevano colpendo i miei occhi. Passando sulla banchina del molo, siamo stati fermati da una folla, che si precipitava alla porta di una casa dove si sentiva della musica. Ci hanno fatto spazio e siamo stati invitati ad entrare in una stanza bassa che serviva da diversi anni per allestirvi le formalità teatrali da osservare per la cura del tarantismo. Le pareti di questa vasta stanza erano adornate con ghirlande di foglie, bouquets e piante di vite cariche dei loro frutti. C'erano anche, sospesi equidistanti, dei piccoli specchi e nastri di tutti i colori; una grande compagnia era seduta in giro nella stanza, e l'orchestra ne occupava uno degli angoli: era composta da un violino, un basso, una chitarra e una grancassa. C'era una donna che ballava: non aveva che venticinque anni, ma noi gliene avremmo dati quaranta; le sue caratteristiche regolari ma alterate da un'eccessiva emaciazione, i suoi occhi spenti e la fisionomia triste e abbattuta, erano in contrasto con il suo ornato, molto ricercato e variegato, di nastri e pizzi di oro e 98 argento; le trecce dei suoi capelli erano sciolte e un velo bianco di garza cadeva sulle sue spalle; lei stava ballando senza lasciare la terra, con nonchalance, girando costantemente su se stessa, molto lentamente; le sue mani stringevano le estremità di un fazzoletto di seta, che ondeggiava sulla sua testa, che ha rovesciato indietro alcune volte: in tal modo, essa ci offriva la posa delle baccanti che si vedono su alcuni antichi bassorilievi. L'aria che veniva suonata in quel momento era languida, trascinava le cadenze e si ripeteva da capo fino alla sazietà. Quindi il motivo è cambiato senza interrompere la misura; questo era meno lento, e un terzo è diventato più vivace, svelto e saltellante. Questi pezzi di musica formavano una successione a rondò, o ciò che chiamiamo pot-pourri. Si passava alternativamente dall'uno all'altro, tornando finalmente al primo, per dare un pó di riposo alla ballerina permetterle di rallentare i suoi passi, senza smettere di ballare; essa seguiva il movimento della musica, e come questo si animava, lei si agitava e girava con più vivacità; 99 ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra scolorite, la tristezza era sempre stampata nei suoi occhi, a volte diretti verso il soffitto, più spesso a terra, o mossi a caso senza fissarsi su nulla, anche se abbiamo cercato di distrarla in tutti i modi. Gli offrivano fiori e frutta; li teneva per un momento nelle sue mani, e poi li gettava; gli presentavano anche fazzoletti di seta di diversi colori; essa li scambiava con i suoi, li agitava in aria per qualche istante, e poi tornava a riprendere gli altri. Parecchie donne della compagnia hanno successivamente figurato e ballato con lei in modo da attirare la sua attenzione, e per ispirarla con gaiezza, senza tuttavia avere successo. L'esercizio violento che essa sembrava prendere contro voglia, ma per una naturale spinta irresistibile, dovette stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua fronte; il suo petto ansimava e ci fu detto che questo stato sarebbe terminato con una sospensione totale delle facoltà; che poi bisognava portarla a letto, e che il giorno dopo, quando si svegliava, avrebbe ricominciato a ballare, e che si sarebbe usato lo stesso rimedio 100 per i giorni seguenti, finché non le procurava sollievo. Questo spettacolo nascondeva qualcosa di doloroso, e mi ha profondamente commosso quando ho appreso la storia di questa interessante ammalata. Non era stata punta dalla tarantola, sebbene ne fosse convinta; e la si lasciava nel suo errore per nasconderle o farle dimenticare la vera causa della sua condizione, e per non toglierle alcuna speranza di guarigione. Ginevra era il nome della ragazza, ed ecco l'origine della sua alienazione. A vent'anni, senza essere la ragazza più carina della sua età, essa si faceva notare per una fisionomia piccante e molto espressiva; la sua bocca era rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di fuoco; il suo corpo era fatto più di flessibilità e di abbandono che di grazia; il suo carattere, sebbene buono e sensibile, era ineguale; spesso gioiosa fino al delirio, si abbandonava poi ad una vaga tristezza, senza motivo; esagerata in tutti i suoi sentimenti, spingeva l'amicizia per le sue compagne fino all'eroismo, e la sua 101 indifferenza per gli uomini fino al disprezzo: era anche prevedibile che se avesse amato una volta, sarebbe stato fortemente e per la vita. A venti anni la sua ora non era ancora arrivata: essa ha suonato troppo presto per sua disgrazia. Un giorno stava camminando coi suoi pensieri malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica; l'aria era stata raffreddata da una tempesta, ed il mare ancora agitato rovesciava le sue onde sulla riva. Una barca mezzo distrutta era appena approdata lì: conteneva un solo uomo. Partito dal porto di Durazzo per tendere le sue reti, verso la metà del canale una folata di vento gli aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto tra le sue mani e, in balia delle onde, la sua barca era stata gettata sulle rive dell'Italia. Esaurito dalla fatica, morendo di bisogno, deplorava la sua disgrazia, quando la ragazza si fece avanti, gli diede una mano e si offrì di portarlo a casa di sua madre, che esercitò su di lui con entusiasmo i doveri dell'ospitalità. Quest’albanese era giovane; era infelice; sembrava ragionevole e riconoscente: Ginevra credette di abbandonarsi al puro piacere che la 102 beneficenza procura, ma l'amore si stava già insinuando nel suo cuore con i tratti della pietà. Tuttavia il giovane albanese, combattuto fra il desiderio di rivedere il suo paese ed il tenero interesse che lo univa alla sua benefattrice, finalmente parla della sua partenza. A queste parole, come un tratto di luce colpisce Ginevra, chiarendole i suoi sentimenti; lei riconosce l'amore attraverso l'angoscia che le fa sentire l'idea della separazione, che era lontana dal suo pensiero; onesta ma appassionata, non essendo più in grado di nascondere il suo problema, lei lo lascia esplodere in tutta la violenza dei suoi sentimenti; ma esige da questo straniero che adora, il sacrificio dei legami indissolubili che lo legano al suo paese. Senza esitare, egli acconsente. Allora lei stessa sollecita la sua partenza dall'Italia, dove non può stabilirsi senza aver prima consultato la sua famiglia. Viene così fissato il giorno del suo ritorno, e Ginevra deve aspettarlo sulla costa, nel luogo stesso in cui gli ha salvato la vita. Fiduciosa nella sua parola, lei vi si reca molto prima del tempo concordato; lei conta gli 103 istanti, nel loro fluire con una lentezza disperata. Tuttavia, il sole sta già tramontando: preoccupata, lei cammina sulla riva, con gli occhi rivolti verso il mare, interrogando le onde; il più leggero respiro di vento, la minima nube le fanno temere una nuova tempesta. Il giorno scende, il suo cuore si stringe, e il crepuscolo, di cui la natura si copre, oscura e disturba le sue idee; infine, scopre un punto nero all'orizzonte; si sta avvicinando; è una barca; lei corre verso la cima della scogliera ed agita un velo cremisi, il segnale concordato. Lo stesso segnale è attaccato all'albero maestro della barca: non c'è più dubbio, questa barca le porta il suo amante. In effetti, il felice albanese si era imbarcato in una barca a remi decorata con tutti gli attributi della gioia. Gli alberi erano addobbati e le vele di un bianco brillante. Dei musicisti seduti sulla panca di poppa, facevano risuonare la riva di accenti felici; la sua famiglia albanese, stava per partire per stabilirsi nel paese di sua moglie, conferendo a Ginevra, per la cura e la felicità del figlio, la loro modesta fortuna e l'arredamento necessario per la giovane coppia. 104 La barca avanza come in trionfo verso le coste dell'Italia: già il suono degli strumenti arriva all'orecchio di Ginevra toccando la superficie ondulata del mare, calma le sue preoccupazioni e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. La barca si avvicina: l'amore rende i suoi occhi più grandi e penetranti; lei distingue, riconosce suo marito che tende le sue braccia; lei pensa di sentirlo, e questa illusione rapisce una sua risposta. Ma improvvisamente suona in aria un suono sinistro; una galera barbarica esce da dietro uno spuntone di roccia che la nascondeva alla vista di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo, cadendo tutti insieme e le danno un movimento veloce. Come un avvoltoio che aleggia sull'aria, si dirige verso la sua preda. A questa vista, non meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un cupo torpore; lo spavento incatena le sue facoltà, solo i suoi occhi mostrano un segno di vita: essi seguono i movimenti contrari delle due barche. La delicata barca a remi fugge e grida di spavento e di dolore fanno seguito agli accenti 105 gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese è impegnato, con i suoi compagni ad opporre una vana resistenza…. Le ombre della notte si avvolgono su questa scena di desolazione, sottraendola agli sguardi dell'infelice Ginevra che cade inanimata sulla riva. Molto tempo dopo, lei esce da un sonno profondo: apre gli occhi, ma la luminosità del giorno glieli fa chiudere subito. Lei non può muovere le sue membra, irrigidite dal freddo della notte. Comunque le sue idee, dapprima confuse, ripercorrono la scena del giorno prima; quindi, disorientata, fa risuonare la costa con il suo grido di disperazione; lei percorre con gli occhi l'estensione del canale; nessuna barca sta attraversando la sua superficie; non c'è più felicità o speranza per lei; i suoi sensi sono sconvolti, la sua mente è persa e dalla cima della roccia precipita nel mare. Dei pescatori la vedono, si affrettano a venire in suo aiuto e la portano via a casa di sua madre. Questo atto di disperazione fu seguito da una lunga apatia ed una crisi che degenerò nell'alienazione della sua mente. Ginevra aveva 106 dimenticato la causa dei suoi dolori; lei l'ha attribuita alla puntura della tarantola. Le fu mantenuta questa idea facendole sperare che l'esercizio della danza e gli accordi della musica placassero l'agitazione dei suoi sensi, guarendola infine da questa mania malinconica. 107 LETTERA X. Usi e costumi degli abitanti di Brindisi. Monumenti medievali. - Frammenti e statue antiche. - La palma di Pontano. Meno curiosi di conoscere la città di Brindisi, per distinguere le tracce del vecchio Brundusium in mezzo alle sue costruzioni moderne o medievali, eravamo anche meno desiderosi di comunicare con i suoi abitanti di cui non saremmo stati in grado di evocare lo spirito dei degli antenati. Ma, come si dice "vivere con i vivi" e quindi ci siamo risolti a fare alcune visite. Abbiamo iniziato con il governatore di Brindisi; esso non poteva riceverci, essendo nell'accesso di una febbre ostinata. Siamo stati poi condotti dall'arcivescovo: era anch'egli ammalato ed era stato portato in campagna. Ne siamo rimasti un pó contrariati, perché ci era stato presentato come un uomo di tutto rispetto, studioso, 108 dilettante delle arti e possessore di un gabinetto molto ricco di oggetti di antiquariato. Ci restava solo la risorsa dei conventi per avere un'idea della società brindisina. Non preoccupatevi di questa affermazione, presto smetterò di sorprendervi. Chiostro e società: queste due espressioni erano precedentemente incompatibili; non lo sono state più da allora; i gesuiti hanno dato al loro ordine il titolo di società, ed hanno operato una sorta di rivoluzione nei monasteri che sembrano, a partire da quel momento, essere divenuti asilo di tolleranza, gentilezza e piaceri decenti. I religiosi, senza perdere la dignità del loro stato, hanno assunto il tono e le buone maniere della buona compagnia. Questo cambiamento è particolarmente sensibile a Brindisi dove, senza esagerare, la metà degli abitanti della città abita i conventi (1). La ragione è semplice: in un posto dove non c'è né industria né commercio, quindi con poche ricchezze, e dove si è esposti, durante tre quarti dell'anno, a malattie ostinate, si dovrebbe 109 preferire la vita in comunità a quella famigliare: è molto meno costosa ed offre risorse molto più grandi. Inoltre i monasteri hanno un reddito fisso, e proprietà amministrate con ordine e che, essendo inalienabili, sono al sicuro dagli eventi che spesso minacciano la fortuna dei privati. L'esiguità dei mezzi della maggior parte delle famiglie, non permette loro di concedersi i costosi piaceri della società. I conventi vi suppliscono; vi si trova accoglienza e numerosa compagnia; vi si praticano diversi tipi di giochi; vi si fa musica; in una parola, i parlatori diventano veri e propri salotti, dove ci si può liberare dall'imbarazzo delle formalità. Non stupitevi se i giovani, che sono cresciuti fin ______________________________________ (1) - Ci sono diversi monasteri e congregazioni di donne nobili, sotto la regola di San Benedetto e San Francesco; dai conventi degli Agostiniani, Domenicani, Minimi, Carmelitani Scalzi, Cappuccini di San Francesco; un conservatorio di giovani donne e signore; un collegio di padri delle Scuole Pie; un vasto seminario; infine sei confraternite; e la popolazione non sale che a 6000 anime. 110 dall'infanzia in un luogo che ha solo il nome di convento senza averne l'austerità, lo preferiscano ad un mondo che non conoscono, e perfino alla casa paterna. In effetti, essi non godrebbero di alcuno dei servizi che questi ritiri religiosi offrono loro, e dell'attraente opportunità di poter decidere di pronunciare, dall'età di quattordici anni, i voti che dovrebbero fornire loro, per il resto della vita, almeno una esistenza assicurata, se non del tutto indipendente. Perciò, il primogenito della famiglia, destinato a perpetuarne il nome, eredita la totalità del patrimonio; e i cadetti, limitati aduna più ristretta legittima, entrano in qualche comunità, o partono con il mantello e la spada, in cerca di fortuna altrove. Abbiamo visitato diversi conventi di donne. Non appena eravamo annunciati, esse si accalcavano numerose in parlatorio, mostrando molta impazienza di vedere i francesi. Ci rivolgevano domande così insignificanti quanto le nostre risposte; una musica deliziosa è venuta 111 in nostro soccorso. Credo che solo nei chiostri si sentano simili voci. I mottetti e gli inni, cantati con un assieme perfetto, accompagnato da un clavicembalo e altri strumenti, ha prodotto un effetto straordinario; ci sembrava di sentire un concerto eseguito da degli angeli sospesi in aria. Rinfreschi e ricercata delicatezza sono stati profusi su di noi, e siamo venuti fuori da questi monasteri con alcune idee carine. Ci è parso di scorgere su alcune fisionomie, tracce di costrizione, di noia e talvolta di allegria forzata; ma forse questa osservazione era l'effetto di una vecchia prevenzione, perché, in generale, queste suore ci sembravano contente del loro destino. Il loro stesso costume sembrava in contrasto con i loro modi, e questo le rendeva quasi tutte fortemente attraenti. Abbiamo detto che la città è povera; anche l'interno è triste e silenzioso. È quasi senza negozi, e quei pochi che si vedono contengono solo generi di prima necessità. Se si vuole ottenere un oggetto di lusso, questo deve essere 112 fatto venire, con grandi spese, da Lecce, Barletta e persino da Napoli. La malattia ha spopolato intere strade. Si vedono qua e là alcune grandi case che qui chiamano palazzi. Sono vuoti e l'erba vi cresce vicino. I proprietari vivono altrove per godere di un'aria più pura e un'esistenza più sicura e meno monotona. Camminando si incontrano poche donne e molti monaci. Abbiamo contato fino a tre carrozze gotiche trascinate da muli; contenevano dei religiosi. Il porto che dovrebbe offrire un'immagine animata dal movimento dei mercanti e delle merci, è tanto poco vivo quanto la città, e attualmente contiene solo il vascello incagliato e alcune barche. I lavori ordinati dal governo languivano; uno di questi occupava solo detenuti forzati, sorvegliati da un numero quasi uguale di soldati, per lo più disabili. Il nutrimento abituale degli uni e degli altri è costituito da cipolle bianche, di cui alcune hanno un diametro di sei pollici. La gente non 113 mangia molto meglio; schiere di mendicanti assalgono le porte di chiese e conventi dove viene distribuita della zuppa. La miseria è così grande e gli ammalati così numerosi, che un ospedale non è sufficiente ed è necessario stabilirne un secondo. Gli abitanti della campagna sembrano godere di una maggiore agiatezza, almeno a giudicare dai vestiti delle loro donne, che sono molto ricercati. In generale, non c'è, credo, nessun paese dove i costumi siano più eleganti e più ricchi che nel regno di Napoli (1); loro variano da cantone a cantone, da villaggio a villaggio, e presentano delle singolarità rimarchevoli che sarebbe troppo lungo descrivere. Alcuni di questi aggiustamenti potrebbero essere usati dalle nostre signorine più eleganti, e di sicuro starebbero loro molto meglio di mode strava______________________________________ (1) - Esistono a Napoli delle collezioni di questi costumi, eseguiti in scala abbastanza grande, e colorati con cura. 114 ganti che ora adottano e che per fortuna non durano più del capriccio di chi le ha fatte nascere. I costumi degli abitanti di Brindisi ci sono sembrati singolari, meno nelle donne, che adottano pressappoco le mode francese e inglese, che negli uomini, che vestono ancora come noi cinquant'anni fa. In effetti, le nostre mode vanno in giro per l'Europa; ma non raggiungono che molto tardi le sue estremità. Parigi è un centro di attività che in questo campo esercita la sua influenza con meno forza man mano che ci si allontana da esso. Questa capitale dell'impero della moda non ne prende, per così dire, che il fiore che va dalla mattina alla sera. Portata nelle province vicine, dura un pò di più; e finalmente, arrivata più tardi nei paesi stranieri, lei prende in qualche modo radice, e vi si acclimata per lungo tempo. Parliamo ora dei principali monumenti di Brindisi. Le chiese sono quasi tutte di stile Normanno; non molto interessanti dal punto di 115 vista artistico, esse sono costruite su fondazioni romane, o con materiali antichi, spesso usati in maniera inadeguata; per esempio, entrando in un portico, abbiamo calpestato un bassorilievo antico di marmo, che, usato come gradino per diversi secoli, si era quasi consumato per attrito: abbiamo comunque riconosciuto nella linea delle figure, una composizione ben concepita e piena di movimento. Per il resto era troppo malridotto per poterne indovinare l'argomento. Abbiamo notato la facciata di una piccola chiesa, anche di costruzione normanna; gli ornamenti, molto numerosi, erano scolpiti con una rara delicatezza ed anche composti con gusto. Diversi campanili erano di una architettura audace ed elegante; ma solo un edificio, abbastanza ben conservato, ci ha offerto lo stile antico in tutta la sua purezza; è aperto in tutta la sua facciata da due grandi portici a tutto sesto, con gli archivolti poggianti su dei piedritti, composti da due dadi, di cui quello inferiore molto più sporgente. Il piano 116 superiore è forato da quattro archi dello stesso stile, coronato da una trabeazione a modiglioni. Lo schizzo allegato (Fig. 4) darà un'idea più precisa di questo monumento, che a noi è sembrato di grande carattere. Abbiamo anche disegnato una figura molto bella in marmo bianco, abbandonata sulla riva, e le cui mani erano state mutilate. Si vede che la testa era stata precedentemente staccata, e si notano le tracce dei ramponi che la legavano al collo. Questa statua (1) è quella di una donna seduta su una specie di tronco d'albero: lei indossa una tunica con piccole pieghe, di tessuto estremamente fine, incrociata sul seno, e stretta sotto da una cintura; un ornamento rotondo, che sembra un medaglione, è appeso al collo da un largo nastro, e le cade nel mezzo del seno; un mantello, arrotolato attorno al braccio sinistro, passa dietro i reni, copre un ginocchio e cade a grandi ______________________________________ (1) - Per una coincidenza esemplare, la ripetizione di questa figura è a Roma. È incisa nel libro intitolato: Museo Pio-Clementino, 1° vol. 117 Figura 4 118 pieghe attorno alla figura; i piedi sono nudi, ma stretti con strisce incrociate che passano tra il pollice e il secondo dito, e sono unite da un ornamento a forma di cuore. Questa figura è di buona fattura: il nudo è ben accentuato attraverso la tunica e l'altro drappeggio è di ottimo gusto. Non mi concedo, per il momento, nessuna riflessione su questa statua che è stata trovata nel porto, insieme ad altri frammenti che consistono in una gamba di tavolo, terminante con una testa di grifone che emerge da alcuni avvolgimenti, di stile molto bello, ed una ciotola, anche in marmo bianco, i cui profili e la forma ci sono sembrati singolari (Fig. 7). Ci vorrebbe molto tempo per disegnare e trasmettere il piano di tutte le rovine che ci circondavano: terme, tombe, mosaici, vecchie mura, alle quali erano state assegnate sontuose denominazioni; qui, la casa dove Virgilio è spirato; vicino, quella dove Cicerone, divorato dalle preoccupazioni e fluttuante tra i due famosi rivali che si disputavano l'impero del mondo, attendeva l'epilogo di quella grande 119 tragedia; più oltre, i resti del palazzo abitato alternativamente da Pompeo e da Cesare; ovunque ricordi, e niente di più. Inoltre, anche se l'interno della città appare triste e desolato, le linee dei fabbricati offerte dalla sua periferia, sono di uno stile bellissimo. Palme e altri alberi alzati qua e là attraverso i vuoti delle case, rendono l'aspetto generale tanto pittoresco quanto gradevole (Fig.6) (1). Queste palme mi ricordano la storia raccontata da Giovanni Pontano, precettore di Alfonso d'Aragona, re di Napoli, verso la metà del XV secolo. Sappiamo che la palma non darebbe frutti se non fosse nelle vicinanze di un albero della stessa natura, ma di sesso diverso, essendo la polvere fecon______________________________________ (1) - Le figure 5 e 6, possono dare un'idea delle costruzioni di Brindisi; la visione generale di questa città, essendo tutta in lunghezza, era troppo estesa per i due luoghi in cui mi ero trattenuto a disegnarla; inoltre, non si poteva abbracciare l'intero insieme con una sola occhiata dal lato del porto, e questo dalla terra era poco interessante. 120 dante portata dall'uno all'altro tramite il vento. Pontano racconta in latino, in modo molto bello, che ai suoi tempi vivevano due palme, la prima, un maschio, cresceva a Brindisi e l'altra una femmina, era nei boschi di Otranto. Quest'ultima vegetava, già da diversi anni, senza dare frutti, finché, essendo salita al di sopra degli altri alberi della foresta, potette vedere, dice il poeta, la palma maschile di Brindisi; e pur essendo questa lontana più di quindici leghe, essa cominciò a dare buoni frutti e continuò a darne in abbondanza. Questo fenomeno ha fortemente imbarazzato gli antichi, che ne attribuirono la causa a una sorta di occulta simpatia. Il buon La Fontaine avrebbe potuto dire loro: Les mystères de leur amour sont des objets d'experience; ce n'est pas l'ouvrage d'un jour que d'epuiser cette science. 121 Figura 5 122 LETTERA XI. Dissertazione sulle colonne colossali di Brindisi, e sulle altre antichità di questa città (1). Entrando nel porto di Brindisi, i primi oggetti che si offrono allo sguardo del viaggiatore, rievocano grandi ricordi. Una colonna dall'aspetto colossale che si eleva su una sorta di promontorio, ed il cui ricco capitello in marmo domina le altre costruzioni, segnala, per così dire, l'esistenza della prima Brundusium; a lato si vede, su un altro piedistallo, la base di una colonna simile, il cui tronco è stato rotto. _____________________________________ (1) - Questo saggio, insieme a molti altri pezzi legati alle arti e alle antichità, fu letto alla Reale Accademia delle Belle Arti (francese). Alcune note e alcuni frammenti sono stati inseriti nel "Moniteur" e in altri periodici. 123 Questo monumento è, senza dubbio, il più notevole della città e l'unico forse, della sua specie, che è sfuggito alla fame del tempo. Inoltre, esso ha eccitato vivamente la nostra curiosità. Senza dubbio esso meritava di essere sottoposto a un serio esame; ne stiamo studiando attentamente l'origine, l'uso a cui era destinato, e cerchiamo di determinare le sue proporzioni: tuttavia, esso è stato disprezzato da molti scrittori di viaggi, che lo hanno solo menzionato molto superficialmente; e, cosa singolare ed incredibile, lo storico della Via Appia, lo stesso Pratilli, non trae alcuna conclusione da queste due colonne, che avrebbero dovuto formare, in maniera interessante e naturale, la conclusione del suo lavoro, così come concludono, secondo quanto appare, il famoso percorso della via consolare. Egli dice vagamente che molte rovine, e specialmente due colonne alte e belle, non lontano dalla chiesa principale offrono le tracce della magnificenza dell’antica Brindisi. 124 Figura 6 125 Altri scrittori di viaggi hanno imitato il laconismo e l'indifferenza di Pratilli. Non hanno fatto altro che riportare l'iscrizione letta sul piedistallo di una di queste colonne; anche le descrizioni che ne fanno, tutte molto diverse tra loro, sono molto difettose. De Saint-Non, nel suo "Viaggio pittoresco", scrive che questo monumento è sproporzionato, e che il capitello è notevole solo nella composizione: vediamo, dice, quattro figure di Nettuno «che formano come tante cariatidi su ogni angolo del capitello; delle figure di donne occupano ciascun lato, e otto tritoni, sotto forma di volute, sono in ogni angolo. Questo singolare capitello era sormontato da un piedistallo che avrebbe potuto portare una statua, e che oggi supporta solo una cattiva trabeazione». Questo capitello sarebbe davvero molto singolare, se fosse così come questa descrizione lo rappresenta. Le cosiddette figure di Nettuno non sono negli angoli, ma nel bel mezzo di ciascuna delle facce del capitello. Al contrario, le figure di donne sono 126 raggruppate, a due a due, agli angoli, e le loro braccia, riunite e curvate, occupano il posto delle volute. Al posto di sedici figure bizzarramente composte, noi ne abbiamo riconosciute dodici, che ci sono sembrate raggruppate con grande intelligenza e buon gusto. Inoltre, non abbiamo riscontrato alcuna trabeazione sul capitello, che in realtà è sormontato da un basamento circolare, della proporzione e il profilo di un architrave. La descrizione di questo monumento, fatta dal barone Riedesell nel suo libro "Viaggio in Sicilia e in Grecia", è più verosimile, anche se si sbaglia ancora sul numero delle figure. Egli ne conta solo otto; ma mette almeno al loro posto le quattro grandi divinità che dice essere Giove, Ercole, Nettuno e Plutone. Pigonati, uno degli ingegneri incaricati nel 1775 dei lavori di riapertura del porto di Brindisi, e che ha fatto un lungo soggiorno in quella città, descrive questo capitello in maniera più accurata, anche se un poco differente dal 127 disegno che ne diamo noi (Fig. 7). Esso è adornato, dice, con dodici figure in busto, quattro nel mezzo di ogni faccia, che rappresentano Giove, Nettuno, Pallade e Marte; gli altri otto sono tritoni che, con i loro corni ricurvi formano gli angoli. La differenza che esiste tra questa descrizione e il nostro disegno deriva forse dall'aspetto sotto il quale abbiamo considerato questo capitello. Inoltre, il lavoro approssimativo e grossolano non consente di distinguere perfettamente gli attributi di tutte queste figure, i cui caratteri sono molto vari. Le imperfezioni e le mutilazioni che si notano, possono risalire all'epoca del restauro del monumento, che è molto più tardi della sua costruzione, perché queste figure sono di uno stile che indica quello dei bei tempi dell'architettura e della scultura dei Romani. Per quanto riguarda la proporzione di queste colonne, essa sembra essere vicina a quella che noi attribuiamo all'ordine corinzio; essa è 128 elegante, ed è in rapporto col piedistallo, che dovrebbe occuparne circa un terzo dell'altezza. L'abbiamo stimata per approssimazione, non potendo misurare accuratamente questo piedistallo e la base della colonna; per questo motivo, le nostre misure non concorderebbero con quelle fatte da altri viaggiatori. Noi abbiamo stimato circa settanta piedi per l'altezza totale del piedistallo e della colonna, compresa la base, il capitello e il tamburo ad architrave. Secondo il de Saint-Non, questa altezza sarebbe di cinquantadue piedi, e secondo Riedesell di circa quarantatre. Si può concludere che entrambe le fonti abbiano ignorato il piedistallo, intendendo parlare solo della colonna; ma per Riedesell, che ne fissa il diametro a tre piedi e nove pollici, la canna sarebbe alta solo trenta piedi, mentre, secondo il nostro calcolo basato su un diametro di cinque piedi, deve essere alta quarantuno piedi e mezzo. Queste differenze possono essere solo il risultato della disattenzione e della mancanza di interesse che questo monumento 129 aveva ispirato finora; e sebbene rimpiangiamo molto le circostanze critiche in cui ci troviamo, che non ci hanno permesso di eseguire il nostro lavoro in maniera più accurata, speriamo che il nostro disegno ripristini, almeno i fatti materiali, in un modo più probabile. Vogliamo che ciò sia lo stesso per gli altri punti controversi che dobbiamo ancora esaminare. Ci siamo poste due domande importanti: quale è il periodo dell'erezione delle due colonne di Brindisi? Quale era la loro destinazione originale? L'iscrizione che leggiamo ancora su uno dei piedistalli non può essere di grande aiuto per noi, perché essa ne menziona solo il recupero da parte dei cittadini. Questa iscrizione (Fig. 7) recita: «illustris pius actibus atque refulgens Prothospata Lupus urbem hanc struxit ab imo quam imperatores, pontificesque benigni . . . ». Ma, chi era questo Lupus che nessun altro monumento menziona? Alcuni autori lo confondono con un Lupo Protospata, autore di una cronaca del dodicesimo secolo. Noi credia130 Figura 7 mo più comunemente che questi versi siano stati incisi dai brindisini in riconoscimento e memoria perpetua di Lupo Protospata 131 (governatore) che, per ordine dello imperatore Basilio, ha restaurato e in parte ricostruito la città di Brindisi, saccheggiata intorno al 979 dai Saraceni. Per il resto, non sappiamo perché questa iscrizione non sia stata completata; Andrea Della Monaca, storico di Brindisi, pensa che la continuazione di questi versi sia stata rintracciata sull'altro piedistallo nell'anno 1670, ma era già così consumata dal tempo, che era impossibile leggerne il fine, che era quello di elencare i benefici e le grazie concessi alla città dagli imperatori. Comunque sia, questa iscrizione risale evidentemente ai tempi del Basso Impero; la croce che la precede indica che è posteriore al periodo di Costantino, tempo di decadenza per le arti ed in cui era impossibile produrre un monumento di questo stile, per la bellezza dei profili e le proporzioni generali; il capitello sarebbe in notevole contrasto con le produzioni di questo periodo, per le divinità pagane che vi sono rappresentate, 132 probabilmente mutilate di proposito per rimuoverne gli attributi che le caratterizzavano, senza tuttavia renderle irriconoscibili. Queste colonne sono quindi molto antecedenti al tempo del restauro della città, e si può audacemente farne risalire l'erezione al tempo dei primi imperatori. Secondo le vecchie cronache, sarebbero state erette da Brento, figlio di Ercole, in memoria di suo padre, o ad imitazione di quelle che questo eroe aveva eretto alla fine della Spagna. Questo, secondo lo storico Andrea Della Monaca, sarebbe poco probabile, perché, dice ingenuamente, le colonne non presentano i caratteri di una tale antichità: la loro massa e la loro solidità, che non sono paragonabili a quelle delle piramidi d'Egitto, non avrebbero potuto resistere per quasi quattromila anni. Ciò può essere provato, aggiunge, dal capitello su cui vediamo scolpita la figura di Nettuno, mito che risulta essere posteriore di trecento anni a quello dell'Ercole libico, padre di Brento. Si 133 potrebbe dire al massimo che furono i suoi posteri ad alzare queste colonne in onore di Brento, fondatore di Brindisi. Riportiamo questo ragionamento singolare solo per dare un'idea delle favole che ci piace vendere al mondo in buona fede. Si sostiene anche che ci siano delle medaglie antiche di Brindisi dove si vedono le colonne e, sul retro, un uomo sopra un delfino (1). Ma temo che queste cosiddette medaglie non siano altro che monete coniate in questa città, durante il regno di Ferdinando d'Aragona. Anzi, per premiare gli abitanti della loro fedeltà e dei servizi resi negli anni, questo principe permise loro di scolpire le due colon_____________________________________ (1) - Le medaglie di Brindisi mostrano un uomo sopra a un delfino, che tiene in una mano una vittoria, e nell'altra una lira. Si crede che si tratti dello stesso Brento. Su altre medaglie si vede l'ulivo, o un vaso, o una stella, o una testa di Nettuno incoronato dalla vittoria; ma non abbiamo potuto scoprire le colonne. 134 ne sui loro scudi e di comporre l'impronta delle monete d'oro, d'argento e di rame, coniate a Brindisi, con questo risalto: Fidelitas brundusina. In tale occasione i brindisini scolpirono il loro stemma su una base di marmo con questa iscrizione: «Stemma Brundusii marmor geminaeque columnae domus Arragoniae gloria prima sumus» a testimoniare di essere obbligati sia nei confronti di Ferdinando, per i suoi benefici alla città, sia verso Brento, il suo fondatore, in memoria del quale avevano originariamente eretto le colonne (1). Se le medaglie e gli altri monumenti storici _____________________________________ (1) - Lo stemma della città ricorda quello che dice Strabone sul nome di Brundusium, che nella lingua antica dei Messapi significa testa di cervo; designando così la forma del porto, che si divide in due rami che abbracciano la città. Questo stemma offre quindi una testa di cervo, e, tra i boschi, due colonne sormontate da una corona che le unisce. 135 non tengono traccia delle colonne di Brindisi, e se gli storici non ne fanno menzione, non significa che la loro esistenza non risalga al tempo dei romani. Noi non possiamo darne altre prove se non attraverso le osservazioni già fatte sullo stile di questo monumento, e che, pur convincendo, acquisiranno un più alto grado di credibilità se collegate a ciò che ho ancora da dire su questo monumento. Vediamo ora se sarà più facile determinare lo schema di erezione di queste colonne. Appartengono ad un altro edificio, oppure formano da sole un monumento completo? e in quest'ultimo caso, a cosa servivano? Hanno uno scopo di utilità o uno scopo ornamentale? Alcuni ne fanno un monumento trionfale, altri un faro; infine, si ritiene che esse indichino il termine delle strade romane in Italia. Esamineremo in poche parole ciascuna di queste opinioni. Quella che vuole che queste colonne appartengano ad un immenso monumento di cui sarebbero gli unici resti, non 136 meriterebbe di essere discussa. L'ispezione accurata del luogo, la loro proporzione colossale, la forma e la spaziatura dei piedistalli e specialmente il tamburo rotondo che incorona la testa e che non può aver supportato che una statua o qualche oggetto di ornamento, tutto dimostra che queste colonne erano isolate, molto simili a quelle con cui gli antichi ornavano la "spina" dei loro circhi. L'opinione, poco credibile, di Riedesell era che queste colonne fungessero da faro per mezzo di una trave trasversale a cui erano legate un certo numero di lanterne. Questo armamentario di lanterne che doveva essere abbassato e rialzato per mezzo di funi e carrucole, sarebbe stato di cattivo effetto per il gusto degli antichi: loro davano ai loro fari un carattere di grandiosità e solidità molto diversi. Inoltre quello di Brindisi andava situato all'ingresso del porto, in un locale molto più adatto; ne è esistito uno ai tempi dell'imperatore Basilio: era una torre alta che serviva, durante il giorno, ad osservare l'arrivo 137 delle navi e da faro durante la notte. Ma più tardi, questa torre è andata in rovina, e siccome non si poteva fare a meno di un segnale per guidare le navi all'ingresso dell'Adriatico, mare temuto dai marinai e fertile di naufragi, si pensò di utilizzare le colonne, estendendo dall'una all'altra una traversa di bronzo, a cui era appesa una lanterna dorata. Questo fatto potrebbe aver dato origine all'opinione di Riedesell; ma lui dimostra allo stesso tempo che se queste colonne erano servite come faro, ciò era solo momentaneamente, e non erano, originariamente, destinate a questo scopo. L'opinione più fondata e quella secondo cui, probabilmente, queste colonne indicavano la fine delle vie consolari romane in Italia; esse, come le colonne di Ercole, designavano i limiti del mondo allora conosciuto, o meglio la fine delle fatiche di quel semidio. Ecco un'obiezione tratta dal carattere dei romani e dall'idea che essi avevano mentre stavano costruendo il loro impero. Come credere infatti 138 che il popolo sovrano, proprio nel periodo più brillante della sua gloria, e nel momento in cui le sue conquiste erano le più vaste, abbia voluto in qualche modo porne egli stesso i limiti? Al contrario, lungi dal considerare Brindisi come la fine della via Appia, e ignorando il braccio di mare che separava questa costa dell'Epiro, i Romani avevano la pretesa di andare da Roma ad Atene e a Bisanzio, sulla stessa strada a cui continuavano, per così dire, a dare il nome di via Appia; e questa orgogliosa finzione non sarebbe stata d'accordo con l'idea di erigere un monumento a Brindisi, che sembrava limitare i loro possedimenti a questa costa. Solo con una distinzione, più sottile che soddisfacente, possiamo superare questa difficoltà, partendo cioè dal presupposto che i romani non abbiano attribuito, propriamente parlando, il nome di patria solo a Roma e al resto d'Italia. Tutto ciò che era fuori da questi limiti naturali, e specialmente i paesi d'oltremare, doveva essere considerato come straniero, ed era 139 infatti diviso in province governate dai proconsoli. È quindi solo lasciando Brindisi, che il cittadino romano lasciava davvero la sua patria; egli considerava questa l'Italia, che riuniva tutto come in un termine sacro che solo un naturale desiderio di rivederla poteva esprimere. Era fin là che egli accompagnava i suoi genitori e i suoi amici quando partivano per la guerra o per lunghi viaggi. E nello stesso posto veniva, al loro ritorno, per godersi i loro primi abbracci. Non erano queste ragioni sufficienti a fargli erigere a Brindisi un monumento, tanto più straordinario quanto la sua gioia o il suo rimpianto nel rivederlo? Senza dubbio, queste colonne supportavano statue, come mostra la base rotonda ancora esistente; ma non c'è indicazione che, come colonne trionfali, abbiamo sostenuto quella di qualche imperatore. D'altronde, la stessa forma a tamburo che non finisce con un cappello emisferico, come quello delle colonne Traiana e Antonina, ci indurrebbe a credere che questa 140 base ha supportato una figura seduta. Spingiamo oltre la supposizione e riconosciamo in queste statue le figure dell'Italia e della Grecia personificate, riferite, per allusione, alle coste dei paesi corrispondenti, che sono separati solo da un canale piuttosto stretto. Sarei perfino propenso a credere che la statua di marmo che ho già descritto, trovata durante le ricerche nel porto e non lontano dalle colonne, sarebbe una di queste due figure. La sua proporzione, che è circa la stessa di quella del capitello, la natura del marmo, la base rotonda e dello stesso diametro della base dell'architrave, rende questa opinione abbastanza probabile. Quindi dobbiamo supporre che le colonne siano state erette alla fine della via Appia, e che dominano il porto di sbarco e il luogo pubblico. Questo sarebbe facile da verificare, esaminando il sito con più attenzione. Forse dovrebbero essere qui discusse le varie opinioni e pesate le testimonianze di una 141 schiera di autori, per poter impostare la vera storia della famosa via Appia. Preferiamo rinviare i nostri lettori al libro del Pratilli, e noi riportiamo, così come lui stesso, la testimonianza formale e inconfutabile di Strabone. Vedremo questa famosa antica via partire da Roma ed arrivare, in linea retta, fino a Capua; lì, dividersi in due rami, uno dei quali, mantenendo il nome di Appia e di via militare, va a Brindisi, passando per Taranto; l'altro, considerato il percorso dei mulattieri, attraversa le terre dei Peuceti e dei Dauni, guadagna le rive del mare, prosegue attraverso Egnazia, e arriva anche a Brindisi, attraversando il braccio nord del porto, mediante un ponte; il primo (1) ramo in_____________________________________ (1) - Noi differiamo qui di opinione con Pratilli, che crede che le tracce della via Appia si debbano cercare verso la porta di Mesagne, e sulla strada per questa piccola città, che è in direzione di Taranto. Noi crediamo che i resti di questa via siano situati più a sud, e in linea con l'antico acquedotto che è ancora visibile da questo lato. 142 vece, conduce alla città da sudovest, la taglia per tutta la sua larghezza e termina sul porto, di fronte alle colonne ed al suo imbocco nella rada. La traccia di quest'ultimo sentiero è così profondamente impressa nel terreno, e così facile da seguire attraverso la città, che divide in due, che è molto strano che Pratilli non lo abbia riconosciuto, lasciando a noi l'opportunità di tracciarne gli sviluppi in questo grande e magnifico libro, che sembra piuttosto un’opera accademica. L'aspetto della città, entrando nel porto, indica che essa si adagia su due colline separate da uno stretto avvallamento, ora coperto di case. Ma, un più attento esame sul campo, ci convince facilmente che questo avvallamento è solo un taglio o una trincea praticata dalla mano dell'uomo nella massa della collina su cui è costruita la città, e che si estende in linea retta fino alle colonne e al porto. Questa trincea sale, con delicata pendenza, fino alla fine della città moderna, riducendo quasi a nulla il suo dislivello dalla 143 terra che la circonda. Essa, che divide ancora la città in due, fu formata in precedenza, secondo lo storico di Brindisi, come un vasto bacino dove l'acqua del mare si intromise per una distanza di circa cinquecento passi, estendendosi fino alla piazza bassa e fino ai cosiddetti giardini Urso Lilli e Oliva Cavata. Ora il terreno si è alzato di molto, e non rimane più alcuna traccia della presenza del mare in questo posto, tranne che alcuni ritrovamenti di ancore di navi ed antichi relitti marini. Questo terreno, anche se in parte coperto da edifici già molto vecchi, è ancora molto umido e malsano (1). Nel mezzo si trova la piazza De Marco, e nelle vicinanze, le rovine di un magnifico edificio costruito, si dice, dai Romani, dove si amministrava la giustizia. _____________________________________ (1) - Secondo Andrea della Monaca, possiamo riconoscere la direzione di questa trincea nel piano della città fornito dal Pigonati. Egli lo descrive come segue: Seno nel porto interiore che esisteva nei tempi di Strabone. 144 Questa basilica, trasformata in palazzo, che era servita come dimora al Duca di Atene, nel 1674 era già in rovina. Ci sono ancora, su questo lato e nelle vicinanze, alcune colonne. Una volta esisteva qui vicino un tempio, dedicato ad Apollo e Diana, nella cui posizione e con i suoi detriti, re Ruggero fece costruire la cattedrale, intorno al 1140. Salendo, attraverso i giardini, verso le mura, tra le cosiddette porte di Mesagne e Lecce, che al tempo dei romani erano comprese nelle mura della città, allora due terzi più grande di quanto non sia attualmente, notiamo un acquedotto che segue la direzione della trincea, e poche altre costruzioni antiche in cui, per la loro distribuzione e per la vicinanza dell'acquedotto, si potrebbero riconoscere una riserva d'acqua e dei bagni termali. Questa esposizione dello stato attuale dei luoghi, sembra descrivere un piano generale, secondo cui esisteva, verso la parte più bassa vicino al porto, un grande bacino a forma di 145 parallelogramma, riempito dalle acque del mare e delimitato su quel lato dalle due colonne, la cui roccia fresca formava come una specie di palo isolato; all'altra estremità, c'era una piazza, che può essere considerata come il "foro" della città antica, e che si trovava lungo il prolungamento della via Appia. Immaginiamo questa piazza circondata da palazzi e templi e la vasca interna riempita dagli arsenali della marina, pieni di navi, in costruzione o in carenatura, o al momento di salpare; gettiamo infine gli occhi su queste due belle colonne di marmo (1), oltre le quali _____________________________________ (1) - La direzione di questa valle fittizia non passa per la nuova bocca d'ingresso (il canale Pigonati), ma, restaurando per questa bocca la direzione che essa aveva in origine, attraverso le corrosioni del terreno che ancora si vedono, si trova che l'asse della via Appia e del bacino dovevano passare tra le due colonne, seguire il centro dell'antica imboccatura del porto e dirigersi verso la punta dell'isola situata nel mezzo del porto esterno. 146 possiamo vedere lontano la bocca del porto e anche il mare aperto. Certamente, questo colpo d'occhio, davvero unico, era degno delle persone che giustamente si definivano i sovrani del mondo. C'era indubbiamente anche un molo alto, che occupava l'ingresso del bacino interno, e lasciava abbastanza spazio da ciascuno lato per l'entrata e l'uscita delle navi (1); era, dico, su questa piattaforma, tra le colonne e su delle tribune, che si posizionavano i comandanti e gli ufficiali militari che dovevano ispezionare il lavoro del porto e passare in rassegna le triremi, cariche di truppe, che partivano per qualche spedizione lontana. Era anche lì che si consultavano le viscere delle vittime sacrificali per trarne presagi per il successo delle armi romane, e si offrivano sacrifici alle divinità marine, in riconoscenza di quegli stessi successi. _____________________________________ (1) - All'ingresso del porto di Traiano ad Ostia, c'era anche un molo isolato che lasciava due uscite abbastanza strette alle navi. 147 Era infine nella piazza adiacente, che si radunavano i mercanti di tutte le parti del mondo, e dove forse è nato l'uso del "brindisi" che si faceva al momento della partenza. E fu in questo stesso foro, occupato successivamente dalle truppe di Pompeo e di Cesare, che Cicerone fu preso da quella "tragica incertezza"; e fu ancora qui che Orazio lasciò Mecenate e Virgilio partendo per la Grecia, e che Agrippina approdò portando con sé le ceneri di Germanico. Questo posto, così ricco di ricordi, è ormai diventato quasi irriconoscibile agli occhi poco esercitati; tuttavia siamo riusciti, con il potere dell'immaginazione, a trarre fuori dalle rovine il maestoso monumento di Brindisi, abbiamo scavato il suo bacino interno e disegnato il luogo del suo antico foro. Tuttavia, daremo questo piano di ripristino solo come una sorta di programma che servirà da indicazione e punto di paragone ad un altro osservatore, in possesso dei mezzi che ci sono mancati per 148 estendere e completare questo lavoro, a cui forse abbiamo dato troppa importanza, ma sul quale non mi preoccuperò di restare più a lungo. 149 LETTERA XII. Relazione di una escursione fatta dal mio compagno di viaggio nell'entroterra; il suo esito infelice. Siamo stati spesso cullati dalla romantica idea di compiere il nostro viaggio in Italia, alla maniera degli antichi filosofi, un sacco in spalla e il bastone bianco in mano. Ne abbiamo avuto l'esempio da alcuni artisti, pittori paesaggisti, che attraversavano monti e valli, per fermarsi quando trovavano del materiale da disegnare; così erano state esplorate la Svizzera, l'Italia e soprattutto i dintorni di Napoli e Roma; ma nessuno aveva ancora tentato la lunga traversata della pianura pugliese: sono luoghi aridi, privi d'acqua, spogli e senza alberi; non presentano alcun oggetto pittoresco, e nulla può compensare la fatica che si sperimenta e i pericoli che vi si corrono in questa stagione; il viaggiatore è esposto, sera e mattina, alla malvagia azione della nebbia, e il resto della 150 giornata a quella di un sole cocente. Dopo una dolorosa passeggiata, non vi si trova, per rifugio, che la capanna di un pastore, o le quattro mura di una foresteria. Questo era il quadro poco lusinghiero che i nostri amici hanno tracciato per noi, per farci schifare un tale imprudente progetto, al quale avremmo dovuto rinunciare senza difficoltà. Il mio compagno di viaggio non era convinto dell'impossibilità di eseguire una simile impresa; voleva conoscerne gli inconvenienti ed i vantaggi, e cedere solo dopo averli giudicati da sé. Così, lui ha deciso di fare una corsa dalle parti di Lecce, capitale della provincia; e se avesse avuto successo, saremmo poi partiti in compagnia verso Napoli e Roma, e Dio sa fin dove altro . . . È partito per la sua avventurosa escursione, con un equipaggiamento modesto: lo zaino in spalla, la spada al lato, una borraccia, tavolette, matite e l'indispensabile album da disegno. Non vedo l'ora che arrivi il risultato di questo imprudente tentativo. Il rimpianto di trovarmi solo; il desiderio di distrarmi dall'assenza del mio amico, quello di testimoniare ai nostri amici 151 di Brindisi la nostra gratitudine per la loro accoglienza, mi fece commettere un'imprudenza di un altro genere. Avevo deciso di procurarmi il piacere di una serenata alle signore della nostra compagnia, percorrendo così la città, scortato da una troupe di musicisti. Questo intrattenimento, era a malapena in uso a Brindisi, probabilmente a causa della maligna influenza dell'aria durante la notte. Non avevo comunicato il mio progetto a nessuno, neanche a Don Pippo, e mi sono trovato allo scoccare della mezzanotte sotto le finestre delle nostre bellezze veneziane. Il più grande silenzio regnava in città; tutti dormivano o andavano a dormire. Io do il segnale: il primo arco della mia orchestra produce un buon effetto: fagotti, corni, clarinetti e il tamburo basco, rinforzano l'armonia ed echi di meraviglia si affrettano a ripetere le ultime misure del nostro concerto. Si svegliano: le finestre e le persiane si aprono; appaiono delle luci a rischiarare il fascino piccante di qualche vestaglietta. Così proviamo una di quelle melodiose barcarole che queste signore ci 152 avevano insegnato durante la nostra prigionia. Applaudono; buttano dei mazzi di fiori per ringraziarmi della sorpresa galante che ho riservato loro. Andiamo oltre a ripetere la stessa serenata sotto le finestre di tutte le nostre conoscenti; quasi tutta la notte passa in questa piacevole occupazione; e mi accorgo della imprudenza commessa solo quando sono tornato a casa, penetrato da una fredda umidità, e colto da un brivido che mi annunciava una violenta febbre. In effetti, l'accesso fu molto forte, e mi impedì di alzarmi il giorno dopo. Dovevo pranzare con i nostri amici; preoccupato di non vedermi arrivare, don Pippo arriva correndo e mi trova in condizioni precarie; l'allarme si diffonde nella cerchia degli amici: le signore, causa innocente della mia disgrazia, mi mandano delle fasciature per serrare la testa e un antidoto alla febbre, che il dottore non trova sufficiente. I miei amici mi bagnano con cura e attenzioni, e don Pippo non mi lascia. Una disgrazia, si dice, non viene mai da sola. Il governatore di Brindisi mi manda una lettera, comunicandomi che il mio compagno di 153 viaggio, malato, lontano da ogni aiuto e non in grado di continuare la sua strada, era stato trovato in una capanna, sulla strada opposta a quella di Lecce, e che era stato temporaneamente trasportato nella dimora di una guardia costiera. Era urgente andarlo a trovare. Di questo si incarica don Pippo, che manda sul posto un corriere con un cavallo, per mancanza di una vettura disponibile subito . . . Questa brutta notizia fece aumentare la mia febbre; noi, io e il mio compagno, restammo in pericolo per quasi un mese. Per sopperire al mio forzato silenzio, accludo qui l'estratto dal diario tracciato dal mio amico durante la sua sfortunata escursione. L'ho trascritto senza concedermi alcun cambiamento. Questo è un quadro veramente sorprendente, e fedelmente impresso, dei colori locali. Estratto dal diario di viaggio. 6 settembre. - Il servo è venuto a svegliarmi all'alba: ho riposato ancora un momento. Stavo pensando di non andare: finalmente, ho ricordato tutte le mie risoluzioni; mi sono vestito 154 e ho salutato il mio compagno. Sono partito. . . Volevo prendere la strada per Lecce; ma, lasciando la città, mi sono ritrovato su quella per Barletta. Ho concluso che il destino non voleva che me ne andassi a Lecce, e ho seguito l'impulso che mi era stato dato. Faccio le prime miglia abbastanza leggermente; mi affretto, ma il sole sta diventando caldo; la terra è spoglia di alberi: eccomi in una grande pianura disabitata; mi piacerebbe bere, ma non riesco a trovare un corso d'acqua; i miei piedi iniziano a dolermi; la mia borsa diventa pesante; sento un dolore di stomaco; aumenta; ho la testa imbarazzata: un pò d'acqua mi farebbe bene! . . . Ecco delle case bianche: senza dubbio vi troverò qualcosa per rinfrescarmi; mi spingo fin là. La porta è sbarrata da capre addormentate; un'immensa corte ne è piena, e i cani stessi dormono tranquillamente in mezzo al gregge. C'è un povero pastore che vive in questi tuguri. Gli ho chiesto dell'acqua: ha chiamato sua moglie e mi ha mandato con lei ad un pozzo dal quale ho attinto, in una brocca rovinata come la 155 casa, un pó d'acqua dolce, che assaporo con gioia. Dico addio e provo, nell'andare via, a mangiare un pó di pane; ma mi disgusta . . . Continuo a camminare. Faccio ancora qualche miglio; non ne posso più, per la fatica ed il calore. Vedo un albero di fico isolato in mezzo alla campagna; ci vado; i fichi non sono maturi; ma sono freschi: ne mangio un pó, poi ho voglia di stendermi all'ombra, tra la macchia. Un lungo rettile nero fugge attraverso la vegetazione. Continuo quindi a camminare ancora per qualche miglio . . . Mi ridurrò male senza acqua . . . Andiamo in quella casa; eccola. Ho bevuto avidamente: la freschezza dell'acqua mi ha tirato un pó su. Cerco invano di mangiare; dormo all'ombra di un muro. Avevo appena cominciato a dormire, quando dei passanti sgraditi mi svegliano con delle sciocche domande; riprendo a camminare e continuo fino alle undici circa. Un antico stabile, che serve ancora come rifugio per le greggi, sarà il luogo del mio riposo durante il grande caldo. Inutilmente di mangiare del pane; posso solo ingoiare un pó di fichi. 156 Entro in un fresco locale, e mi addormento sulla paglia, con la testa appoggiata sulla borsa. Sono trascorse quattro ore; ho ricaricato il mio fardello, e mi sono rimesso in viaggio. Il mio sguardo si estende lontano su una pianura arida e scoperta; non si vede alcuna dimora: queste sono le infami pianure della Puglia. Cammino, mi siedo ogni momento: ho difficoltà a sostenermi. Sono sudato; tuttavia, il cielo è coperto di nuvole, si accumulano: c'è più fresco. Mi riposo ancora una volta; ma grosse gocce di pioggia annunciano una tempesta; non vedo villaggi: solo una casa bianca, lontano; non ci sono altri rifugi . . . ci vado; coraggio! Già i fulmini strappano le nuvole; il tempo diventa più minaccioso, la pioggia aumenta: eccomi arrivato. Ci sono solo donne in casa; loro mi hanno visto dall'alto della loro terrazza. Voglio salire, perché non possiamo sentirci; le scale sono ingombre di fascine: finalmente eccomi nella stanza. Chiedo loro, in cambio di denaro, un rifugio contro la tempesta. Chiamano i loro uomini: dico loro chi sono, espongo loro, il più 157 drammaticamente possibile, la mia dolorosa situazione; do la mia spada, per tranquillizzali: acconsentono a ricevermi. Mi siedo di fronte a un grande fuoco, dove mi asciugo e mi riscaldo, perché i brividi si erano già diffusi nelle mie vene. L'intera famiglia è riunita intorno a me: sono interrogato, sono esaminato, mostro tutti i miei documenti, li girano e rigirano: riconoscono il sigillo del re di Napoli; le fisionomie cambiano e la loro ansia sembra scomparire. Mi viene offerto da mangiare: dico che avrei preparato da me la mia zuppa; taglio un grosso pezzo di pane che credo appena sufficiente a placare la mia fame, chiedo un piatto, un pó d'olio, sale e acqua bollente: la mia zuppa è fatta. Mi esaminano; mi fanno mille domande e le mie risposte fanno molto ridere la compagnia. Ingoio appena qualche boccone, che sono già sazio; la mia testa è appesantita dal sonno e dall'affaticamento. La notte era arrivata; Sono stato portato in un granaio dove dormivano gli uomini. Lì, mi hanno fatto, con la gentilezza più ospitale, un buon letto con delle coperte; ero 158 ben sistemato e ho dormito fino al mattino successivo. 7 settembre. - Era già giorno; tutti si erano alzati; sono stato colpito alla spalla per svegliarmi, e ho aperto gli occhi con difficoltà, che un nuovo arrivato ha iniziato a interrogarmi. All'inizio l'ho ricevuto male e sono tornato a letto. Mi è stato permesso di dormire ancora un pó. Al mio risveglio, gli abitanti della casa erano tutti riuniti intorno a me, e parlavano con tanta animazione che non ero più in grado di riposare, Mi sono alzato. Lo stesso uomo di prima, che ho riconosciuto per un soldato, vedendomi esausto, mi ha offerto i suoi servizi; mi ha detto che si era preso la libertà di fumare dalla mia bella pipa; ho risposto che aveva fatto bene: mi ha offerto il suo tabacco, ma io non avevo nessuna voglia di fumare. Lui ha chiesto il mio passaporto, ha indossato gli occhiali, ed è stato un quarto d'ora a leggerlo. E stato fatto a Corfù, mi disse infine, per il capitano della barca, per uno di nome Castellan, e per te . . . Che ne è dei tuoi compagni di viaggio? Perché ti trovi da solo? Dov'è il tuo passaporto del governatore di Brindisi? Lo 159 ignoravo; gli ho detto che ne ero sprovvisto e che avrei risposto alle sue altre domande. Egli replica: non puoi viaggiare nel paese con il vecchio passaporto; devi scrivere a Brindisi per ottenerne un altro. Nel frattempo, andiamo, vieni nella mia torre; troverai un buon letto lì. Sei così stanco che non puoi continuare la tua passeggiata; riposerai, mangerai pesce buono, berrai del buon vino. Tutto ciò che posso fare per te, lo farò di cuore; credo di essere molto interessato alla tua situazione. Mi piacciono i francesi perché sono stato a Marsiglia e Tolone. Raccogli le tue cose e vieni; sono solo due passi da qui alla mia dimora. Ho preso il mio leggero bagaglio; lui ha preso in carico la mia sciabola, che ha esaminato con una sorta di ammirazione. Volevo pagare per il mio alloggio; si è opposto e siamo partiti. C'era solo una mezz'ora a piedi fino alla sua torre. Abbiamo attraversato un giardino; mi ha invitato a riposare; ha cercato un'anguria matura, e ne ha tagliata una, di cui ne ho mangiato metà con piacere. Non sapevo cosa intendesse con la sua torre. Alcuni alberi piantati 160 su una collinetta mi impedivano di vederla; quando arriviamo, vedo una grande torre antica, costruita in pietra, sormontata da merlature e forata da feritoie. È posta su una base quadrata; la porta è posta a circa venticinque piedi di altezza: la si può raggiungere da una scala in pietra staccata dal muro e su cui cade un ponte levatoio. L'interno è pieno di armi da fuoco, e sulla terrazza c'è un cannone. L'acqua del mare bagna i piedi della torre, situata in fondo ad un torrente, dove le barche sono al sicuro da qualsiasi sorpresa. La costa adriatica e le coste del mare Ionio sono coperte da questo tipo di torri. Molti di questi edifici sono antichi; gli altri furono costruiti per opporsi alle invasioni dei Turchi e dei Barbari, che spesso infestavano queste spiagge. Vi si tenevano soldati, e gli abitanti ci trovavano armi per la loro difesa. Queste torri di guardia sono molto vicine tra loro e alla vista di una nave nemica, il cannone spara, passo dopo passo, sull'intera linea. Le truppe sono ovunque sulla difensiva, e si preparano ad intervenire nei punti minacciati. 161 Mi hanno raccontato alcuni episodi, di coraggio e di presenza di spirito, che fanno onore a questi guardacoste. Uno di loro ha ideato una difesa molto ingegnosa. Dopo aver esaurito quasi tutte le sue munizioni, vedendosi sempre più messo alle strette, e sul punto di soccombere sotto l'attacco dei suoi nemici, ha pensato di lanciare su di loro sciami di api, chiusi in alveari che erano stati organizzati sulla piattaforma della torre. Questo esercito alato, che gli assedianti non si aspettavano, e di cui sono stati coperti in un istante, ha causato loro così tanto spavento e tanto dolore, da obbligarli a togliere l'assedio; per liberarsi di questi nemici, si gettavano in mare, dove la guardia costiera aveva occasione di ucciderne un grande numero, prima che si unissero alle loro imbarcazioni. Installato nella torre, dove stavo molto bene, io aspettavo di riprendermi dalla fatica, per poi continuare la mia corsa. Il guardacoste era impegnato a scrivere al governatore di Brindisi, per richiedere un altro passaporto, che era essenziale; mi sono sdraiato e ho dormito 162 profondamente per il resto della giornata, tutta la notte e il giorno successivo, fino alle tre. 8 settembre. - Il custode della torre mi ha dato una lettera e mi ha presentato a un uomo di Brindisi, che era venuto a prendermi, portandomi un buon cavallo. La lettera era di Don Pippo; egli era molto preoccupato per la mia salute e quella del mio compagno, che aveva anche la febbre, e mi esortava a tornare a Brindisi. Era tardi, tuttavia, ero disposto a partire. Per riconoscenza verso il mio ospite, gli ho lasciato la mia spada che aveva tanto ammirato; egli stentava a credere a questo mio atto di generosità, e mi ha chiesto un certificato di donazione che gliene assicurasse la proprietà. Ho scritto il suo indirizzo, e ho promesso di farlo, scrivendogli da Brindisi. Mi ha baciato, con le lacrime agli occhi. Sono sicuro, mi ha detto, di avere un amico al mondo. Monsieur Stanislas, non dimenticarmi! Glielo ho promesso, e mi sono rimesso sulla strada. 163 Abbiamo camminato fino al tramonto; così, iniziando a far freddo, ho chiesto alla mia guida dove poter trovare una casa per passare la notte. Mi ha portato in una piccola fattoria, dove mi ero già rinfrescato; sono stato riconosciuto, e sono stato accolto. Mi sono coricato, ma ho passato una brutta notte; aspettavo ansiosamente che il sole si alzasse e si scaldasse abbastanza, per continuare il mio viaggio verso Brindisi, dove sono arrivato il giorno successivo. 164 LETTERA XIII. Convento di Nostra Signora del Casale. Partenza da Brindisi. 10 ottobre. Convento della Madonna del Casale. Riprendo a scrivere. Il nostro stato di debolezza non ci ha permesso di partire per Napoli; tuttavia volevamo lasciare l'aria malsana di Brindisi, per respirare, in qualche luogo vicino, un'aria più salubre. Abbiamo consultato il nostro amico Philippe They, la cui compiacenza era inesauribile, e che, durante la nostra malattia, aveva acquisito nuovi diritti alla nostra eterna gratitudine. Ci ha consigliato di trasferirci al convento della Madonna del Casale, situato a pochi chilometri dalla città, su una collina. Questo posto, costantemente spazzato dai venti, era considerato un rifugio per chi soffriva di febbri ostinate. I monaci di San Pasquale, che vi abitavano, erano conosciuti per la loro umanità e anche per la loro conoscenza della medicina. 165 In generale, i monasteri sono forniti di tutti i farmaci necessari, che i religiosi sanno amministrare con il talento che danno una lunga esperienza e le continue osservazioni. Vi si aggiunga uno zelo, in cui si riconosce lo spirito di carità che li anima. Potrebbero essere paragonati agli Asclepiadi, discendenti e alunni di Esculapio; come quelli, essi studiano i sintomi e il progresso delle malattie vicino al letto degli ammalati, e la loro routine accademica è spesso preferibile alla brillante teoria dei medici speculativi. Quindi, siamo stati portati da questi buoni religiosi, che hanno accettato di riceverci volentieri, cosa che non ci aspettavamo come francesi, e ci hanno mostrato il più vivo interesse per la nostra perfetta guarigione. Nelle diverse interviste avute con questi rispettabili religiosi, loro ci hanno raccontato la storia della loro chiesa. Nel 1322, Filippo, principe di Taranto, fratello di re Roberto, tornato da Costantinopoli, dove aveva sposato la figlia dell'imperatore Baldovino, Conte delle Fiandre, approdò sulla 166 costa vicino a Brindisi, nei pressi di una piccola cappella, dove si venerava un'immagine miracolosa della Vergine. Il principe acquistò questa terra, dipendenza di un vecchio castello i cui resti erano ancora visibili nel 1670, e costruì una chiesa intorno alla cappella, circondandola con una grata di ferro. In seguito, la miracolosa immagine fu trasportata, con il muro su cui era dipinta, sull'altare maggiore, per renderla più visibile. Questa chiesa, e il monastero dipendente, presero il nome di Nostra Signora del Casale (da Castello); furono ceduti nel 1566 agli Zoccolanti, e gli abitanti della città si impegnarono a dare loro sessanta scudi all'anno per i loro vestimenti; ciò è stato osservato finché i monaci furono sostituiti da quelli della riforma di San Francesco. Questi, a quanto pare meno poveri, sebbene di un ordine mendicante, costruirono lì un monastero, lo abbellirono con dipinti e sculture, e lo unirono a bellissimi giardini piantati con aranci, limoni e altri alberi da frutto molto ricercati. L'aria di questo convento è meno malsana di quella della città; e 167 la vista, che ci è piaciuta soprattutto da lato mare, è molto pittoresca. Ogni anno, a settembre, si celebra qui la festa della Natività della Vergine, in pompa magna e nel mezzo di una grande competizione fra tutte le classi sociali. Il compimento di un voto, o il desiderio di perpetuare il ricordo del loro pellegrinaggio, sull'esempio della imperatrice, moglie del fondatore, di cui si scorge la statua sotto un ricco baldacchino, hanno attratto qui molti principi, che hanno fatto dipingere o scolpire i loro nomi e stemmi sulle pareti della chiesa. Lo stesso giorno della festa, si svolge in questo luogo una fiera abbastanza importante, affollata dagli abitanti della provincia. La strada da Brindisi via terra è lunga e faticosa: è preferibile venire qui via mare. I marinai si sfidano a chi arriverà prima. Queste barche, decorate con nastri e bandiere di vari colori, vanno veloci e cercano di superarsi a vicenda, offrendo uno spettacolo che rallegra un momento queste coste, quasi solitarie per il resto dell'anno. Per andare dalla spiaggia al convento, c'è un tratto di circa ottocento passi; il percorso 168 è ombreggiato da vigneti, ulivi e altri alberi piantati espressamente, ed offre ai buoni religiosi, una passeggiata molto piacevole. Non descriverò questo convento; sono troppo debole per pensare di vederlo nei dettagli. Vi dico solo, con poca chiarezza, che i suoi chiostri, forati da arcate, circondano un vasto cortile ombreggiato a quinconce da alberi d'arancio; un bacino, riempito con acqua limpida e costantemente rinnovata, occupa il centro. Vedo ancora alberi cespugliosi, carichi di foglie verdi scintillanti, carichi di belle mele d'oro, il cui peso schiaccia le estremità dei ramoscelli, e una moltitudine di fiori, di cui aspiro con piacere i dolci profumi, quando apro la mattina la stretta finestra della mia cella, o di notte, camminando lentamente e male sotto i silenziosi portali, pavimentati con pietre sepolcrali e adornati con dipinti che ripercorrono i misteri della nostra religione. Siamo quasi sempre soli; questi discreti cenobiti non disturbano le nostre meditazioni; ci passano vicino inchinandosi, e si perdono presto, come ombre, nei lunghi corridoi del monastero. A volte mi trattengo nel letto, 169 abbattuto da un accesso di febbre, e sento comunque una specie di sollievo, ascoltando gli accordi dell'organo, ammorbiditi dalla lontananza, e i suoni salmodianti delle voci dei religiosi, che recitano le preghiere in diversi momenti del giorno e della notte. Questa esistenza pacifica, ma molto monotona, non poteva convenirci a lungo; così, ci siamo decisi a partire per Napoli. Avendolo comunicato a don Pippo, che da pochi giorni non veniva a farci visita, questi ha contrastato la nostra risoluzione con ragionamenti ispirati dall'amicizia; il nostro partito era stato preso: ci piaceva di più correre il rischio di soccombere alla fatica, a quello di morire lentamente di noia e di apatia. Non siamo riusciti a trovare un vetturino che ci portasse a Napoli; bisognava cercarlo a Lecce, la capitale della provincia. Brindisi è in qualche modo immobile nel mezzo di una sfera di attività; i viaggiatori evitano questa città come un luogo afflitto dalla peste, e gli abitanti non hanno quasi nessuna comunicazione con il resto dei loro compatrioti. 170 20 ottobre. Questa mattina ci hanno annunciato che una vettura ci stava aspettando alla porta del convento. È una carrozza a due posti, di forma gotica, risalente probabilmente all'invenzione di questa macchina nei tempi moderni. Anche se porta ancora le tracce di un'antica magnificenza, non è per questo più conveniente o più comoda; ma è coperta, abbastanza ben chiusa, e così com'è, ci sembra una benedizione dal cielo. A proposito, la stagione è favorevole, il calore è passato, l'atmosfera è più pura; respiriamo soprattutto un balsamo di speranza, che circola nelle nostre vene e sembra portarci con gioia i tesori della salute. Ringraziamo i nostri bravi monaci di San Pasquale per la loro premurosa cura e toccante sollecitudine; ed è con difficoltà che noi facciamo loro accettare un tributo di gratitudine. Ci accompagnano con i loro consigli di ricorrere alla preghiera per allontanare ogni influenza maligna, e di raccomandarci al loro santo protettore. Ma abbiamo altri addii, che sono molto più difficili da pronunciare. Dobbiamo separarci dal 171 nostro eccellente amico Philippe They. Ci stava aspettando a casa sua per completare i preparativi per il nostro viaggio. Abbiamo cenato con la sua rispettabile famiglia. Questo pasto era diverso da quello in cui avevamo celebrato la nostra liberazione dalla quarantena! Quindi l'abbiamo accorciato, così come la dolorosa scena degli addii . . . La tenerezza reciproca era la garanzia della sincerità e vivacità dei nostri rimpianti, ed il presagio di una separazione, forse eterna. L'amicizia è così rara! perché seminarla così sulla strada della vita, e in terre lontane, dove semplicemente si passa senza speranza di tornare? Abbiamo avuto, molto tempo dopo, il dolore di apprendere che, a seguito di eventi sfortunati, Philippe era stato costretto a tornare in Provenza, dai suoi parenti, dove avrà certamente trovato le virtù dell'ospitalità da lui stesso profuse a Brindisi sui suoi compatrioti infelici. Se esiste ancora, possa questo libro cadere nelle sue mani, affinché possa trovarvi l'espressione dei sentimenti di gratitudine che gli abbiamo dato, e che conserveremo per sempre. 172 LETTERA XIV. Difficoltà del viaggio. - San Vito, Torre Santa Sabina. - Foresterie. - Soggiorno a Monopoli. Rovine di Egnazia. - Note storiche. - Polignano, Mola, ecc. 20 ottobre. Uscendo da Brindisi eravamo immersi in una sorta di stordimento e malessere, che derivava tanto dalla debolezza per la recente malattia, che dal modo in cui viaggiavamo, di cui avevamo assolutamente perso l'abitudine. Infatti, ci eravamo imbarcati dalla Francia, e il tragitto via mare era durato parecchi mesi. Avevamo ancora preso la strada di mare lasciando Costantinopoli, ed avevamo fatto tutti gli altri spostamenti a piedi o a cavallo. Inoltre, i sobbalzi della carrozza, il rumore delle ruote su una pavimentazione sconnessa e persino la velocità del movimento, che ci impediva di fissare gli oggetti, e sembrava farli correre nella direzione opposta, tutto questo ci appariva strano; ci è 173 voluto del tempo per abituarci a queste sensazioni, prima dolorose, e poi divenute piacevoli e salutari. Abbiamo seguito, lasciato, ripreso o attraversato più volte la via Traiana e molte altre strade antiche che vanno tutte verso Brindisi. Ciò, in un'altra circostanza, sarebbe stato oggetto di curiosità e di studio: ora è causa dei nostri lamenti; e se Traiano aveva diritto al riconoscimento dei suoi contemporanei per aver costruito queste belle e utili opere, non ispirava più gli stessi sentimenti ai poveri viaggiatori, la cui marcia è ora incessantemente ostacolata dai resti in rovina di questi antichi sentieri. Se uno è costretto a servirsene, per evitare luoghi bassi e fangosi, allora niente è più orribile di questo mucchio di grandi pietre irregolari che, non avendo adesione tra di loro, lasciano lacune larghe e profonde che i cavalli incontrano con difficoltà e dove le ruote si impegnano e minacciano di rompersi in qualsiasi momento. Il mio compagno di viaggio ha rivisto, con una sorta di piacere misto a tenerezza, quegli stessi luoghi dove una volta aveva sperimentato tutte 174 le ansie del dolore e della malattia. Me li ha mostrati con eccitazione. Quello, mi diceva, è il fico i cui frutti hanno spento la mia sete e nella cui ombra ho cercato riparo dal caldo; lì ho accelerato il passo per fuggire, ma senza successo, la tempesta che mi stava minacciando. Ah! Penso di vedere, a destra, fuori e lontano dalla strada, la casa bianca, dove ho trovato, come un nomade del deserto, franca e benevola ospitalità. Non un cespuglio, non una pietra, mi ha fatto notare. Ho condiviso il suo entusiasmo; gettando uno sguardo al passato, rivedevo quello che avevamo sofferto; il mio cuore, sollevato da un pesante fardello, si godeva l'idea consolante di un nuovo futuro. Perché i luoghi in cui abbiamo conosciuto la sfortuna sono quelli che rivediamo con maggiore entusiasmo? Perché ricordiamo con piacere le antiche tribolazioni? L'uomo è come l'animale fedele che viene a leccare la mano di chi lo corregge? o come il bambino che spesso preferisce quelli che gli mostrano una giusta severità, a quelle buone anime che lo rovinano travolgendolo di carezze? Non sarebbe piuttosto un ritorno su noi stessi, 175 che ci fa apprezzare di più la sicurezza attuale, rispetto alle pene passate? Arrivati nel porto, non diamo forse un'occhiata soddisfatta allo spettacolo di un mare agitato, e non sentiamo un piacevole sollievo al ricordo dei pericoli a cui siamo sfuggiti? Questa contraddizione della mente umana, che non si osa spesso confessare, perché potrebbe essere considerata egoismo, merita di occupare i pensieri del moralista. Ci sarebbe piaciuto visitare la buona guardia costiera che aveva accolto il mio amico nella sua torre; ma la nostra strada si stava allontanando sempre di più dalle rive del mare: la notte si avvicinava, e avevamo bisogno di riposo per essere in condizioni di ripartire di buon'ora la mattina successiva. Era troppo tardi, quando arrivammo a San Vito della Macchia, per permetterci di vedere questa piccola città che, ci è stato detto, ne sarebbe valsa la pena. Viene anche chiamata San Vito degli Schiavi, perché si sostiene che sia tata costruita all'inizio del quindicesimo secolo dagli Schiavoni, che vi hanno eretto una magnifica chiesa e un bellissimo palazzo. Non siamo stati 176 in grado di giudicarlo; ma quello che è certo è che i fondatori non hanno esteso la loro munificenza alle foresterie, perché quella in cui ci siamo fermati, la migliore, anzi l'unica che c'era, era molto miserabile; tuttavia, la popolazione ammonta a quasi quattromila anime. Inoltre, questa città si glorifica, con più ragione, per aver dato i natali al famoso compositore Leonardo Leo, rivale di Francesco Durante e maestro di Pergolesi. 21 ottobre. Il vetturino era già sveglio un'ora prima della partenza, per non farsi aspettare, e ha annunciato una lunga giornata di trentacinque miglia. Il sole, alzandosi, ha scoperto un paesaggio abbastanza piacevole: le prime alture pugliesi correvano alla nostra sinistra, stagliandosi nell'azzurro in modo pittoresco; a destra, il mare brillava di tutte le luci del sole, che sembrava balzare dalla cima della torre di Santa Sabina, una delle più forti della costa. Qua e là abbiamo visto alcuni alberi, capanne di pastori, e greggi 177 che andavano verso i pascoli. Abbiamo anche visto la piccola città di Ostuni, che si trova su una collina circondata da boschi, dove gli abitanti dei dintorni godono i piaceri della caccia. L'aspetto del paese, il tempo, l'aria aperta, l'esercizio, avevano già rianimato le nostre forze e stuzzicato il nostro appetito. Siamo arrivati in queste disposizioni a Ottara, dove dovevamo cenare. La vettura si fermò nel cortile della foresteria, la più misera e desolata che si possa immaginare. Il vetturino ci ha avvertito che c'era ancora molta strada da percorrere, poteva solo fermarsi un momento, e si è immediatamente preso cura dei suoi cavalli, molto più che di noi. Quindi abbiamo dovuto correre di casa in casa per comprare l'occorrente per un pasto frugale, e, per ulteriore imbarazzo, fare noi stessi e in fretta la nostra cucina. Era già molto tardi quando siamo arrivati a Monopoli, e abbiamo avuto anche un sacco di problemi per farci aprire le porte. Dovendo sostare un giorno intero in questa città, non abbiamo potuto resistere al desiderio 178 di andare a contemplare le rovine dell'antica Egnazia, da cui si sostiene che essa sia nata. È stata una passeggiata molto piacevole in questa stagione. Quindi, ci siamo diretti all'abbazia di Santo Stefano, una commenda dei Cavalieri di Malta, attraverso boschi profumati, circondati da aranci e limoni. A una certa distanza, in riva al mare, c'è un piccolo forte di artiglieria, presidiato da un distaccamento di soldati, sempre pronti, al segnale della guardia marina, ad andare verso il punto della costa minacciato. Poco dopo, siamo arrivati sul sito di Egnazia. Lo spettacolo di una città in rovina, priva degli abitanti, è uno di quelli che più interessano lo storico, l'osservatore e l'artista. Vi si trovano ricordi, altre sensazioni, ed effetti pittoreschi; tutti deplorano il destino di questa potente città, di cui il disastro, senza dubbio eclatante, non ha lasciato che delle tracce nella memoria degli uomini. Non conosciamo l'epoca esatta della distruzione di questa città. Alcuni pensano che ha avuto luogo intorno alla metà del nono secolo, sotto l'impero di Lotario in Occidente, e 179 di Michele Porfirogenito in Oriente, quando i Saraceni, avendo invaso la Sicilia e la Calabria, hanno devastato questa parte della Puglia. Altri credono che questo evento sia avvenuto intorno al 968, durante la guerra che ha diviso i due imperi. I cittadini di Egnazia, fluttuavano allora tra il partito di Ottone e quello di Niceforo Foca, e fu facile per i barbari approfittare di questa situazione per devastare e distruggere questa sfortunata città. Il piccolo numero di abitanti sfuggiti al disastro si unì ai greci e si trasferì a Monopoli, abbandonando Egnazia senza più farvi ritorno. Nei tempi antichi, una ninfa, chiamata Hippona, era particolarmente venerata (1) ad Egnazia. Forse è alle cerimonie praticate nel suo tempio, che Orazio fa allusione nel seguente passaggio della piacevole relazione del ______________________________________ (1) Secondo Reinesius, che riporta la seguente iscrizione: HIPP. EGNATIAE NEPTUNO CUM CERERE ERYMNI AEDEM II. VIRI JURIDICUNDO H. H. S. S. (HAEC SAXA). ERIGUNT POSTERITAS DISCE. 180 suo viaggio da Roma a Brindisi: “Il giorno appresso il tempo migliora, ma non la strada, almeno sino alle mura della pescosa Bari. Poi Egnazia, eretta contro il volere delle ninfe, ci offrì motivo di risa e di scherni, perché volevano qui farci credere che l’incenso sulla soglia del tempio si consumava senza fiamma. Può pensarlo il giudeo Apella, (2) io no: gli dei, così ______________________________________ (2) - Senza dubbio Orazio aveva in mente ciò che si diceva del sacrificio di Elia, dove il fuoco celeste aveva consumato l'oblazione. Inoltre, era comune credenza fra i Persiani, i Greci e i Romani, che le combustioni spontanee, sugli altari, fossero un augurio felice. Questo fu uno dei presagi della grandezza di Tiberio. Seleuco conobbe, con un tale segno, la sua futura elevazione; e il consolato di Cicerone fu preceduto da un tale presagio. Ci sono anche posti diversi da Egnazia, dove sarebbero avvenuti prodigi simili: Solino riferisce che in Sicilia, vicino ad Agrigento, c'era un altare sul quale venivano sistemati dei sarmenti che si accendevano da soli, se il sacrificio era gradito al dio al quale era offerto. Pausania riferisce, come testimone oculare, che la stessa cosa era accaduta in Lidia, in due città diverse. Eliano ne parla descrivendo il famoso tempio di Venere, sulla montagna di Erice. 181 ho sentito dire, passano il loro tempo indifferenti e, se qualche prodigio si verifica in natura, non è certo l’ira divina a precipitarcelo dall’alto dei cieli. Brindisi pone fine al lungo viaggio e fine alla mia satira”. In questo brano, più che altro filosofico, Orazio ci dice che l'acqua dolce era molto rara a Egnazia. Tuttavia, ci sono ancora presso le mura antiche che la cingevano dalla parte del mare, fonti di acqua pura e limpida, che gli abitanti del luogo chiamano le fontane di Agnazzo, che sono, si dice, le più rinomate di questa costa. Secondo Strabone, il nome di questa città era dato non solo al percorso che da Benevento andava a Brindisi, ma anche a quello che partiva dalla sponda opposta dell'Adriatico, e si dirigeva verso la Macedonia e la Tracia. I viaggiatori e le milizie spesso si imbarcavano al porto di Egnazia per andare a Durazzo, sulla costa dell'Epiro, separata da quella d'Italia dall'Adriatico. Cicerone dice che era una via militare, e che apriva alle truppe il cammino del mare Ionio e dell'Ellesponto. Questo porto, che 182 doveva essere importante, era senza dubbio molto frequentato; noi ne abbiamo appena visto le tracce verso la torre di Agnazzo, nei pressi di un torrente dove solo le barche possono ormeggiare. I resti dell'antico castello e le mura della città sono facilmente riconoscibili; ma non abbiamo trovato il tempio di cui parla il Pratilli, né siamo penetrati nel luogo che lui chiama il Parco, che aveva un corridoio sotterraneo, a volta, illuminato da finestrelle. Queste costruzioni, che dovevano servire come bagni termali (1), e gli altri monumenti che consistono nelle tombe, riserve d'acqua, ecc., non sono più che una massa confusa di pietre coperte per metà da piante parassite. Queste rovine non hanno soddisfatto le nostre aspettative, nonostante il desiderio che avevamo di arrivare ad ammirare tutto; e avendo anche riconosciuto in loro un interesse pittorico molto secondario, ci siamo affrettati a tornare a Monopoli. ______________________________________ (1) Pratilli fornisce una mappa di questa città, poco accurata, che appare tracciata a vista senza regolarità. 183 Gli abitanti dovrebbero vantare un'origine greca, indicata dal nome di questa città, piuttosto che attribuirla agli Egnazi, dei quali Orazio rende un ritratto così poco lusinghiero. Del resto, il nome di Monopoli (città unica e singolare), mostra che, dalla sua origine, almeno nel paese in cui si trovava, questa era probabilmente l'unica città notevole. Dal tempo dei Normanni, che si divisero la Puglia, Monopoli è appartenuta ai Tutabovi, e solo all'estinzione di questa famiglia, fu restituita al dominio reale. La sua popolazione ammonta oggi a diciannovemila abitanti. È situata sulla costa adriatica; è circondata da giardini pieni di alberi da frutto, che ne rendono l'aspetto molto piacevole. Fortificazioni zeppe di artiglieria sono disposte lungo viali. Le strade sono dritte, le case ben costruite. Vi sono diverse chiese di buona architettura; la cattedrale in particolare è un edificio molto bello. Fu prima consacrata a San Mercurio, e fecero bene a cambiare questo nome in quello della Santa Vergine, la cui immagine, probabilmente fatta di legno, fu portata da Costantinopoli, al tempo della 184 persecuzione degli iconoclasti, da un uomo di nome Euprasio, che la nascose sulla riva del mare per paura che non fosse bruciata. L'interno di questa chiesa è molto ricco e vediamo buone statue attribuite a Ludovico Fiorentino. Ma chi era questo "Fiorentino"? Molti artisti famosi sono conosciuti in Italia solo per il loro nome, a volte per il soprannome o per il nome della loro città natale; questa circostanza getta molta vaghezza e indecisione negli annali delle arti. Comunque sarebbe interessante poter ripristinare l'attribuzione di queste statue al loro vero autore. Io credo che siano di Ludovico Salvetti, allievo di Pietro Tacca di Firenze. Questo Salvetti aveva un talento molto vario; ha lavorato anche lo stucco, il marmo e il bronzo. Ha restaurato diverse statue antiche; fu in seguito nominato ingegnere e riempì questo posto con distinzione. Spirituale, galante e amabile nella società, era anche un grande cacciatore, e sapeva imitare, fischiettando, il canto di tutti i tipi di uccelli. 185 23 ottobre. Da Monopoli a Polignano, abbiamo seguito le rive del mare, dove abbiamo visto, ad intervalli regolari, delle torri di guardia. Il paesaggio è più fertile che pittoresco; è piantato con ulivi e vigneti. Polignano è una graziosa cittadina il cui nome greco indica che è stata costruita su una elevazione (1). Le rocce che la supportano sono forate da enormi caverne dove entrano le acque del mare e dove si può andare in barca; si viene giù dalla città per scale scavate nella roccia. La popolazione, che non ammonta che a quattromila anime, conta un gran numero di famiglie benestanti; c'è molto buon cibo e i dintorni producono frutta e buon vino; e il suo porto, eccellente pesce. Non molto tempo fa, è stata scoperta, nelle vicinanze, una tomba che doveva essere quella di un gastronomo; vi hanno trovato più di sessanta vasi di diverse forme, di cui alcuni erano di dimensioni enormi e sembra______________________________________ (1) Polignano potrebbe anche avere per etimologia le parole: poli = molto e glanis = specie di pesce, cioè: città del pesce abbondante. 186 vano destinati a contenere cibo e bevande. A poca distanza dalla riva, possiamo vedere lo scoglio di Sant'Antonio, sul quale esisteva, al tempo della dominazione greca, un famoso monastero. Vediamo solo le rovine di questo grande edificio, così come la vecchia chiesa, ora abbandonata. Finalmente, a due miglia dalla città c'è l'Abbazia di San Vito, dove gli stranieri sono accolti molto bene, ed i cui giardini, decorati con vasche, fontane e statue, servono come passeggiata agli abitanti di Polignano a Mare. Mola, dove abbiamo cenato, e che chiamiamo Mola di Bari, per distinguerla dalla Mola di Gaeta, che si trova sulla strada che va da Napoli a Capua, è un castello costruito da una colonia di Atene, una punta di lancia in mare. Gli 8400 abitanti, non hanno conservato nulla del buon gusto e della gentilezza dei loro antenati. Le strade sono strette e buie; diverse fabbriche di sapone e delle concerie contribuiscono a renderle sporche e infette. C'è anche un ufficio doganale e un magazzino del sale. La torre di guardia è molto forte; è stata costruita, circa due 187 secoli fa, dal marchese di Polignano, della famiglia dei Toraldo. Finalmente, dopo aver fatto in un giorno quasi trenta miglia, su un cammino abbastanza piatto, ma estremamente sassoso e molto stancante, siamo arrivati a Bari, una delle città più interessanti di questa costa. 188 LETTERA XV. Città di Bari; la sua storia. - Via reale. - La cultura è ben compresa. - Giovinazzo. Bisceglie. - Case di contadini molto notevoli. Trani, capitale della provincia. Bari, 24 ottobre. Ognuna delle piccole città che incontriamo sulla nostra strada si vanta, forse a ragione, dell'importanza che le è stata attribuita per l'anzianità o per i fatti storici di cui è stata teatro. Gli abitanti non mancano di raccontare tutte le rivoluzioni, le vicissitudini e i disastri di cui hanno conservato la memoria, e nominare gli imperatori, i re, i vescovi, in una parola, le persone importanti che hanno dovuto lodare o biasimare, e in particolare i grandi uomini di cui si vantano. Meno prolissi di loro, non possiamo, tuttavia, trascurare le principali caratteristiche storiche relative a queste città, che sono in stretta relazione con la storia generale del regno. Abbiamo solo l'imbarazzo della scelta 189 nel nostro materiale, perché non c'è villaggio qui, che non abbia il suo cronista. Abbiamo avuto la pazienza di leggere o ascoltare i dettagli spesso noiosi di queste lunghe storie; e il lettore, tenendo conto della pena che ci siamo presi per accorciarli, potrebbe esserci grato per questo estratto. La città di Bari, soprattutto, potrebbe fornire materiale per un volume, non privo di interesse, dal momento che è una delle città più antiche del paese, e il suo nome è mescolato con tutti i fatti importanti della storia antica e moderna. La fondazione di Bari risale ai tempi favolosi; si dice che questa città, di cui gli autori antichi parlano spesso, portasse una volta il nome di Iapigio, figlio di Dedalo, e suo fondatore; che divenne la capitale della provincia della Iapigia, e in seguito fu chiamata Bari, da Barione, generale delle milizie peucezie in Grecia; era una di quelle città autonome, che si governavano con leggi proprie e che nominavano i loro magistrati. Alla morte di Alessandro, re dell'Epiro, sull'esempio di altre città di Puglia e Lucania, Bari si sottomise al 190 popolo romano. Rimasta fedele alla repubblica, ottenne dei privilegi, divenne una città municipale, e sotto i primi imperatori fu considerata una delle città più importanti in Italia. Successivamente, cadde nelle mani dei duchi di Benevento, che la tennero fino all'arrivo dei Longobardi. Nell'839, la pace di cui godeva fu disturbata dai dissidi fra Adelgiso e Siconolfo. Quest'ultimo aveva chiamato i Saraceni in suo aiuto; arrivarono su questa costa l'anno seguente; nascostamente riconobbero il posto; un traditore, Pandone, che era governatore, aprì loro le porte durante la notte; gli abitanti, senza sospetto, passarono dal sonno alla morte, o dal risveglio alla schiavitù. I Saraceni rimasero circa trent'anni nella città e vi risiedettero col loro principe; Puglia, Lucania e Calabria continuarono ad essere infestate dalla loro pirateria fino all'870. A quel tempo, l'imperatore Luigi II venne in Italia e, dopo un lungo assedio, si impadronì di Bari, cacciandoli via. Tuttavia, temendo che dopo la sua partenza questi barbari vi rientrassero, nell'886 convocò 191 i greci per aiutare gli sfortunati abitanti della Puglia. Gli imperatori d'Oriente nominarono un magistrato supremo, col titolo di catapano o stratego, un ufficiale che governava nel loro nome i loro possedimenti in Italia. Durante la decadenza dell'impero greco, queste contrade caddero nelle mani dei Normanni; Bari, seguendo l'esempio di diverse altre città, si diede al conte Umfredo, che, morendo un pò dopo a Venosa, lasciò la sua eredità a suo figlio Abelardo, sotto la supervisione di suo zio Roberto il Guiscardo. Ma quest'ultimo, argomentando che, secondo l'uso dei principi normanni, l'eredità doveva passare ai fratelli, a danno dei ragazzi, si impadronì degli stati di Umfredo. Il nipote oppresso ricorse all'Imperatore Costantino che nominò un nuovo catapano. Questo si impadronì di Bari, dove Roberto il Guiscardo lo tenne assediato, da mare e da terra, per quattro interi anni. Infine, gli abitanti, costretti dalla carestia e dalle disavventure del lungo assedio, si arresero al Guiscardo, su consiglio di Argirizzo Joannaci, capo dei loro magistrati. Il 192 vincitore trattò la città con gentilezza e umanità e risarcì gli abitanti per tutte le perdite subite. In seguito, con un buon numero di truppe e una flotta di cinquanta navi, accompagnato da voti e gratitudine pubblica, si avvio alla conquista di Reggio e di Palermo, che gemevano sotto il giogo degli africani; conquistò queste due città e tornò a stabilire a Bari la sede del suo potere. Re Ruggero I, seguendo l'esempio dei principi normanni suoi antenati, considerando questa città come la capitale del suo regno, volle essere incoronato con grande pompa, l'anno 1130, dall'antipapa Anacleto, di cui aveva abbracciato il partito. Guglielmo I, detto il Cattivo, succedette a Ruggero; i baroni della Puglia, e in particolare gli abitanti di Bari, si ribellarono. Il monarca implacabile fece radere al suolo la città nel 1155, e mise a morte un gran numero di nobili. Era stata appena ricostruita, che fu nuovamente distrutta dall'imperatore Federico II. Alla fine, ricostruita per la terza volta, nello stesso luogo, divenne molto più ricca, e fu considerata una delle città più importanti del paese, anche se decaduta dal suo rango di 193 capitale, e non più titolare, fino ad oggi, del nome della provincia Il ducato di Bari è stato unito al regno di Napoli, i sovrani lo diedero all'illustre famiglia dei Caldara; poi a Luigi Sforza di Milano, con il principato di Rossano, come ricompensa per aver ristabilito sul trono la casa di Aragona. Infine, i diritti su questa città passarono, intorno al 1550, nella persona di Bona, figlia della celebre Isabella d'Aragona, alla Polonia, che in seguito la rese alla corona delle Due Sicilie. Il ricordo di questa Bona, sposata con Sigismondo I il Grande, re di Polonia, si è conservato nel paese. Alla morte di suo marito, lei risiedette a Bari, che era anche servita come ritiro a sua madre. Bona era una donna di grande carattere, che conservava, insieme ai suoi disordini, una sorta di magnanimità e grandezza. Benefattrice della città che l'aveva ospitata, la decorò e la arricchì dei tesori che aveva portato dalla Polonia. La duchessa Isabella aveva cominciato ad ingrandire, abbellire e fortificare la città di Bari, 194 in cui venne a vivere nel 1501. Voleva isolarla del tutto, avendo tagliato l'istmo che la legava alla terraferma, e costruito diversi ponti sopra il canale pieno delle acque del mare, ma, obbligata dalle circostanze a fare ritorno a Napoli, dove morì nel 1522, non poté terminare questo grande lavoro. Quarant'anni dopo, i ponti furono portati via da una forte tempesta; il canale rimase ostruito e si formò un piccolo lago, che conserva ancora il nome di Mare di Isabella. Fu solo nel 1554 che, all'età di settantuno anni, Bona si ritirò nel suo principato; e sebbene vi abbia vissuto solo due anni, con una corte numerosa e brillante, fortificò il castello, come si vede da un'iscrizione in grandi lettere di bronzo fissate sul cornicione attorno al parco. Corresse il lavoro iniziato da sua madre, costruì diverse chiese e due cisterne per raccogliere le acque che mancavano agli abitanti. Sulla porta di uno di questi edifici si legge questa iscrizione: BONA, REGINA POLONIAE, PRAEPARAVIT PISCINAS. PAUPERES 195 SITIENTES, VENITE CUM LAETITIA ET SINE ARGENTO. Ha anche fatto regali molto ricchi ai religiosi della famosa chiesa di San Nicola, donando loro, tra le altre cose, degli arazzi che rappresentano le sette opere di misericordia. Infine, con il suo testamento, stabilì una fondazione perpetua di mille corone, per maritare, ogni anno, dieci povere orfanelle. Ha anche fondato un monastero per altri bambini abbandonati. Vediamo ancora che questa principessa non finì i suoi giorni in povertà; la magnifica tomba che esiste nel coro della chiesa di San Nicola, mostra il rispetto avuto per la sua memoria. È stata eretta da una delle sue figlie, che aveva anche sposato un re di Polonia (Stefano I). Le pareti della cappella sono ricoperte di marmo prezioso. Si vedono cinque statue di bella fattura: una, in ginocchio, offre la figura della Regina Bona; la seconda e la terza, sedute, rappresentano il regno di Polonia e il ducato di Bari; le altre due, in piedi, San Stanislao e San Nicola. L'altare, sormontato da un grande 196 bassorilievo, raffigurante la Resurrezione di Nostro Signore, è ornato da una profusione di colonne di vari marmi. È particolarmente notevole il sarcofago, che è di una materia nera il cui lucido imita il cristallo. Non faremo la descrizione del tempio, in cui si venerano, da più di sette secoli, le ossa miracolose di San Nicola. Qui si continua a distillare una manna sacra che guarisce, nonostante la medicina, una miriade di mali; anche il concorso di pellegrini di tutte le classi è continuo. La chiesa è bella, e il tesoro molto ricco. Il castello è circondato da fossati e quattro forti con cannoni. Il porto è comodo e l'arsenale in buone condizioni. La città ha un commercio abbastanza ampio; vi sono fabbriche di vetro e cappelli. Infine, la popolazione ammonta a quasi diciannovemila abitanti. Tutte le vicende vissute da Bari devono averla privata dei suoi antichi monumenti. Non si vede che una pietra miliare, contrassegnata col numero centoventotto, che potrebbe riferirsi alla linea ininterrotta descritta da Pratilli. 197 Questa colonna è coricata a terra, sul molo del porto, ed è fortemente usurata dal tempo… 25 ottobre. Lasciando Bari, ad una certa distanza da questa città, abbiamo trovato un fondo paludoso, dove si vede un magnifico ponte; esso si lega alla "via reale", che si sta costruendo in questi giorni e che diventerà molto utile per i collegamenti commerciali su questa costa. È ampio, ben livellato, e sostenuto da una costruzione in muratura molto solida. Sfortunatamente per noi, questa strada non è stata completata; e quando siamo stati costretti a lasciarla, il cammino è diventato spaventoso. Comunque ci siamo goduti la bellezza di questo paese, coltivato ovunque e seminato, per così dire, a distanze molto ravvicinate, da piccole città ben costruite, tutte situate ai margini del mare, con porti comodi per l'approdo, e circondate da bellissime proprietà rurali, da casette e ville, che fanno presumere che gli abitanti siano ricchi e industriosi. Si possono distinguere, in questi 198 giardini, boschetti di aranci e limoni, vigneti, allori, melograni, aiuole circondate da siepi tagliate, che racchiudono i fiori della stagione. Abbiamo anche attraversato foreste di grandi alberi di ulivo, che avanzano fino al limite del mare, e piantagioni di cotone. Lungo la strada abbiamo incontrato spesso abbeveratoi di grandi dimensioni, per le greggi in viaggio verso il Tavoliere (pascoli reali di cui parlerò presto), e, in mezzo ai campi, varie costruzioni, come frantoi e mulini, dove ognuno porta il prodotto del suo raccolto. Specialmente in questo periodo dell'anno, un gran numero di albanesi attraversano il mare e giungono su questa costa per aiutare gli abitanti nei loro lavori. Diverse loro famiglie si sono stabilite qui, conservando i loro costumi, e abbiamo avuto il piacere di ritrovare in Italia le abitudini e le maniere della Grecia. Questo spettacolo di operosità, risultato di un lavoro ingegnoso, era fatto per interessarci. I borghesi e i contadini che abbiamo incontrato sulla strada erano ben vestiti e ci hanno accolto in maniera amichevole; sembravano felici e deduciamo che 199 erano governati con saggezza. L’amminitrazione comunale è infatti ben organizzata: ognuna di queste piccole città ha rispettabili edifici pubblici: istituti per la gioventù, ospedali per poveri, infermi e trovatelli, monti di pietà, ecc. Giovinazzo, la prima di queste città che si incontra dopo Bari, è antica e costruita, si dice, sulle rovine della Netium peuceta; ma l'epoca della sua costruzione è incerta. E' circondata da mura; la sua cattedrale è di buona architettura. La popolazione ammonta a cinquemiladuecento abitanti, e lei diede i natali a due Spinelli, uno stimato storico, l'altro giureconsulto e soprannominato il Papiniano del suo tempo. Pochi chilometri più avanti troviamo Molfetta, una città moderna, i cui abitanti, tredicimila, sono molto laboriosi; ci sono circa quattrocento tessitori del lino e una fabbrica di sapone, che sfrutta i nitrati che si trovano nelle vicinanze. Questa è la patria di un pittore del secolo scorso, un tale Corrado Giaquinto, allievo di Solimena e di Conca; ha lavorato molto negli stati del Papa; poi andò in Piemonte e da lì in Spagna, al 200 servizio della corte, dove ha adottato lo stile spedito e manierista di Jordaens, che era allora di moda nel regno. Bisceglie, che viene dopo, è costruita su una roccia bagnata dal mare. Secondo Guglielmo di Puglia, questa città deve la sua origine a Pietro, conte di Trani, uno dei dodici capitani Normanni che ha conquistato il regno di Napoli nell'undicesimo secolo. Ma un geografo napoletano deriva il nome di Bisceglie da quello di "vigiliae", che gli antichi davano alle guardie militari su queste coste; si afferma che questa città fu presa da Annibale, ripresa da Fabio, e posseduta successivamente dai Romani, dai Longobardi, dai Saraceni e dai Normanni. I viali portano il nome di Federico Barbarossa, che li costruì; e vediamo un teatro a volta che può contenere diverse migliaia di spettatori. In queste contrade ci sono case di contadini, tutte costruite sullo stesso modello, e che abbiamo scambiato, come altri viaggiatori, per tombe antiche, per la loro forma, abbastanza singolare, che ho qui riprodotto (Fig.8). Sono alte e isolate, poste qua e là in mezzo ai campi 201 e ai pascoli; è qui che inizia il Tavoliere. L'origine di queste costruzioni è singolare, forse la stessa di quei tumuli che ricoprono certi paesaggi. Per ripulire la superficie dei campi e dei prati della quantità eccessiva di pietre che sembrano uscire ogni anno dal cuore della terra, gli agricoltori formano dei cumuli, che a volte raggiungono una grande altezza. Alcuni pastori più industriosi, approfittando del lungo tempo libero che lascia loro la guardia delle loro greggi, si prendono cura di sistemare le pietre per ripararsi dal caldo e dal maltempo. La forma più semplice e più adatta per legare e dare una certa solidità a questi rozzi edifici era, senza dubbio, la forma circolare; poi, per la copertura di queste capanne, non riuscendo a trovare gli elementi adatti a portata di mano, poiché mancano, in queste pianure, alberi e persino cespugli, si industriano ad eseguire le volte con le stesse pietre; per questo, era necessario adattarle, restringendole a cerchi concentrici mentre le pareti si alzavano, fino a formare un cono cavo, arrotondato in alto, che prende luce solo dalla porta. Infine, i più operosi, praticano 202 Figura 8 203 un'apertura nella parte superiore dell'edificio per creare una corrente d'aria e dare una via d'uscita al fumo; questa cupola regolare ha una forma ellittica, simile a quelle volte che gli arabi hanno costruito in Sicilia, e che Leandro Alberti compara ad una pigna. Questa volta poggia su una terrazza piuttosto ampia, che fa il giro dell'edificio, a cui si arriva dalle scale, che si sviluppano da destra e da sinistra, rampando lungo le pareti circolari. Queste terrazze, comuni in tutto il paese, sono motivate dal bisogno naturale di alzarsi il più possibile da terra, sia per respirare freschezza, sia per esporre, lontano dall'umidità e dall'azione del vento o del calore, leguminose, biancheria e altre cose che si vogliono asciugare. Queste stesse terrazze possono ancora essere il risultato dell'istinto naturale dell'uomo di elevarsi, per scoprire da lontano i pericoli da cui è minacciato, prevenire le sorprese, o dominare le sue proprietà e poterne abbracciare la distesa a colpo d'occhio. Vediamo che i contadini pugliesi, senza avere conoscenza dell'architettura, hanno natural204 mente usato il primo metodo noto per costruire le volte, un processo che esisteva ben prima dell'invenzione dell'arco e dei segreti del taglio delle pietre. Ci sono diversi esempi di monumenti antichi, che mostrano questo modo primitivo di costruire la volta, in Egitto, Grecia, India e persino in Cina; si potrebbe dire che «l’ignoranza ci è valsa i lavori più duraturi dell'architettura, e affermare che la scienza del tratto varrà per i nostri discendenti la perdita della maggior parte delle nostre opere». Per il resto, credo che debba assegnarsi a questo primo processo, la forma degli archi e delle volte a vela, piuttosto che all'imitazione dell'intreccio dei rami degli alberi sacri che riparavano le misteriose cerimonie dei nostri druidi. Questo carattere distintivo della cosiddetta architettura gotica (1), la cui origine _____________________________________ (1) M. Dagincourt riferisce dell'uso, nell'architettura gotica, dell'arco a tutto sesto, fino a quando, alla fine del tredicesimo secolo, l'arco a ogiva prevalse in tutte le costruzioni della Svezia, della Germania, dell'Inghilterra e della Francia. 205 iperborea è quantomeno molto dubbia, a noi sembra non essere altro che un brancolare nell'ignoranza o una deviazione dal buon gusto, causati dalla mescolanza dei popoli occidentali con quelli dell'Oriente e dall'adozione di mode, usi ed arti provenienti dall'India, che ha infestato a poco a poco tutta l'Europa... Stavamo quindi costruendo gradualmente il nostro nuovo sistema sull'origine dell'architettura gotica, e lo stavamo fortificato con nuove prove. Ma le nostre idee hanno preso un altro corso quando siamo entrati nella città di Trani, capitale dalla provincia. Costruita, si dice, da Tirreno, figlio di Diomede, ingrandita e adornata da Traiano, che le diede il nome di Traianopoli, l'origine di questa città è, seguendo alcuni altri scrittori, assolutamente sconosciuta, dal momento che Strabone e Plinio non ne fanno menzione. Esisteva al tempo dei Normanni; fu assegnata al conte Pietro, come baronia; fu distrutta da Ruggero I nel 1133, per essersi ribellata. Ricostruita qualche tempo dopo, l'imperatore Federico II vi costruì un castello, che esiste ancora, e che noi 206 consideriamo come uno dei migliori boulevard in Puglia. Durante la guerra tra Ferdinando I d'Aragona e Giovanni d'Angiò, un soldato di ventura, Jacopo Piccinino, cercò di conquistare Trani, promettendo una grossa somma al governatore. Ferdinando, avvertito in tempo, chiamò dall'Albania Giorgio Castriota (il famoso Scanderberg), che presto arrivò con un esercito, scacciò dagli Angioini, prese il castello di Trani, e lo restituì al suo legittimo proprietario. Carlo VIII, re di Francia, durante la sua invasione del regno di Napoli, con il pretesto dei suoi diritti ereditari sulla corona di Napoli, fece assalire la città di Trani dai Veneziani, suoi alleati, che la presero nel 1493 e vi lasciarono, per guardarla, tutti i cattivi soggetti (marrani) e gli ebrei espulsi dalla Spagna. Dopo la partenza del re di Francia, Trani passò sotto il dominio della casa d'Aragona. Questa città, così come tutte le altre sparse sulla costa, è costruita in bellissime pietre di una tonalità giallastra che non si annerisce mai e che dà un aspetto piacevole a tutti i suoi palazzi e 207 alle sue mura, che sono lunghe due miglia e mezzo; molti dei suoi monumenti ci sono apparsi notevoli; tra gli altri la cattedrale, a tre navate, adornata con dipinti e colonne di marmo. In essa si vede una magnifica tomba, che contiene le reliquie di diversi Santi; il campanile, ricoperto di sculture, ha centoventi palmi di altezza e trenta palmi su ciascuna delle sue quattro facce. L'architettura esterna del teatro pubblico è elegante, e la platea può contenere, ci è stato detto, ottocento persone sedute. La grande piazza è bella e spaziosa: vi si tengono tre fiere nell'anno; le strade sono ampie, pulite e pavimentate con grandi pietre quadrate. La nobiltà è numerosa, e si incontra in quattro occasioni, come a Napoli; vi sono edifici, o casette dove vengono procurati i soliti divertimenti della società; vale a dire, la conversazione, il gioco e dei balli. La popolazione ammonta a quattordicimila anime; ma la città è meno commerciale di Barletta, dove siamo arrivati molto tardi, e dove dobbiamo rimanere uno o due giorni. 208 LETTERA XVI. Città di Barletta; saline reali; statua colossale di bronzo. - Congetture a questo riguardo. Barletta, 26 ottobre. Finora abbiamo seguito le rive dell'Adriatico dirigendoci a nord-ovest. Quando lasceremo Barletta taglieremo la penisola nella sua larghezza dirigendoci a ovest, e arriveremo a Napoli scendendo a sud-ovest. Avremo così fatto un gomito, che forse si potrebbe evitare seguendo un percorso più diretto; ma per questo sarebbe necessario che il porto di Brindisi ridiventasse importante come una volta, e che il governo napoletano, più potente, fosse più interessato agli interessi del commercio. Al tempo dei Romani, la grande Grecia era attraversata da un'infinità di strade; anche se la via Appia era la più famosa, ce n'erano molte altre, tutte praticabili e tutte costruite con la stessa tecnica, come la Domiziana, la Campana, la Latina, l'Egnazia, ... Queste strade avevano 209 loro particolari ramificazioni. La differenza oggi è grande; ce n'è solo una principale che attraversa il regno, ed è anche mal gestita. Comunque, abbiamo percorso la metà del nostro cammino per raggiungere Napoli, e se questa parte della strada, tracciata su pianure interminabili, ci ha offerto solo un debole interesse pittorico, saremo ricompensati non appena arriviamo in montagna, brutta agli occhi dell'uomo comune, ma che un paesaggista deve trovare ammirevole. La città di Barletta è stata costruita nell'undicesimo secolo da Pietro, conte di Trani, uno dei dodici capitani normanni che conquistarono il regno di Napoli. Diventò una delle più belle e più grandi città pugliesi; Ferdinando I d'Aragona volle esservi incoronato dal legato apostolico, inviato da Papa Pio II. Consalvo, generale di Ferdinando il Cattolico, fece di questa città una piazza d'armi, quando cacciò dal regno i partigiani della casa d'Angiò. Le strade di Barletta sono diritte e ben pavimentate; le mura, che hanno il perimetro di 210 un miglio, sono solidamente costruite, e il castello è ben fortificato. Agli stranieri vengono indicati: l'Orfanosio, ospizio per orfani, due scuole di "belle lettere" e alcune chiese. C'è qui la residenza del Reggio Portolario, un incaricato della regia camera di Napoli, per l'ispezione del carico di viveri attinto dalla Capitanata e dalla terra di Bari. Vi risiedono, il consiglio reale del Commercio, così come l'amministratore generale dei sali, e il grande priore dell'ordine di Malta, che vi tiene le assemblee dei cavalieri. La popolazione ha quasi sedicimila anime. Il più forte ramo del commercio dei dintorni è costituito dal sale, che viene estratto dalle saline reali, a sei miglia da Barletta, dall'altra parte dell'Ofanto. Forniremo su questo oggetto alcuni dettagli, che non saranno privi di interesse per alcuni dei nostri lettori. Queste saline si trovano nella vasta pianura delimitata dal Golfo di Manfredonia e dal lago di Salpi. La loro forma è rettangolare, lunga due miglia e larga due terzi di miglio. Il terreno è composto, sulla superficie, da uno strato di sabbia, più sottile man mano che ci si allontana 211 dal mare; scavando circa quattro palmi, si trova l'acqua. All'entrata delle saline, sul lato di Barletta, è praticato un canale (foce), attraverso il quale viene introdotta l'acqua dal mare; nel mezzo c'è un altro canale tortuoso che cammina in tutte le direzioni, e diffonde l'acqua su tutta la sua superficie. I processi utilizzati per ottenere il sale, sembrano avvicinarsi alla semplicità primitiva; inoltre, differiscono in diversi punti da quelli che si usano comunemente: non entreremo in questi dettagli, che possiamo saltare senza inconvenienti. La salina è divisa in cinque parti, e ciascuna è divisa in spazi chiamati vasi, che sono appiattiti e circondati da un bordo di terra alto mezzo palmo e largo quattro palmi; i primi bacini contengono il resto dell'acqua salata dell'anno precedente; i secondi la più grande quantità possibile di acqua nuova, e i terzi sono destinati alla confezione del sale. All'inizio di maggio, si libera l'ingresso ai canali dalla sabbia ammucchiatasi durante 212 l'inverno; affinché l'acqua possa fluire facilmente e in quantità maggiore, alle loro bocche si formano due palizzate composte da pali e paglia intrecciata, che si estendono abbastanza lontano nel mare. Poi si puliscono e si riparano tutti i contorni dei bacini e delle vasche d'acqua; infine, con un rastrello di legno, si toglie il fango che sporca il fondo di questi bacini, e si lascia la terra esposta al sole per diverse ore, per farla asciugare e indurire. Approntato tutto ciò, si introducono nuove acque, che si mescolano con una parte di quelle dell'anno precedente, che contengono molto più sale in soluzione, e si ha cura di riempire le riserve, in modo da poter rifornire successivamente i bacini in cui il sale si deve formare. Questa acqua, che si sviluppa su una grande area, avendo poca profondità, evapora in due o tre giorni, a seconda del calore del sole o dell'azione dei venti che accelera il processo di essiccazione: poi si consolida, come se fosse congelata, per uno spessore di una linea e mezza. Non appena questo primo strato di sale è formato, si introduce nuova acqua, per 213 formare un altro strato di sale, e così successivamente, fino a quando la crosta è aumentata fino ad uno spessore di quasi due pollici, che è il punto di maturazione. Allora si fa scolare l'acqua in eccesso nei bacini vuoti: con un piccone si rompe questa crosta, e con delle pale di legno si ammucchia il sale in pile piramidali, negli stessi bacini. Quindi si trasporta il sale in sacchi di tela, a spalla d'uomo, sui bordi delle saline, formando dei mucchi che si coprono con paglia o tavole. Fatto questo primo raccolto, si prova una seconda operazione, se la stagione lo consente; ma raramente riesce; così, nonostante tutta l'acqua non sia completamente evaporata, non essendo il sale abbastanza spesso, si immette nei bacini della nuova acqua, che sarà più satura per il prossimo anno; infine, svuotati gli altri bacini e chiuse tutte le uscite, oltre alla bocca dei canali, per interrompere qualsiasi comunicazione con il mare, si attende la prossima primavera per ricominciare di nuovo. C'era anche una salina sulla costa vicino a Taranto, ma non viene più utilizzata. Ci sono 214 anche due miniere di salgemma: una nella provincia di Cosenza, e l'altra vicino a Catanzaro. Barletta ci ha offerto, in una delle sue piazze, un oggetto interessante per un artista; si tratta della famosa statua in bronzo colossale, che è stata argomento di così tante discussioni tra gli antiquari. Signorelli riassume le opinioni e considera questa statua come un monumento incontestabile di scultura dell'ottavo secolo. Ma bisognerebbe sapere, dice, se è opera dei Greci o dei Longobardi, e chi è il personaggio che rappresenta. È molto difficile pronunciarsi su questi due quesiti. Al tempo di Villani, cioè di Carlo II d'Angiò, questa statua si trovava nel porto di Barletta, ed era, come oggi, chiamata dagli abitanti Arachio. Lo storico di Firenze pensò che rappresentasse il re Rashi, che lui chiamava Eracco, e che fu eretta dai Longobardi di Benevento. Scipione Ammirato dice che gli abitanti di Barletta l'avevano elevata in onore di Eraclio, quando costruirono il molo che chiude il porto della loro città. Giannone discute contro 215 il primo parere: non sembra probabile che una statua così magnifica sia stata eretta a Barletta dai Longobardi, quella città essendo di poca importanza rispetto a Benevento, Salerno, Capua e Bari, che sarebbero state naturalmente preferite. Inoltre, dice, il mento della figura è rasato, l'abbigliamento è greco e porta in una mano la croce, e nell'altra il globo, indizi e segni distintivi di un imperatore orientale piuttosto che di un re longobardo, che sarebbe stato rappresentato con una lunga barba, lo scettro e la corona. Aggiunge, contro l'opinione dell'Ammirato, che il molo di Barletta fu costruito molto dopo Eraclio, e che era successivo all'ampliamento della città. La critica di queste diverse opinioni è giudiziosa, ma ci lascia nell'incertezza. D'altra parte il nome corrotto di Arachio ha tanto a che fare con il nome greco di Eraclio, quanto con quello di Rashi, longobardo; e ancor più con quello di Arachi, l'ultimo duca e primo principe di Benevento, a cui i suoi successori avrebbero potuto erigere questa statua, eseguita in un paese lontano da qualche artista meritevole. 216 Nulla può essere dedotto dalla croce e dal globo, segni del potere imperiale, perché Arachi poteva esserne considerato degno dai suoi contemporanei, per aver promulgato leggi, battuto moneta con la sua effige, nominato conti, e per i palazzi ed i monumenti magnifici, eretti in molte città del suo reame. Cosimo della Rena, di cui il Signorelli non parla, chiarisce questo punto nella storia delle arti, segnalando antichi versi conservati negli archivi della città, e in base ai quali questa statua sarebbe quella dell'imperatore Eraclio, che la fece fondere dal famoso scultore Polifobo, circa l'anno 624, il tredicesimo del suo regno, dopo aver vinto Cosroe, re di Persia, e riportato il legno della Santa Croce a Gerusalemme. Questa figura è rimasta a Costantinopoli fino al 1204; a quel tempo, i veneziani, in coalizione con altri principi latini, fatti padroni di questa città, caricarono sulle loro navi diversi monumenti di scultura antica, tra gli altri i quattro cavalli di bronzo che decorano il palazzo ducale, e questa colossale statua di Eraclio. Ma la nave che la trasportava, 217 sorpresa da una tempesta, fu spinta sulle rive di Barletta, dove questa figura mutilata e abbandonata rimase sepolta per diversi secoli. Finalmente, nel 1491, gli abitanti chiamarono un famoso scultore, Fabio Albano, che aggiustò, in qualche modo, le gambe e le braccia di questa statua, per impostala dove si vede oggi. Questo artista sconosciuto, era un ignorante, che ebbe almeno il buon senso di ammetterlo tacitamente, nascondendo, per quanto potette, e a rischio di peccare contro il costume, i nudi della sua opera. Ha coperto le braccia fino al polso con una manica grezza, e le gambe intere con una specie di stivale con risvolto, senza ornamento. La sua ignoranza si manifesta ancora di più nella forma tozza delle gambe, che sono di un terzo troppo corte. Se fossero in proporzione, la figura non sarebbe male, perché il busto e la testa sono di buon gusto; la corazza è ben aggiustata; l'inflessione del corpo ha agilità, e il getto del manto della grandezza. Per il resto, il volto è fortemente caratterizzato, l'acconciatura è singolare, consistendo in un 218 diadema ornato di perle, con una grande pietra preziosa nel mezzo, e i capelli che scappano dai due lati e cadono sulle guance in due riccioli rotondi; questi caratteri, dico, dovrebbero aiutare a stabilire, attraverso il confronto con medaglie e altri monumenti, a quale secolo risale l'esecuzione di questa colossale statua, che non ha meno di quindici piedi di altezza. Se le gambe fossero in proporzione, ne avrebbe anche sedici e mezzo, senza contare la croce che tiene nella mano destra, che sale ancora di due piedi. Infine, questa figura, restaurata e posta su un piedistallo alto, sarebbe adatta per adornare la piazza pubblica di una città più grande di Barletta. Concludo, aggiungendo fede alla tradizione conservata nel paese; e credo, per quanto si possa giudicare dalla natura del lavoro e dallo stile di questo monumento, che non sia posteriore al tempo di Eraclio, se non risale al secolo di Costantino. 219 LETTERA XVII. Campo di battaglia di Canne.- Piana dell'Ofanto.- Tavoliere della Puglia. - Sistema pastorale. - Suoi svantaggi. Ordona, 28 ottobre. Siamo stati portati nel famoso campo di battaglia di Canne. L'espressione dedicata a designare il teatro di questo evento memorabile, dove l'orgoglio del popolo sovrano fu umiliato, dipinge bene le tracce profonde che questa orribile catastrofe ha lasciato nelle menti, il terrore che ha catturato i contemporanei e che è stato perpetuato nei loro posteri: il posto è ancora chiamato il campo di sangue! Non proveremo ad indovinare le evoluzioni delle parti opposte, né a spiegare con alcuni autori, dalla configurazione del terreno, le cause del disastro degli eserciti romani; solamente, di fronte a questo luogo, che è notevole solo per il suo nome, noi ci chiederemo: perché le Muse della Storia prediligono le brillanti storie di 220 conquiste e grandi rivoluzioni, mentre sembrano trascurare le virtù pacifiche, le arti della pace, la prosperità e la felicità dei popoli. È lo stesso sentimento che ha ispirato a Dante i sublimi versi del suo Inferno, facendo apparire in confronto deboli e scoloriti quelli che dipingono il soggiorno della beatitudine. Bisogna dunque, per interessare gli uomini, mettere in gioco le passioni esaltanti e le azioni barbare; ci vuole l'ansia, il pericolo, il terrore, per catturarli, e lasceranno sempre la rappresentazione di una pastorale per correre in folla ad applaudire una tragedia. Tuttavia, sembra che ciò che avvenne allora qui, nella piana di Canne, abbia convertito per sempre questo luogo in una vasta landa desolata, cosparsa di tombe. Questo spazio è vuoto; le città e i villaggi sono molto rari. Delle rovine si ergono qua e là; queste città ospitavano una grande popolazione, che non esiste più. Il paese era coperto di alberi, giardini, terreni coltivati; ora è nudo, sterile, e vi sono solo magri pascoli di bestiame, che vagano incessantemente in questo deserto, temuto dai viaggiatori, che si 221 uniscono in carovane per attraversarlo. Alla nostra partenza da Barletta, siamo stati seguiti da molte vetture, che si sono unite alla nostra per camminare in compagnia fino all'ingresso della provincia di Lucera. Dopo aver lasciato, a destra, l'Adriatico per non rivederlo più, e la torre di Barletta, situata a pochi chilometri da questa città, alla foce dall'Ofanto, abbiamo attraversato questo fiume su un ponte. È il vecchio Aufidus che, nel fatale giorno di Canne, rotolò così tanti cadaveri; esso nasce nella provincia di Matera, nel territorio di Torella. Anche se non è molto considerevole nel suo lungo corso, le piogge lo aumentano in modo spaventoso e inonda la campagna, specialmente verso la foce. In passato era navigabile fino a Canosa, città di commercio, famosa nel tempo di Strabone. Oltre il fiume, siamo entrati in un'immensa pianura, dove la vista, fin dove poteva espandersi, non percepiva un solo albero. Non abbiamo avuto altra distrazione che la marcia di numerose mandrie, disperse a perdita d'occhio su questo terreno sterile. Dalla mattina alla sera, 222 l'aria risuonava del latrato dei cani, delle grida dei pastori e del suono rauco dei corni, che rispondevano l'uno all'altro, e richiamavano le greggi sotto la guida del pastore. Abbiamo attraversato borghi e miseri villaggi: San Cassano, Latomba, Cirignola. Abbiamo fatto una cena triste in quest'ultimo posto. Tra Cirignola e Stornara, si attraversano i due rami del Tratturo delle pecore che, da Foggia, capitale della provincia, vanno ad Ascoli e a Canosa. Siamo arrivati molto tardi a Ordona, una foresteria circondata da alcune capanne con il tetto di paglia, dove non abbiamo potuto procurarci dei giunchi per andare a dormire, essendone questo posto assolutamente privo. È tempo di parlare del Tavoliere della Puglia, di cui abbiamo già attraversato una gran parte. È così chiamato lo spazio delle terre tra l'Adriatico e l'Appennino, che si estende da Civitate ad Andria, per una lunghezza di settanta miglia e per trenta miglia di larghezza. Questa vasta pianura offre un singolo pascolo frequentato da un popolo nomade che ne divora successivamente tutte le parti. Tuttavia, 223 potrebbe nutrire un più grande numero di abitanti agricoltori, anziché sostenere il bestiame, se il sistema pastorale, favorito dal governo che vi trova una risorsa pecuniaria assicurata, non prevalesse, nonostante il continuo reclamare dei sostenitori dell'agricoltura. Le gaie idee che abbiamo di un popolo pastore, e le piacevoli descrizioni delle Egloghe di Teocrito, Virgilio e Gessner, possono solo fornire una falsa conoscenza della condizione dei popoli antichi e moderni che sono stati o sono tuttora pastori. Sembra che questa idea chimerica non possa realizzarsi completamente, e che una nazione non possa combinare l'esistenza nomade con la civiltà. Ne abbiamo le prove nella Puglia in Italia, e nell'Estremadura in Spagna, che sono tanto desertiche e selvagge, quanto gli abitanti poveri e infelici; perché vi si è voluto stabilire un regime controllato, in cui il governo trova un interesse eventuale che gli fa perdere la sua vera ricchezza, cioè una popolazione numerosa. 224 La difesa del sistema pastorale è molto antica, e risale al tempo dei romani. In seguito allo spopolamento causato dalle guerre, le città, distrutte e ridotte in solitudine, non potevano servire che da ritiro a dei pastori erranti; ma, non appena le tracce di queste antiche calamità venivano cancellate, esse si ripopolavano di nuovo. Questi stessi pastori, se incoraggiati, costruivano abitazioni stabili, coltivavano il terreno, e finalmente ricominciavano a godere di tutti i benefici della civiltà. Entriamo ora in alcuni dettagli su questa attività, che sembra così contraria alla felicità e alla prosperità della gente. I luoghi collinari dell'Abruzzo, che si vestono di ottimi pascoli in estate, e le pianure della Puglia, la cui temperatura è molto mite durante l'inverno, favoriscono la diffusione delle mandrie e la loro trasmigrazione dall'uno all'altro di questi paesi, secondo le stagioni. Varrone è il più antico scrittore che fa menzione di questo uso; ai suoi tempi, per il passaggio del bestiame dal Sannio in Puglia, si pagava una tassa ai pubblicani che risiedevano a Sepino e a Bojano; loro avevano 225 la facoltà di confiscare il bestiame a quelli che si affrancavano da questa tassa. Durante l'invasione dei popoli barbari, distrutto il dispotismo romano in Italia, la divisione di queste province in piccoli principati, interruppe la trasmigrazione delle mandrie; ma quando i principi normanni misero tutto questo paese sotto la loro dominazione, unendo le pianure della Puglia al dominio reale, gli abitanti dell'Abruzzo e delle Marche di Ancona tornarono alla pratica di guidare qui le loro greggi, durante l'inverno. Re Ruggero represse alcuni abusi commessi dagli ufficiali che avevano la custodia dei pascoli pubblici. Anche l'imperatore Federico fece delle leggi su questo oggetto. Nel 1254, questi pascoli fruttarono al fisco 5200 once (62400 franchi). Si trova negli archivi, che nel 1327 furono pagati due fiorini d'oro per il diritto d'entrata di cento pecore straniere nel regno. Il re Ladislao, che vendette la gran parte delle aree fiscali della Puglia, mise nel 1411 un diritto su tutto il bestiame nelle varie province, ad eccezione della Calabria. Questa tassa era di 20 226 ducati per cento capi di buoi e 2 ducati per cento pecore. La gente ha sopportato questa pesante tassa, fino alla sua abolizione nel 1443; ma, l'anno seguente, Alfonso I si occupò dell'organizzazione del sistema pastorale; aumentò l'estensione dei pascoli che appartenevano al fisco; si arrogò anche il diritto di unirsi temporaneamente a quelli che appartenevano ai baroni, alla Chiesa e a varie persone, quando l'afflusso di greggi straniere stava aumentando, e i pascoli reali diventavano insufficienti. Infine, formò ciò che chiamiamo il Tavoliere della Puglia, e lo divise in locazioni generali e particolari. Ogni locazione fu divisa in un certo numero di poste stabili, specie di parchi chiamate anche ovili, con i loro pascoli in terra salda, cioè mai arata, la cui erba è molto apprezzata. Le circondò con recinti di ferola, una pianta della natura del finocchio, non essendovi cespugli nelle vicinanze. Si lavorò il terreno con uno strato di letame di pecora, essiccato, battuto e indurito per formare un terreno duro e asciutto. Le mandrie non avevano ripari per la notte e per il tempo freddo 227 e piovoso. Di conseguenza, durante i rigidi inverni, la mortalità si estendeva, soprattutto nelle pecore; le pecore perdevano il latte e gli agnelli; ma questo era raro. Inoltre, tra la Puglia e le montagne, venivano riservati alcuni pascoli autunnali, detti riposi, così che gli animali potessero moltiplicarsi e riposare fino a quando non venivano distribuiti nei pascoli invernali. Il migliore di questi riposi è il Saccione, situato tra i fiumi Sangro e Fortore, sulle rive dell'Adriatico; il secondo, i pascoli di Minervino, Andria, Corato, Ruvo e Bitonto. Il terzo è il Monte Gargano, aggiunto da Ferdinando I. Il Tavoliere non è ovunque di pari bellezza. I migliori pascoli sono quelli che abbiamo attraversato a Cerignola e quelli di Foggia, Orta e Ascoli; quelli di Salpi e Trinità sono i peggiori, perché sono coperti con lentisco; e quelli di Bari, ecc., chiamati Murge, sono pietrosi e aridi. Alfonso stabilì anche tre ampi percorsi per facilitare la trasmigrazione delle mandrie straniere. Sono indicati come Tratturi. Inizialmente rimossero un immenso spazio per 228 l'agricoltura, ovunque andassero, perché le greggi dovevano trovarvi il pascolo durante il viaggio. Dopo furono limitati a sessanta passi napoletani in larghezza, circa trecento piedi. Alfonso creò anche diverse postazioni, tra le altre quella di un doganiere che era costretto ad attraversare il Tavoliere in tutti i sensi, e che fissava i tempi delle fiere; infine, concesse molte strutture e privilegi ai commercianti stranieri. I diritti che il governo traeva da questo regime pastorale erano molto considerevoli. Per cento pecore si pagavano 8 corone veneziane, per cento mucche o giumente, 25 scudi. Questo diritto si percepiva a maggio, alla partenza delle greggi, e dopo la fiera di Foggia. Questa fiera attraeva commercianti di pecore dall'Umbria, dalla Romagna e persino dalla Toscana. Ma tale era lo stato deplorevole del paese, che questi mercanti avevano bisogno di una scorta e della protezione speciale del sovrano per arrivarci. I pascoli, tuttavia, assorbivano la terra migliore; un gran numero di città e villaggi, che erano stati distrutti, non venivano ricostruiti. Gli abitanti della Puglia fecero finalmente i loro 229 reclami al trono, e costrinsero il re Alfonso a lasciare alcuni pezzi di terra per la coltivazione; questa è quella che è ancora chiamata "terra daportata", cioè appartata (staccata dalla Salda). E, nel 1457, il sovrano fu nuovamente costretto a concedere il permesso di estendere le coltivazioni. L'ingresso delle greggi straniere in Puglia fu di un così grande vantaggio per il governo, che Ferdinando, figlio di Alfonso, non trovando sufficienti i pascoli del fisco, unì a loro molte proprietà particolari. Nel 1474, il numero di pecore che pagavano il dazio ammontava a un milione e settecentomila. Da allora, per fortuna, non è mai stato così considerevole, perché, se il Tavoliere si fosse ancora esteso, l'intero paese sarebbe diventato come il deserto dei Tartari. Nel 1536, la nazione implorò l'imperatore Carlo V di restituire la libertà all'agricoltura nella Capitanata; i locati, chiesero, al contrario, di limitarne il progresso; e i desideri di questi furono esauditi. Pastori e agricoltori hanno continuato a discutere; infine, il regno essendo 230 stato esposto a una carestia, nel 1555, il governo permise di coltivare porzioni più grandi di terra, che furono ancora aumentate nel 1745. Attualmente il Tavoliere nutre dodici milioni di pecore e i diritti del fisco ammontano a 425600 ducati. La Puglia non è l'unico paese in cui il sistema adottato dal governo, abbia provocato le lamentele degli sfortunati abitanti; è lo stesso in Spagna, che è divorata da parecchi milioni di animali, che cospirarono contro la prosperità di questo bellissimo regno. Questa condiscendenza sconsiderata del governo è utile solo ad un piccolo numero di individui, e soprattutto alla mesta, società di grandi proprietari, composta da monasteri ricchi, grandi di Spagna, capitalisti opulenti, che trovano vantaggio nell'alimentare le loro pecore ai danni del pubblico, in tutte le stagioni dell'anno, e che hanno fatto sanzionare, con ordinanze avventate, un'usanza introdotta per necessità in tempi remoti, e la cui convenienza è diventata presto diritto. Infine, quando l'abuso cominciava a sembrare intollerabile, aveva già 231 messo radici profonde. Il risultato fu, per più di un secolo, una lotta continua tra gli associati della mesta da una parte e dall'altra gli Estremenos, gli abitanti dell'Estremadura, la provincia che ha sofferto di più di queste vessazioni e che aveva per avvocati tutti gli amici del bene pubblico. Inoltre, questo sfortunato paese, che forniva sussistenza a due milioni di uomini, contava a malapena centomila anime. È noto, che ciò che era vantaggioso mille anni fa non è più conveniente oggi. Il sistema pastorale può sussistere solo tra popoli erranti e incivili; l'agricoltura è preferibile a questo stato incerto e precario. L'industria del gregge, non può essere vantaggiosa, a meno che non sia esercitata come in Inghilterra, dove si trova un popolo pastore e contadino allo stesso tempo. Senza dubbio, in Puglia, i prati sono migliori dei campi coltivati. Tuttavia, l'ambiguità dei fatti e dei risultati offerti dai sostenitori dell'una o l'altra opinione, e lo spirito di parte che li anima, li fanno contraddire così tanto, che è difficile trovare la verità. L'abitante della Puglia 232 vuole diventare agricoltore, quello dell'Abruzzo vuole solo pascoli; gli uni affermano che le pianure diverrebbero solitarie senza le mandrie che le animano, e che tutti gli elementi si oppongono alla propagazione della specie umana; gli altri incolpano il sistema pastorale per aver desertificato il paese. Quale partito prendere in mezzo a queste opinioni e a questi vari interessi contrastanti? L'unico conveniente, sarebbe quello di dare agli abitanti la libertà di agire a loro discrezione, consultando solo i propri interessi, il cui incontro dovrebbe sempre formare l'interesse pubblico. Abolire tutte le leggi proibitive; vendere in proprietà assoluta tutte le terre, in piccoli lotti, ai vecchi locatari; dare ai proprietari alcune esenzioni; e si vedrebbe presto gli uomini prendere la direzione più vantaggiosa, anche per il governo. Popolerebbero queste aride pianure; le coprirebbero con alberi e raccolti, lasciando le mandrie in posti da cui non potrebbero ricavare nessun'altra risorsa. Ma si dovrebbe evitare che i fondi cadessero nelle mani degli speculatori, 233 perché ciò sarebbe a discapito della prosperità pubblica e dell'industria. Infine, nel giro di pochi anni, si potrebbero apprezzare i risultati di questo tentativo, che, ci piace credere, presenterebbe presto al governo, la rapida crescita della popolazione, la prosperità dell'agricoltura e del commercio, ed un graduale aumento di forza, ricchezza e potere. 234 LETTERA XVIII. Entrata nelle montagne. - Bei siti. - Tavola storica, geografica e industriale del Sannio. Ariano, 29 ottobre. A pochi chilometri da Ordona, e dopo aver attraversato il Carapelle, notiamo l'avanzare della vegetazione. Prima, seminati sul terreno abbastanza distanti, mazzi di ulivi, poi alcuni cespugli. Poi abbiamo visto davanti a noi le tanto desiderate montagne, la cui tonalità verde bluastra indicava la presenza di vaste foreste. Man mano che ci avvicinavamo, la loro apparizione ci ha fatto provare un vero piacere, che solo i pittori possono sentire bene. A poco a poco le loro forme crescono, i loro piani si staccano gli uni dagli altri; distinguiamo le varie specie di alberi di cui sono ricoperti, i piccoli centri abitati e le abitazioni rurali edificate sulle loro pendici. Attraversiamo colline sempre più alte. Il Castello di Sauri costituisce il primo piano di questa tavola pittorica; domina la pianura bagnata dalle tortuose ramificazioni del 235 Cervaro; finalmente Bovino si presenta ai nostri occhi. Questa città doveva essere importante, a giudicare dalle rovine che la circondano, dai marmi lavorati, dalle medaglie e dalle altre antichità che si trovano spostando il terreno; Plinio la chiama Bibino, e gli abitanti le fanno derivare il suo nome moderno per il buon vino che lì si raccoglie. Sono quattromila, e comprendono, secondo l'usanza, diversi uomini illustri poco conosciuti altrove, e tra gli altri un medico-filosofo, di nome Giacinto Alfieri, che senza dubbio non ha altro in comune se non quello con il grande poeta moderno. Mancavano ancora una ventina di miglia per raggiungere Ariano. Quindi cenammo frettolosamente e, favoriti dal cielo più bello, ci abbandonammo a tutto l'incanto che ci regalavano le scene campestri, le cui bellezze si svolgevano successivamente davanti ai nostri occhi durante il resto di questa giornata e delle seguenti. A volte il sentiero era realizzato su strette cenge sospese lungo ripide pareti; a volte era sostenuto da alte strade rialzate; oppure 236 attraversava arditi ponti, gettati da una roccia all'altra, per lasciare libero sbocco alle acque passanti del torrente. Più avanti scendeva per un pendio più dolce fino al fondo delle valli; noi lo seguimmo. Vedemmo allora la sinuosità dei fiumi le cui rapide acque si affiancano, girando, alle rocce che ne ostacolano il corso; oppure trovando uno spazio meno angusto, scorrono lì, più tranquille, per i prati, e all'ombra dei noccioli, dei sambuchi e dei pioppi tremuli. Anche se nell'ultima parte della stagione, la vegetazione era ancora ovunque ricca e abbondante, nella pianura che stavamo lasciando, gli alberi perdevano le foglie, e i prati erano ingialliti dal caldo, opachi dalla polvere. Qui gli alberi sono carichi di tutti i loro ornamenti autunnali; le viti si tingono di porpora; gli acini trasparenti, rinfrescati da una benefica rugiada, pendono alle estremità dei rami; i pendii si arricchiscono di frutteti dove la gioiosa Pomona riempie le sue ceste; e le cime dei monti sono ricoperte dall'eterna bellezza dei pini. Qua e là, isolati e aridi picchi di roccia bucano 237 le nubi; parecchi sono coronati da questi antichi castelli le cui rovine ancora minacciose indicano il covo dei Saraceni, o di quegli audaci baroni che anticamente, e a seconda del loro carattere, proteggevano o facevano tremare i deboli abitanti delle valli di queste torri snelle; queste segrete piramidali sono abitate solo da corvi; e servono tutt'al più a lusingare l'orgoglio di poche famiglie nobili di cui ricordano le origini. Questo spettacolo variava ad ogni momento; ci ha mandato in visibilio e ci ha strappato esclamazioni veramente ridicole per il nostro impassibile conducente, e che forse lo saranno anche per qualcuno dei nostri lettori. È solo in montagna, però, che la natura si mostra all'uomo in tutto il suo ornamento, a volte leggiadra ma sempre rustica, più spesso severa e selvaggia, è lì che stupisce con i suoi contrasti, e dove incanta con le sue armonie; è lì che nelle diverse ore del giorno e della notte la luce si modifica in modo da produrre i migliori effetti di chiaroscuro. Stavamo viaggiando attraverso una valle profonda al mattino? l'ombra proiettata dai monti ne copriva la maggior parte, mentre le alture opposte risplendevano di tutte le luci del 238 sole nascente; i suoi raggi uscivano di mezzo alle rocce, e attraversavano in colonne luminose e diagonali gli oscuri vapori raccolti nei piani inferiori; oppure la sera il suo disco si abbassava davanti a noi in fondo all'immensa estensione della valle, e illuminava tutto. Prima di scomparire, sembrava comunicare un movimento più rapido alle miriadi di atomi che nuotavano nell'atmosfera infiammata, e che di lì a poco sarebbero precipitati, come noi, nell'ombra e sarebbero tornati alla calma e al sonno della notte. A volte, ci trovavamo su alture circondate da una luce splendente, mentre la valle era ricoperta da una nebbia fitta e biancastra, che la nascondeva e formava come una vasta distesa d'acqua, da cui si ergeva la punta di una roccia, la sommità di una torre o l'estremità piramidale di alti pioppi; presto ci tuffammo anche noi in questo mare aereo e scintillante, che si trasformava in nuvole sospese sopra le nostre teste, in questa massa di vapori; questo velo, poi diventato più diafano, si squarciò, e i suoi brandelli sparsi, dopo aver fluttuato contro le montagne, si ridussero in reti invisibili. 239 Quante curiose osservazioni offrono in questi luoghi le operazioni della natura! Come l’uomo può rimanere freddo davanti a tutte queste meraviglie? Perché preferisce il fondo delle pianure spesso umide e paludose, o almeno solitamente ricoperte da uno spesso strato di vapori, a queste regioni eteree dalle quali, librandosi sopra i suoi simili, gode quasi sempre di un cielo terso e di un'aria di calma balsamica e ristoratrice? Come compatisco coloro che vedono nelle montagne solo masse inerti, nelle loro scarpate solo precipizi, nella disuguaglianza del terreno solo fatica e pericoli, e nelle lunghe deviazioni del sentiero solo ostacoli che impediscono il loro cammino! Sono davvero da compatire; privati del senso squisito di cui sono dotati gli artisti, che fa loro vedere, sentire e apprezzare, gli oggetti più sorprendenti della creazione; indifferenti o stanchi, non possono, come loro, godere attraverso il pensiero delle scene ammirevoli di cui sono stati testimoni, il cui ricordo esalta la fantasia e fa ancora fremere di gioia sotto il ghiaccio dell’età. Ho viaggiato attraverso vari paesi, tutti famosi per la bellezza dei loro luoghi. Ho visto 240 quelli della Grecia, dell'Italia, della Svizzera e quelli più allegri della nostra Patria; ma da nessuna parte avevo notato una messe più ricca di oggetti pittoreschi che nel regno di Napoli. Forse era l'effetto del contrasto con la pianura monotona che avevamo appena attraversato; oppure devo questa disposizione ad ammirare ogni cosa alle grazie della convalescenza? Uscendo, per così dire, dalla tomba di cui avevo scandagliato la profondità, assaporavo con gioia il cammino che facevo verso la terra; i miei organi ancora deboli venivano colpiti ancora più deliziosamente dai minimi godimenti che una Provvidenza soccorrevole non provvide a compensare. A tutte queste considerazioni si aggiunse infine il famoso nome del paese, patria di quei fieri Sanniti che, per quasi un secolo, contesero ai Romani l'impero d'Italia e, sebbene meno numerosi, misero spesso la potenza di Roma sull'orlo della distruzione. La storia di questo popolo guerriero, che ritracciamo ripercorrendo i luoghi delle sue imprese, consiste solo in un susseguirsi di attacchi rinnovati ogni anno con tanto vigore quanto audacia. Livio li descrive come i più 241 pericolosi che i romani abbiano sostenuto; e fu loro più facile sterminare questi fieri montanari anziché sottometterli. I Sanniti persero in queste guerre più di 200.000 uomini; tuttavia, sconfitta ed esausta la loro immensa popolazione, potettero ancora rifornire i romani nella guerra dei Galli 70.000 fanti e 7.000 cavalieri. Il Sannio era infatti ricoperto di città e villaggi; e inoltre tutto il territorio fino al monte Matese, benché orribile e pietroso, era disseminato di piccole abitazioni molto vicine le une alle altre. Infine il barbaro Silla rovinò completamente il paese: le città o furono ridotte a miseri villaggi, oppure completamente rase al suolo; e Floro dice che nell'anno 102 della nostra era invano cercarono il Sannio in questo stesso paese; non vi fu trovato nulla che potesse far credere che i romani avessero ottenuto ventiquattro trionfi sui suoi antichi abitanti. Non c'è ancora un comune in tutta la provincia la cui popolazione superi le 6.000 anime. È deplorevole che tutti i dettagli relativi ai Sanniti siano stati soppressi; perché sarebbe interessante conoscere la costituzione politica alla quale attribuire l'origine e la durata di un 242 potere così formidabile. Ma i romani conoscevano le nazioni solo per sottometterle; e una vile gelosia li spinse a distruggere tutti i monumenti della loro storia. Il successivo Principato, o Samnium Hirpinum, fornisce un terreno estremamente irregolare. È ricoperto quasi ovunque da montagne separate da profonde valli, irrigate da abbondanti sorgenti. Là la coltivazione è in vigore, si estende anche ai pendii più ripidi, che devono la loro fertilità alle antiche foreste di cui erano ricoperti, e che abbiamo sacrificato a poco a poco e molto imprudentemente. È vero che questi luoghi, ricoperti da uno spesso strato di terriccio, sono molto produttivi; ma questa straordinaria abbondanza cederà presto il posto alla più spaventosa carestia. Vediamo quotidianamente il pendio delle colline devastate dalle acque piovane e dai torrenti che portano via la terra smossa dai contadini. L'esempio delle isole della Grecia e di diversi paesi del continente deve convincere i popoli che non rispettano le foreste, e che non hanno cura, man mano che i vecchi alberi vengono distrutti, di lasciarli riprodurre nei loro giovani 243 germogli. Devono aspettarsi di non avere più né foreste né coltivazioni, non appena il fronte montano sarà completamente spogliato della sua chioma verde e umida. Allora bisognerà scavare nelle viscere della terra per estrarre il carbone fossile, ammesso che esista nel paese, perché qui non ne hanno ancora scoperto; e, se questa risorsa manca, bisognerà abbandonare il paese alle bestie feroci, che almeno non andranno contro i desideri della natura e permetteranno che un giorno la terra torni ad essere adatta a sostenere nuovi abitanti. Il clima di questa provincia è più temperato e gode di aria più pura di quello della Campania, dove si avvertono gli effetti disastrosi della malsana evaporazione delle acque stagnanti e dell'incompresa coltivazione del lino e della canapa. Tutte le città e i villaggi sono situati in collina, tranne un piccolo numero, come Benevento, Avellino, Mirabella, Gesualdo e Grotta Minarda, dove l'aria non è meno salubre. Le acque non si fermano né ristagnano da nessuna parte, e le febbri epidemiche, che talvolta regnano in autunno tra la gente comune, sono più il risultato della povertà che di 244 un'atmosfera malsana. L'elevazione del terreno e la sua configurazione montuosa devono renderlo più freddo di quello campano; in effetti lì cominciamo a vedere qualche gelata alla fine di ottobre; anche la neve cade in questa stagione, ma i fiumi non gelano mai. I terreni sono di buona qualità, eccetto che nella valle avellinese che è sabbiosa; tuttavia, quella è la provincia più popolata. Lì abbiamo trovato a bassa profondità, così come a Pozzuoli, ossa di elefante e altri fossili. Questa provincia fornisce bellissimi marmi che furono usati nella costruzione di Caserta; e c'è, vicino a Monte-Fuscoli, un'abbondante miniera di sale che il governo ordinò di chiudere circa cinquant'anni fa. Nel cantone dell'Ofanto non vediamo olivi; e si dice che non li si possa coltivare ad Avellino, a causa della neve che vi cade spesso. La scarsità è attribuita anche allo scarso incentivo dato a questa cultura, e all'eccessivo rigore dei contributi e dei diritti signorili che gravano sul Paese. Un naturalista sostiene che gli ulivi dovrebbero crescere in tutto il regno di Napoli, 245 poiché esistono in altre parti d'Italia più a nord. Ma, secondo quanto abbiamo osservato nei nostri viaggi, e particolarmente nella Morea, gli ulivi crescono solo sulle coste basse e in prossimità del mare; prendono una crescita straordinaria e, man mano che questi alberi si allontanano dalla riva, e soprattutto man mano che salgono sui monti, diventano magri, gracili, e finiscono per morire ad una certa altezza. Non è quindi per la neve, né per mancanza di cure, che gli ulivi non prosperano nelle vicinanze di Avellino, ma perché questa valle si trova a una grande altitudine sul livello del mare. Nonostante il governo feudale che governa questa provincia, essa è la più popolosa del regno, dopo la Campania, e fornisce in abbondanza tutto il necessario per la vita. E, nonostante i boschi vengano distrutti quotidianamente, notiamo ancora, soprattutto nei pressi di Ariano, bellissimi boschi di querce bianche, di cerri, un'altra specie di quercia sconosciuta in Francia, e soprattutto di magnifici faggi. In questi cantoni i pascoli sono scarsi e le mandrie vengono difficilmente nutrite, tranne che nella valle di Benevento. Non 246 ce ne sono nei dintorni di Ariano e Avellino. Ma le rive dell'Ofanto sono piene di grandi mandrie di bestie cornute; e il pianoro del Formicoso conteneva allevamenti di cavalli dove i principi d'Aragona allevavano razze di cavalli provenienti dalla loro terra. Vediamo anche dei buoni pascoli sui monti di Solofra e Serino, dove quasi tutte le pecore sono nere. In generale, la lana è di scarsa qualità e qui l'educazione del bestiame è ancora agli inizi. Le fabbriche non sono molto importanti, e quelle di Avellino, le migliori della provincia, forniscono solo un panno grossolano adatto a vestire i contadini e la livrea. Anche se l’industria tende naturalmente all’agricoltura, nell’economia rurale c’è tuttavia una grande ignoranza. Le persone ricche e benestanti sono infatuate da una vanità ridicola; considerano la scienza del blasone prima di tutto, e non c'è piccolo medico o notaio di villaggio che non ostenta uno stemma. Il movimento dei commerci trasporta tutte le ricchezze sulla strada maestra da Napoli alla Puglia. Nel resto del Paese i rapporti 247 commerciali sono nulli, a causa della mancanza di comunicazioni; e la miseria è tanto maggiore man mano che si avanza verso i monti. Il progresso del lusso da un lato, la povertà dall'altro, e la generale pigrizia, fanno sì che i furti e gli omicidi siano molto frequenti e che le strade siano insicure. Abbiamo stilato un elenco di omicidi commessi dal 1784 al 1789; ne consegue che il numero è più o meno grande in ciascuna provincia rispetto alla differenza di popolazione; ma segue approssimativamente la stessa proporzione. In Campania è arrivato nell'arco di sei anni, a millenovanta, cioè 182 all'anno, su una popolazione di quattrocentosettantatremila anime. Nell'ultimo Principato, dove non si contano che trecentosettantatremila anime, si contarono, nel 1790, centodieci omicidi. Per quanto riguarda i furti, la quantità è così considerevole che abbiamo rinunciato a tenerne conto; inoltre, per la perdita di diversi piccoli oggetti, ai quali non abbiamo prestato sufficiente attenzione, essendo stati in qualche modo sparsi sul nostro percorso, tutte le nostre lamentele al riguardo sono state vane. Ci hanno risposto con un suono inarticolato, con una 248 smorfia, e con l'alzare le spalle; oppure siamo stati presi in giro. Avendo lasciato, ad esempio, un bicchiere d'argento in una locanda, ci fu consigliato di mandare un espresso a cercarlo. Ma poiché avemmo la bontà di pagargli in anticipo il disturbo, non vedemmo più, come ci si aspetterebbe, né il bollitore né la posta. Che differenza sotto questo aspetto tra i cosiddetti paesi civili e la dura e barbara Turchia! 249 LETTERA XIX. Ariano. - Situazione pittoresca. – Avellino. – Monte Vergine. Avellino, 30 ottobre. Già da tempo vedevamo Ariano, situato su un gruppo di rocce molto alte e isolate al centro di una pianura bagnata dal Calore e dal Tripaldo (Sabato). Arriviamo in questa cittadina solo dopo numerose deviazioni; e la sua posizione aerea deve dare l'etimologia del suo nome che ha molto messo in imbarazzo gli antiquari (1). La giornata volgeva al termine e non eravamo separati dalle porte della città che da una cintura di rocce di cui dovevamo costeggiare la scarpata. Si sentivano già le campane che annunciavano l'Ave Maria: si sentivano addirittura i clamori ed i canti degli abitanti. ______________________________________ (1) Secondo Flavio Biondo e Alberti, il nome Ariano deriverebbe da un altare di Giano (Ara Jani) che doveva esistere su questo monte. 250 Pensavamo di essere sul punto di arrivare, quando il sentiero, ricavato sul pendio della montagna, ci ha offerto improvvisamente un vasto sviluppo e lunghe deviazioni che ci hanno portato a grande distanza, per poi riportarci ai piedi delle pareti, dalle quali abbiamo deviato un attimo dopo per sprofondare attraverso strapiombi rocce, dove il pericolo, accresciuto dall'oscurità della notte, ci obbligava a rallentare il nostro cammino. Somigliava molto a quello di una nave in pericolo, sconvolta dai venti, e che, per entrare in porto, è costretta a moltiplicare le sue bordate. La stanchezza dei cavalli che non obbedivano più allo schiocco e ai colpi di frusta, l'atmosfera che diventava sempre più cupa e gelida, la fame che ci opprimeva, tutto deve aver eccitato la nostra impazienza, di cui il nostro cocchiere sembrava farsi gioco. Insisteva sui vantaggi della posizione inespugnabile della città; ci ha lodato la purezza dell'aria, la bellezza del colpo d’occhio; e, incalzato da domande, concludeva sempre con queste parole: adesso, adesso, arriviamo…. ci vuol pazienza…. Non siamo arrivati; e ci è voluta più pazienza di quella che ne abbiamo avuta per non insultarlo, 251 e per non maledire di tutto cuore la smania degli uomini che li porta a rifugiarsi su altezze inaccessibili. Come abbiamo già osservato, le città qui sono costruite su cime alte; da ciò si può dedurre che il paese è stato a lungo in mezzo a dissensi e che, devastato dalle guerre, è diventato povero e infelice. Ci viene detto che il senso della propria conservazione costrinse i primi uomini riuniti in società a stabilire il loro domicilio in luoghi di difficile avvicinamento, e quindi facili da difendere contro le tentazioni delle orde erranti dei loro nemici; ma lo stato di guerra non è naturale per l'uomo civilizzato. Così notiamo che le uniche città che hanno visto aumentare la loro potenza e ricchezza, le capitali in breve, non sono fortificate. Quasi tutte sono aperte e situate nelle valli, vicino ai fiumi o lungo le strade. Se un paese è pacifico e governato paternalisticamente, presto si assiste all'abbandono di questi castelli fortificati, e di queste città, circondate da mura e fortificazioni naturalmente scoscese, dove l'industria è troppo rinserrata, dove i tesori del commercio non possono circolare liberamente; gli abitanti sono dispersi 252 nelle campagne, e non c'è buona coltivazione se non quella dove le case rurali, sparse su ogni piccola proprietà, non possono avere nulla da temere da questo isolamento. Non c'è contratto più ricco di quello in cui le ruote tracciate in tutti i sensi, o i ponti gettati su tutti i fiumi, aprono facili comunicazioni agli scambi commerciali. Infine, non c'è paese più felice di quello in cui si può viaggiare senza passaporto, senza armi, senza scorta, e che è sempre in pace con i suoi vicini. Ariano deve la sua origine a un disastro: distrutta la città di Aequum-Tuticum, gli abitanti, ancora spaventati, si rifugiarono su queste alture per proteggersi da una nuova sorpresa; Ma più questa città diventava forte, più correva pericoli e doveva vivere vicissitudini. Così la vediamo, nella storia, cambiare continuamente padroni: una folla di baroni la contende, la possiede per tiranneggiarla con il pretesto di difenderla; ne sono cacciati gli uni dagli altri e la sicurezza non ritorna nel suo recinto fino a quando non è unita al dominio reale. Re Ruggero, preso possesso di Ariano, la scelse per tenervi l'assemblea dei suoi Stati 253 Generali (Parlamento generale) nel 1140, alla quale intervennero i deputati siciliani. Vi pubblicò le sue prime leggi e diede corso a una nuova monetazione. Questo paese tornò poi sotto il giogo del baronaggio, che si scrollò definitivamente di dosso solo nel 1586. In questo intervallo di tempo, Manfredi la fece distruggere dai Saraceni di Lucera; e questa fu anche una delle accuse per le quali fu citato nel 1262 dal papa. Anche questa città è stata esposta ai flagelli della natura; rovesciata verso la fine del X secolo da un terremoto, i principi di Benevento furono costretti, per ripopolarla, ad inviarvi una colonia. Una calamità simile si ripeté nel 1456 e diede il colpo finale alla sua prosperità. Ariano è ancora infelice, e non ha altra manifattura che una fabbrica di terracotta grezza. Il suo terreno è un tufo misto a testacee marine. Produce noci, mandorle, grano turco e piante medicinali; qui vengono sfruttate cave di marmo e gesso. Quanto ai monumenti della città, non siamo stati in grado di giudicarli; perché arrivammo lì di notte, e partimmo il giorno dopo prima dell'alba. 254 30 ottobre. - Il paese tra Ariano e Avellino ci ha offerto panorami ammirevoli ed effetti pittoreschi: a volte circondati da rocce, e sebbene in profonda solitudine, eravamo assordati dal rumore dei torrenti, dalle grida degli uccelli rapaci o dal rollio dei venti attraverso le strette gole delle montagne. Più avanti, abbiamo trovato il silenzio sotto le cupe chiome dei boschi che sembravano impenetrabili. Quando uscì dal bosco, la scena cambiò; e fummo avvertiti della vicinanza di qualche luogo abitato, dal ticchettio di un mulino, dall'abbaiare dei cani, o dalla zampogna dei pastori. Abbiamo poi attraversato altre solitudini di carattere diverso; siti di uno stile molto variegato. Infine, la piana di Avellino si è presentata ai nostri occhi con tutte le sue ricchezze. Non esiste una terra incolta: ogni luogo è ricoperto di produzioni; frutteti intervallati da viti; i prati accanto ai campi di grano. Tutti i doni della natura sono esposti in essa con lusso, incantano l'occhio e deliziano il pensiero. Magnifici viali alberati conducono alle porte della città; e si riconosce, entrandovi, la facilità 255 del commercio, l'attività dell'industria, il gusto per le arti e il movimento di una città popolosa. Si entra dapprima in una vasta piazza, occupata al centro da una piramide marmorea, sormontata dalla statua di Carlo I d'Austria, eseguita da Cosimo Fansaga. Lo stesso artista ha decorato la città con una miriade di altri monumenti di scultura e architettura; come una fontana con figure in marmo, situata in via del Mercato; il Palazzo del Comune, la sua bella torre che funge da orologio; e la costruzione della Dogana, la cui facciata, molto ornata, offre alcune statue antiche, ma la maggior parte di esse mediocri. Felice è l'artista che sa legare il suo nome e il suo destino all'esistenza di una città, adornandola con le proprie opere; egli è ancora più fortunato se può rendere questo servizio alla sua città natale, e ottenerne la ricompensa: ma questo è molto raro, perché, si dice, nessuno è profeta nel suo paese. Fansaga aveva infatti adottato il regno di Napoli per il suo paese; ma era nativo di Bergamo. Giunse giovanissimo a Roma, dove studiò statuaria e architettura, alla 256 scuola di Pietro Bernini, padre del celebre cavaliere Bernini. La Chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani, unico monumento che Fansaga eseguì in questa capitale, influenzò molto il resto della sua esistenza. Chiamato a Napoli, gli fu dato tanto lavoro, che si stabilì in questa città. Da quel momento la sua fortuna fu assicurata: fu creato cavaliere, godette di grande considerazione, e fu impiegato in tutte le maggiori opere eseguite in questo regno nel corso del XVII secolo (1). I monumenti che abbiamo visto ad Avellino, che gli vengono attribuiti, sono, come tutti quelli di questo periodo, di quel gusto bizzarro di cui Bernini, nonostante tutto il grande talento che ___________________________________________ (1) L'elenco sarebbe troppo lungo; possiamo farci un'idea delle sue invenzioni dall'obelisco di San Gennaro, quello di San Domenico Maggiore, e la fontana della Medina, che il viceré, duca di quel nome, gli ordinò di trasportare da via Platamone, dove era inutilizzabile, alla piazza del Castello; l'ingegnoso artista eseguì questa operazione con, molta intelligenza, ma aggiunse a questa fontana una profusione di pessimi ornamenti augustei. 257 siamo lungi dal contestargli, diede il cattivo esempio. Infatti i suoi imitatori, che non avevano il suo genio, puntando sul loro maestro, spinsero l'abuso della decorazione all'estremo, e scrollandosi di dosso il giogo del decoro e di ogni regola, crearono lo stile al quale Borromini ebbe la sfortuna di dare il suo nome. Questo esempio deve far tremare gli artisti che, gelosi di creare un nuovo genere, si abbandonano a un'immaginazione incontrollata. Le loro produzioni, esaltate dalla moda, e accolte da quello spirito leggero così fatale alle arti, potrebbero piacere per un momento. Abbagliati da questo successo effimero, crederebbero di avere diritto all'immortalità. Ma presto gli occhi si aprono, la ragione riacquista i suoi vantaggi, e questi cosiddetti capolavori, additati come una trappola, ispirano solo freddo disprezzo; e il nome di questi innovatori diventa una sorta di insulto. Torniamo ad Avellino. La posizione di questa città la rende un luogo importante per il commercio interno. I grani pugliesi affluiscono al suo mercato, per essere poi distribuiti sulla costa salernitana e ai confini della Campania. 258 Queste regioni ottengono in cambio dalle fabbriche di Avellino carta, stoffe e mobili vari piuttosto rozzi, ma adeguati alla povertà di questi cantoni. Un monaco, che ha scritto la storia di questa provincia, fa risalire l'origine di tutte le sue città e dei suoi più piccoli villaggi ai nipoti di Noè. Un altro cronista dice che Avellino prende il nome da sant'Abele, suo fondatore, che lì è tuttora molto venerato. Altri fanno derivare questo nome dai frutti dei noccioli (abellini) che costeggiano i ruscelli, i sentieri, e che separano tutte le proprietà. Secondo Camillo Pellegrino, i romani la chiamarono Abellinum, da un tempio di Bellina (Bellona); o perché avesse sostituito l'antica Vellia o Avellia, i cui ruderi sono ancora visibili nei pressi di Atripalda, sobborgo di Avellino. La conquistarono nel 442 e fu successivamente municipio, prefettura e colonia. Finché i Longobardi possedettero questo paese, Avellino fu luogo di piacere dei Duchi di Benevento; e si ritiene che uno di essi, Aione, lo ricostruì nel IX secolo. Conquistato dai 259 Normanni, Ruggero vi fu incoronato (1) re di Puglia dall'antipapa Anacleto. Fu nello stesso luogo che l'imperatore Lotario e papa Innocenzo II gli tolsero questo principato, per donarlo a Rainulfo, conte di Capua. La piana di Avellino, circondata da colline, è sormontata, a ovest, dal Monte Vergine detto anche Virgiliano, oggi Verginiano, e che domina il paese e l'intera provincia. È un celebre santuario e convento dei Benedettini bianchi, fondato intorno al 1134 da San Guglielmo da Vercelli. Si ritiene che occupi il posto di un tempio rinomato tra gli antichi, ed edificato in onore della madre degli dei, sotto il nome di Mater Magna; è citato nell'itinerario di Antonino, che lo colloca a sedici miglia da Aequum-Tuticum (2). ______________________________________ (1) Galanti, Descr. delle Sicilie. Sebbene Pietro Diacono affermi (lib. IV) che ad Avellino fu incoronato Ruggero, bisogna comprendere che Anacleto gli diede solo il titolo di re; poiché la cerimonia dell'incoronazione fu celebrata a Palermo, qualche tempo dopo il 25 dicembre 1130. 260 I Normanni concessero al monastero di Monte Vergine molti privilegi ed il feudo di Mercogliano; ma, nel XVI secolo, fu eretto (3) l'ospedale dell’Annunziata di Napoli, che ottenne le entrate da papa Leone X. I monaci supplicarono; e ciò portò ad una sentenza in virtù della quale i feudi furono ceduti definitivamente all'ospedale, il che portò grandi benefici ai feudatari, liberandoli da imposte e da diverse altre servitù. Il cimitero del convento è considerato un oggetto curioso. Si tratta di una vasta volta, situata al livello della chiesa, e scavata nella roccia. Ha la proprietà di conservare i cadaveri ___________________________________________ (2) Pellegrino Campana, Disc. I, dice: Questa opinione deriva dal fatto che abbiamo voluto seguire Flavio Biondo, che non ha capito e ha corrotto il testo di Antonino. Ma, distruggendo questa affermazione, non dice dove si trovava il tempio di Mater Magna. (3) A favore del cardinale Ludovico d'Aragona, vescovo di Aversa, che cedette la baronia di Monte Vergine a Leone X; comprende dodici città o villaggi e diversi castelli. (Sigismondo, Descriz. di Napoli). 261 dei monaci nello stato in cui si trovavano al momento della morte. Ne sono mostrati una quarantina che sono secchi, incorruttibili, dritti o più o meno curvati con l'età. Ci sono tre generali dell'ordine, uno dei quali è in piedi in una bara; ha conservato, si dice, la barba, i capelli e perfino gli occhi che sono aperti. Ai piedi della montagna, presso Mercogliano, è il palazzo del capo dell'ordine dei Verginiani. Questo edificio, chiamato Loreto, è vasto, ma ha un design barocco. Vi sono archivi considerati i più preziosi del regno, in titoli e manoscritti del Medioevo. Uscendo dal paese lasciamo alla nostra destra il Monte Vergine. Curiosa la vista da questo monte; è costellato di cappelle, oratori e croci, lungo il tortuoso percorso per raggiungere il santuario. Tutti questi edifici formano linee la cui massa è molto pittoresca e ha l'effetto più teatrale. 262 LETTERA XX. Arrivo a Napoli. – Piacevole furfante. Costumi, divertimenti e tratti morali dei napoletani. Napoli, lì... Siamo arrivati a Napoli da diversi giorni, e sarebbe ora fuori luogo tornare indietro sulla strada che ci ha portato fin qui. Non passerò quindi in rassegna una miriade di piccole città e graziosi paesini, che animano e abbelliscono la regione, è vero, ma che, nella nostra impazienza, abbiamo trascurato per rivolgere tutti i nostri pensieri verso la capitale. Fino ad allora avevamo avuto piacere nel fermarci, girovagando ai lati del sentiero; ogni nuovo oggetto forniva spunti di discussione, o portava distrazioni piacevoli, e talvolta utili e istruttive; così abbiamo sopportato la fatica e la lunghezza del viaggio. Man mano che ci avvicinavamo alla meta, l'impazienza ci ha sopraffatto; abbiamo guardato solo noi stessi; occhi fissi, bocca muta, sembrava che noi aspettassimo qualche grande evento. Avevamo finalmente raggiunto questa 263 città, così meravigliosa che agli italiani mancano le espressioni per lodarla, e che sono costretti a confinare tutta la loro ammirazione in questo proverbio: Vedere Napoli e poi morire. Volevamo soprattutto vedere la cima fumante del Vesuvio. Ansiosi di questo spettacolo, di cui esageravamo la magnificenza, abbiamo chiesto al nostro autista. Adesso, adesso, ripeteva; e questa volta ci ha completamente presi in giro; perché per questa strada non possiamo scoprire il vulcano. Eravamo incastrati tra due filari di immensi pioppi, che ci nascondevano i lontani piani, di cui vedevamo solo scorci attraverso i tronchi di questi alberi che formavano una doppia cortina del verde più bello, ma anche della più faticosa uniformità. Questa passeggiata che, dalle porte della città, si estende per più di una lega, è fiancheggiata da fontane, cappelle e piccole case, dove la gente viene a divertirsi. Più tardi ci sembrò molto piacevole; ma in quel momento ci offriva solo rumore, polvere e movimento disordinato. Immaginiamo, infatti, la gara dei contadini il cui costume è molto vario; l'avvicinarsi dei carri 264 carichi di produzioni dei campi, che attraversavano con vetture brillanti precedute da corridori; carrozze aperte, e cavalieri che fendono l'aria e la folla dei passanti; e, in mezzo a tutto questo trambusto che annuncia sempre una grande città, e al quale non eravamo più abituati, il nostro triste equipaggio in pessime condizioni, e trascinato lentamente da cavalli esausti. Ci stavamo avvicinando alla città, quando un uomo a cavallo fece cenno al conducente di fermarsi e ci chiese con grande premura e cortesia se non fossimo ingegneri francesi arrivati da Costantinopoli. Alla nostra risposta affermativa arriva, ci dice, il generale C... ambasciatore di Francia, per accompagnarci all'alloggio che è stato preparato per noi e dove siamo attesi con impazienza. Sebbene il generale ci avesse scritto numerose lettere estremamente cortesi, non potevamo credere che si fosse preoccupato così tanto di intromettersi in questi piccoli dettagli. Tuttavia l'ansioso napoletano ci assicurò con tanta bontà la realtà della sua missione, che abbandonandoci alla sua condotta entrammo in Napoli confusi, 265 ma incantati dalla provvida e delicata gentilezza del Ministro di Francia; e, dopo aver fatto una breve comparsa all'ufficio doganale generale, sempre scortata dal nostro autista non ufficiale, l'auto si fermò nella via principale di Toledo, davanti alla porta di un grande albergo. Alcuni servitori molto premurosi si impossessarono delle nostre cose e ci condussero nell'appartamento più bello, composto da un gran numero di stanze. Vi trovammo un bel fuoco, una tavola apparecchiata con due coperti, e quasi subito fu servita una cena che sarebbe bastata per dieci persone; gli rendiamo onore benedicendo la mano che ci aveva guidato fino al porto, e non indugiamo ad andare a dormire in ottimi letti, dove, nonostante la sorpresa provocata da una simile accoglienza, ci addormentammo cullandoci nei sogni più gradevoli. Dovevamo avere già un'alta idea della città di Napoli, della gentilezza dei suoi abitanti, e soprattutto della munificenza del nostro ambasciatore che non vedevamo l'ora di ringraziare. Il giorno dopo, espresso questo desiderio, fu pronta un'elegante carrozza, che ci 266 condusse, bruciando il marciapiede, al molo di Chiaia. Il lacchè corre a chiedere se possiamo essere ricevuti, e torna a dirci che il ministro era con la corte al castello di Portici; poi ci chiede il permesso di essere il nostro cicerone e mostrarci alcune delle innumerevoli meraviglie della Partenope moderna. Trascorsero così due giorni in inutili commissioni per vedere il generale, e con molta attenzione impiegati nella visita delle chiese, dei palazzi, dei gabinetti dei quadri e delle altre curiosità della città. Tuttavia, sospettando qualche mistero nella nostra avventura, il terzo giorno ci rifiutammo accettammo il brillante equipaggio e, sfuggendo all'ossessione del nostro invadente cicerone, prendemmo un calesse, o cabriolet, che ci portò al Palais de France. Ammessi subito senza la minima difficoltà, l'ambasciatore ci ricevette gentilmente, e si degnò di esprimere la sua preoccupazione di non averci più visti; non era stata certo colpa nostra e glielo abbiamo assicurato. Poi, esponendo nei dettagli tutto quello che ci era successo da alcuni giorni, abbiamo insistito sugli obblighi che già avevamo nei suoi confronti, e gli abbiamo 267 chiesto di permetterci di scambiare il magnifico appartamento che ci aveva messo a disposizione, con una sistemazione più modesta e molto più conforme ai nostri mezzi. Il generale ci lascia parlare senza interromperci. Alla fine non poté più trattenere la voglia di ridere, e ci fece vedere che noi eravamo stati completamente raggirati da dei mascalzoni che non erano nuovi a questo genere e che cospiravano con i padroni delle grandi locande per attirare così i clienti. Eravamo consapevoli del nostro errore, che sarebbe potuto durare a lungo se non avessimo ingannato noi stessi il nostro Argo. Ci ha offerto in compenso la sua casa e la sua tavola; e non c'è onestà, nessun segno di interesse, nessuna delicata attenzione che non abbia utilizzato per rendere piacevole il nostro soggiorno a Napoli. Tuttavia non abbiamo ritenuto necessario accettare un appartamento al Palais de France; infatti, dopo aver riso molto di una truffa di cui gli stessi splendori di Parigi, così fatali agli stranieri, non offrono esempio, corremmo a dare congedo alla nostra effimera grandezza, e a pagare una spesa di tre giorni, equivalente a 268 quella che avremmo potuto fare in un mese, in un luogo più adatto, che ci aveva indicato il segretario dell'ambasciata, e dove saremmo stati al sicuro da truffatori di ogni genere, di cui la capitale del regno di Napoli pullula. Dopo che la nostra prima disavventura ci ha informati sull'astuzia, la finezza e l'avidità dei napoletani, abbiamo deciso di sfuggire all'abuso che si stava commettendo, anche nel palazzo dell'ambasciatore. È consuetudine, quando si cena in una casa a Napoli, pagare più del valore della cena. Ecco come: quando ci ritiriamo troviamo tutti i servi allineati nell'anticamera, e in attesa del tributo di coloro che hanno servito a tavola. Per ottenere nuovamente gli stessi servizi, bisogna distribuire a destra e a sinistra, e anche nelle mani dello sguattero alcune monete d'argento che sono state stanziate in anticipo. Invitati una volta per tutte a casa dell'ambasciatore (e non era una vuota cortesia da parte sua, perché ci sgridava quando restavamo parecchi giorni senza pranzare in casa sua), l'uso della mancia ci pesava pesantemente, per i suoi numerosi servi; e abbiamo deciso di far sentire l'inconveniente 269 alla prima occasione. Il generale, un giorno, ci rimproverò utilmente la nostra discrezione, e gliene confessammo la causa. Non era a conoscenza di questo abuso; e mandò a chiamare il suo cameriere, che rimproverò aspramente, minacciando di scacciare il primo che avesse alzato la mano verso i suoi ospiti e che avesse mostrato il minimo disappunto. Il numero dei servi è immenso in Napoli; ogni palazzo ne è pieno; e il borghese stesso ne nutre parecchi, per averne il piacere di essere seguito quando esce di casa. Un uomo che non vuole essere confuso con la plebe può andare solo in macchina; chi non può permetterselo esce solo all’imbrunire per non compromettersi. Al mattino, però, ci si può avventurare, all'occorrenza, ma in vestaglia elegante, a esplorare le strade a piedi: anche le donne solitamente ci vanno da sole o in compagnia, avvolte in un mantello alla spagnola, una sorta di sottoveste di taffetà nera bordata di pizzo; se lo arrotolano sopra la testa e nascondono il volto. Vediamo solo gli artigiani a braccetto con le loro mogli mentre passeggiano. 270 Il napoletano ama la libertà, il piacere e il rumore: è vivace, parla velocemente e a lungo; e i suoi gesti, moltiplicati, hanno spesso un'espressione comica. Desideroso di feste e spettacoli, ovunque incontriamo solo artisti, prestigiatori, marionette, balli e compagnie di cantanti. Utilizza il tamburello, le castagnette o nacchere, e il colascione, strumento a due corde e dal manico lungo. Le feste religiose sono quelle che preferisce, e sono molto brillanti: le chiese si trasformano allora in teatri riccamente addobbati, che risuonano degli accordi più gioiosi; gli assistenti voltano le spalle all'altare e tutta la loro attenzione è concentrata sull'orchestra. Anche le processioni sono oggetto di curiosità, più che frutto di vera pietà. Si estendono in file immense, perché tutta la popolazione è iscritta alle confraternite dei penitenti bianchi, azzurri, grigi e neri; vi si portano baldacchini, stendardi, ostensori ed altri oggetti riccamente adornati; e gli spettatori che riempiono le finestre accrescono ulteriormente la bellezza dello spettacolo. 271 I napoletani soprattutto hanno una grande venerazione per la Madonna. Le sue cappelle sono ricavate nello spessore dei muri, o sporgono dalla facciata di quasi tutte le case; di notte vengono illuminati da lanterne o piccole candele che vengono continuamente rinnovate, e questa devozione ha anche uno scopo utile: solleva la polizia dal doversi preoccupare dell'illuminazione delle strade, e previene molti furti e altri delitti. I piaceri della tavola sono molto ricercati dagli abitanti di Napoli, i meno sobri tra tutti gli italiani. Durante il carnevale e le grandi solennità, le strade sono ingombre di una quantità prodigiosa di beni commestibili, che basta appena per la giornata. Vediamo a tutti gli incroci enormi caldaie di maccheroni dove la gente pesca costantemente a piene mani; e, accanto, botti colme di neve dell'Etna, sospese su un dondolo e costantemente scosse, da cui sgorgano rivoli di bevande ghiacciate. Altrove viene distribuito ai lazzaroni, e a bassissimo prezzo, il cosiddetto caffè levante, che almeno ne ha il colore, se non proprio la virtù. 272 Lo splendore e la povertà, così vicini in tutte le grandi capitali, formano qui un contrasto sorprendente. Gli individui, che sfoggiano all'esterno un sontuoso equipaggiamento, lacchè e un corridore, vestiti con livree prese in prestito, sono ridotti allo stretto necessario all'interno del loro palazzo, di cui occupano solo una soffitta. Un tale cosiddetto signore, la cui anticamera è ingombra di lacchè, può nutrirli solo a spese degli ospiti e dei visitatori, mentre lui stesso vive solo con i soldi delle carte e il profitto che gli dà il gioco. Un altro, che oserebbe mostrarsi in macchina solo in pieno giorno, scappa da una porta sul retro quando le strade sono illuminate solo dalla lampada della Madonna; e si nasconde ancora nel mantello, per non farsi riconoscere in questa fioca luce. Dove corre con così tanto mistero? Va in piazza, a comprare una ciotola piena di maccheroni, che divorerà nello studio non ammobiliato, unico rifugio che gli è rimasto. Almeno il lazzarone mostra in pieno giorno la sua vana povertà; con la sua beretta di lana di 273 colore vivo, e il suo ferrajolo, una specie di pastrano marrone, decorato con grossolani ricami di varie tonalità; non si vergogna di andare scalzo, spesso senza camicia, e di dormire sui gradini di una chiesa, riparato da un tendone o da una panchina, che gli dà il nome di banchiere. Queste persone non possiedono nulla e difficilmente ne hanno abbastanza; senza fuoco né luogo, vivono sempre all'aria aperta, sul porto o per le strade; e si abituano fin dall'infanzia, perché la maggior parte di loro sono trovatelli. Non esercitano alcuna professione e solo occasionalmente prestano servizio come facchini, commessi e manovali. Ma una volta rimediato qualche carlino, pensano solo a bere il gelato, a mangiare maccheroni bolliti, pesce sotto sale, verdure o qualche rimasuglio di vivanda; poi si addormentano, finché il bisogno, facendosi nuovamente sentire, li obbliga a guadagnare un'altra piccola somma, per poter godere ancora una volta del benedetto far niente. Ci sono molte storie stupide su questa grande classe della popolazione napoletana. 274 Si diceva che formasse un corpo e che si autonominasse un re, riconosciuto dal governo, che le concedeva una pensione. Niente di più falso. Lo stesso vale per il loro numero, che fu stimato a quarantamila. Poiché Napoli conta appena quattrocentoventimila abitanti, non è probabile che la decima parte sia composta dai lazzaroni. Anche il numero degli avvocati o delle persone addette ai tribunali fu valutato a trentamila. Si tratta di un'esagerazione manifesta, che forse deriva dal fatto che l'abito dell'avvocato (l'abito nero e il mantello) è adottato, come quello dell'abate a Roma, dalla folla di persone senza status, che non hanno altro modo di distinguersi dal popolo. Le statistiche napoletane contano solo tremila avvocati, e il numero è ancora considerevole. Dobbiamo trovare nei costumi, nelle istituzioni, e anche nella lingua dei napoletani, tracce del passaggio dei vari popoli che hanno di volta in volta dominato questa regione. I francesi soprattutto hanno lasciato ricordi così profondi in tutto il sud e l'est dell'Europa che il loro nome è diventato generico per 275 designare gli stranieri, e si confondono tutti con quello di Franchi. Tra diverse espressioni e usi francesi, i nomi delle rues a Napoli sono stati conservati per quelle abitate da mercanti stranieri. Fu tale il loro sostegno sotto la regina Giovanna I, che per amore dell'ordine, e volendo impedire ogni causa di discordia tra tante nazioni diverse, la regina assegnò a ciascuna un distretto distinto; separando così i francesi dai provenzali, dai catalani, dai genovesi, dai fiorentini. Le strade in cui vivevano si chiamano ancora Rua Française, situata vicino alla chiesa di San Giovanni a Mare; Via Catalana, vicino a Piazza Olmo. La rue Provençale esisteva fino al XVI secolo, quando al suo posto fu costruito il palazzo del re. La strada dove abitavano i mercanti di Genova formava un lungo portico, sostenuto da trenta pilastri che furono abbattuti dai principi d'Aragona; e, al tempo dello storico Summonte, si mantenne il nome Via Toscana per quella che vediamo presso la sellaria. La dominazione spagnola ebbe molta influenza anche sui costumi e sul carattere dei 276 napoletani del XVII secolo: tutto allora veniva fatto alla spagnola. Il continuo scambio di interessi tra i due popoli portò a Napoli le formalità del galateo, i costumi misti a cortesia e altezzosità, il cambio di costume, magnanimità e fierezza, cortesia verso il gentil sesso, gelosia e vendetta segreta. Furono introdotte anche le corride, le mascherate arabe, i tornei, le serenate, le rappresentazioni dette reali; e furono messe in scena le Vite dei Santi. Tuttavia l'origine greca dei napoletani si riconosce ancora nella loro fisionomia e nel loro carattere. Hanno, come i Greci, un'intelligenza vivace, una grande finezza d'organi, molta abilità manuale; soprattutto, come loro, sono amanti del rumore, dell'allegria, degli scherzi e delle azioni mimiche e satiriche. Crediamo anche che le emanazioni di nitro e di zolfo, di cui è permeata l'atmosfera che respirano, comunichino loro una preoccupazione e una mobilità d'animo che danno a tutte le loro azioni e ai loro minimi movimenti una vivacità che ci appare disordinata, smorfiosa, che a volte assomiglia persino al delirio. 277 Inoltre, è tra questi che possiamo trovare i migliori mimi; Fu da Napoli che portammo il faceto Tiberio Fiorillo, tanto famoso in Francia sotto il nome di Scaramouche. Attirò il pubblico al teatro italiano mentre Molière fece ammirare i suoi primi capolavori in un altro teatro. Il Terenzio francese apprese da Scaramouche alcuni misteri dell'arte scenica. Frequentò assiduamente le rappresentazioni spirituali di Fiorillo; e presto riconoscemmo, nei personaggi ridicoli delle sue commedie, lo studente, per così dire, di Scaramouche. Ménage dice che non è mai apparso sulla scena un attore più ingegnoso: Homo non periit, sed periit artifex; e che era la pantomima più perfetta che si fosse vista fino ad allora. Quando Scaramouche si allontanò da Parigi per alcuni mesi, la folla si spostò verso Molière; ma quando tornò il mimo italiano, Molière predicava nel deserto; e i lineamenti del suo genio bello e potente furono eclissati dagli scherzi piacevoli e naturali di Scaramouche. Infine, carico di gloria e di ricchezze, Fiorillo abbandonò il teatro, e morì vecchissimo, a Parigi, nel 1694, lasciando al figlio, divenuto prete, più di centomila scudi. 278 LETTERA XXI. Vesuvio. - Porto. - Lanterna, o faro; e la passeggiata del Molo. - Napoli. - Veduta del mare al tramonto e alla luce della luna. Napoli. L'oggetto che più ha stuzzicato la mia curiosità, al mio arrivo a Napoli, è stato il Vesuvio. Quale fu la mia sorpresa e il mio disappunto alla vista di questa famosa montagna! Non ti è capitato, dagli scritti o dalle azioni di un uomo famoso, di cercare di farti un'idea della sua fisionomia? Crediamo di trovare sul suo volto e in tutta la sua persona tracce delle sue qualità morali, o delle sue grandi azioni; e spesso vediamo solo un uomo comunissimo, gracile, di cattivo aspetto, trascurato nell'abbigliamento e nel comportamento, e il cui aspetto, lungi dal farlo distinguere dagli altri individui, lo avvilisce ai tuoi occhi tanto più la tua l'immaginazione lo colloca su un piedistallo più alto. Lo stesso vale per il vulcano che immaginavo solcato da profonde asperità, e per i torrenti di lava che 279 segnano con una linea nerastra la traccia della devastazione che avevano prodotto sui suoi fianchi. Pensavo di poter camminare solo tra rocce pendenti, edifici in rovina, cumuli di detriti; e questo spettacolo di desolazione doveva sempre essere, almeno immaginavo, coronato da ondate ondulate di denso fumo, che sembravano indicare uno degli sfoghi del Tartaro. Tuttavia non vedo che un tumulo di grandezza ordinaria, di forma conica molto svasata, senza varietà nei piani, senza disuguaglianze nella pendenza, di colore uniformemente cinereo, e il cui cratere, spogliato di ogni prestigio, trasuda appena pochi vapori, percepibili solo al mattino e alla sera, quando i raggi del sole li colpiscono in direzione obliqua. Il vulcano, circondato da fuochi, da fulmini e da fiamme, splendente nell'oscurità, facendo risuonare il paese con i suoi ruggiti e scuotendolo con i suoi tremori, avrebbe senza dubbio prodotto nei miei sensi un'impressione più viva di questa massa triste, inerte, sterile. e polverosa, che domina il paese più allegro. 280 Tuttavia, quando pensiamo che un intero popolo canta e balla allegramente sull'orlo di un abisso sempre spalancato; che questi raccolti, questi frutteti, questi deliziosi vigneti sono sorretti da un magro strato di terra, rivestito dello smalto più brillante, ma minato di sotto da fuochi costantemente accesi, che possono in ogni momento farlo tremare, spaccarlo e inghiottirlo; questo contrasto di una natura animata, vigorosa, con un unico punto dove tutto langue e muore; questa opposizione dei colori più brillanti con queste tinte di un grigio uniforme e livido; questo cratere silenzioso, questa calma profonda ma ingannevole; tutto in questo spettacolo ispira tristezza, e offre perfino qualcosa di sinistro, che suscita nell'animo un sentimento doloroso, che richiama l'immagine del nulla delle vanità umane, e che sembra annunciare il pericolo o la morte. È chiaro che non potrei rendere in uno schizzo sbiadito queste dissonanze che risiedono soprattutto nell'opposizione dei colori. Ho preferito dare una visione del Vesuvio presa dal Castel Nuovo, e come la vediamo di notte e alla 281 luce della luna. Suppongo che esala ancora solo un leggero fumo bianco castrato, che annuncia l'avvicinarsi di un'eruzione solo quando è accompagnato dal ruggito della montagna. Il molo e la sua lanterna occupano il primo piano della composizione (Fig. 9) (1). È la passeggiata preferita dei napoletani, che vengono a respirare l'aria pura del mare e le emanazioni dei fiori di cui sono tappezzate le valli. Il vento di terra le trasporta nel suo corso regolare; ogni sera profuma e rinfresca le spiag______________________________________ (1) Denis, pittore tanto modesto quanto pieno di talento, i cui paesaggi ho spesso ammirato a Napoli e nelle principali città d'Italia, rappresentava, in studi fatti dalla natura, i diversi aspetti del Vesuvio, diurni e notturni, durante un'eruzione di cui espresse tutti gli effetti con grande verità. Del resto nessuno meglio di lui ha immortalato i luoghi pittoreschi della Campania. I suoi paesaggi, dal colore vero e dall'effetto speziato, sono quasi sempre animati da animali che eccelleva nel rappresentare. Potremmo solo rimproverargli un'eccessiva diffidenza nei confronti dei suoi mezzi, cosa che spesso gli faceva abbandonare dipinti che i dilettanti trovavano molto belli e di cui lui solo non si accontentava. 282 Figura 9 283 ge di Napoli e le rive del Sebeto, asciugate dalla calura del giorno; ravviva gli organi stanchi, comunica notizie anche alle menti, ravviva gioie e piaceri la cui durata si prolunga fino a tarda notte. L'antico porto di Napoli venne interrato in seguito alle rivoluzioni vissute da questa terra in costante vacillamento. Occupò la piazza che ancora si chiama Contrada di Porto; e vedevamo la torre che fungeva da faro, in un vicolo dietro la chiesa di S. Onofrio de Vecchi. Esistono ancora, mi è stato detto, nelle cantine vicine, i resti di un antico monumento dove fu rinvenuta una figura di Orione, che il popolo ritiene essere quella di un personaggio di nome Nicolò, famoso nuotatore, che veniva chiamato il pesce napoletano, Piscicola. Questo Nicolò esisteva al tempo di Federico d'Aragona. Si sostiene che abbia nuotato dalla Sicilia alla Calabria per trasportare dispacci segreti. A volte trascorreva quattro o cinque giorni in mare, nutrendosi di pesci, ostriche o piante marine, e giocando anche con le onde agitate dalla tempesta. Federico, trovandosi a Messina, fece 284 gettare negli abissi di Cariddi una coppa d'oro, che l'uomo-pesce andò a prendere dal fondo del mare dove rimase tre ore. Al suo ritorno dipinse un quadro spaventoso delle grotte sotterranee che aveva visitato e delle correnti di cui era stato quasi vittima. Il re, per incoraggiarlo a fornirgli nuove informazioni su questi luoghi sconosciuti agli altri mortali, fece lanciare un sacchetto di monete d'oro e un'altra coppa; ma il povero Nicolò fu vittima del suo coraggio e della sua avidità, in questa nuova immersione; e il suo corpo non è mai più apparso. All'epoca di Carlo I d'Angiò, esisteva una diga sulla quale poi furono costruiti la darsena e l'arsenale. Carlo II fondò, 1302, parte del molo che ora vediamo. Carlo III, padre dell'attuale sovrano, lo estese, nel 1743, verso est, di più di trecento palmi, e lo completò con un forte fornito di artiglieria, che controlla il porto ed il mare aperto; il molo protegge le imbarcazioni dal vento di scirocco che domina nel golfo. Ma il porto è troppo piccolo per una capitale, perché non ha duecento tese nel suo diametro maggiore. Si potrebbe formare, attraverso alcune opere ben 285 conosciute, un altro porto il più vasto possibile nello spazio tra il castello dell'Ovo e la Lanterna. Sotto la costruzione moderna si trovavano grandi magazzini per il disarmo delle navi da guerra. La sommità offre un ampio e bellissimo terrazzo, arredato con panchine in Piperno, e pavimentato con pietre laviche a taglio squadrato. La lanterna o faro del porto, eretta nel 1301 da Federico I, fungeva da polveriera; ed era ancora lì, quando, intorno al 1626, un fulmine vi cadde sopra, la incendiò e la fece saltare in aria. Il Duca d'Alba la ricostruì sul modello composto da Pietro Martino, architetto napoletano Si dice anche che vi fosse un galeotto che forniva i disegni e ne supervisionava l'esecuzione, e che la gente fu così contenta di quest'opera che al suo autore furono concesse libertà e grandi ricompense. L'iscrizione posta sulla porta di questo monumento menziona il re Filippo IV, il duca d'Alba e un certo Francisco Mannique triremium gub. curante. Questo è senza dubbio il motivo per cui quest'opera è stata attribuita a un galeotto. Per ovviare a un inconveniente così diffuso, non dovremmo, invece di persone il cui 286 nome diventa poi un enigma, registrare, in queste iscrizioni lapidarie, il nome dell'artista che ha realizzato il monumento? La passeggiata del molo termina con una moderna fontana. Ve n'era un'altra nel medesimo luogo, ornata di bassorilievi e di quattro figure, eseguita dal Merliano, meglio conosciuto sotto il nome di Giovanni di Nola, donde questa piazza ha conservato il nome di Quattro del molo. Queste bellissime opere di scultura furono rimosse dal viceré Pietrantonio d'Arragona, che le fece trasportare, di propria autorità, in Spagna, per adornare i suoi giardini. Questo incredibile atto di audacia e di dispotismo suscitò dapprima solo i gemiti dei napoletani che non osarono impedirlo; ma, in seguito, lo stesso viceré volle spogliare anche la fontana di S. Lucia a mare, dei bassorilievi composti dal D'Auria, allievo di Merliano; gli abitanti si opposero fortemente, minacciando di ribellarsi. La condotta impudente di questo governatore contrasta con quella del re Carlo III, il quale, alla partenza per la Spagna, ebbe la delicatezza di riporre nel gabinetto di Portici un bellissimo cammeo antico che portava al dito da 287 sette anni. Considerandosi, disse, soltanto custode delle ricchezze trovate ad Ercolano, non voleva distrarne minimamente. Bellissimo e raro esempio di integrità! Dalla piattaforma della mole godiamo di una vista molto bella. Ma, per comprendere l'intera città, segnaliamo alcuni punti salienti, come la certosa di San Martino, sul monte Sant'Elmo, e il luogo chiamato Miratodos. Da queste altezze godiamo, è vero, di un maggiore sviluppo del territorio, e la vista spazia a distanze immense. Ma se guardiamo indietro, ai piedi della scarpata dove ci troviamo, vediamo solo i tetti degli edifici; le strade sembrano solchi profondi; cortili e luoghi presso pozzi; tutti gli oggetti, ugualmente illuminati e senza effetto, non presentano alcun interesse pittoresco. È quindi preferibile avere una carta geografica di grandi dimensioni approssimativamente illuminata, a un dipinto di Claude Lorrain. Per godere appieno della vista di una città è necessario alzarsi un po' e allontanarsi ad una distanza tale da poterla abbracciare tutta in un colpo d'occhio. Napoli vista dai giardini di Portici ne offre una molto bella, ma diventa ancora più imponente 288 quando ci si allontana in mare aperto. Quindi varia a seconda che ci si muova e ci si allontani; e, per un dipinto, ne abbiamo mille, tutti diversi per linee, effetti e colore. La vista di Napoli, arrivandovi via mare, è stata spesso paragonata a quella di Costantinopoli; e aggiungiamo che l'aspetto di queste due città è il più meraviglioso del mondo in questo genere. Quella della città turca l'abbiamo già descritta; e, quanto a ricchezza ed estensione, prevale su quella di Napoli. Ma quest'ultima è infinitamente più pittoresca e deve questo vantaggio al movimento del terreno che, nelle sue linee sinuose e brusche, sviluppa molto meglio gli edifici della città, li fa piramidali gli uni sugli altri, e ne stacca le masse e le imbardate; mentre le coste del Bosforo, generalmente basse o arrotondate in colline, offrono solo linee di grande estensione, senza varietà nelle loro forme, e senza contrasto nei loro effetti. Arrivando nel Golfo di Napoli, e lasciando sulle coste le isole di Ischia e Capri che sembrano stelle avanzate, vi si offrono gli 289 scenari più mirabili. A sinistra si stagliano le ripide rocce di Procida e di Capo Miseno, alle cui spalle si vede il Golfo di Pozzuoli, dominato dal Monte Barbaro; e, man mano che ci avviciniamo, l'interesse diventa sempre più concentrato e coordinato in un unico quadro stretto tra il Monte Posillipo e il Vesuvio. Napoli occupa il centro del bacino; e i suoi edifici sono raggruppati attorno al Monte Sant'Elmo, l'acropoli dell'antica Partenope. Per godere appieno di un aspetto bisogna scegliere l'ora, il momento favorevole agli effetti pittoreschi. Imbarchiamoci su una barca a remi, e lasciamo il porto verso la fine della giornata: il sole tramonta sulla tomba di Virgilio, e la circonda di un alone splendente. Fuori della punta di Posillipo, illumina ancora le antichità sparse sulle coste di Pozzuoli, e si tuffa infine nel mare tra il promontorio di Miseno e l'isola di Procida, anche se alle nostre spalle indora le punte scoscese di Anacapri. Segue il crepuscolo che dipinge a lungo il cielo azzurro con le sue sfumature rosa e violacee, e infine, con questo tono grigio argentato, prima sfumatura del manto notturno, attraverso il 290 quale si vede già scintillare qualche stella. Cessa la brezza, le onde si calmano, il mare è liscio e trasparente, e la stella di Venere si ripete nelle acque e lì risplende come un diamante che nuota sulla loro superficie: i marinai cominciano l'inno della sera, ed io aspetto senza impazienza che venga la luna e illumini gli oggetti e mi dia nuovi piaceri variando gli effetti di chiaroscuro. Si era oltrepassato l'orizzonte e si stava uscendo dal Golfo di Salerno, ma non riuscivo ancora a scorgerne il disco, nascosto dietro le creste del Vesuvio. Ma la sua luce tenue argentava già il fumo che fuoriusciva dal cratere, o meglio i vapori condensati che lo coronano. Ma, appena la stella splendente ebbe raggiunto la vetta dei monti, un rapido fascio di raggi si precipitò, colpendo diagonalmente le fabbriche della città, ne illuminò le facciate, mentre lunghe ombre, proiettate da alcuni grandi edifici, lasciavano i piani inferiori di questo dipinto in una vaga oscurità: interi quartieri di fronte al fuoco della luce si stagliano contro i vapori biancastri emanati dalle acque del Sebeto, oppure si stagliano sullo sfondo aereo dei colli che dominano la valle di Nola. 291 Nel centro della città, i templi, i palazzi, le terrazze, gli acquedotti e i giardini, sospesi piramidalmente sui crinali della montagna, fino alla sommità occupata dalla Certosa e dal Forte Sant’Elmo, tutti questi oggetti formano, in un certo senso, una pioggia di luce il cui spettro si riflette nel calmo specchio delle acque del porto. Il Castel Nuovo, il molo, il promontorio di Santa Lucia e il Castel dell'Ovo, offrono ancora una barriera ai raggi luminosi e proiettano l'ombra sulla riva della Chiaia, che contrasta con la Margellina e le rocce di Posillipo, ben illuminate. Finalmente il Golfo di Pozzuoli si perde in lontananza; e i muri biancastri delle fabbriche sparse sulle sue coste non ne determinano che i contorni, che, con la loro unione, indicano le località di Pozzuoli e di Bacoli. Non potevo stancarmi di contemplare questo spettacolo imponente; e avrei vagato a caso per tutta la notte sul golfo, se la freschezza, facendosi pungente e penetrante, non mi avesse avvertito di pensare al ritiro. Mi avvicinai alla lanterna del molo, che brillava di una fiamma rossastra, di alcuni fuochi accesi sulla riva e del 292 loro fumo dorato, delle luci che illuminavano l'interno delle case, delle torce che portavano i corridori davanti alle macchine, tutte queste luci fisse o vaganti si dipingono come scie di fuoco sulle onde leggermente in movimento. Gli alberi delle navi e dei battelli, riuniti nel porticciolo, presentavano l'aspetto di una foresta spoglia delle sue foglie; i pescherecci, incrociando il porto, formavano tante macchie nere; ed i loro remi, mossi con regolarità, facevano somigliare queste leggere barche a quegli insetti che viaggiano veloci sulla superficie degli stagni. Dopo aver gustato la dolcezza della calma più profonda, dopo aver goduto delle bellezze naturali più sublimi, il movimento e il rumore della città dovettero dispiacermi; così corsi e mi chiusi nel mio rifugio. Lì, seduto davanti alla mia finestra, con il foglio sufficientemente illuminato dai raggi della stella notturna, scrivo questa lettera in cui cerco di tracciare il contorno del mirabile quadro che ha appena incantato i miei occhi, e i cui colori rimarranno vividi, impressi nella mia immaginazione. 293 LETTERA XXII. Note storiche sulle arti napoletane fino al quattordicesimo secolo. Dopo aver trascorso la maggior parte della giornata visitando i monumenti e le altre curiosità di Napoli, mi allontano con nuovo piacere dal tumulto di questa capitale, per curiosare tra i buoni autori napoletani (1), e trarre dai loro scritti una ricchezza di conoscenze che nemmeno la conversazione più istruttiva potrebbe darmi. Li preferisco soprattutto ai Cicerone, che ti ossessionano e ti stancano con le loro chiacchiere ufficiose e insignificanti. Sono queste le note risultanti da questa elusione, o meglio da questo divertimento, che affido alla carta; il loro oggetto deve essere la ricerca sulle arti napoletane. Invece di buttare a casaccio e senza metodo le nozioni che ho acquisito sui monu______________________________________ (1) Mi è stata particolarmente utile l'opera di Signorelli, intitolata: Vicende della Coltura nelle Sicilie. 294 menti della città, le metterò in relazione con il periodo della loro costruzione, facendo sentire l’influenza che gli eventi politici esercitarono su queste produzioni artistiche. È chiaro che non li esaminerò tutti; forse non parlerò nemmeno di quelli più interessanti. Non è quindi una descrizione completa di Napoli quella che mi impegno qui a dare, ma una raccolta delle mie idee sugli oggetti che più mi hanno colpito in una prospettiva pittorica. Un altro li considererà da un aspetto diverso. E non dobbiamo perdere di vista il fatto che io sono solo un artista, al quale dobbiamo chiedere più sentimento che erudizione e meno genialità che verità nei suoi dipinti. Del resto queste nozioni, per quanto imperfette, potrebbero servire a qualcosa, poiché compenseranno il silenzio di altri viaggiatori che, molto preoccupati dello stato delle arti nel resto d'Italia, hanno disdegnato di informarsi sulle origini e seguirne l'evoluzione nel paese che ho davanti agli occhi. Vasari, Borghini, Baldinucci, infine Bettinelli, eco dei suoi predecessori, estimatori esclusivi e talvolta ingiusti delle scuole di Firenze, Venezia, Roma 295 e Bologna, hanno appena citato gli artisti napoletani. Lanzi cita solo i pittori, e la sua opera è incompleta sotto altri aspetti. Nell'attesa di uno scrittore erudito e imparziale che riunisca, in un corpus di opere, la storia generale delle arti in Italia, crediamo si debba riabilitare la memoria degli artisti del regno di Napoli, e richiamare l'attenzione su questo paese, distratto dalla fama abbagliante di altre scuole. Non riporteremo i titoli di gloria della grande Grecia; sono così conosciuti e di tale genuinità che basta dare uno sguardo a questo felice paese, o muovere leggermente il suolo, per trovare testimonianze del gusto e della magnificenza dei suoi antichi abitanti. I vasi dipinti campani, che abbiamo ingiustamente insistito a chiamare etruschi, gli eleganti mosaici, i dipinti di grande stile che ancora decorano gli ambienti sotterranei, le statue di marmo e di bronzo sottratte sotto le macerie dei palazzi e dei templi, le medaglie la cui serie è interessante tanto per la storia stessa quanto per quella delle arti, e di cui si direbbe che il progetto sia stato perfezionato qui, ancor prima che ad Atene; infine le testimonianze degli scrittori 296 dell'antichità, che nominano una schiera di artisti le cui opere e fama onorano la grande Grecia, dimostrano che essa fu prima di Roma il centro del gusto. Gli storici moderni si uniscono a noi nell’affermare che essa ha sempre meritato di portare il nome dell'antica patria delle arti. Abbiamo spesso dipinto il quadro deplorevole della caduta dell'Impero Romano d'Occidente e delle irruzioni delle orde settentrionali che soffocarono le luci sotto le rovine delle città e nel sangue dei cittadini. Tuttavia i Goti, sotto la guida di Teodorico, non sono da considerarsi assolutamente barbari (1); e, benché il loro re non sapesse neppure firmarsi, ebbe il buon animo di preservare i magistrati di Roma, di confermare, con un editto, le leggi contenute nel codice teodosiano: fece erigere magnifici edifici; riparò quelli vecchi; proibì che i templi venissero spogliati dei loro ornamenti di marmo ______________________________________ (1) Dione Cassio, che morì prima della fine del terzo secolo, e che aveva scritto una storia generale dei Goti, che è andata perduta, disse, secondo Jornandes, che i Goti erano gli unici barbari educati, colti e saggi quanto i Greci. 297 e di bronzo; infine protesse le lettere e le arti e ne incoraggiò la cultura. Fu un napoletano, il senatore Cassiodoro, noto in quel tempo per essere il sostegno di dotti e artisti, che seppe ispirare sentimenti così moderati in Teodorico e nei suoi successori. Rimase, per la felicità dell'Italia, settant'anni alla guida degli affari; egli stesso ci racconta che Teodorico restaurò gli acquedotti, le terme, gli anfiteatri, i teatri di Roma e di altre città d'Italia; e che costruì diversi palazzi nei quali volle imitare e anche superare in magnificenza gli antichi artisti romani. È vero che i Goti vengono accusati di aver introdotto un nuovo sistema di costruzione e di aver violato le regole degli antichi ordini architettonici. Ma preferiamo credere, con Muratori e Maffei, che l'arte fosse già in declino quando questi popoli del nord arrivarono in Italia. Cassiodoro dice che usavano delle colonne lunghe e sottili che somigliavano a giunchi; e già Vitruvio si era lamentato dell'abuso fatto di alcuni stravaganti oggetti nella decorazione dei teatri e delle case private. 298 Per quanto riguarda gli archi cosiddetti gotici o a sesto acuto, ne vediamo numerosi esempi nelle costruzioni del Tardo Impero; ma erano conosciuti molto tempo prima. Sallustio sostiene che alla morte di Ercole in Spagna, i Persiani, che facevano parte del suo esercito, si imbarcarono per l'Africa, dove arrivati, tirarono le loro navi a terra e, dopo averle rovesciate, ne fecero la loro dimora. Lo stesso storico aggiunge che, ai suoi tempi, le abitazioni dei Numidi somigliavano allo scafo di una nave e troviamo ancora la stessa forma negli archi e nelle volte degli indiani, dei greci e dei turchi. Ma non dovremmo, crediamo, formarne il carattere distintivo dell'architettura gotica; e, sebbene non possiamo dubitare che i principi gotici abbiano eretto monumenti, come le terme di Verona e Pavia, e un anfiteatro in quest'ultima città, poiché non rimane nessuno di questi monumenti la cui origine gotica è ben accertata, non possiamo giudicare lo stile della loro architettura. Nella scultura abbiamo conservato il ricordo di una statua che costoro eressero al loro re Teodorico nella norrena di Napoli, e che era 299 composta, o meglio ricoperta di pietruzze di vario colore; era una specie di mosaico in rilievo. La testa di questa figura si staccò e cadde durante la vita di questo re; otto anni dopo, il resto del corpo si decompose fino alla cintura turca; e, poco dopo, non ne rimase più nessun vestigio. Queste statue, realizzate con piccole pietre colorate, non erano rare a quel tempo. Citiamo quelle che Teodorico aveva realizzato a Ravenna. Una rappresentava questo principe in piedi, con la lancia nella mano destra e il braccio sinistro coperto da uno scudo; e al suo fianco c'erano altre due statue che personificavano le città di Roma e Ravenna. Finalmente vedemmo nel palazzo di Pavia la statua equestre di questo monarca, similmente eseguita in mosaico. Ne fece erigere un’altra in bronzo dorato in Ravenna; ma si ritiene che fosse già stata utilizzata per l'imperatore Zenone, e che l'iscrizione fosse stata cancellata per sostituirvi il nome di Teodorico. In ogni caso Carlo Magno, di passaggio a Ravenna nell'801, colpito dalla bellezza di questa statua, la ottenne dai cittadini, e con essa adornò la sua nuova città di Aix-laChapelle. Anche il Senato di Roma fece erigere 300 nel 500 una statua in bronzo a Teodorico. Ma sembra che tutte queste figure furono poi demolite da Rusticiana, vedova di Boezio. Anche i dipinti a mosaico erano ampiamente utilizzati, e furono persino prodotti veri dipinti propriamente detti. Vi è, nella chiesa di Sant’Agnello, un'immagine della Vergine con il bambino Gesù, che deve essere stata dipinta al tempo di Giustiniano, da un uomo di nome Tauro. Fu davanti a questa immagine che nel 520 resero la loro devozione la beata Giovanna e Federico, genitori di Sant'Agnello. Allo stesso artista sono attribuiti alcuni dipinti antichi conservati nelle grotte di San Gennaro. Sotto i monarchi goti l'Italia, benché languisse, aveva dunque conservato la sua civiltà, le sue leggi, i suoi magistrati, ed anche il suo gusto per le lettere e le arti; dovemmo rimpiangere la dominazione di Teodorico, Amalasunta, Totila e Teia, quando gli italiani furono sottomessi e brutalizzati dai Greci e dai Longobardi, che rovesciarono il governo e tutte le istituzioni sociali. Sembra, infatti, che queste due nazioni si siano accordate per 301 distruggere tutte le produzioni del genio. I Longobardi, ignoranti e feroci per istinto, portavano dovunque ferro, fuoco e desolazione; i Greci, intolleranti, avidi e saccheggiatori, vedendo che a fatica potevano rimanere in un paese di cui erano gelosi, lo spogliarono di ogni cosa notevole e distrussero ciò che non potevano portare via. I primi saccheggiarono, nel 589, la ricca abbazia di Montecassino; gli altri, la celebre Basilica del Monte Gargano. Costante II spogliò i monumenti di Roma di tutti i loro ornamenti, e rimosse le statue; degradò la cupola del Pantheon per togliere il metallo che la ricopriva; lo stesso fece a Siracusa; e alla sua morte il frutto del suo saccheggio cadde in potere dei Saraceni, che lo trasportarono sulle loro navi ad Alessandria. I Longobardi però, divenuti cristiani, espiarono la loro prima devastazione facendo costruire una serie di edifici religiosi, dove il buon gusto era però soffocato sotto l'inutile lusso. Agilulfo, Adaloaldo, Grimoaldo e gli altri loro principi innalzarono chiese in Lombardia, e restaurarono, nel regno di Napoli, quella del Monte Gargano, e parecchie altre che erano state 302 saccheggiate. Nel 717 venne rifondato anche il monastero di Montecassino. Pochi anni dopo Gisulfo II costruì a Benevento la celebre chiesa di Santa Sofia; ed il principe Arechi fece erigere due magnifici palazzi, uno in questa città, l'altro in Salerno. La scultura, fedele compagna dell'architettura, ha avuto lo stesso destino. La statua colossale di Barletta era considerata il monumento più autentico della scultura di questo periodo; ma abbiamo già espresso parere contrario al riguardo. Citiamo anche una vipera oro, che il duca Rodoaldo custodiva nel suo palazzo come oggetto di superstizione, e che il santo vescovo Barbato ottenne dalla duchessa, per convertirla in vasi sacri. Possiamo almeno dedurre che non avesse cessato di essere esercitata; e gli storici menzionano oggetti metallici di pregevole fattura. Si coltivava anche la pittura; e il Diacono parla di pitture con le quali, agli inizi del VII secolo, veniva decorata la stanza dove ricevevano la cresima i neofiti battezzati. Alla cura di Papa Onorio I e a San Zaccaria si devono anche i 303 dipinti e i mosaici di Sant'Agnese della Via Nomentana e la carta geografica del palazzo di San Giovanni in Laterano. Potone XI, abate di Montecassino, fece dipingere la chiesa di San Michele da lui costruita; e vedemmo a Capua, nell'VIII secolo, il ritratto di Arigiso, duca di Benevento. Un lampo passeggero e ingannevole, che brillò verso la fine dell'VIII secolo, sembrava promettere il ritorno della luce. Carlo Magno portò in Italia il suo amore per lo studio; protesse e premiò il lavoro degli studiosi. Arechi, principe longobardo, coltivò lui stesso le lettere; suo figlio Grimoaldo, saggio in pace, valoroso in guerra, imitò il suo esempio. Ma ben presto, secondo l'espressione italiana, l'albero che i principi di Benevento avevano piantato, cominciò a essere roso dal tarlo feudale; e nell'840, essendo stato questo ducato diviso, e poi suddiviso all'infinito, seguirono infinite guerre: i Greci ed i Saraceni devastarono il paese, e questo stato calamitoso durò fino all’inizio del secolo XI. 304 Tuttavia le arti non avevano cessato di essere coltivate: il furore dell'eresia degli iconoclasti, sostenuta dagli imperatori greci, e che si diffuse in tutta Italia, dimostra che nell'VIII secolo esistevano immagini in questo paese. Nonostante gli ordini degli imperatori, nel IX secolo il santo vescovo Anastasio arricchì di dipinti diverse chiese. Lo stesso fece Antimo, duca e console di Napoli. Citiamo come opera di questo periodo un'immagine della Vergine, da allora venerata nella chiesa di San Gaudioso a Napoli. Verso la metà del secolo successivo furono dipinte le pareti della chiesa di Montecassino, ricostruita poco prima. Per togliere all'Italia, e soprattutto al Regno di Napoli, la gloria di aver fornito artisti in questo tempo, si pretende che tutte queste pitture siano state eseguite da Greci. Esaminiamo questa affermazione, che ci sembra infondata. Sappiamo che da Costantinopoli furono inviati duchi, patrizi, catapani, ecc.; ma non si trattava di artisti. E anche se alcuni di loro furono introdotti con fama, ciò non costituisce la prova che non ne esistessero in questo regno. Sarebbe lo stesso se si dicesse che la pittura era 305 sconosciuta in Spagna, perché lì furono mandati Tiziano, Giordano e Mengs. È vero che i dipinti di questo periodo sono quasi tutti firmati in greco. Ma noi stessi usiamo fare così, scrivendo in fondo alle nostre tavole, N. fecit anno..., in una lingua che non è la nostra. Inoltre in Calabria, in Puglia, in Sicilia, a Napoli e nelle altre città d'Italia soggette all'esarcato di Ravenna, gli artisti potevano firmarsi con caratteri greci, poiché vivevano sotto la dominazione greca, o perché tale era la loro origine. Inoltre officiavamo in greco; ed era la lingua degli avvocati e delle leggi, come lo fu per lungo tempo tra noi il latino. Basta infine che un solo pittore, più abile degli altri, abbia dato questo esempio perché l'uso si diffondesse tra i suoi studenti, per accreditare il loro lavoro. Questa opinione non è contraddetta da nessun cronista dell'epoca; è addirittura supportata da un fatto che risale al X secolo. In un diploma di Giovanni, Duca e Console di Napoli, e scritto in latino: questo Duca concede al monastero di San Severino di possedere diversi mulini con relativi annessi, e sottoscrive in caratteri greci maiuscoli: IOANNEΣ KONΣOYΛ ET ΔOYΞ 306 ΣOYB - Joannes consul et Dux subscripsi; ora, poiché questo console era greco, solo come lo intendiamo noi, cioè napoletano, i suoi connazionali potevano scrivere in greco, senza essere della Grecia orientale. Ecco perché l'antico crocifisso ligneo della chiesa di San Severino, e le sculture marmoree che recano una firma in caratteri greci, sono attribuiti, da Criscuolo (1) e De Dominici, ad un artista napoletano del X secolo, di nome Pierre Cola di Gennaro. Non ci soffermeremo a sottolineare l'errore di Bettinelli, che rappresenta l'Italia dei secoli VIII e IX, come sommersa da paludi da cui sorgono alcune capanne coperte di paglia. Potremmo citare diversi monumenti costruiti in questo periodo, e ad imitazione delle magnifiche opere degli Arabi o dei Saraceni in Sicilia: ma continuiamo a ripercorrere la serie degli avveni______________________________________ (1) Angelo Criscuolo, notaio e artista del XV secolo, autore di manoscritti conservati presso la Biblioteca della Valletta, oggi unita a quella dei Padri Girolamini. De Dominici ne fece molto uso nelle sue Notizie sui Profess. napol. 307 menti più notevoli del periodo successivo. Da circa due secoli vediamo il genio lottare contro la barbarie che vuole arrestarne il progresso. Una luce fugace sfugge dal trono dei tre Ottoni; ma ben presto scompare tra i tumulti e le dispute tra la corte di Roma e l'Impero. La discordia civile copre di lutto l'Italia; ed i Saraceni, già padroni della Sicilia, approfittano di queste divisioni per penetrare nel regno di Napoli. Questa città, Benevento, Capua e Salerno, furono successivamente teatro dei loro conflitti con i Greci e i Longobardi. Alla fine il principe di quest'ultima città chiamò in suo aiuto alcuni cavalieri normanni, che lo aiutarono a combattere contro questo nugolo di nemici. Questi cavalieri, tornando in Francia, raccontarono le loro gloriose avventure. Gisleberto e i suoi fratelli partirono, a loro volta, dalla Normandia, nel 1017, per offrire i loro servizi ai principi di Salerno e Capua. Furono ben accolti e con il loro valore e le loro gesta, contribuirono a riportare quest'ultimo principe nei suoi Stati. Ma la sua ingratitudine li portò a formare uno stabilimento indipendente nel 308 paese; essi fondarono, nel 1030, la città di Aversa. Ristabilirono il duca Sergio nel possesso della città di Napoli, da cui l'amicizia di questo duca con Rainulfo, condottiero dei Normanni, l'alleanza delle due famiglie, e la cessione del territorio di Aversa, eretta a contea intorno al 1032. Questo primo insediamento aprì, poco dopo, la carriera dei figli di Tancredi d'Altavilla, duca di Normandia, che vennero a stabilirsi in Italia, su invito di Rainulfo, e iniziarono a gettare le basi del trono di Napoli e di Sicilia. Ma non riuscirono a raggiungere questo obiettivo senza grandi difficoltà e molti trionfi, i cui dettagli lasceremo alla storia. Ci limiteremo a seguire quella delle arti di questo periodo, famoso per l'affermazione seminale della scuola greca di Otranto e di quella di Salerno, e per la nascita della lingua italiana. I Normanni eressero grandi edifici; tra gli altri, chiese che conservano ancora dipinti di quest'epoca. Nella Cronaca dell’Ostiense si dice che Desiderio portò da Costantinopoli artisti esperti nell'arte musiva e quadraturisti, per 309 decorare il vestibolo della sua grande basilica, e per realizzarne il pavimento di vari colori. Ciò non prova che non vi fossero altri pittori in Italia; ma i migliori mosaicisti furono i greci. Inoltre, parlando di dipinti dell'XI secolo, non è detto, nella Cronaca di Montecassino, che furono utilizzati stranieri per eseguirli; e, in un'altra Cronaca del Monastero di Cava, menzionando mosaici rifatti nel 1082, pavimentum opere grœcanico, non si intende fatte dai greci, ma lavorate col procedimento greco. La Raccolta delle Leggi Longobarde, depositata nell'archivio dello stesso convento, offre i ritratti di questi primi principi, eseguiti in miniatura. A Napoli sono esposti solo due dipinti del XII secolo: uno, nella chiesetta di Santa Maria a Circolo, e l'altro a San Leonardo di Chiaia, recante la data 1140. Per quanto riguarda l'architettura e la scultura, i monumenti non sono rari. Furono erette numerose chiese, monasteri e castelli; e vi abbondano pezzi di scultura. Niente è più magnifico, per la bellezza della costruzione e per la ricchezza dei materiali ivi utilizzati, della chiesa di Monreale, eretta nel XII secolo da 310 Guglielmo II. Due ordini di colonne in marmo e granito, di grande diametro, sostengono il tetto di questo edificio, rivestito di mosaico e tavole di marmo. Le porte sono di bronzo; le pareti del coro sono rivestite in porfido, così come il basamento delicatamente scolpito, che sostiene la statua in bronzo di San Giovanni Battista. Infine il pavimento è a mosaico. Le tombe di Guglielmo I, e quella di suo figlio, sono decorate con sei colonne di porfido, che sostengono la cupola di un tempietto; ed il sarcofago di Guglielmo II, morto nel 1189, è un pezzo unico. Quest'ultimo cenotafio con il suo coperchio sono tratti dallo stesso blocco. I principi normanni lasciarono anche nelle province diversi bellissimi monumenti. A Salerno vediamo una chiesa magnifica, con questa iscrizione un po' vanagloriosa di Roberto il Guiscardo: ROBERTUS GUISCARDVS IMPERATOR MAXIMUS. Potremmo citare altri edifici a Mileto, Reggio, Cava, Bari, ecc. e conserviamo la memoria di un architetto di nome Buono, che lavorò, intorno alla metà del XII secolo, a Ravenna e in 311 Toscana: fu lo stesso uomo a costruire la torre di San Marco a Venezia. Vasari dice di non conoscere la patria di questo artista; ma il cavalier Massimo Stanzione, nelle sue memorie manoscritte, afferma che era napoletano. Questi due scrittori vissero nello stesso periodo. È vero che quest'ultimo non sostiene la sua opinione con alcuna prova; e da allora non abbiamo altra presunzione che il nome di Buono, perpetuato in una famiglia napoletana che fornì diversi artisti. In ogni caso assistiamo alla fioritura qui, nello stesso secolo, di un pittore-architetto, che fu il primo maestro del celebre Masuccio, di cui parleremo più avanti. A lui viene attribuito il Crocifisso miracoloso che parlò a San Tommaso d'Aquino. La carriera del gusto diventerà sempre più praticabile e frequentata. Avendo il regno preso una base fissa, le arti cominciarono a fiorire liberamente sotto i re svevi Ruggero, i tre Guglielmo e l'imperatore Federico II. Vedemmo nell'antico palazzo di Napoli un dipinto che rappresentava Federico sul trono, e 312 Pietro delle Vigne, suo cancelliere, su un pulpito, mentre il popolo in ginocchio implorava la sua giustizia, ed esclamava: Caesar amor legum, Friderice piissime Regum, Causarum telas, nostras resolve querelas. E il sovrano rispose, indicando il suo cancelliere: Pro vestra lite censorem juris adite. Hic est: jura dabit, vel per me danda rogabit. Vinea cognomen, Petru' judex est sibi nomen. Questo dipinto, la cui esistenza è assicurata dalla testimonianza di diversi storici, diede spunto a Tiraboschi per segnalare l'ingiusta pretesa del Vasari, che attribuisce a Cimabue l'invenzione dell'arte pittorica tra i moderni, e soprattutto quella di aggiungere alla rappresentazione dei personaggi, le parole scritte, che esprimono i loro sentimenti. Questa affermazione cade, per mezzo di questo dipinto eseguito prima di tutti quelli di Cimabue. Del resto Vasari è stato accusato da un gran numero di autori, se non di malafede, almeno di parzialità a favore della sua patria. Ridolfi ci assicura che la pittura era coltivata con un certo 313 successo prima di Cimabue; Il Malvasia mostra, forse con troppa durezza e amarezza, che a Bologna vi furono pittori altrettanto antichi e abili quanto quelli di Firenze; i genovesi e i romani offrono pitture ancora più avanzate; finalmente possiamo portare avanti, a favore dei napoletani, la testimonianza anche di un toscano, Marco dal Pino, senese, pittore di merito e contemporaneo del Vasari, il quale, dopo aver operato lungamente in Napoli, si stabilì in questa città, e vi acquistò il diritto di borghesia. Pubblicata l'opera dell'artista fiorentino, Marco dal Pino, riconoscendo con dolore che costui aveva evitato il più possibile di parlare degli artisti napoletani, decise di vendicare l'onore di una patria da lui adottata per sua; e su questo argomento scrisse un'opera che non poté portare a termine, e della quale resta conservato solo un frammento dal suo allievo, il notaio Criscuolo, di cui abbiamo già parlato. Si parla di un uomo di nome Tommaso de Stefani, che nacque nel 1239, visse fino all'inizio del XIV secolo e realizzò dipinti per diverse chiese di Napoli. Alcuni esistono ancora; considerando l'epoca in cui furono eseguiti, si nota (secondo 314 De Dominici) tanto di buono e del ragionevole, che recano diletto a chiunque li guarda. Era conservato nella chiesa dell’Annunciazione, fino al momento dell'incendio che consumò questa chiesa, un quadro dipinto dell'Annunciazione, di Tommaso, su fondo oro. Il cavaliere Massimo Stanzione elogia molto questo dipinto, credendolo addirittura dipinto ad olio. Il De Dominici aggiunge che i dipinti del Duomo di Napoli, dello stesso autore, sono di gran lunga superiori a quelli di Cimabue. Dello stesso parere Criscuolo, Massimo e Marco dal Pino. Tra i monumenti architettonici del Duecento citiamo il Castel dell'Ovo, che Bettinelli attribuisce a Collenuccio, e che Tarcagnota e Villani dicono essere stato edificato dai Normanni. Federico fece costruire a Capua, sul Volturno, un ponte con due forti torri; e, al centro, la propria statua in marmo, che lo rappresentava seduto, con la corona, la palla imperiale e gli altri attributi della sovranità. Demolite le torri per ordine di Carlo V, la statua, apparentemente mutilata, fu ricollocata nel 1585 dagli abitanti di Capua. Federico fondò anche 315 diverse città; e Manfredi abbellì Salerno, e costruì, nel 1260, sulle rovine dell'antica Siponto, la città di Manfredonia, che conservò il suo nome, nonostante gli sforzi di Carlo d'Angiò e dei papi, i quali, per abolire la memoria del suo illustre e sciagurato fondatore, cercarono invano di far prevalere il nome di Nuova Siponto. Si ritiene che vi dovessero essere artisti ed ingegneri di merito per l'esecuzione di queste grandi opere. Distinguiamo soprattutto Masuccio, primo di questo nome, architetto e scultore napoletano, morto nel 1305, all'età di 77 anni. Modificò il gusto gotico, e aprì la carriera all'altro artista omonimo, che i napoletani considerano il restauratore dell'architettura moderna. De Dominici parla anche di numerosi altri artisti, pittori, scultori e architetti del Duecento, ben degni di essere annoverati tra i maestri del Rinascimento. Ma il tradimento dei baroni di Puglia a Ceprano, l'imprudente fiducia di Corradino dopo la vittoria riportata sui suoi nemici a Tagliacozzo, e l'odio costante di quattro pontefici romani contro i discendenti di Federico, insomma una fatale combinazione di eventi contrari alle arti ed alla felicità del regno 316 di Napoli, lo privò del ceppo normanno e svevo, quando cominciò a produrre prole per così dire naturalizzata, e fece cadere la corona sul capo di un nuovo straniero. 317 LETTERA XXIII. Grotta di Posillipo. – Pozzuoli, tempio di Serapide. – Anfiteatro, tombe, solfatare. – Lago di Agnano Napoli. Il movimento è vita per l'uomo; e chi viaggia raddoppia la durata e i piaceri della sua esistenza. È vero che contrae l'amore per il cambiamento; e il riposo diventa per lui un bisogno solo quando la sua curiosità esaurisce il nutrimento, o quando finalmente, soddisfatto di nuovi piaceri, può risolversi a vivere, per così dire, dei ricordi che ha accumulato. Ancora desideroso di cose nuove, non riesco a costringermi a godere a lungo degli stessi oggetti. Interrompo le mie ricerche sull'arte napoletana; e, trovandomi stretto tra le mura di Napoli, desidero la libertà, la calma e la freschezza della campagna. Ci sono, tuttavia, un gran numero di abitanti delle città che non lasciano mai la loro terra natale; l'abitudine li fissa lì: la società, gli affari li tengono lì; e lo 318 spettacolo dei campi non è per loro attraente. Glielo dirò con Orazio: Tu nidum servas: ego laudo ruris amaeni Rivos, el musco circumlita saxa, nemusque. È vero che il mio gusto per il paesaggio deve farmi preferire i dipinti e gli effetti pittoreschi della campagna, a quelle lunghe linee simmetriche o parallele offerte dagli edifici, delle strade o delle pubbliche piazze. Mi piace vedere queste masse di case solo da una certa distanza, e soprattutto quando sono intervallate dal verde. Se introduco nella mia pittura templi, palazzi o le loro rovine, non li rappresento da soli; perderebbero parte del loro effetto. Li circondo d'erba; Li raggruppo con bellissimi alberi; faccio circolare i lime nel loro quartiere; e li incorono con la linea sinuosa e azzurra di una catena montuosa. Questa mescolanza di oggetti naturali con quelli che portano l'impronta della mano operosa degli uomini, produce un insieme tanto più pittoresco quanto più si allontana dalla monotona uniformità risultante dall'affollamento degli edifici di una grande città. 319 Mi piace solo qui al mare; o sugli alti terrazzi di Margellina o di Capo di Monte, da dove vedo gli oggetti distanti e variegati. Quindi respiro con meno costrizione. Ma mi credo completamente libero solo dopo aver varcato le porte della città. Anche se nell'ultima parte della stagione, il clima è stupendo, l'atmosfera è pura come nelle nostre belle giornate estive, la campagna è ancora verde. Non esiste momento più favorevole per visitare i deliziosi lidi di Pozzuoli. Ne traccerò gli aspetti strada facendo; e riporterò le sensazioni che proverò durante questa prima passeggiata. Sono partito con il mio amico in un calesse, una specie di cabriolet a forma di conchiglia, aperto, leggerissimo, e trainato da un cavallino senza apparenza, ma pieno di ardore e velocità. Il conducente è dietro il calesse, in piedi, tiene le redini con una mano sopra le nostre teste e con l'altra agita un'immensa frusta che usa meno della voce per animare il suo destriero. Attraversiamo le strade affollate della città, bruciando il marciapiede, fendendo la calca con 320 la velocità del fulmine, sfiorando, sorpassando altre vetture altrettanto veloci, e senza che accada altro incidente se non la preoccupazione causata da questa corsa, che ci sembra tanto imprudente quanto rapida. Arrivati al molo di Chiaia, il nostro cavallo aumenta la velocità e in un attimo raggiungiamo la grotta di Posillipo. Là una nuvola di polvere e l'oscurità più profonda ci avvolgono. Rassegnati, confidiamo più nella fortuna che nella destrezza del nostro vetturino. Cammina al suono di grida e imprecazioni, ripetute dai conducenti delle altre carrozze. Ci conduce però velocemente attraverso questo passaggio così pericoloso per i pedoni; e finalmente siamo alla luce del giorno. Al tramonto, ma solo in questa stagione, qui si gode di un effetto molto piccante. Un raggio orizzontale sfiora la costa, entra nella cavità della grotta, la illumina per tutta la sua lunghezza; e, quando in questo momento lo attraversiamo, gli atomi di polvere, sempre in movimento, fanno l'effetto di una corrente di fiamme dalla quale rimaniamo abbagliati, soffocati, e nella quale i passanti, per così dire, 321 annegano, non somigliando più che a delle ombre trasparenti. Qualche parola su questo scavo, effettuato attraverso la montagna e lungo un miglio, non sarà fuori luogo. Strabone e Seneca lo descrivono senza menzionarne l'origine, che è sconosciuta o comunque molto incerta. Ha dato origine anche a molte favole, Villani dice che Virgilio lo scavò con la forza della sua arte magica; e Petrarca ebbe bisogno di tutta l'ascendenza della conoscenza per dimostrare a ______________________________________ (1) Un'altra tradizione altrettanto strana, raccolta da Gervasio di Tilbury, nella sua rapsodia intitolata Otia Imperialia, vuole che Virgilio pose una mosca di ottone su una delle porte della città di Napoli, e che, durante gli otto anni che lì rimase attaccata, mai una mosca entrò in questa città. Tra gli altri racconti che lo stesso Gervasio racconta su Virgilio, citeremo solo un'invenzione di tutt'altra importanza, la cui perdita i napoletani devono quotidianamente deplorare. Non era niente di meno che una statua eretta sulla cima del monte, e che aveva in bocca una tromba, che suonava così forte quando soffiava la tramontana, che scacciava il fuoco e la fiamma del vulcano, tanto che gli abitanti non ne ricevevano alcun danno. 322 re Roberto che il Cigno di Mantova non aveva alcun incantatore eccetto i suoi versi (1). Altri dicono che Cocceio fece eseguire quest'opera gigantesca da centomila schiavi nello spazio di quindici giorni. Plinio dà la gloria a Lucullo. L'opinione più comune è che questa strada sotterranea sia stata tracciata dagli abitanti di Cuma e di Napoli, i quali aprirono così una facile e diretta comunicazione al commercio, evitando una deviazione considerevole per un sentiero collinare. All'inizio si diceva che avesse solo venti palmi in larghezza e altezza. Ancora molto ristretta e oscura ai tempi di Petrarca, questo poeta afferma che non vi fu alcun esempio del benché minimo attentato commesso in questo luogo ritenuto dal popolo sacro; Alfonso lo ingrandì, traendolo dalla cima della montagna. Il viceré, don Pietro di Toledo, ne aumentò allora la larghezza a quaranta palmi, in modo che vi potessero transitare due vetture affiancate, e che vi fosse ancora spazio sufficiente per i pedoni. Lo fece anche pavimentare con larghi tratti di lava; e fece scavare una cappella nella roccia laterale, chiusa 323 da un cancello, davanti al quale una lampada sempre accesa serve a guidare i passanti. Dall'opinione dei locali risulterebbe che il terreno della strada è sempre stato basso quanto lo è oggi, e che ci siamo accontentati di aumentare l'altezza della volta per dare maggior volume d'aria e di luce a questo scavo. Credo piuttosto che, in origine, il livello del terreno fosse situato a breve distanza dall'attuale volta, che per camminarci si facesse molta salita da tutti i lati, e che successivamente tutto questo terreno sia stato abbassato al livello della porta, in modo da rendere la pendenza quasi impercettibile e il sentiero più percorribile. La roccia offre, ci sembra, anche una prova materiale dei tre periodi in cui vi furono eseguiti i lavori, nelle tracce che i mozzi delle ruote hanno lasciato in profondità lungo le pareti laterali. C'era un altro passaggio sotterraneo sotto la collina di Capo di Chino, che in dialetto napoletano si chiama grotta degli Sportiglioni (pipistrelli). È lungo un miglio e mezzo, ed è diviso in due bracci, uno dei quali va verso est, 324 un altro verso ovest. Queste strade sono larghe più di trenta palmi; e non sappiamo in quale epoca né per quale uso fossero praticate. Ma, durante la peste del 1656, vi furono deposti i cadaveri di cinquantamila vittime del flagello; successivamente, non appena queste terribili catacombe furono riempite, le uscite furono murate. Uscendo dalla grotta di Posillipo, il cocchiere ci consegnò le redini, come avevamo convenuto; e abbiamo rallentato il nostro cammino per godere con più serenità degli aspetti canori che queste sponde ci offrivano. Incontriamo prima un piccolo borgo, chiamato Fuori Grotta; poi una campagna ricoperta di alberi che le viti intrecciano e uniscono tra loro con festoni. Ci inoltriamo poi in un lungo viale di pioppi, lasciando a sinistra Capo Posillipo, e a destra il Vomero, disseminato di graziosi borghi e case di piacere e dominato dal delizioso eremo camaldulese, da dove scopriamo tutta la Campania felice, e anche parte dello stato romano. Il mare con le sue isole è di fronte a voi; 325 più avanti il sentiero si restringe tra rocce composte di pozzolana o di lava e le onde ruggenti si infrangono sui bordi della strada, che degradano continuamente. Un folto gruppo di galeotti era impegnato a riparare questi danni. La triste sorte di questi disgraziati suscita dolorose riflessioni, e getta su questo ridente quadro ombre che ne offuscano la freschezza. Ma già si vedono gli edifici di Pozzuoli: affrettiamoci ad arrivarci. La storia di questa città è abbastanza nota. Famosa ai tempi dei romani, per il lusso più sfrenato e la morbida voluttà dei suoi abitanti, fu distrutta dai terremoti; e vediamo ancora in mare i resti di uno dei moli dell'antico porto, che è stato chiamato ponte di Caligola, in memoria di quello che questo stravagante monarca stabilì su barche oltre il braccio di mare che separa Pozzuoli da Bacoli, viaggiandovi su un carro trionfale. L'intero pendio della collina, ai piedi della quale sorge la città moderna, è ricoperto dai ruderi di antichi edifici e templi. C'è solo quello di Giove Serapide di cui possiamo facilmente riconoscere la forma (Fig. 10). Le fondamenta esistono integralmente; tre colonne 326 Figura 10 327 sono ancora in piedi, e i frammenti delle altre giacciono attorno ad esse, o sono stati rimossi per ordine del re. Chiamammo il buon Tobia, un esperto cicerone, che doveva farci da guida; lo abbiamo seguito, saltando sui detriti sparsi qua e là: perché spesso il mare grosso inonda queste rovine, e bisogna aspettare che le acque si siano ritirate per vederne chiaramente tutti i dettagli. Questo tempio era magnifico, ma di piccole proporzioni; la sua forma circolare è segnalata da colonne davanti alle quali erano poste delle statue, di cui si possono ancora vedere i piedistalli. Troviamo anche vasi cilindrici e scanalati a spirale, che contenevano acqua lustrale; e, attorno alla base dell'edificio, gli anelli di ferro che servivano a sostenere le vittime destinate al sacrificio. Questo tempio sorge in mezzo ad un cortile quadrato, il cui pavimento è in legno; attorno ad esso si ergeva un portico, sostenuto da colonne; su una delle facce, quattro colonne, anch'esse di ordine corinzio, ma di diametro maggiore, che sostengono un frontone, formano un vestibolo o 328 santuario. Restano diversi ambienti le cui uscite conducono alternativamente sotto il portico interno e in un cortile o vicolo che circondava l'intero edificio e formava un secondo recinto senza comunicazione con l'interno. Abbiamo notato un torso nudo, più grande della realtà e splendidamente eseguito, e le volute di un fregio molto ben lavorato. Capitelli corinzi ricoperti di lastre di marmo sono sparsi sotto gli alberi e servono da tavoli e panche per diversi invalidi che custodiscono le rovine e ne impediscono addirittura il degrado. Entrammo nella prima stanza, e vedemmo con piacere un bassorilievo che, benché mutilato, conserva tuttavia una grande bellezza. Abbiamo attraversato tutte le stanze, esaminando attentamente gli oggetti più piccoli. Tutta questa costruzione è fatta di mattoni ricoperti di marmo; quelli che formano le cinture sono di dimensioni molto grandi. Lunghi pezzi di marmo, incastrati come tegole cave e piane, formano il tetto degli edifici. Il luogo denominato stanza della purificazione è unico: è presente una panca e un condotto in 329 marmo dove circola l'acqua lungo le pareti; in questo banco furono praticati dei fori rotondi su cui si dice che sedessero i sacerdoti; e, ai quattro angoli della stanza, si notano delle specie di forni o caminetti. Questa panca non sarebbe piuttosto un fornello, e i ferri destinati ad accogliere i grandi vasi dove l'acqua, messa in ebollizione, riscaldava i bagni? Forse questo luogo fungeva anche da cucina, e lì venivano preparate le carni offerte in sacrificio, che poi venivano distribuite a chi veniva a fare un ritiro religioso nelle celle del recinto esterno. Le tre colonne esistenti presentano un tipo di fenomeno che non è stato ancora spiegato in modo soddisfacente. Siamo quindi liberi di esprimere anche la nostra opinione. Queste colonne erette, e molte altre rovesciate, sono forate all'incirca alla stessa altezza da una serie di piccoli fori, dove crediamo di riconoscere l'opera e anche i danni di un verme marino chiamato Foladide (mitile litofago). Si pretende di dedurre che le acque del mare siano state per lungo tempo sospese quasi due tese sopra il livello attuale, e che abbiano lasciato queste tracce della loro permanenza sulla costa di 330 Pozzuoli. Questa affermazione, sostenuta da uomini di merito, ci sembra tuttavia molto strana. Come possiamo infatti supporre che questa enorme alluvione, che avrebbe coperto parte dell'Europa, e durò abbastanza a lungo da dare ai Foladidi il tempo di corrodere il marmo, non abbia lasciato traccia nella storia, e se ne trovino indizi solo sulla riva di Pozzuoli? Potremmo anche credere che queste colonne, tutte estratte dallo stesso banco, contenessero un letto di pietrificazioni marine, più tenero della base del marmo, che, essendosi progressivamente decomposto, abbia lasciato i vuoti di cui sono crivellate. Se però volessimo insistere sulla permanenza di queste colonne nell'acqua per motivare il lavoro dei Foladidi e del sedimento calcareo depositato dalle acque, potremmo spiegare questi due fatti supponendo che l'acqua piovana, o quella delle sorgenti più in alto, sia rimasta tra questi detriti ostruiti da frane provocate da un terremoto, che non permisero all'acqua di fuoriuscire verso il mare; ed essendo stata questa diga portata via dallo sforzo delle onde, o 331 essendo crollata per effetto di una nuova convulsione del terreno, il tempio si sia trovato improvvisamente liberato dalle alluvioni, e restituito alla curiosità degli uomini. Molti oggetti preziosi furono rinvenuti durante le ricerche nel terreno; e tra gli altri un celebre basamento marmoreo, decorato con iscrizioni, che sorreggeva la figura di Tiberio. Questo monumento era stato eretto dai sacerdoti augustei di Pozzuoli, in ricordo della rifondazione di quattordici città dell'Asia, rappresentate ai piedi della base di questa statua, con i loro attributi e i loro nomi iscritti sul basamento (1). Continuiamo l'esame delle antichità di Pozzuoli. Risalendo la collina incontriamo vasti sotterranei che costeggiano la strada e che appartengono ai resti informi di un monumento ______________________________________ (1) - Possiamo consultare, per questo monumento, la Dissertazione e i Disegni di Antonio Bulifon, Napoletano; quella di Gronovius, inserita nel 7° vol. delle Ant. Greche. ; e la Memoria di Lebeau, nella Coll. dell'Accad. delle Iscriz. 332 chiamato tempio di Nettuno. Poco più in alto vediamo resti simili che si dice fossero di un tempio di Diana; poi i resti di un'antica strada; un acquedotto, di cui alcuni tratti abbastanza ben conservati; e arriviamo finalmente all'anfiteatro, interamente ricoperto di orti coltivati, anche sulle tribune che, ricoperte di sabbia, non si riconoscono più. Tuttavia, cogliamo l'insieme di questa vasta costruzione collegando le diverse curve interrotte la cui unione ne costituiva anticamente il recinto. Tobia ci aprì una porta attraverso la quale entrammo nella galleria dove finivano le celle delle belve destinate agli spettacoli. Abbiamo realizzato un disegno di questo interno (Fig. 11). Tuttavia, qualunque sia il rispetto che ho per le antiche rovine, devo ammettere che in questo momento preferivo la vista di questa terra ricoperta di prodotti deliziosi, come meloni, fichi e uva, da cui avevamo preso una provvista per la nostra cena, alla soddisfazione di vedere quest'arena tinta del sangue dei gladiatori all'aperto. Avremmo provato meno piacere nel trovare gradinate di marmo lucido che servivano 333 Figura 11 334 da sedili ai voluttuosi abitanti dell'antica Campania che nel seguire con lo sguardo, attraverso i loro detriti, il percorso errante e i salti capricciosi del cui latte rinfrescante dissetavamo la nostra sete. Usciti dall'anfiteatro, la nostra guida ci ha condotto alla via Campana, un'antica via consolare che costituisce un prolungamento della via Appia. È inoltre fiancheggiata da edifici costruiti dagli antichi abitanti di Pozzuoli. Queste camere sepolcrali sono di forma varia e la loro decorazione è di buon stile. Sono tutte costruite con mattoni ricoperti di stucco o cemento su cui possiamo vedere dipinti di squisito gusto. Di tutti i magnifici edifici che ricoprivano il paese, di questi templi, di questi palazzi, di questi giardini di delizie, di tutti questi ritiri dei Sibariti, cosa è rimasto? Nient'altro che rovine informi. Ma se troviamo un monumento in piedi, in uno stato di conservazione migliore, possiamo giudicare in anticipo che si tratta di una tomba. I palazzi contenevano tesori: non esistono più; le tombe dei cadaveri erano 335 rispettate perché l'invidia, l'avidità e le odiose passioni solitamente si spengono alla vista della dimora della morte, e anche i barbari più raramente ne disturbano la pace. Se questi asili sono stati violati, non possiamo purtroppo che biasimare i popoli moderni, la cui curiosa avidità gioca a sconvolgere le tombe, per ritrovarvi i fragili vasi che contenevano... lacrime, e qualche moneta d'oro mista a cenere. Continuando a salire arriviamo finalmente in un recinto che riconosciamo facilmente come il cratere di un antico vulcano. Questa è la Solfatara. L'aspetto di questo luogo singolare suscita curiosità almeno quanto quello delle antichità che avevamo appena visitato, poiché è opera della natura. L'apertura del cratere è immensa; circondato da rocce aride, l'ambiente è ricoperto da un bosco di giovani castagni. Un sentiero tortuoso e ombreggiato ci ha portato alla Solfatara. Prima di arrivare, la nostra guida ci ha fatto fare alcune osservazioni curiose. Ad esempio, se scaviamo trenta centimetri nel terreno, il calore è tale che un sasso, preso a questa profondità, non può 336 essere tenuto in mano. Se si colpisce il suolo con un po' di violenza, risuona; il che sembra indicare che sotto ci siano grandi cavità. Infine, se si lancia una grossa pietra, accelerandone la caduta, si sente un rumore sordo che risuona come un tuono lontano. Ma lo spettacolo più straordinario è quello delle fumarole che emergono continuamente dalle fessure del terreno, che ricoprono di cristallizzazioni gialle, rosse, aurora, insomma di tutti i colori. Per giudicare correttamente a colpo d'occhio, devi posizionarti al di sopra del vento; o meglio ancora aspettare che l'atmosfera sia calma e pura. Poi questi fumi si alzano in spesse colonne contorte di un bianco abbagliante. Turbinano, si allargano salendo e finiscono per dissolversi nella vaghezza dell'aria, senza lasciare traccia nell'azzurro del cielo. È un po' difficile seguirsi e riconoscersi attraverso queste colonne dense e irregolari, che proiettano le loro ombre l'una sull'altra. Il rumore dei passi su questo terreno senza aderenza; il sibilo dei vapori che cercano di uscire da ogni parte; l'odore penetrante di zolfo che respiriamo: tutto in questo luogo stupisce e 337 produce nella mente l'effetto di un sogno. Sembra che, trasportati sulle nuvole, viaggiamo attraverso spazi immaginari. Ed è senza dubbio da lì che Virgilio trasse le finzioni fantastiche con cui abbellì la dimora delle ombre. Avevano progettato di costruire un enorme distillatore sopra lo scarico principale del vapore, per attingervi l'acqua che manca su queste cime. L'inventore ci riuscì, e vi fondò anche fabbriche di allume, che rispondevano ai suoi desideri. Ma la febbre lo scacciò dall'abitazione che aveva tenuto sullo stesso cratere. Gli invidiosi approfittarono della sua malattia per rovinargli il credito, e delle sue fabbriche ora non restano che i detriti (1). Ridiscendendo i ripidi pendii della valle per un sentiero molto difficile, abbiamo visitato la fontana dei Pisciarelli, che sembra trarre la sua sorgente dal focolare ardente della Solfatara, così come tutte le acque termali di cui questi luoghi forniscono una grande varietà. Sono note le loro virtù curative (2); e alcune di queste sorgenti sono così calde che le uova lì si induriscono in un istante. 338 Avevamo bisogno di riposo, di frescura e di ombra; li abbiamo trovati sulla riva del limpido Lago di Agnano, dove abbiamo consumato un pasto rustico. Bisognerebbe esaurire i colori più brillanti della tavolozza per dipingere questi luoghi incantati; siamo economici, non ammucchiamo le rose, e lasciamole risplendere qua e là ai lati della nostra strada; il loro profumo ci sembrerà più dolce quando abbelliranno altre solitudini. ______________________________________ (1) - La descrizione e i disegni sono reperibili in Topografia fisica della Campania, di S. Brislak. (2) - Esistono numerose descrizioni di queste acque termali; eccitarono anche la fantasia di diversi poeti napoletani, che cantarono queste benefiche Naiadi. 339 LETTERA XXIV. Note sulle arti napoletane fino al sedicesimo secolo. Napoli. Sotto Carlo di Francia, conte d'Angiò, fratello di San Luigi, e sotto i suoi discendenti, la corte di Napoli unì lo splendore al valore e alla galanteria. Le arti acquisirono più attività e vigore: architettura, scultura, pittura e oreficeria produssero opere a lungo ammirate; e la capitale era ricoperta di utili e magnifici monumenti. È a Carlo I che si deve l'origine della bellissima pavimentazione delle sue strade. Furono utilizzate pietre di grandi dimensioni prelevate dai ruderi della Via Appia; e quest'opera non fu completata che nel tredicesimo secolo. Lo stesso principe fece costruire il Castel Nuovo, al quale i suoi successori aggiunsero nuove fortificazioni. Fece costruire, per la sicurezza del porto, la torre di San Vincenzo, sull'antico molo, oggi demolita. Cedette, fuori dalla Porta Nuova, vicino al mercato, un terreno vuoto a dei suoi 340 cuochi francesi, che nel 1270 vi fondarono l'ospedale e la chiesa di Sant’Eligio. Il buono e saggio Roberto fece erigere il convento e la ricca chiesa di Santa Chiara, che fu completata solo nel 1340; e suo figlio Carlo, duca di Calabria, la Certosa di San Martino. Fu mentre accompagnava il convoglio funebre di questo amato figlio, che lo sfortunato padre gridò dolorosamente: Cecidit corona capitis mei! Fece erigere per lui una magnifica tomba (1) in cui si vede, in un bassorilievo, la figura di Carlo seduto, con i piedi poggiati su un lupo e un agnello che bevono pacificamente nella stessa coppa: emblema ingegnoso, per mezzo del quale lo scultore volle esprimere, allo stesso tempo, l'imparziale equità di questo principe nell'amministrazione della giustizia, e la profonda sicurezza di cui giovani e vecchi ______________________________________ (1) Il Cicognara, nella sua Storia della Scultura, riporta il disegno di questa tomba e di quella della regina Maria, madre di Roberto. - Il D’Agincourt, Storia dell'Arte (Scultura), offre, nella tavola 30°, la statua di Re Roberto e i dettagli della tomba del Duca di Calabria. 341 godevano sotto la protezione della sua spada (1). Vediamo anche, nella chiesa di Santa Chiara, la tomba di Roberto e quella di Maria sua madre. Questi tre monumenti, attribuiti allo stesso artista, presentano all'incirca la stessa idea compositiva. Gli ornamenti architettonici sono di gusto gotico; ma le figure offrono uno stile abbastanza buono, quanto al movimento e al getto dei drappeggi. Tommaso de Stefani, detto Masuccio, è considerato dai napoletani il Michelangelo del Trecento; essi sostengono che, dopo aver ultimato la chiesa di Santa Chiara, cambiò completamente stile (il che è poco probabile), e che adottò i tre ordini antichi nell'erezione del campanile, dove si nota infatti l'uso del Toscano, del dorico e dello ionico, in tutta la purezza delle regole date dagli architetti dei secoli successivi. Aggiungono, che non poté terminare questo edificio, a causa della morte di Roberto e dei ______________________________________ (1) È sbagliato che nel Dizionario di Storia, di Chandon e Delandine, si dica che questo bassorilievo adorni la tomba di Roberto. 342 disordini sorti sotto la regina Giovanna, ma che doveva incoronarlo con ordini corinzi e compositi. Perciò questo artista è considerato dai napoletani il primo restauratore del gusto puro dei Greci in architettura, onore di cui era stato ingiustamente privato a favore del Brunelleschi. Tuttavia, siamo d'accordo con l'opinione del signor D’Agincourt (1), buon giudice in questa materia, e con chi crede che in questa pretesa dei napoletani vi sia errore evidente o malafede; perché le sole parti di questo edificio che sono di Masuccio, cioè i due piani inferiori, sono di gusto gotico, allora regnante: mentre i piani superiori, decorati con gli ordini dorico e ionico, furono rialzati solo molto tempo dopo la morte di questo architetto, e solo verso la fine del VI secolo. Dalla scuola di Masuccio uscirono due buoni ______________________________________ (1) D’Agincourt, Storia dell'Arte (Architettura), tavola LIII, e sua spiegazione. Vediamo il prospetto e la sezione di questa torre, che indicano chiaramente il contrasto tra i due sistemi costruttivi. 343 scultori: Giacomo de Santis e Andrea Ciccione. Il primo fiorì intorno al 1384 e morì giovane. Il secondo, che fu, come il suo maestro, architetto e scultore, eseguì nel 1414 la ricca tomba del re Ladislao nella chiesa di San Giovanni, a Carbonara. Per quanto riguarda la pittura, citiamo Filippo Tesauro; e il suo allievo Maestro Simone, la cui gloria fu oscurata da quella di Giotto, al quale re Roberto commissionò i dipinti di Santa Chiara. Tuttavia il grande artista fiorentino associò Simone alla sua opera; e si sostiene che due quadri, dipinti da quest'ultimo nella cappella dei Duchi di Dino, fossero dipinti ad olio, così come di quelli di Agnolo Franco, eseguiti intorno all'anno 1400. Colantoni del Fiore è il pittore più famoso di questo periodo; superò tutti i suoi predecessori, e conserva ancora una certa fama. Prima di lui si dipingeva sempre su un fondo dorato. I contorni delle figure, fortemente sentiti e la loro vestibilità, erano così asciutti che sembravano fatti di legno. Non si studiava il nudo; non si capiva il chiaroscuro; e non c'era alcuna 344 comprensione della prospettiva. Le composizioni erano di una regolarità innaturale; gli incarnati, scuri e velati, non avevano né morbidezza né verità nel colore. Colantoni abbandonò l'aridità dei contorni, e li confuse con lo sfondo: escluse dai suoi dipinti la ridicola ricchezza dei campi d'oro, che distruggevano la brillantezza dei colori; aprì gli occhi dei suoi contemporanei, e mostrò loro il fascino del chiaroscuro e del colore: cercò di unire la morbidezza con la forza e il vigore; infine superò Giotto, Memmi, Pisanello, Squarcione ed altri. Tutte queste qualità le abbiamo riconosciute, è vero, in un dipinto rappresentante Sant'Antonio abate, nella chiesa omonima, eseguito per ordine della regina Giovanna I, intorno al 1375; e questa pittura è notevole, in quanto presenta tutte le caratteristiche della pittura a olio (1). Ma l'iscrizione, che abbiamo attentamente esaminato, è così concepita: A MCCCLXXI. NICHOLAVS THOMASUS FIORE PICTOR. 345 Da ciò consegue che non è di Colantonio, ma di Nicola Tommaso Fiore. E questo errore rivelato distrugge tutte le conseguenze che gli autori napoletani traggono da questo dipinto. Inoltre, se ne conoscono molti altri di Colantonio, il più notevole dei quali è un San Girolamo, dipinto nel 1439, e che può essere visto nella sagrestia di San Lorenzo. Fiore fece anche i ritratti di Giovanna I, Alfonso, ecc. Le singolari avventure di Antonio Solario, meglio conosciuto con il nome di Zingaro, aggiungeranno un po' di varietà a questa lunga e arida nomenclatura. Nato da artigiano, vicino a Chieti in Abruzzo, venne a Napoli per esercitare la professione del padre. Chiamato da Colantonio per alcuni lavori da fabbro, si innamorò della figlia dell'artista, ed ebbe addirittura il coraggio di chiederle di sposarlo. Colantonio, lungi dall'arrabbiarsi, non respinse ___________________________________________ (1) Non entriamo qui nel discorso relativo alla scoperta della pittura ad olio, che è molto più antica di quanto comunemente si creda. Ciò sarà oggetto di una tesi speciale. Abbiamo già accennato alcune parole in un articolo pubblicato nel Moniteur del 21 marzo 1814. 346 l'indiscreta richiesta del fabbro, e rispose semplicemente che gli avrebbe concesso volentieri sua figlia se fosse diventato, come pittore, emulo del padre. Solario non si lasciò spaventare da questa condizione, chiese tempo; Colantonio gli concesse dieci anni e promise di non sposare sua figlia fino a quel momento. Questo singolare accordo divenne la notizia della città, e anche della corte, dove si disse che la convenzione era stata ratificata alla presenza della regina Margherita e della principessa Giovanna. Il fabbro, pieno di entusiasmo, partì per Bologna, attratto dalla fama di Lippo di Dalmasio: studiò in questa scuola con tale assiduità e intelligenza che in pochi anni riuscì a disegnare e dipingere; e ben presto il nome dello Zingaro divenne celebre in questa città e in tutta la Lombardia. Dopo sette anni di lavoro assiduo, e sebbene fosse già diventato più abile del suo maestro, si affrettò a perfezionarsi in altre scuole: lavorò nelle botteghe di Bicci di Lorenzo, a Firenze; di Galasso, in Ferrara; di Vivarini, a Venezia; di Vittor Pisani, e di Gentile da Fabriano, in Roma. Finalmente, dopo nove 347 anni e pochi mesi, ritornò a Napoli. Vi regnava Giovanna II. Ottenne di essere presentato a questa principessa da un signore di cui aveva dipinto il ritratto. Le rese omaggio con un quadretto raffigurante la Vergine con il bambino Gesù, circondata da angeli. In quel periodo, con grande sorpresa di tutta la corte, divenne noto per lo Zingaro della promessa. Il ritratto della regina che dipinse successivamente confermò il suo talento e accrebbe il suo credito. Questi dipinti furono mostrati a Colantonio, senza nominarne l'autore. Ne fu ammirato, e ammise alla regina, con generosa bontà, che questo pittore era molto più abile di lui, e certamente il primo di tutti. A questa confessione gli fu presentato Zingaro, il quale pretese il mantenimento della promessa di matrimonio. Colantonio, tanto sorpreso quanto felicissimo, dopo essersi accertato che questi dipinti erano effettivamente di mano del fabbro, gli concesse di buon grado quella di sua figlia. Alcune persone invidiose lo hanno incolpato per questo. La unisco, disse loro, a Solario il pittore, e non a Zingaro. 348 Alla sua reputazione contribuirono anche le avventure e l'abilità di Zingaro, poiché quest'ultimo nome prevalse; quindi da quel momento in poi fu molto occupato. Lavorò per Monte Oliveto. Vediamo il suo ritratto e quello di sua moglie nel dipinto sull'altare maggiore di San Pietro in Areno. De Dominici elogia anche quello di San Domenico Maggiore, che rappresenta una deposizione dalla croce, e lo paragona ai migliori dipinti di Albrecht Dürer, fioriti cento anni dopo. Zingaro iniziò a dipingere a grisaglia il chiostro di San Severino, ma questo procedimento non piacque ai monaci. Colorò i suoi quadri e li arricchì con sfondi di paesaggi tratti dalla natura. Dipinse anche bellissime miniature per manoscritti, su campo d'oro o d'oltremare. Questo abile artista morì nel 1455, all'età di settantatré anni; e, sebbene abbia lavorato molto a Napoli, Roma, Bologna e Venezia, Vasari e Baldinucci non ne fanno menzione. Ha dato movimento e vivacità alle sue figure; eccelse particolarmente nelle teste, colorate col gusto di Tiziano; ma non ebbe altrettanto successo nel disegnare i piedi e le mani. La prospettiva gli era familiare; toccava 349 piacevolmente il paesaggio; e se non ha portato il suo talento ad un livello più alto, è perché dopo aver eguagliato i suoi maestri, non ha cercato di superarli. Dalla scuola di Fiore e Solario provengono diversi valenti maestri, dei quali parleremo nel periodo successivo. A questo appartiene Antonio Bambosio o Baboso. Nacque a Piperno nel 1458: studiò scultura con Ciccione, e pittura con Fiore. Scolpì diverse tombe e gli ornamenti marmorei che ornano la porta dell'Arcivescovato di Napoli. Tali opere gli valsero, dal cardinale Minutolo, un appannaggio di 400 scudi di rendita. L'ingresso trionfale di Alfonso nella sua capitale, nel 1443, diede luogo ad un monumento pubblico, il primo di questo genere, ci sembra, che fu eretto dai moderni. Un arco di trionfo che gli eletti, magistrati della città, fecero costruire durante i primi anni del regno di Alfonso, in onore di questo principe; e, sebbene avessero artisti di valore nazionale, sedotti dalla fama di Pietro di Martino, milanese, lo invitarono a venire a eseguire questo 350 monumento, che doveva essere collocato davanti ai gradini di ingresso dell'Arcivescovato, proprio nel luogo dove poi venne costruita la guglia di San Gennaro; ma il re assecondò i desideri e le richieste di un privato di nome Bozzuto, la cui casa sarebbe diventata inabitabile per la vicinanza di questa costruzione, che lo avrebbe privato di aria e di luce. Si decise quindi che questo arco costituisse l'ingresso principale del Castel Nuovo. (Fig. 12). Questo monumento è notevole nella storia dell'arte (1), perché mostra a quale altezza l'architettura venne elevata, improvvisamente, dal fecondo influsso del genio del Brunelleschi. Riconosciamo che Pietro di Martino aveva studiato con una certa attenzione gli archi di trionfo di Roma: tuttavia, più che imitarne i modelli, assecondava la sua fantasia. Non si impegnò nemmeno a copiare esattamente i capitelli classici: sono tutti di ordine composito, ___________________________________________ (1) Il D’Agincourt pubblicò il primo disegno esatto di questo monumento, con tutti i suoi dettagli. La nostra Fig. 12 può dare un'idea della sua situazione. 351 Figura 12 352 nel quale si riconosce l'intenzione del corinzio nel primo ordine, e dello ionico nel secondo. Anche gli altri elementi architettonici sono fantasiosi, ma l'intera composizione è di buon effetto e non c'è quasi traccia di gusto gotico. L'edificio è interamente in marmo, ed arricchito di ornamenti, statue e bassorilievi, il principale dei quali, posto nell'attico che è sopra il porticato d'ingresso, rappresenta lo sfarzo trionfale di Alfonso. Le tre statue che coronano l'altissima sommità di questo monumento, furono successivamente ivi collocate dal viceré don Pietro di Toledo. Si ritiene che siano del Maragliano. Esse sono piuttosto mal posizionate e di proporzioni troppo piccole. L'artista milanese, stabilitosi a Napoli, fu colmato di onori e ricchezze. Morto nel 1470, gli fu eretta una tomba nella chiesa di Santa Maria la Nova (1). Alfonso ingrandì il molo principale; fortificò Castel Nuovo con alte torri; iniziò la grande sala di questo castello, che è una delle più belle costruzioni moderne; ed ampliò l'arsenale. 353 L'orribile terremoto del 1456 (2) ricoprì il regno di rovine; gran parte dei monumenti di Napoli furono rovesciati: tra gli altri il castello di Sant’Elmo, la chiesa di San Pietro martire e la cattedrale. Il re Ferdinando, allora sul trono, si occupò di rialzare prima gli edifici caduti o danneggiati. I signori ed i ricchi baroni, seguendo il suo esempio, restaurarono a proprie spese il resto; e poterono applicare il loro stemma su ciascuno dei pilastri della cattedrale che avevano ricostruito. ______________________________________ (1) - Vasari attribuisce questo monumento a Giuliano da Maiano; e i napoletani non mancano di accusarlo di malafede al riguardo. L'epitaffio di Pietro di Martino, riportato da Sigismondo, Desc. di Nap., dimostra che questo artista è effettivamente l'autore dell'arco trionfale di Alfonso. (2) La Terra di Lavoro, la Capitanata, l'Abruzzo, persero diversi centri abitati e un gran numero di villaggi. Gli abitanti di Brindisi, allora molto popolata, furono quasi tutti sepolti sotto le rovine delle loro case. Aversa, Arpaia, Capua, Benevento, hanno sofferto molto. 354 L'opera più grandiosa del regno di Ferdinando fu l'ampliamento della città, di cui egli arretrò le mura per soddisfare le esigenze di una popolazione sempre in aumento, a causa del movimento dell'industria e del commercio. Sulle nuove porte che il re aveva costruito, si vede la sua effigie a cavallo, con questa iscrizione: Ferdinandus, rex nobilissimae patriae. Tra le porte, di distanza in distanza, furono erette le torri di Piperno, opera, come il resto di questa vasta costruzione, dell'architetto fiorentino Giuliano da Maiano. La regina Isabella fece costruire anche diverse chiese e nel 1470 il magnifico palazzo di San Severino, su progetto di Novello di San Lucano, questo palazzo è stato poi trasformato in convento. Nel 1681, essendo stata la città di Otranto riconquistata ai Turchi da Alfonso II duca di Calabria, ed essendo stato il regno pacificato dalle cure di questo principe, fu eretto il bellissimo palazzo di piacere, detto Poggio Reale, situato fuori porta Capuana; e fu ornato di pitture e di fontane. Alfonso fece costruire anche il castello di Bacoli, per proteggersi dall'invasione di Carlo VIII. Ma ritiratosi in 355 Sicilia, ivi morì, e gli fu eretta una tomba a Messina, I monaci di Monte Oliveto, di cui era stato benefattore, elevarono, a lui e a Ferdinando suo figlio, statue in terracotta colorate da Modanino, scultore modenese. Tra gli artisti che eseguirono tutti questi monumenti possiamo annoverare Andrea Ciccione, e Agnolo Aniello Fiore, figlio del celebre Colantonio, il quale, contro il parere del padre e di Zingaro, suo cognato, volle dedicarsi alla scultura. Lì acquistò una certa reputazione; e alla sua morte fu rimpianto dal pubblico, e specialmente da Giovanni da Nola, suo allievo, che completò la tomba del cardinale Pignatelli, che il maestro aveva lasciato incompiuta. Bisogna distinguere anche l'architetto Gabriele D'Agnolo, il quale, ad imitazione del fiorentino Giovanni Francesco Mormando, rifiutò lo stile gotico, che aveva ancora molti sostenitori; Mormando costruì il palazzo del Duca di Vietri; e D’Agnolo quello del Duca di Gravina, il quale, benché imperfetto, manifesta buon gusto e gli eccellenti principi del suo autore, morto nel 1520 circa. Guglielmo Dello 356 Monaco, buon scultore, modellò e fuse in bronzo la porta interna del Castel Nuovo. I bassorilievi di questa porta, di stile grandioso e ben disegnati, rappresentano le grandi imprese di Ferdinando I. Infine arriva il celebre Antonello da Messina. I dipinti ad olio di Colantonio di Fiore, e, dopo di lui, di maestro Simone e Franco, erano rimasti ignorati a Napoli. Tale sarebbe stata la sorte di quelli del pittore Giovanni di Bruges, eseguiti all'inizio del XV secolo nelle Fiandre, se non ne avesse mandati alcuni fuori da quel paese. Uno di questi quadri, giunto nelle mani del re Alfonso, sarebbe stato guardato con fredda ammirazione, se Antonello, infiammato dal desiderio di estendere i mezzi della sua arte, e curioso dei segreti del pittore fiammingo, non avesse deciso di andare a scoprirli lui stesso. Partì con questa intenzione per le Fiandre; e avendo presto catturato, con i suoi modi accattivanti e con il dono di alcuni disegni dei maestri italiani, la benevolenza e l'amicizia di Giovanni di Bruges, ottenne finalmente da questo riconoscente vecchio il tanto desiderato permesso di entrare in il suo laboratorio. Qui 357 imparò facilmente, vedendolo operare, tutti i dettagli della lavorazione del dipinto ad olio. Antonello, ritornato in Italia, e aggiungendo a questo segreto abbastanza talento da farlo risaltare, era ricercato con impazienza da tutti i dilettanti e anche dagli artisti. La sua fama si diffuse con il gran numero delle sue opere; e il nuovo processo, che trasmise a Domenico Veneziano, fu subito dopo, come sappiamo, generalmente adottato. Ci stiamo avvicinando al bel secolo delle arti. Le scuole di Firenze e di Roma esercitarono allora una potente influenza su quella di Napoli; e si vedono questi ultimi, se non lottare con vantaggio, almeno talvolta camminare di pari passo con loro, nella brillante carriera che sta per aprirsi. 358 LETTERA XXV. Tomba di Virgilio. – Villa di Sannazaro. – Chiesa di Santa Maria del Parto. Napoli. Mi piace tornare sul contrasto che l'Italia mi offre in ogni momento rispetto alla Grecia. Dopo aver viaggiato attraverso paesi appena civilizzati, si rimane fortemente colpiti dalle prime immagini dei costumi e delle abitudini europee; ci lasciamo andare con avidità a dei piaceri di cui siamo stati a lungo privati; e siamo trascinati dal turbinio della società, dallo sfarzo, dalla varietà degli spettacoli e dall'ebbrezza di tutti i godimenti artificiali che l'abitudine e l'educazione ci hanno reso necessari. Ma questa furia di godere si modera presto: le feste, i balli, i pasti sontuosi, il tumulto delle passeggiate, e perfino dei salotti, finiscono per stancare. Gli organi abituati alla calma, non riuscendo più ad abituarsi a questo rumore continuo, esigono il riposo, le meditazioni dolci, e anche la malinconia: questo fascino della solitudine. 359 Dopo aver accennato ai piaceri di cui i viaggiatori sono avidi, e che non mancano di esaltare il Cicerone; dopo aver visto qualche spettacolo, visitato musei e chiese, ho preso congedo dalle mie entusiaste guide, dalle loro grandi parole vuote, dai loro grandi gesti altrettanto insignificanti. Dico addio alle nuove conoscenze che facciamo senza piacere e che lasciamo senza rimpianti; e, lasciando la città per la via più breve, vago con nonchalance sulla costa deserta di Bacoli, tra le antiche rovine, e i tesori della vegetazione di un terreno eminentemente produttivo; oppure, seduto sulla spiaggia, mi godo il dolce far niente. Mi ritrovo a smistare i granelli di sabbia misti a conchiglie, a contare le onde che successivamente si infrangono ai miei piedi, seguendo le nuvole che ondeggiano sopra la mia testa, e il cui movimento, impercettibile o frettoloso, mi offre l'immagine del tempo affrettato dalla gioia, o rallentato dalla tristezza. Esso scorre per me senza turbamento e con passo regolare in questi divertimenti frivoli, infantili se si vuole, ma che calmano i miei sensi più di quanto potrebbero 360 fare tutti gli elisir della medicina, e perfino gli accordi melodiosi del teatro (il San Carlo). Saliamo in cima a questo colle, dove sorge un antico edificio ricoperto di verde, e coronato di allori, (Fig. 13). Sulla roccia è tracciata un'iscrizione: QUAE CINERIS TUMVLO HAEC VESTIGIA? CONDITUR OLIM ILLE HIC, QUI CECINIT PASCUA, RURA, DUCES. Questa è la tomba di Virgilio! ... Il tempo ha meno rispettato quest'ultimo asilo dell'illustre poeta che i titoli della sua gloria; ha rovinato questo monumento e l'interno è vuoto. Mi faccio strada tra i mirti, le lunghe ghirlande di edera e clematidi; e giungo al sacro alloro, i cui germogli si moltiplicano per pia frode. Scelgo un ramo e sembra che premendolo al petto faccia circolare un fuoco che mi ravviva. Il mio sangue riprende nuova attività, scorre più velocemente nelle mie vene. Incanto di un grande nome, quanto riempi di solitudini o di luoghi terribili, dai quali l'uomo fuggirebbe senza l'esca magica offerta alla fantasia! Ero circondato da oggetti che, al loro 361 Figura 13 362 interesse pittoresco, ne aggiungevano uno molto più potente, quello di essere stati descritti da Omero e Virgilio. Là mi furono offerti l'Averno il Lucrino, le paludi dell'Acheronte e l'antro della Sibilla; più avanti, la città di Cuma e le profumate colline di Falerne. Avevo ai miei piedi la superba Partenope, ed il mare di Miseno; la mia vista vagava sulle isole di cui è costellato; si allontanò da Capri, planò veloce sulle coste di Sorrento, sui monti Lattari, sulla roccia di Ercole e sulle rovine di Stabia, di Pompei e di Ercolano. Alla fine si posò sui templi, sui palazzi di marmo e sugli splendidi edifici della capitale, il cui sordo ronzio e fumo mi arrivavano a malapena. Tutto, in quel momento, favoriva l'illusione più seducente; nulla mi ricordava il presente e mi credevo trasportato nell'età delle meraviglie. Alcuni pastori, circondati dalle loro pecore, o richiamando le loro capre erranti in queste rocce solitarie, erano gli unici esseri animati che mi circondavano; e questo quadro di antica semplicità mi manteneva nella più dolce illusione. 363 È una verità incontestabile che soltanto le bellezze della campagna e i dettagli della vita pastorale sono di tutti i tempi; mantengono ovunque la stessa fisionomia e non cambiano come gli usi e i costumi degli abitanti delle città. Questi pastori, seminudi, o ricoperti della pelle delle loro pecore, e che fanno risuonare le rustiche pipe sotto le loro dita grossolane, mi ricordano ancora i pastori di cui il cantore delle Bucoliche raffigurò i piaceri, il lavoro, le dispute ed i canti. Il monumento a Virgilio fu, si dice, fatto costruire da Augusto entro le mura della villa che il poeta possedeva su Posillipo, e dove compose gran parte delle sue opere (1). Plinio il Giovane racconta che questa casa di piacere fu acquistata da Silio Italico, console dopo la morte di Nerone. Possedeva già la villa che Cicerone chiamò Accademia. Silio amava sognare gli stessi luoghi che avevano ispirato Virgilio, e che gli dettarono il poema sulla guerra d'Africa. La tomba del poeta immortale era per lui oggetto di una sorta di culto, e non passava giorno senza visitarla (2). Questo monumento, che Elio Donato, grammatico del IV secolo, indica nel 364 luogo dove ancora lo vediamo, offre solo una massa così degradata che è difficile districarne la forma; è coperto con una volta in opus reticulatum. All'interno sono presenti diverse nicchie; e non vi si accede che per aperture irregolari che mostrano tracce della violazione di questo monumento, nel quale si vedeva, fino al 1326, un sarcofago sostenuto da nove colonnine di marmo bianco, che conteneva le ceneri del poeta; ma il re Roberto d'Angiò, temendo che questa preziosa custodia venisse ______________________________________ (1) - Egli stesso lo fa intendere in questi versetti che concludono le Georgiche: Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Partenope, studiis florentem ignobilis oti; Carmina qui lusi pastorum, audaxque juventa, Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi. (2) - Silius haec magni celebrat monumenta Maronis, Jugera facundi qui Ciceronis habet. Haeredem, dominumque sui tumulique, larisque, Non alium mallet nec Maro, nec Cicero. (MARZIALE) 365 portata via, la fece trasportare, si dice, a Castel Nuovo, dove, nonostante le ricerche di Alfonso I d'Aragona, non venne più ritrovata. Al tempo dell'Engenio, nelle vicinanze venne rinvenuta questa iscrizione: Siste viator, quaeso, paree, Icgito: hic Maro situs est. E il duca di Pescolanciano, proprietario del terreno alla fine del XVII secolo, fece incidere su marmo anche il celebre distico: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenct nunc Parthenope. Cecini pascua, rura, duccs; aggiungendovi: D. Hieronymus de Alexandro dux Pescolanciani hujus tumuli hercs P. anno 1684. Lasciando l'antico eremo di Virgilio godiamo di uno sguardo di grande ricchezza, che ho abbozzato (Fig. 14). Sentieri in dolce pendenza si snodano lungo i fianchi della roccia; sono sostenuti da enormi mura forate da archi e fiancheggiate da contrafforti. Su queste rampe a forma di terrazza 366 Figura 14 367 si innalzano le case, intervallate da giardini. Sono essi stessi su terrazzamenti che il cemento pozzolanico rende impenetrabili all'umidità, e su cui crescono fiori, arbusti e viti. Queste culle aeree proteggono le case dai raggi del sole e offrono suggestivi rifugi esposti alle più leggere brezze marine, che temperano il calore dell'atmosfera. Soprattutto durante la notte si gode di una deliziosa freschezza. Molte persone addirittura dormono su queste terrazze senza altro riparo che la volta eterea, o i tetti verdi; piaceri che si possono apprezzare appieno solo sotto il cielo sereno di Napoli, o nel clima caldo, secco e salubre della Grecia. Ai piedi del monte, in riva al mare, e al termine dei bellissimi moli che, in questo luogo, si snodano a semicerchio, vediamo la chiesa e il convento di Santa Maria del Parto, famosi per la tomba di Jacopo Sannazaro, il Virgilio dei Napoletani, (Fig. 15). Il re Federico, che lo amava moltissimo, gli donò questo ameno angolo di terra, con un casino che lì aveva fatto costruire. Il poeta abbellì questa solitudine da cui non si allontanò 368 Figura 15 369 mai, e di cui lodò incessantemente il fascino. Una delle sue odi inizia così: Rupis o sacrae pelagique custos Villa, nympharum domus, et propinquae Doridos, regum decus una quondam Deliciaeque, etc. Si consideri la sua disperazione quando, durante l'assedio di Napoli da parte dei francesi, nel 1528, il generale Lautrec, avendo fatto di questo luogo il suo quartier generale, vi fu attaccato implacabilmente da entrambe le parti; Lautrec fu respinto; ma il casino e le piantagioni furono distrutti. Il poeta ne fu così rattristato che lasciò Napoli, e morì poco dopo, lasciando questa terra ai Servi di Maria, per edificare sulle rovine del suo amato ritiro una chiesa che dotò di seicento ducati di rendita, e che venne chiamata Santa Maria del Parto, in ricordo della poesia di Sannazaro intitolata De Partu Virginis. Il poeta aveva perdonato i suoi nemici solo all'ultimo momento, e soprattutto il principe d'Orange, al quale imputava tutte le sue sventure. Inoltre, in punto di morire, avendo saputo che questo principe era stato ucciso 370 nell'assedio di Firenze, gridò: Excedam è vita hoc meo non inani voto loetus, postquam barbarus Musarum hostis, ultore Marte, immanis injuriae poenas persolvit. I parenti di Sannazaro fecero trasportare il suo corpo a Napoli, e gli eressero una magnifica tomba nella chiesa di Santa Maria, ai piedi dello stesso monte su cui riposavano le ceneri di Virgilio, con questa iscrizione composta dal famoso cardinale Bembo: Da sacro cineris flores. Hic ille Maroni Sincerus (1) musa proximus ut tumulo. Il poeta napoletano infatti riprodusse la forma delle opere, e alcune bellezze, del suo maestro. Come lui cantava dei pastori, dei piaceri e delle fatiche della campagna; ma, invece di dipingere gli eroi, fece, nel poema su cui si basa la sua fama, la più stravagante mescolanza dei misteri della nostra religione e delle favole mitologiche. ______________________________________ (1) Sappiamo che Pontano aveva fondato un'accademia. Entrando si prendeva un nome diverso da quello ordinario. Si diede a Sannazaro quello di Accius Sincerus. 371 Anche se i suoi versi latini sono scritti con grande purezza, e nella sua poesia italiana, e particolarmente nell'Arcadia, c'è molta delicatezza e perfino ingenuità, tuttavia siamo d'accordo che il suo talento è meno originale che facile, che ha più grazia che vigore. Infine, per aver voluto mescolarsi con i poeti dell'antichità, sembra aver perso il suo rango tra i moderni. La tomba di Sannazzaro è stata oggetto di una discussione molto animata tra gli storici dell'arte; e siccome è ben composta e ben eseguita, parecchi artisti se ne disputano la gloria. Alcuni la attribuiscono a Giovanni Angelo Montorsoli, artista toscano, altri a Girolamo Santacroce, artista napoletano. Gli esecutori testamentari del poeta ed i fratelli Servi del convento di Margellina, formarono due partiti quando si trattò di erigere questo monumento. I primi si dichiararono favorevoli al modello composto dal Santacroce; i frati vollero incaricare di tutto il lavoro il Montorsoli, che era un religioso del loro ordine. Alla fine si accordarono e stabilirono di dare a ciascuno degli artisti una parte nell'impresa. Ciò spiega 372 ciò che riferisce il canonico Celano, e cioè: che il Santacroce fece il modello dell'intera composizione, e che il Montorsoli la completò. La tradizione infatti, confermata dalla somiglianza del carattere di queste opere con quelle del Santacroce, riconosce che il bassorilievo, raffigurante fauni, ninfe e pastori, è opera sua, così come il busto del poeta. Non sembra infatti che un artista straniero, che non aveva mai visto il Sannazaro, sarebbe stato incaricato a scapito di un connazionale suo amico da tempo. È ancora probabile che le statue di Apollo e Minerva, seduti accanto alla tomba, e alle quali gli scrupolosi monaci diedero i nomi di David e Giuditta, furono abbozzate dallo stesso scultore, e completate, alla sua morte, da Montorsoli. Così avvenne anche per le altre figure e ornamenti; le opere realizzate da quest'ultimo artista sono di uno stile del tutto diverso da quello del Santacroce. In una cappella della stessa chiesa è esposta un'Adorazione dei Magi, attribuita a Giovanni di Bruges, che il re Federico aveva donato a Sannazaro. Questo dipinto su tela, non è 373 dell'artista fiammingo, e sembra addirittura avere una mano e uno stile molto più moderni. Si conosce un altro dipinto dove è rappresentato San Michele che uccide il diavolo sotto la figura di una donna molto carina. L'arcangelo presenta le fattezze di un santo vescovo; e il diavolo quelle di una donna che aveva concepito una passione criminale per lo scrupoloso prelato. C’è scritto, in fondo al dipinto: Fecit Victoriam. Alleluia. 374 LETTERA XXVI. Fine delle Note sulle arti napoletane. Napoli. Il colpo fatale che il governo dei viceré assestò al commercio, alla marina, all'agricoltura e alla popolazione, non ebbe un influsso così sfortunato sul progresso delle arti del disegno. Lo splendore che, partendo dal centro Italia, si diffuse fino ai paesi più lontani, non fu offuscato dagli attacchi politici e dagli scontri tra le varie potenze, che tendevano a distruggere gli equilibri dell'Europa. Mentre il gusto raffinato dei Medici impreziosiva Firenze e Roma con i capolavori di Michelangelo e Raffaello, nel regno di Napoli la vanità, l'orgoglio e l'ambizione dei viceré si distinsero per la magnificenza, che suppliva alla mancanza di gusto. Il risultato fu che le arti furono protette; prima dai baroni, gelosi di ostentare uno splendore quasi regale agli occhi dei forestieri che 375 governavano; e forse anche sfidarli. Invece i viceré, che non volevano essere inferiori a loro, ostentavano il massimo lusso. Avevano il duplice intento di abbagliare la moltitudine, di far dimenticare gli inconvenienti di un governo straniero, e di guadagnare merito presso i sovrani di cui erano rappresentanti. Questa emulazione produsse opere magnifiche a Napoli, in altre città del regno e perfino in Sicilia. Ritornati in patria, i viceré la arricchirono, è vero, a scapito di Napoli, anche di capolavori dell'arte italiana. Sotto Ferdinando il Cattolico furono eretti la chiesa e la tomba di Sannazaro, la magnifica cappella di San Giacomo della Marca e diversi palazzi. Ma il degno rappresentante di Carlo V, il viceré Pietro di Toledo, purificò l'aria di Napoli, ampliò la città, e le diede l'aspetto di una grande capitale. Costruì il palazzo oggi detto Vecchio, e costruì la bella via alla quale diede il suo nome; riunì i tribunali e le prigioni del castello Capuano; sistemò e accrebbe l'arsenale, in modo che si potessero costruire sedici galee alla volta; infine, completò la pavimentazione 376 delle strade, distrusse gran parte dei portici che le ostruivano e le rendevano buie, e ordinò la costruzione di numerose fontane monumentali. Lo stesso viceré estese la sua munificenza al resto del regno. Costruì un palazzo a Pozzuoli, ricostruì il castello di Bacoli, i viali di Crotone, la torre del porto di Martinsicuro, sui confini del regno verso gli Stati del Papa; fondò anche un ospedale e la chiesa di San Giacomo, protettore degli spagnoli, nella quale Giovanni di Nola, che aveva avuto tante occasioni di esercitare le sue doti, fece erigere al suo Patrono una magnifica tomba decorata con statue e bassorilievi. Fu sempre sotto Carlo V che il viceré Mendoza fece costruire il ponte della Maddalena, sul fiume Sebeto, nel 1551; e l'anno successivo il Duca d'Alba circondò la città di Bari di nuovi viali. Don Garcia di Toledo, viceré di Sicilia sotto Filippo II, seguì l'esempio datogli dal padre a Napoli, ed abbellì Palermo. Gli altri viceré, come il duca d'Alcalà e il marchese di Mondejar, fecero eseguire, verso la fine dello 377 stesso secolo, fontane, ponti, acquedotti, strade ed altre opere di utilità o di lusso. Vedremo quale parte ebbero gli artisti napoletani in questa moltitudine di opere. Lo scalpello e la squadra passarono dalle mani di Agnolo Fiore a quelle del suo allievo Giovanni Merliano, più conosciuto con il nome di Nola, paese dove nacque nel 1478. Si ritiene che, su consiglio di Andrea di Salona, Merliano partì per Roma. Lì studiò i capolavori antichi di Michelangelo, Palladio e Raffaello. Giunto, anche secondo Vasari, all'avanguardia degli statuari e degli architetti, degno, in una parola, di realizzare le vaste idee del viceré, si dedicò all'apertura di via Toledo, alla costruzione dei cortili, e di numerose chiese e palazzi. Decorò la bella fontana del molo con figure che rappresentavano quattro grandi fiumi, e di cui non resta che il ricordo nell'espressione dei quattro del molo. Un altro capolavoro del Nola, la tomba del suo protettore, doveva essere trasportato in Spagna; ma, essendo morto in Italia il viceré, Don Garcia, suo figlio, non volle privare Napoli di un monumento così bello. Dei bassorilievi ripercorrono le grandi gesta di Don 378 Pietro; tra le altre, la vittoria riportata sul Barbarossa quando questo farabutto voleva impadronirsi di Pozzuoli. Le figure della Prudenza, Giustizia, Temperanza e Fortezza occupano i quattro angoli della tomba, sulla quale vediamo le statue di Don Pietro e della moglie, inginocchiati e rivolti verso l’altare maggiore. Questa composizione è estremamente semplice, e gli ornamenti che la arricchiscono sono di ottimo gusto: le figure hanno flessibilità, grazia e anche grandezza: forse ci sarebbe voluto un disegno più dotto e corretto; ma lo stile è puro e le pose molto piacevoli. Questa tomba fu ammirata da Salvator Rosa, che disegnò tutti i bassorilievi; e da Luca Giordano, che raccomandò soprattutto la figura della Temperanza, sebbene fosse solo abbozzata. Girolamo da Santacroce fu emulo di Nola nella scultura e nell'architettura. Giunse alle arti nel suo settimo lustro, in tutta la forza del suo talento; e Nola, suo maestro e rivale, piangendo la sua morte disse di lui che la scultura aveva appena perduto un nuovo Michelangelo. Le lacrime di questo rispettabile vecchio ricordano quelle versate da Sofocle per la sorte di 379 Euripide. I modi gentili di Santacroce, la bellezza dei suoi lineamenti, la sua modestia, i suoi rari talenti, lo stile delicato ed espressivo delle sue opere, infine, la sua morte prematura, lo hanno reso paragonabile al divino Raffaello. Lo stesso Vasari ammette che avesse superato tutti gli artisti del suo paese; e che se fosse vissuto si sarebbe innalzato al di sopra di tutti quelli del suo secolo; Tuttavia, Michelangelo esisteva ancora. Avendo già parlato della tomba di Sannazaro, non entreremo nel dettaglio delle altre opere di Santacroce, che suggellerà la sua fama con la statua colossale di Carlo Quinto, tornato vittorioso dalla spedizione di Tunisi. Quest'opera, che avrebbe fatto epoca, rimase appena abbozzata. Non sappiamo se Santacroce abbia lasciato degli studenti; ma un gran numero di essi uscirono dalla scuola di Merliano; tra gli altri, Annibale Caccavello, e Domenico D'Auria, amato allievo del suo maestro, che ritoccò le sue opere per accrescerne la fama. Si deve al D'Auria una fontana situata nell'arsenale, che fu poi trasportata, e per ordine del duca di Medina, da cui prese il nome, in piazza del Castel Nuovo. 380 Fu il Fanzago, di cui abbiamo parlato prima, il responsabile di questa operazione, e che guastò questa fontana sovraccaricandola di una quantità di ornamenti di cattivo gusto. Passiamo ai pittori. Andrea Sabatini, salernitano, nato intorno al 1480, studiò con i migliori maestri napoletani; ma, avendo visto un quadro del Perugino, riconobbe l'inadeguatezza dei suoi primi studi, e partì per Roma. Lì rimase ancora più incantato dalle opere di Raffaello, che aveva appena terminato la Scuola di Atene; e mostrò tanta buona volontà e disposizione, che questo grande artista gli commissionò parecchie opere, su suoi disegni, al Vaticano, nella Torre di Borgia e alla Pace. Si dice che l'allievo dipingesse con tanta franchezza e cogliesse così bene il tocco del suo maestro che quest'ultimo non ebbe quasi nulla da fare per rendere queste opere degne di lui. Quindi amò moltissimo Sabatini, che lo lasciò solo per andare a Salerno a chiudere gli occhi a suo padre. La morte di Raffaello distolse Sabatino dal suo soggiorno a Roma. Rimase perciò in patria, e ivi mantenne con belle opere la fama di uno dei migliori 381 allievi della scuola romana, di cui propagò i buoni principi. Egli stesso formò alcuni allievi, tra gli altri Filippo Criscuolo, il quale andò a Roma per perfezionarsi alla fonte del buon gusto, e lì studiò le opere di Raffaello con tanta applicazione, che fu chiamato il napoletano studioso; e il fratello Angelo Criscuolo, più noto nella storia dell'arte del disegno, non solo perché la coltivò con successo, ma soprattutto perché raccolse interessanti note sugli artisti dimenticati da Vasari e Borghini. Era un notaio professionista; e, dopo essersi permesso di criticare le opere del fratello, questi rispose con umorismo che avrebbe dovuto essere solo intenditore di contratti e non di quadri. Per ripicca divenne un pittore. Lavorò per diversi anni sotto Marco da Siena, e riuscì a imitare abbastanza bene le opere del suo maestro perché suo fratello le fraintendesse. Da allora in poi si parlò solo del notaio-pittore, che addirittura firmò alcuni dei suoi quadri. Questo Marco da Siena è rivendicato dai napoletani anche per aver lavorato molti anni a 382 Napoli, dove ottenne il diritto di borghesia, e anche perché Vasari lo citò parlando di Daniele da Volterra. Marco da Siena e il suo allievo gettarono le basi della storia pittorica napoletana, continuata con Massimo Stanzione e Paolo de Matteis, e infine riunita in un'opera di De Dominici. Se ne potrebbero trarre nozioni molto estese sul periodo più celebre della scuola napoletana; ma preferiamo rinviarvi i nostri lettori. Non è una storia completa quella che stiamo tracciando; dopo esserci soffermati su fatti poco conosciuti, sorvoliamo leggermente su quelli che riguardano gli artisti, e limitiamoci a semplici considerazioni sul progresso dell'arte, che da questo periodo fortunato in poi non ha fatto altro che declinare. Seguì l'impulso delle altre scuole d'Italia, le cui vicende appartengono alla storia generale delle arti in Europa. Nel corso del XVII secolo i pittori del Regno di Napoli potevano affiancarsi a quelli di altri paesi; e basta nominare Fabrizio Santafede, Stanzione, Mattia Preti, detto il Calabrese, il Cavalier d'Arpino, Andrea Vaccaro, Aniello Falcone, Salvator Rosa e Luca Giordano, per 383 dare un'idea dell'altezza a cui si elevò questa scuola di pittura, Quelli della scultura e dell’architettura non produssero altrettanti uomini di così gran merito. Il cavalier Bernini, impropriamente chiamato il Michelangelo del suo secolo, perché nessuno somiglia meno di lui all'autore del Mosè e del Giudizio Universale, estese l'influenza perniciosa del suo manierismo sui monumenti di queste due arti in tutta Italia, e anche nel resto d'Europa. Fanzago, Andrea Falcone, suo allievo, e molti altri scultori meno conosciuti, riempirono Napoli dei loro bozzetti pretenziosi. Lorenzo Vaccaro è quello che si è discostato meno dai buoni principi. La sua opera migliore, la colossale statua equestre di Filippo V, eretta nel 1705 sulla piazza del Gesù Nuovo, non esiste più; quando i tedeschi entrarono a Napoli, fu distrutta dal popolo. Qualche tempo prima il popolo aveva mostrato più moderazione e rispetto per le opere di un famoso pittore, Fabrizio Santafede. Nella rivoluzione del 1649, avendo i sediziosi marciarono verso la casa di Nicola Balsamo in via del Monte Oliveto, uno di loro esclamò: Qui ci sono quadri di Santafede; 384 la loro furia si calmò immediatamente; passarono oltre e lasciarono la casa intatta. I palermitani ebbero anche alcuni scultori ai quali si deve l'invenzione di una sorta di mosaico in pietre naturali, incastonate nello stucco, con il quale fu rivestita nel 1626 la cupola della ricca cappella di Santa Rosalia, a Palermo. Un altro siciliano, Gaetano Giulio Zumbo, esperto di scultura e di anatomia, presentò, verso la fine dello stesso secolo, all'Accademia delle Scienze di Parigi, una testa di cera sulla quale erano rappresentate le vene, le arterie, i nervi, le ghiandole, i muscoli, colorata naturalmente. Lo stesso artista aveva già realizzato una Natività e una Deposizione dalla croce, modellate in cera colorata, che furono portate anche a Parigi. Una signora palermitana, di nome Anna Fortino, aveva lo stesso talento. Dobbiamo rammaricarci di aver potuto tracciare solo un lieve abbozzo del quadro e del progresso delle arti napoletane a partire dal Rinascimento. Abbiamo tuttavia visto questi figli di genio dapprima rigettare le fasce di 385 ignoranza in cui erano soffocati, camminare con passi incerti, diventare più saldi con lo studio e l'esperienza, sviluppare tutte le loro forze, e infine, a passi da gigante, percorrere la carriera più brillante. Trasportati da movimenti sregolati, oltrepassano la meta dopo averla raggiunta, gettandosi nel vago dell'incertezza e nella ricerca di un fantasma ideale tanto lontano dalla verità quanto dal buon gusto. Queste passioni ardenti, che, pur nelle loro deviazioni, dapprima producevano capolavori, poi ci sono sembrate calmarsi, e quasi all'improvviso sono divenute inadeguate; le idee, sempre più vaghe e incoerenti, si avvicinavano a quelle dell'infanzia, avevano la loro debolezza, senza ritrovarne la loro franchezza e ingenuità. Il quadro delle arti nel Settecento ci offre questi vecchi fanciulli che fanno un sonaglio dello scettro dell'arte, e coprono la povertà delle idee con gli orpelli della falsa ricchezza. Intraprendono grandi monumenti senza poterli portare a termine; fanno piani grandiosi e irrealizzabili; oppure si perdono in una folla di 386 invenzioni puerili, che mirano molto più al divertimento che all'utilità. Le scuole di architettura, scultura e pittura, seguono da lontano lo splendore effimero che circonda i nomi di Pietro da Cortona e del Bernini. La moltitudine si precipita verso queste meteore luminose e sprofonda sempre più nel pantano della routine e del cattivo gusto. Gli occhi, stanchi di questa ingannevole chiarezza, non cercano più di elevarsi verso le immortali produzioni dell'epoca medicea, e ancor meno verso gli albori di questo bel secolo. Lo stesso Raffaello è poco conosciuto; le sue composizioni sublimi vengono disdegnate, perché il tempo le ha spogliate della freschezza del colore; le opere dei suoi predecessori, Masaccio e Ghiberti, sono disprezzate, e confuse sotto il nome di pitture o sculture gotiche: la sapienza delle pose, la semplicità dei drappeggi, la severità dei lineamenti, in una parola la nobile austerità di queste opere in cui Michelangelo e Raffaello non ebbero vergogna di porre motivi felici, non ispirano più altro che disprezzo o pietà. 387 Infatti, in questo secolo la cui fine somiglia così poco all'inizio, la saggezza si confonde con la freddezza, l'ingenuità con la stupidità; per compiacere ci vuole meno genio che pretese intellettuali, e più facilità che scienza. Forme tormentate, movimenti forzati o pose teatrali; panneggi svolazzanti, le cui pieghe imitano carta stropicciata, figure smorzate, coperte da illuminazioni a ventaglio: questi i tratti principali dei dipinti di Conca, Giaquinto, De Mura, successori di Solimena, la cui morte fu, per così dire, quella dell'arte nel regno di Napoli. A parte il colore, la scultura presentava gli stessi difetti; si trascurava la nobile semplicità, e si rincorreva la difficoltà, non per arrivare alla perfezione dell'imitazione ma per adottare un genere la cui apparenza ingannevole seduceva gli occhi, suscitava immediato stupore e sorprendeva lo spettatore ignorante in una stupida ammirazione. Uno scultore fece una figura di marmo mediante una rete della medesima materia; questa grande abilità dovette piacere, perché sembrava sorprendente; ma in fondo era proprio un infantilismo, simile a quello dei tornitori che estraggono l'avorio 388 facendo rotolare una palla in un poligono aperto. Chiamiamo questa statua il Disinganno, espressione che possiamo rendere solo per disillusione. Si tratta di un uomo avvolto in un sacco formato da una rete di corde annodate, da cui vuole uscire con l'aiuto dell'intelletto (il genio dell’intelligenza). Il filato è lavorato a giorno e, in alcune parti, assolutamente staccato dalla figura. L'autore, Francesco Queirolo (1), si compiacque che l'antichità non gli avesse fornito ______________________________________ (1) Il cavaliere Francesco Queirolo, nato a Genova e allievo del Busconi di Roma, era stato chiamato a Napoli dal principe di San Severo (noto per una serie di segreti che sono dettagliati nelle opere di Lalande, del Signorelli, e nella Descrizione di Napoli del Galanti) per ornare la chiesa di Santa Maria della Pietà, fondata nel 1608 da Alessandro di Sangro, patriarca di Alessandria. Quivi vediamo parecchie tombe di questa famiglia eseguite dal Fanzago, da Antonio Corradini, veneziano, scultore dell'imperatore Carlo VI, poi di Maria Teresa, e autore della statua velata della Pudicizia; e dal cavalier Queirolo, Francesco Celebrano e Gius. Sammartino. Questi due ultimi ancora viventi nel 1786. 389 un simile esempio; e i suoi incantati contemporanei collocarono quest'opera tra i capolavori. Un altro scultore, che non diremo statuario, rappresentò la Pudicizia, di cui tutto il corpo e anche il volto sono coperti da un velo; è addirittura, secondo i dilettanti, così trasparente che si crede di poter vedere tutte le forme della figura attraverso. Questa idea tanto decantata di aver messo un velo sul volto della Pudicizia è delicata e poetica; ma dubitiamo che sia stata adottata dagli statuari dell'antichità. Se avessero dovuto rappresentare l'espressione gradevole e modesta della verginità, avrebbero voluto superare la difficoltà del soggetto, e creare un capolavoro di sentimento molto più che d'arte. Scoprendo il volto, questo specchio dell'anima, avrebbero potuto imprimere sui lineamenti della giovane vergine la timidezza, il modesto imbarazzo e la calma dell'innocenza. L'antico pittore, che nascondeva alla vista l'espressione dolorosa del padre di Ifigenia, lo fece meno, crediamo, per evitare una difficoltà, quanto per colpire più fortemente l'imma390 ginazione dello spettatore. L'artista, capace di inventare ed eseguire una simile composizione, avrebbe anche espresso tutti i sentimenti che dovevano essere raffigurati sulle fattezze dello sfortunato Agamennone. La statua della Pudicizia dimostra quindi più spirito che talento; e il velo che la avvolge rivela l'insufficienza del suo autore, il cavaliere Antonio Corradini, morto a Napoli nel 1752 (1). Lasciò un modello in terracotta, presentando un Cristo velato come la figura della Pudicizia, che aveva fatto la sua fama. Sammartino, scultore napoletano, si ripropose di farla di marmo; cosa che fece in tre mesi. Da questo fatto, citato con compiacenza dai napoletani, possiamo giudicare di non aver esagerato lo stato di decadenza in cui versavano allora le arti. Infatti, analogamente ai poeti che erano più interessati alla disposizione e all'armonia delle parole che alla forza e alla ___________________________________________ (1) Inoltre, questa statua della Pudicizia esprime l'opposto di questo sentimento; e la posa, gli accessori e l'espressione, indicherebbero piuttosto civetteria e perfino sfacciataggine. Fu incisa nella Storia della Scultura, del Cicognara, 3° vol., tav. VIII. 391 sequenza delle idee, gli artisti abbandonarono il vero sentimento dell'imitazione per perseguire la ricerca, l'affettazione e la sottigliezza. Il genio strisciava carico di ceppi vergognosi, e i prodotti delle arti non erano altro che falso splendore, tagliati con cura e montati con gusto, ma che in realtà non avevano altro valore se non quello dell'adeguatezza alla moda e alla voga del momento. L'architettura deve aver risentito dell'influenza di questo gusto degenerato. Le sue piante e i suoi prospetti offrivano forme bizzarre, aggetti moltiplicati, cornicioni e frontoni spezzati, interrotti, ribaltati, miscele di cerchi e di triangoli; colonne a vite, ovali, quadrate; cartelli, festoni, e perfino panneggi e ghirlande di fiori colossali: tutto il merito di questi ornamenti scultorei consisteva in una sapiente rimozione, e nell'evidenza delle forme più contorte. Era in isolati monumenti decorativi, come fontane, obelischi, porte, archi di trionfo, che facevano sfoggio gli oggetti più disparati e il peggior gusto. Citeremo quelli che a Napoli si 392 chiamano guglie (aghi); come quella di San Gennaro, dove si vedono un mucchio di figure di tutte le proporzioni e ornamenti bizzarri. I pali dell'abbondanza, dove sono sospesi oggetti di ogni genere per tentare la golosità e l'avidità dei lazzaroni, che si aggrappano gli uni agli altri per cercare di raggiungerli, sembrano aver dato la prima idea di questi aghi (1), che suscitano ancora l'ammirazione di alcuni viaggiatori. Tuttavia, tra tutte le arti del disegno, è senza dubbio l'architettura quella che è degenerata meno. I monumenti offrivano un aspetto più soddisfacente; sia che si debba attribuirlo alla natura dei materiali, all'uso dei tetti piani, o anche al clima, che impone di distanziare le aperture e di restringerle, per ottenere più freschezza; o allo scarso bisogno che abbiamo di questi enormi corpi di camini che adornano tutti i nostri edifici; o infine al gusto dominante degli italiani per ciò che è vasto, e che presenta ______________________________________ (1) A Napoli ce ne sono diversi, uno brutto come l'altro. I più famosi sono quelli di San Gennaro, di San Domenico e della Concezione. 393 un’idea di magnificenza. Potremmo citare il palazzo di Capo di Monte, iniziato nel 1738, sotto la direzione di Angelo Carasale, e continuato dall'ingegnere Medrano; la Reggia di Caserta, costruita da Luigi Vanvitelli (l); il Teatro San Carlo, eseguito nel 1739, nell'arco di nove mesi, da Gio. Ant. Medrano e Carasale; il Palazzo di Portici, di Antonio Canevari; e il Real Albergo dei Poveri, del cavaliere Fuga (2). Sebbene questi edifici non siano esenti da difetti, quanto al gusto della decorazione, che si riflette nell'epoca in cui furono costruiti, tuttavia la loro massa è di grande effetto, soprattutto se li vediamo da lontano. Quindi, gli ornamenti e i piccoli dettagli scompaiono o sconvolgono meno l'occhio; vediamo solo la disposizione, l'insieme delle linee e la proporzione generale. ______________________________________ (1) - La descrizione di questo bel palazzo fu stampata nel 1756, sotto il titolo di Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo di Caserta. (2) - Potremmo ancora citare Marco Ciaffredo, architetto napoletano, morto nel 1785, e che ha lasciato un libro di architettura. 394 Infine, quasi tutti questi monumenti sono raccomandabili soprattutto per una qualità che si trova solo in Italia, l'euritmia (1) di Vitruvio, che conferisce a ciascuno di essi un carattere specifico, che è quasi sempre grandioso. ___________________________________________ (1) Architetti e traduttori non sono d'accordo sul vero significato di questa parola, che crediamo equivalga grosso modo in italiano a quello di garbo, che noi francesi diciamo galbe, per esprimere il contorno esterno di un oggetto, soprattutto quello la cui proporzione è piacevole. Diciamo: il garbo di una figura, di un albero, di un vaso; ed è senza dubbio così che Francesco Milizia dice che in un edificio c'è euritmia, quando possiamo scoprirne tutte le parti contemporaneamente. L'euritmia può anche, in senso più generale, esprimere l'idea che attribuiamo alla parola ritmo, che si applica alla poesia, alla musica, per numero, cadenza, misura, proporzione del movimento. Non potremmo usarlo anche nel linguaggio delle arti del disegno; e particolarmente nell'architettura che è composta di linee, di spaziature regolari, e di ripetizione o di ritorno degli stessi oggetti, poiché la musica tratta degli stessi suoni, e la poesia, delle stesse rime; cioè della stessa misura nelle parole come nelle note? 395 LETTERA XXVII. Descrizione di Portici e di Pompei. Napoli. Non posso lasciare la grande Grecia senza dare un'occhiata al gabinetto di Portici, che contiene la più completa collezione di oggetti antichi di ogni tipo, rinvenuti nel cuore della terra; non dispersi e mutilati, ma per lo più interi, e nella situazione, nel luogo stesso in cui furono sorpresi dal formidabile flagello che li aveva fatti scomparire con le città di Ercolano, Pompei e Stabia. Portici è un luogo di piacere del Re di Napoli, che spesso vi abita con i suoi ministri. Questo palazzo, dal magnifico aspetto dal lato del mare, è circondato da splendidi giardini piantati sul crinale del Vesuvio. Fu costruito nel 1738 per ordine di Carlo di Borbone, sovrano noto per il suo gusto per le arti liberali, e soprattutto per quelle arti industriali che forse danno meno gloria, ma che contribuiscono molto di più alla prosperità di un paese. Includiamo tra queste le 396 manifatture di arazzi, di tavole di pietra dura, di un tipo di mosaico e delle porcellane, paragonabili a quelle di Sevres; stabilimenti che incrementarono i rapporti commerciali e il benessere di un gran numero di artisti napoletani. Ma il maggior beneficio del re Carlo, quello che sarà generalmente apprezzato, e che attira una gran folla di stranieri, è la fondazione del Museo di Portici, dove vediamo raccolti i documenti materiali più certi della storia delle arti, degli usi e dei costumi antichi. Il dettaglio sarebbe infinito; e, benché avvertiti, non siamo meno sorpresi dal numero di statue in bronzo e marmo di tutte le proporzioni, dipinti, vasi d'oro, d'argento e di terracotta, ancora più preziosi, che formano questa enorme collezione. Ad ogni passo veniamo fermati da oggetti disparati, anche se tutti interessanti, che danno materiale per riflessioni, per confronti e per motivi di studio. Qui vediamo mobili dalle forme eleganti, come tavoli, sedie curule, treppiedi, lampade e candelabri; lì strumenti di agricoltura, di chirurgia, di musica e utensili da cucina; inoltre, armi offensive e difensive, gioielli usati per la 397 toilette delle donne; pietre incise, cammei e altre pietre preziose tagliate e montate su anelli, spille e braccialetti; altrove troviamo colori per dipingere, uova, grano, noci e perfino leguminose di cui è riconoscibile la forma; e perfino dell’olio e del vino disseccati. Infine vi è mostrata un'intera biblioteca che fu la delizia di qualche erudito del secolo di Augusto, e che è la disperazione degli eruditi d'oggi, perché tutti questi rotoli di papiro sono ridotti in carbone, o marciti dall'umidità. Gli ultimi si riducono in polvere al tatto, e gli altri devono la loro conservazione solo allo stato di calcinazione in cui si trovano. Una mano abile e operosa può addirittura svilupparli e metterli in condizione di essere letti e trascritti. Il famoso padre Antonio Piaggio, inventore del procedimento, ne sviluppò però solo un piccolo numero; deploriamo giustamente la lentezza delle sue operazioni e soprattutto la scomparsa di gran parte di questi preziosi manoscritti. Qualunque sia il piacere che mi ha dato la vista di tanta ricchezza accumulata, avrei preferito vedere questi oggetti proprio nel luogo in cui sono stati ritrovati. Oggi, classificati fredda398 mente e, per così dire, in ordine di materiali, sugli scaffali di un mobiletto, mi sono sembrati spogliati di quella sorta di vernice di antichità che tanto accresce il prestigio, e che il meticoloso lavoro dei commentatori fa scomparire. In questo momento non ho voglia di parlare; non ho bisogno di ragionamenti, ma di emozioni, e le cercherò proprio sul luogo di una grande catastrofe; rimuoverò le ceneri raffreddate da tanto tempo; li vedrò riscaldarsi, per così dire, ai raggi del sole di cui erano così avidi, rinascere e produrre ai miei occhi tutta una generazione estinta da tanto tempo; in una parola, trasportiamoci a Pompei, ricostruiamo col pensiero questa antica città nella sua originaria integrità, e popoliamola con i suoi antichi abitanti. Il suolo e la polvere dell'Italia non sono infatti che il detrimento degli oggetti d'arte che un tempo ne vedevano la superficie; e le viscere della terra ne contengono ancora la maggior parte. Questi superbi monumenti che la potenza di Roma, aiutata dal genio della Grecia, innalzò al cielo; questi lunghi colonnati di marmo; queste gallerie decorate con dipinti; tutto questo 399 lusso delle arti messo insieme, che le ricchezze di tutto il mondo a malapena potevano pagare, ha lasciato solo un ricordo semicancellato; e, simili a delle ossa sbiancate sparse sul terreno di un campo di battaglia, la fantasia ha bisogno di stimoli per riconoscerle, in mezzo a questi resti del colosso romano. Scavando un po' in profondità scopriamo, è vero, nuove testimonianze della magnificenza degli antichi; tuttavia tutti questi monumenti rotti, mutilati, sconnessi, dopo aver esercitato la paziente sagacia degli antiquari, spesso non possono essere riportati al loro stato originale. Ma immaginiamo la gioia di coloro che per primi sollevarono il velo di morte che copriva un'intera stirpe scesa viva nel sepolcro, senza perdere nulla di queste forme che il tempo aveva nascosto ai molteplici attacchi dei devastatori della bella e infelice Ausonia. Scrittori ingegnosi hanno evocato le ombre di alcuni illustri romani, e le hanno trasportate sul suolo dell'antica loro patria, di cui appena si riconoscevano i resti, mutilati dai barbari, o mascherati dai restauratori. Una città che, dalla sua origine, non ha cessato di esistere, sebbene 400 abbia cambiato più volte volto nell'arco di duemila anni, deve tuttavia conservare i segni certi del gusto successivo dei suoi abitanti. Le sue costruzioni portano ancora l'impronta dei vari popoli che le hanno erette. Riconosciamo innanzitutto lo stile maschio e severo e il carattere di solidità che veniva dato agli edifici più piccoli, sotto il governo dei primi re e della repubblica. Roma divenne poi, sotto Augusto, quella città marmorea ricca di tutte le arti della Grecia. Gli altri imperatori la resero più ricca, senza farla più bella. Infine il gusto degenerato del Medioevo, proponendo la commistione tra lo stile antico e la fantasia sregolata degli orientali, diede vita a quel tipo bastardo di costruzioni con cui i Goti, i Longobardi e i Normanni ricoprirono di volta in volta l'Italia. Tuttavia arrivò la rinascita; la Roma moderna risorse dalle rovine. Ma ben presto, ai monumenti di gusto severo e grandioso seguì, con sfrenato amore per l'ornamento e la novità, l'architettura borromina. Una città, piena di una così grande confusione di monumenti di tutte le epoche, non ha più alcun carattere. Non è né antica né moderna; 401 somiglia solo a un museo, dove l'osservatore può seguire il progresso dell'arte di secolo in secolo, attraverso i campioni esposti; ma, dove un romano del tempo di Augusto riconoscerebbe così poco la sua patria, nello stato in cui si trova, noi non possiamo, malgrado le nostre ricerche, scoprirne il piano e l'insieme della sua antica magnificenza. Non è lo stesso per una città sepolta da venti secoli nelle viscere della terra. Pornpei è sfuggita alle vicissitudini del tempo e degli uomini; le nazioni sono passate e hanno stirato il suo suolo, l'hanno calpestato senza lasciare tracce profonde. I suoi monumenti sono rimasti intatti e inalterati; vi troviamo, nei più piccoli dettagli, la memoria di antiche usanze; e se uno dei suoi antichi abitanti sfuggisse alla legge comune che impone che quando lasciamo le nostre spoglie mortali beviamo dalle acque del Lete; se un pompeiano sognasse di essere sulla terra con la capacità di ricordare i tempi passati, potrebbe gridare, avvicinandosi alla sua città natale: Ave, patria mia! Ti rivedo come ti lasciai, quando una terribile catastrofe mi costrinse ad allontanarmi dalle tue mura. Ecco il 402 sacro recinto che contiene la tomba dei miei padri; spesso ho versato profumi e lacrime su queste urne che contengono ancora le loro ceneri! Ecco queste panchine di marmo, poste alle porte della città, dove attendevo l'arrivo del viaggiatore per offrirgli asilo, ed esercitare nei suoi confronti le leggi dell'ospitalità. Ecco questo teatro che risuonava degli applausi dati alle opere drammatiche di Terenzio ed Euripide, mentre il Vesuvio iniziava a esercitare la sua furia; fu a questo tempio che la folla spaventata si recò, ma troppo tardi, per implorare la clemenza divina. Il cittadino di Pompei, giunto finalmente alla propria casa, si sarebbe prostrato nuovamente davanti alla propria abitazione; avrebbe riconosciuto le sue case, e percorrerebbe sospirando le segrete vie dei suoi appartamenti solitari. Una sorgente mormorava un tempo in questo stagno; le viti ombreggiavano questo portico; ecco la stanza predisposta per il bagno; lì, su questo pavimento a mosaico, era eretto il triclinio attorno al quale i suoi amici, incoronati di mirto, e appoggiati su ricchi cuscini, facevano 403 passare la coppa colma di un profumato vino greco... Potremmo estendere questa finzione e accompagnare il contemporaneo di Plinio di strada in strada, di luogo in luogo; farlo salire sulle mura della città, e fargli guardare i campi della Campania, dove avrebbe cercato invano delle ville famose che non esistono più. Abbandoniamo però il ruolo di declamatore o di romanziere, e riprendiamo quello di storico. Fu nel primo secolo della nostra era, sotto il regno di Tito, che avvenne l'eruzione del vulcano, che distrusse diverse città, scosse e ricopri di cenere e terrore tutta l'Italia. Ercolano, Stabia e Pompei sepolte, devono al flagello che sembrava averle cancellate per sempre, la loro conservazione miracolosa, e la loro attuale fama. Ercolano e Pompei erano vicine; ma la storia dell'ultima di queste città è meno interessante e più oscura. Di lei si sa poco altro, se non che fu fondata dagli Opici, che vi abitarono gli Etruschi e che fu successivamente dominata dai Pelasgi, dai Sanniti e dai Romani. Era una città marittima, situata a cinque miglia 404 dal cratere del Vesuvio, e alla foce del Sarno. Il suo porto era comune alle città di Nola, Nocera e Acerra; ma l'eruzione del vulcano cambiò il suo sito, o meglio quello del fiume, che ora scorre a più di una lega dal suo antico letto. Le lave e le ceneri riempirono il porto e crearono una nuova riva che spinse lontano le acque del mare. Pompei era già stata danneggiata dal terremoto dell'anno 63, e fu interamente sepolta dall'eruzione del 79, la prima di cui la storia fa menzione, e la più fatale di tutte, per il gran numero di città che distrusse, per la moltitudine di persone che ne furono vittime e, infine, per la morte da Plinio. Ercolano, molto più vicina al vulcano, fu ricoperta da un materiale duro e compatto, che costrinse a scavare con infinita difficoltà e a punta di martello, per liberare i monumenti. Questa materia, nel suo stato di fluidità incandescente, essendo penetrata nei più piccoli vuoti, li aveva riempiti come se vi fosse stato versato piombo fuso; mentre Pompei era scomparsa sotto uno strato di ceneri e scorie senza adesione tra loro. Fu facile rimuoverle, poiché sormontavano gli edifici solo di qualche 405 palmo. Questa pioggia di sassi e di materiali fiammeggianti si estendeva fino al Castello a Mare, l'antica Stabia, e copriva il terreno per un raggio di trenta miglia; ma con intensità decrescente con la distanza. A Pompei caddero pietre pesanti fino a otto libbre; e a Stabia solo di un'oncia, Nel 1689, mentre venivano scavati dei terreni nelle vicinanze del Vesuvio, a quasi un miglio dal mare, furono trovate alcune antiche iscrizioni che menzionavano la città di Pompei, che non si supponeva fosse esistita in questo sito. Quindi non fu dato alcun seguito a questa scoperta. Tuttavia, il principe d'Elbeuf, della casa di Lorena, generale al servizio dell'imperatore Carlo VI, trovandosi a Napoli nel 1713, fece costruire a Portici una casa di delizie, già molto gradevole, ma a quel tempo quasi deserta. Avendo bisogno di frammenti di marmo per realizzare decorazioni in stucco, apprese che un abitante del villaggio ne aveva trovati una grande quantità mentre scavava un pozzo. Il principe acquistò questa terra. I suoi operai, 406 dopo aver forato una volta, per curiosità vi entrarono e trovarono frammenti di bellissimi marmi e persino statue. Informato di questa preziosa scoperta, il principe continuò le ricerche, che gli fornirono una tale quantità di oggetti degni di nota, che il governo napoletano ne divenne geloso, e diede ordine di cessare gli scavi, per riprenderli esso stesso subito dopo. Furono infine scoperti, settanta piedi sottoterra, non solo oggetti sparsi, ma un'intera città, quella di Ercolano, con i suoi templi, i suoi teatri, le sue case private, piene di statue di marmo e di bronzo, di dipinti, di mobili; infine, di tutto ciò che una catastrofe imprevista e improvvisa aveva costretto ad abbandonare. Sembrava impossibile restaurare Ercolano, e Stabia, scoperta poco dopo alla luce del giorno, perché il terreno che le ricopre supporta ora i comuni di Portici e Castello a Mare; ma avendo trovato per una fortunata coincidenza il vero sito di Pompei, sotto un terreno poco adatto alla coltivazione, fu facile acquisirlo, e venne concepita l'idea di liberare quest'ultima città dall'involucro superficiale che la nascondeva alla vista. È a questo pensiero audace che 407 dobbiamo la conservazione di un gran numero di edifici che prima si vedevano appena e subito scomparvero per sempre. Da allora, gli amici delle arti e dell'antichità sono accorsi a visitare questi luoghi, divenuti per loro la meta di una sorta di pellegrinaggio obbligato. Fin dall'inizio, queste importanti scoperte occuparono il mondo accademico. Le molteplici relazioni hanno alimentato a lungo la curiosità del pubblico senza soddisfarla del tutto; perché il governo, eccessivamente geloso di questi tesori, li lasciava appena vedere, e impediva accuratamente che qualcuno potesse disegnarli e misurarli. Si riservò il diritto di darne la conoscenza esatta mediante l'incisione (1). ______________________________________ (1) L'Accademia di Napoli ha pubblicato solo due volumi su questa città: uno contiene i dipinti dell'antica villa, l'altro i mosaici. Giovanni Battista Piranesi ha fornito alcuni fogli staccati su Pompei; essi non sono così altrettanto esatti quanto ben incisi. I suoi figli li portarono su una scala più ampia; ma gli errori sono diventati ancora di più scioccanti. Nella sua opera intitolata Prospetto Istorico e Fisico degli Scavi 408 Il primo scavo, effettuato nel 1755, scoprì, per una coincidenza tanto fortunata quanto singolare, il percorso che conduceva alla porta della città. (Fig. 16). Presenta tre aperture: ______________________________________ di Ercolano e Pompei, Dancora ha compiuto ricerche erudite. Anche Delalande e Cochin hanno parlato di queste città. Gli inglesi, al tempo del signor Hamilton, e sotto il ministero di Acton, volevano ottenere disegni esatti di Pompei ed Ercolano, senza riuscirci. Il signor abate Romanelli ha pubblicato un Itinerario di Pompei, che non ha niente di nuovo. Il signor Nicolasi ha scritto una dissertazione dove ripete tutto quello che aveva detto Dancora. Inoltre tutte queste opere non hanno altro che una piccola pianta generale, redatta visivamente. Infine, l'opera dell'Abate di Saint-Non è la più soddisfacente, anche se non molto esatta; finché, il signor F. Mazois non ottenne il permesso di disegnare e misurare le rovine di Pompei. Bellissimo questo lavoro, frutto di duro lavoro. diligente dal 1809 al 1812, pubblicato con grande successo. Il signor Frédéric de Clarac, testimone dei rapporti fatti nel 1813, li riportò in diversi articoli del Giornale Francese stampato a Napoli; e questi articoli riuniti, con aggiunte, e accompagnati da quindici tavole, formano un opuscolo stampato in un piccolo numero di copie e molto interessante. 409 Figura 16 410 quella centrale, per il passaggio delle vetture, le altre due, molto più strette, per i pedoni. La strada, pavimentata con larghe pietre laviche tagliate irregolarmente, e fiancheggiata da marciapiedi, prosegue nell'interno della città, che deve attraversare, non in linea diretta, ma formando numerose deviazioni e interessando varie piazzette. Si può osservare a questo proposito che gli antichi mostrano, molto meno di noi, una perfetta simmetria nelle piante delle città e dei loro edifici. Il risultato è meno monotono e forse più piacevole. Infatti queste strade lunghe, larghe e regolarmente costruite; queste piazze circondate da facciate sullo stesso disegno; questi lunghi viali, queste aperture a perdita d'occhio, offrono, se si vuole, un'idea di grandezza, di magnificenza, e anche qualche vantaggio di pulizia e di salubrità: ma, in generale, questi oggetti molto regolari sono anche molto monotoni. Le strade disposte in linea retta e nelle quali, in certe ore del giorno, non c'è riparo dai raggi cocenti del sole che vi penetra senza ostacolo, sono molto meno convenienti di quelle 411 che corrono lungo una linea un po' sinuosa o spigolosa. Gli antichi prestavano poca attenzione alla simmetria, che spesso sacrificavano alla pittoresca bellezza dei punti di vista. Si spiegano così le singolari irregolarità delle costruzioni che ci appaiono strane, perché abbiamo perduto l'aspetto sotto il quale dovremmo considerarle. Potrei citare un gran numero di esempi a sostegno di questa osservazione. il più notevole è l'aggregazione dei tre templi di Eretteo, Minerva Poliade e Pandroseion, nella cittadella di Atene. Torniamo a Pompei. Prima di entrare in città vediamo, secondo l'uso degli antichi, tombe a destra e a sinistra del sentiero; accanto, a breve distanza, una casa di campagna con cortile decorato da colonne che formano un peristilio: sopra il piano terra si eleva un edificio in pietra, al di sotto del quale troviamo dei sotterranei che servono da cantine, sale da pranzo, o rifugi per ripararsi dal grande caldo. In genere le case degli antichi non avevano, come da noi, una moltitudine di piani 412 sovrapposti, che salgono fino alle nuvole; non si conoscevano queste lunghe file di appartamenti e queste gallerie dove il lusso mostra le sue ricchezze e la sua oziosità. Le piccole stanze, senza comunicazione tra loro, e spesso ricevendo luce solo dalla porta, terminavano tutte sotto un portico, di cui conservano la somiglianza i chiostri dei nostri conventi, e che circondava un piccolo cortile, rinfrescato da una vasca dove scorreva un getto d'acqua. Il piano superiore lasciava entrare la luce attraverso rare e strette finestre; quelle forate sul muro ricordavano i nostri giorni di sofferenza, poste, come le finestre delle case turche, a sei piedi di altezza, e chiuse con fogli di talco o tavole di alabastro; c'erano anche piccoli vetri smerigliati. La disposizione delle finestre impediva di vedere chiunque passasse all'esterno; ma anche chi era in casa era al riparo da sguardi indiscreti. L'ossatura, raramente utilizzata in edilizia, era sostituita da volte; e, solitamente, i tetti terminavano in terrazze. I mosaici presero il posto della pavimentazione; le pareti interne, e anche le facciate, erano ricoperte di pitture applicate su uno stucco molto bello. 413 Visitando Pompei rimasi colpito dalla somiglianza delle sue costruzioni con quelle il cui uso è continuato nel Levante, e in particolare tra i greci moderni. Si riconoscono lì queste piattaforme basse, che regnano intorno agli appartamenti, e sulle quali senza dubbio ci si siede, come in Turchia, su materassi, cuscini, tappeti o stuoie. Questi sedili, che non si alzano che di un piede da terra, confermerebbero sufficientemente quanto ho affermato altrove, cioè che gli antichi dovevano accovacciarsi sui talloni, o sedersi con le gambe incrociate, come gli orientali; e che solo le persone distinte nelle funzioni e nelle cerimonie pubbliche occupavano i posti più alti. La forma stessa delle tribune dei teatri supporta questa affermazione. Troviamo ancora nel Levante l'uso di tavoli rotondi o tripodi ricoperti da vassoi realizzati con avorio e legni pregiati. I pavimenti in marmo, i mosaici, i dipinti alle pareti, l'uso di piscine nei cortili, anche all'interno degli appartamenti, le finestre nascoste, le stanze che prendono aria solo dalla porta che si apre su loggiati coperti sorretti da pilastri o colonne; i bagni di vapore degli Orientali, le loro tombe 414 dipinte, dorate e scolpite, le loro camere sepolcrali situate alle porte delle città, ai lati delle strade, e circondate da viali; la stessa disposizione dei negozi; i marciapiedi rialzati accanto alle case e ai lati delle strade; tutto questo nel Levante è modellato su antiche usanze. Era tale la somiglianza con ciò che avevo già visto, che nulla mi stupiva in queste rovine, che mi sembravano quelle di una città turca, astratta dallo stile dell'architettura dei monumenti pubblici; e se fosse stato abitato dagli Orientali, avrei creduto che fosse stato costruito da loro. È infatti dai musulmani che avremo un'idea abbastanza precisa degli usi dei romani; proprio come impareremo dal materiale delle arti di questi ultimi nel Museo di Portici. Tuttavia, una cosa mi colpì come una sorpresa tra gli edifici di Pompei, e cioè la straordinaria piccolezza delle loro proporzioni. Le case, le strade, le piazze di questo paese sembrano essere state abitate da un popolo di pigmei. La strada pubblica e la strada principale sono larghe solo dodici piedi, e le altre strade solo otto o dieci; anche le porte laterali della città 415 sono larghe solo quattro piedi; l'ingresso di diverse tombe e di un triclinio per i pasti funebri è alto solo da tre piedi e mezzo a quattro piedi e mezzo; alcune stanze misurano solo sei piedi quadrati. Le mura della città sono alte da quattro a cinque tese; e le scale che conducono ai bastioni non possono contenere che due persone alla volta. Il contrasto è sorprendente con le altre antichità della grande Grecia, e specialmente della Sicilia, dove vediamo templi colossali le cui colonne sono così enormi che un uomo può stare comodamente in una di esse, e che non hanno meno di diciotto pollici di apertura. Come abbinare le proporzioni di questa città in miniatura con i racconti degli storici, che, dando importanza alle cose più piccole, sembravano aumentare le opere e anche la statura degli uomini del loro tempo? Se i pompeiani non fossero citati nella storia come un popolo libero che combatté diverse guerre con i suoi potenti vicini, crederemmo che la loro città fu costruita da uno di questi grandi proprietari la cui enorme ricchezza superava 416 quella di molti dei nostri principi sovrani, il quale, avendo ai suoi ordini parecchie migliaia di schiavi, avrebbe fatto costruire per loro una città per racchiuderli tutti, e farvi esercitare i loro commerci o la loro arte, il cui prodotto sarebbe appartenuto al maestro. Infatti le case, tutte sullo stesso piano, essendo anguste, ma comode per una piccola famiglia, ed essendo i loro templi, come gli altri loro edifici, proporzionati alla piccolezza delle abitazioni, tutto potrebbe facilmente spiegarsi per mezzo di questa singolare assunzione. Del resto nella stessa Roma, nonostante la sua immensa estensione, i semplici cittadini occupavano poco spazio; le case private dovevano essere anguste come quelle di Pompei, se si considera che metà della città era riempita dagli immensi palazzi degli imperatori, che formavano di per sé piccole città, da circhi, teatri e una prodigiosa quantità di templi, cappelle, terme e giardini. È vero che il popolo romano che trascorreva la giornata all'aria aperta, o in locali pubblici, aveva bisogno solo di un angusto ritiro in cui trascorrere la notte. 417 Comunque sia, l'immaginazione, questa divinità potente, sa bene come ingrandire tutti gli oggetti: ti mette davanti agli occhi il suo prisma, ti spezza il compasso e il metro, e tu dimentichi ciò di cui il freddo calcolo ti aveva fatto per accorgere. Queste case si trasformano in palazzi, queste mura acquistano l'altezza di quelle di Babilonia; queste strade diventano strade trionfali e tutte queste tombe contengono le ceneri di grandi uomini. Le nostre idee si innalzano alla vista di queste meraviglie, e la mente perduta supera la misura della vista. È infatti uno spettacolo singolare vedere allo scoperto questa città che risale ad un'epoca così lontana, e ritrovarvi la traccia di antichi costumi di cui gli autori non potevano che darci un'idea confusa e incompleta. Gli edifici, appena danneggiati nella parte superiore, al momento della scoperta erano perfettamente conservati; le statue, i mosaici, perfino i quadri avevano ancora tutta la loro freschezza, i mobili, gli utensili, gli oggetti più piccoli, rimasero nel luogo che occupavano sedici secoli prima; il pane, il grano, la frutta, anche se secchi o legger- 418 mente carbonizzati, erano ancora riconoscibili; infine trovammo anche i corpi di diversi abitanti vestiti come il loro ultimo giorno, e negli atteggiamenti in cui la morte li aveva sorpresi, alcuni che cercavano di fuggire con i loro gioielli più preziosi, altri nascosti in luoghi oscuri, sorpresi a tavola, oppure soffocati nel bagno. La descrizione che si sarebbe potuta fare di Pompei sarebbe stata quella di una città esistente, e non mancava altro che riportare in vita i suoi abitanti. Perché non abbiamo la capacità di evocarli e costringerli a venire a ripopolare la loro patria! Li vedremmo agire, riprendere le loro abitudini, raccontandoci il segreto della loro morale, dei loro costumi, della loro operosità, e soprattutto dei procedimenti delle loro arti. Non potendo accontentarci in questo senso, potremmo almeno sostituire le statue, i quadri, i mobili rimossi, e restaurare i tetti degli edifici; servirebbero da asilo per pochi attenti e fedeli custodi, che avrebbero il compito di assicurare la conservazione e il mantenimento di questo ricco giacimento. 419 In tal modo questi monumenti che hanno tanto sofferto inizierebbero una nuova esistenza, che continuerebbe nei secoli a venire. Questo spettacolo, unico al mondo, attirerebbe costantemente folle di appassionati da tutte le nazioni; e una semplice passeggiata per le vie di questa città sarebbe più istruttiva che leggere tutte le voluminose dissertazioni degli antiquari. Ma perché ciò avvenga è necessario completare lo sgombero dei muri di cinta dalle terre che li mettono al livello della campagna: diventerebbero allora una barriera sufficiente contro l'avidità degli spogliatori. Ripristinare anche le porte della città, ponendovi delle guardie per impedire l'ingresso dei profani, e che si aprirebbero solo su richiesta dell'artista, o del viaggiatore erudito. Questa antica città, ora sacra, può diventare un museo dove saranno conservate anche le più piccole vestigia della sua passata grandezza. Queste rovine deserte sono già state troppo mutilate. Là siano deposte anche le ceneri dei loro abitanti; e che, per una felice illusione, il viaggiatore, circondato dagli oggetti che occupano il loro posto, e nella situazione in cui si trovavano prima, possa 420 credersi per un momento contemporaneo di Plinio e suddito di Tito. FINE DEL TOMO PRIMO. 421