INTRODUZIONE
Antoine Laurent Castellan (Montpellier, 1772 –
Parigi, 1838) è stato un importante pittore vedutista
francese. Il suo genere pittorico ebbe grande
diffusione nella seconda metà del settecento,
soprattutto per l'approccio che questi pittori
viaggiatori hanno avuto nei confronti dei luoghi
visitati; essi cercavano una testimonianza visiva,
diremmo oggi documentaristica, del paesaggio, dei
luoghi archeologici, dei ruderi, ma anche degli
abitanti, e di tutto lo scenario naturalistico.
Castellan visitò la Turchia, la Grecia, l'Italia e la
Svizzera e pubblicò diverse serie di lettere su quei
luoghi, illustrate con vedute disegnate e incise da
lui stesso. La sua opera più nota: "Moeurs, usages,
costumes des Othomans", pubblicata nel 1812, fu
molto apprezzata da Lord Byron.
Di ritorno dal suo viaggio in Turchia e Grecia,
egli attraversò l'Italia. Nel 1819 pubblicò, in tre
volumi, le sue "Lettres sur l'Italie", che formano
l’oggetto di questo mio lavoro di traduzione.
Nella lettera XI, lo stesso Castellan definisce la
sua opera un "grande e magnifico libro", e noi
dobbiamo fidarci del giudizio estetico di un artista
1
del suo calibro. Il mio personale giudizio, specie
sulla parte relativa al passaggio da Brindisi, forse
influenzato dal fatto che i luoghi descrittivi sono
quelli della mia vita, conferma questa grandezza e
magnificenza. La descrizione è appassionata,
sempre colta e competente, ed è accompagnata da
illustrazioni di notevole qualità, incise dall'autore.
La narrazione è ben costruita, scorrevole e, a volte,
di grande impatto emotivo.
L'autore è senza dubbio un antesignano della
multimedialità. Le sue descrizioni scenografiche dei
luoghi e degli avvenimenti sono come dei
collegamenti "video" inseriti qua e là nel testo
letterario. Cito ad esempio, sempre dalla parte
relativa a Brindisi: la tempesta (lett. VI); la
processione del Corpus Domini (lett. VII); il ballo
di Ginevra (lett. IX) e la sua triste storia, che
culmina in una scena crepuscolare di grande effetto
emotivo; le serenate, l'amicizia, la riconoscenza, le
descrizioni degli stati d'animo, i toni nostalgici, la
toccante tenerezza delle separazioni, ed alcune
considerazioni filosofiche; infine, la descrizione,
come in un affresco, dei siti storici romani di età
imperiale (lett. XI): il bacino navale, il foro, il molo
alto con la piattaforma delle colonne... Egli
introduce questi ultimi oggetti stimolando la nostra
2
fantasia con la frase: "Que l'on se represente ...",
stabilendo così una sorta di collegamento ideale fra
la sua e la nostra immaginazione, che secondo me è
ancora più efficace di un video, in virtù della forza
dell'esposizione letteraria che offre, a ciascuno di
noi, la possibilità di "vedere", con gli occhi della
mente, attingendo cioè al bagaglio della propria
esperienza, i volti, i luoghi e le scene della
narrazione. Sarebbe questa la ragione per cui si
preferisce leggere un romanzo anziché vedere il
film da esso tratto.
Un altro esempio di inserto multimediale ci viene
dato alla fine del terzo volume delle Lettres, dove
sono pubblicati alcuni spartiti musicali. Si tratta
delle "Airs de la Tarentule", eseguite dai musici che
accompa-gnavano il ballo gi Ginevra sopra citato.
Mi è sembrato davvero strano che altri italiani
non siano rimasti colpiti dalla bellezza di questa
importante opera e non abbiano avuto voglia di
tradurla nella nostra lingua. Io lo faccio, con mio
grande diletto e compiacimento, spero in maniera
adeguata.
Spero, con questo lavoro di traduzione, di
contribuire a ravvivare, con l'attenzione del lettore,
la memoria di questo importante pittore
viaggiatore, le cui pregevoli opere, come quelle di
3
numerosi altri suoi colleghi, si vanno ormai
spegnendo, sotto l'inesorabile azione del tempo,
perdendosi inutilmente nell'oblio.
Luciano Ancora
4
LETTERE
SULL’ITALIA
______________________________
LETTERA PRIMA
Partenza da Corfù. – Ritorno sulle coste di
quest’isola. – Aspetto del paese. – Riflessioni sul
suo clima, i suoi abitanti, ecc.
Corfù, 7 agosto 1797.
La Grecia, che abbiamo lasciato con rammarico,
e l'Italia, dove erano diretti tutti i nostri desideri,
ci hanno fatto considerare Corfù come un
fastidioso ostacolo, una barriera che eravamo
impazienti di oltrepassare. Infatti quest'isola,
situata tra due paesi ugualmente interessanti,
offre nell'aspetto del paese, nello stile delle
costruzioni, e perfino nelle abitudini degli
abitanti, solo un misto di pitture greche e italiane
senza colore, composte di lineamenti indecisi e
fisionomie senza carattere.
5
Fino ad allora, sorretti, esaltati da grandi
ricordi, sopportavamo meglio il caldo del clima,
la fatica, i fastidi della strada, ma qui ci siamo
lasciati andare ad un apatico scoraggiamento
che si è esteso a tutte le nostre facoltà,
assorbendole in un insieme: quello dell'attesa.
Esistevamo solo nel passato; desideravamo il
futuro e prestavamo poca attenzione al presente.
Cos’altro dirò di quest’isola di cui non posso
pentirmi e che sarei riluttante a descrivere?
Restammo lì quindici giorni, e vivemmo lì, per
così dire, solo di notte. Infatti, il calore del sole
era tale, durante il giorno, che diventava quasi
impossibile restarvi, e se lo avessimo fatto, gli
abitanti, che si tengono appartati, ci avrebbero
accusato di follia. Accadde una sola volta che
attraversammo la Place d'Armes a mezzogiorno
per andare a casa del comandante francese, e le
nostre facce furono bruciate; l'epidermide si
staccò addirittura e non si rinnovò se non molto
tempo dopo. Così giacevamo tutto il giorno,
ansanti, madidi di sudore e divorati da sciami di
mosche. Incapaci della minima applicazione,
non sapevamo né leggere né maneggiare la
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penna o la matita. Tutte le nostre facoltà si erano
spente, e abbiamo appena recuperato un po' di
energia, quando il sole ha lasciato l'atmosfera,
lasciando ancora dietro di sé le tracce del suo
focoso passaggio; le pareti e la terra stessa erano
calde e mantenevano il calore fino al giorno
successivo. Uscivamo dalle case solo la sera, per
respirare più liberamente nelle passeggiate e al
mare; però alle tre di notte (le undici) la gente
correva a teatro, meno per gusto, è vero, che per
ozio: la brava gente del posto sfidava il caldo
che presto divenne soffocante; avere il piacere
di sfoggiare squisiti ornamenti e di brillare per
un momento alla luce dei lampadari e delle
candele accese in tutti i palchi che diventano
salotti di compagnia. I visitatori vanno lì,
offrono gelati, caffè e dolci, e si divertono con
giochi di vario genere, del tutto estranei a quelli
sul palco. Del resto, lo spettacolo non consisteva
che in piatte arlecchinate e in scherzi indecenti,
che tuttavia non scandalizzavano nessuno;
nemmeno gli ecclesiastici, che senza scrupoli
occupavano i primi posti.
Privati per molto tempo di ogni tipo di
rappresentazione teatrale, ci è piaciuto rivedere
7
questo apparato di decorazioni, questo
movimento scenico, questa mescolanza di
declamazione, musica e danze; e questa
competizione della buona compagnia che
costituiva la parte più piacevole dello spettacolo.
Inoltre, abbiamo sentito, per la prima volta,
questo linguaggio ritmato, sonoro e melodioso,
che ci incanterà poi nei teatri di Napoli, Roma e
Firenze. Ma questo debole compenso non mi
avrebbe indotto a prolungare ulteriormente la
mia permanenza su quest'isola; e consideravo il
momento della partenza come quello della
nostra liberazione.
Ci siamo imbarcati stamattina e, dopo essere
stati alternativamente sconvolti dai venti,
oppure incatenati dalla bonaccia, ci ritroviamo
sulle
coste
dell'isola.
Al
tormento
dell'impazienza si aggiungeva quello del caldo
insopportabile. Stretti insieme durante quella
lunga giornata in una barca aperta, e senza altro
riparo che la vela che imperfettamente ci
garantiva dai raggi perpendicolari del sole,
respiravamo un'aria infiammata; l'acqua, come
uno specchio ustorio, sembrava riflettere il
fuoco. Tuttavia i nostri marinai greci avrebbero
8
fatto attenzione a non trattenersi in mare durante
la notte; era quindi necessario remare
faticosamente per raggiungere la riva. Lo
scoraggiamento li aveva già colti; i canti gioiosi
che li animavano nel lavoro erano cessati, e le
loro forze erano esaurite, quando finalmente
poterono gettare l'ancora in un piccolo golfo
accessibile solo alle barche.
Mentre l'equipaggio si prendeva cura delle
manovre, feci notare l'aspetto pittoresco di
questo luogo all'unico rimasto dei miei ex
compagni di viaggio il cui carattere, i gusti e i
sentimenti simpatizzavano con i miei. Il nostro
isolamento, in un Paese dove tutto ci era
estraneo, ci rendeva un bisogno, direi addirittura
un dovere, di un legame più intimo, che doveva
diventare ancora più stretto, attraverso il
continuo scambio di fiducia e di buoni uffici che
____________________________________
(1) - Il signor Stanislas Léveillé, ingegnere capo di
ponti e strade. Degli altri artisti francesi coi quali
eravamo stati a Costantinopoli, alcuni erano rimasti a
Corone nella Morea, ci separammo con difficoltà, e
solo con l'intenzione di visitare più liberamente la
Grecia e l’Italia.
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avremmo ricercato invano fuori. Inoltre,
condividiamo i nostri progetti, le nostre azioni, i
nostri piaceri e i nostri dolori. Le nostre anime
sono in armonia, ricevono le stesse impressioni,
le raddoppiano condividendole, e lo spettacolo
della natura ci sembra molto più ammirabile
quando. godiamo insieme delle sue bellezze.
Quello che abbiamo davanti agli occhi ha un
effetto estremamente pittoresco: questo golfo è
circondato da rocce e alte montagne; formando
un anfiteatro ricoperto da una bella vegetazione.
L'aspetto di questo posto è fresco e allegro
seppure selvaggio, disabitato e senza alcuna
traccia di colture; ad esso si aggiunge il suo
contrasto con le coste aride e bruciate, che
abbiamo avuto davanti agli occhi per quasi tutta
la giornata. Gli ultimi raggi del sole non fanno
altro che dorare la cima di due enormi cipressi
piantati, come per disegno, ai lati della
campagna che dominano con una sorta di
orgoglio; ma la loro superba testa è agitata dai
venti, mentre gli altri alberi sono al riparo da
ogni attacco, e la loro chioma è immobile. Il
mare è tranquillo e trasparente; l'assenza del sole
e la vicinanza boscosa, che conferisce all'aria
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più elasticità, ci invitano a godere del resto della
giornata, per esplorare questa valle.
Camminavamo tra lentischi e oleandri
rinfrescati dalle acque di una fontana il cui
serbatoio era circondato da limoni in fiore.
Alcuni tratti di mura, abbracciati dalle tortuose
ramificazioni di una vecchia vite; altri alberi
piantati in modo regolare e ricoperti di frutti
hanno dimostrato che questo luogo ormai
selvaggio un tempo era abitato.
Infatti, sebbene isolata, circoscritta e quasi
inaccessibile, questa terra fertile doveva offrire
tutte le risorse necessarie alla vita; era forse il
ritiro di un uomo saggio disilluso dai piaceri
della società, o che cercava di dimenticare nella
solitudine i dolori dell'esistenza e le vanità del
mondo: ma senza dubbio non ebbe famiglia, né
compagno, né posteri; non aveva nemmeno un
amico che gli chiudesse gli occhi, perché questo
asilo sarebbe stato rispettato.
Queste rovine, che offrono le tracce di una
catastrofe non molto antica, e che la nostra
fantasia si compiace di renderne piacevole il
soggiorno, sono diventate motivo di congetture
11
che hanno suscitato un vivo interesse su questi
luoghi. L'evento che li ha convertiti alla
solitudine non ha certo nulla in comune con
queste grandi sventure di cui la storia conserva
il ricordo. Ma questa disgrazia, per essere
volgari, è forse meno reale ed è più da compatire
la famiglia di Atride che quella del pastore
morente, vittima di un incidente mortale? In
ogni caso, come mai, su un'isola molto popolata,
nessuno viene a raccogliere questi frutti, a
potare questi alberi, a dirigere queste acque che
scorrono ignorate e quasi inutili?
Ci sono paesi che non possono bastare alla
moltitudine di abitanti che vi affluiscono, che
competono per la propria sussistenza, e che sono
infine costretti dalla necessità di trasportare le
loro case in un altro emisfero: qui, sotto il clima
più bello e più sano, la natura prodiga i suoi
tesori in solitudine per gli unici ospiti dell’aria
dei boschi, a meno che il caso non vi porti
temporaneamente un viaggiatore che, come noi,
conosce. apprezza e assapora i benefici di una
Provvidenza sempre attiva.
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Fummo distratti dalle nostre fantasticherie dal
fischio dello skipper che ci richiamava a bordo.
Con esso i marinai preparavano il loro frugale
pasto serale. olive conservate sott'olio e una
sorta di polenta a base di farina di broccolo. Gli
osservatori più rigidi del periodo quaresimale
greco si accontentano di biscotti strofinati con
aglio. Prima di concedersi il sonno di cui tanto
avevano bisogno, abbassarono i pennoni e
piegarono perfino l'albero maestro; spensero
con grande cura il fuoco che avevano acceso
sulla spiaggia, precauzione di cui si servono per
sottrarsi durante la notte alla vista dei corsari che
si aggirano costantemente in queste zone; ci
hanno dato la soluzione dell’enigma che ci ha
tanto tenuti impegnati.
Infatti, dapprima sorpresi di scoprire che un
luogo che offriva tanti vantaggi fosse deserto,
ora ci sentiamo molto meglio di come non fosse
mai stato abitato. Inoltre non dobbiamo
aspettarci di trovare su queste coste esposte a
crudeli depredazioni barbaresche, dei campi
coltivati, ornati di case; lo zelo della religione
cristiana accusa i governi di debolezza o di
negligenza colpevole. Non dovrebbero piuttosto
13
organizzare una nuova crociata e finalmente
unirsi per scrollarsi di dosso un giogo tanto
gravoso?
14
LETTERA II.
Ancoraggio nell’isola di Corfù. – Villaggio
miserabile. – Viaggiatori Albanesi. – Contrasto
fra Greci ed abitanti delle isole Veneziane.
Corfù.
Verso la fine della notte i nostri marinai
salparono; ma fecero solo un tentativo
infruttuoso di attraversare il canale. Il vento che
si precipitava nell'Adriatico, e che si rifletteva
sulla catena montuosa dell'Epiro, li respinse e li
gettò in un altro piccolo porto dell'isola di Corfù.
Il nostro sonno non era stato disturbato e il
rumore appariva inseparabile da tali manovre;
con mia grande sorpresa, mi sono ritrovato
trasportato, come per magia, in un luogo
sconosciuto, e che ha molto meno incanti. La
scena è cambiata, è scomparsa la rustica valle;
invece dei due cipressi, vedo su un ripido pendio
le rovine di un'antica fortezza di cui si
distinguono le doppie porte, alcune miserabili
fattorie e una chiesetta, a sostituire la nostra
bella campagna.
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L'apparenza. di questo. luogo, è arida e
ripugnante. Quanto amavo di più la mia
solitudine! Ho visto la natura lì in tutta la sua
selvaggia semplicità; Potevo sognarlo a mio
piacimento, popolarlo a mio piacimento con
ninfe o driadi; Nausicaa e le sue compagne
potrebbero offrirsi al nostro sguardo…. Ma
ecco, il modo per avere illusioni? Ho solo
davanti agli occhi un villaggio come ce ne sono
tanti; e i suoi tristi dintorni rifiutano tutti i
divagamenti del pensiero.
È abitato da pochi poveri greci. Le donne e i
loro bambini, all'ombra sotto tettoie ricoperte di
canne, sono occupate a stigliare la canapa
mentre gli uomini, gelosi del privilegio dei
capifamiglia, sono accovacciati e circondati da
una nuvola di tabacco. Godono dell'ozio e
dimenticano, in una sorta di apatia, le
preoccupazioni della casa e i lavori agricoli, di
cui sembrano lasciare tutto il peso ai loro
compagni, che trattano come schiavi. Inoltre la
terra sembra colpita dalla sterilità; il caldo seccò
le sorgenti e bruciò l'erba dei pascoli. Vedo solo
rocce nude; rovine deserte, campi sassosi dove
il grano è chiaro e denso, qualche vite
16
semispoglia, qua e là cespugli spinosi, da cui
crescono bagolari dai frutti duri e gracili palme.
Questa è l'immagine che si è presentata al nostro
sguardo dall'alto di una montagna dove salimmo
a fatica, e da dove scoprimmo, per parecchie
leghe intorno, un paese il cui aspetto distruggeva
la piacevole idea che ci eravamo formati
dell'antico regno di Alcinoo.
Tuttavia abbiamo visto sbarcare diverse truppe
di albanesi, in fuga dalla tirannia dei turchi, e
venire in quest'isola per cercare, se non
l'abbondanza e la ricchezza, almeno la libertà di
esercitare in pace la loro industria. Il costume
molto pittoresco di questi ex sudditi di Pirro ne
esalta la bellezza; annuncia la disinvoltura e
perfino un certo lusso. Sono quasi tutti alti, ben
proporzionati e robusti, e appaiono agili e
intelligenti. Le donne non sono velate; i
lineamenti dei loro volti sono belli e regolari;
sebbene siano molto scuri, il loro aspetto è
gradevole, perfino gentile; e il loro approccio
non è privo di grazie. Molto laboriose, non
fanno perdere nemmeno il tempo del viaggio.
Piegate allora sotto il peso di bagagli molto
pesanti, filano mentre camminano una canna
17
spaccata che serve da conocchia; viene fatto
passare attraverso la loro cintura, e un pezzo
quadrato di pelle non finita, i cui due lembi sono
uniti nella fessura della canna, che contiene e
avvolge una quantità di canapa di lino
sufficiente per il tempo del viaggio. Esse
allietano il loro cammino con canti che ripetono
all'unisono. Mentre percorrevano una ad una gli
stretti sentieri delle montagne, i loro mariti
dispersi battevano i cespugli per scacciare la
selvaggina che uccidevano con grande abilità a
colpi di fucile. Queste armi sono leggermente
diverse dalle nostre. La canna è di piccolo
diametro ma molto lunga; inoltre la loro portata
è più ampia di un terzo. La parte inferiore del
calcio è curvata a forma di mezzaluna, in modo
da adattarsi perfettamente alla spalla; la culatta
è arricchita con raffinati ornamenti in rame,
argento o madreperla, intarsiati. Per evitare che
la canna subisca deformazioni, cosa che sarebbe
facile data la sua lunghezza, è collegata, a
distanze molto ravvicinate, da cerchi di rame
che portano gli anelli di una cintura destinata a
sospendere l'arma dietro la schiena. La polvere
e la mina sono distribuite in due piccoli
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sacchetti, realizzati ad arte, in pelle ricamata in
diversi colori. Queste tasche sono attaccate
davanti alla cintura che porta anche una pistola,
un coltello nel fodero e l'essenziale borsa per il
tabacco.
Questi albanesi, audaci, intraprendenti,
abituati alle armi, costantemente in guerra. con i
loro vicini, e molto inclini a lasciare il loro paese
dove si trovano non possedendo nulla che
provveda a malapena al loro sostentamento;
furono tentati dalla vicinanza delle isole
veneziane di cui si raccontavano loro le
meraviglie; ma i Provveditori proibirono
l'avvicinamento a questi Greci di cui temevano
gli spiriti inquieti.
Se dovessi credere alle voci pubbliche,
potremmo paragonare questi governatori
veneziani agli antichi proconsoli. Cercando di
soffocare nei loro sudditi ogni energia, ogni
spirito guerriero e indipendente, dovettero
temere l'avvicinarsi di questi stranieri e la
mescolanza del loro sangue ancora bollente con
quello dei greci degenerati che abitavano Corfù
e le altre isole veneziane. Questi ultimi, plasmati
19
dal giogo, abbandonandosi ad una colpevole
noncuranza, si lasciarono privare dei frutti delle
loro fatiche, e videro distrutti tra loro il
commercio, l'agricoltura e ogni genere di
industria. I Provveditori, che si succedettero in
rapida successione, furono accusati di
ingrassarsi frettolosamente delle sostanze di
questi popoli, per poi andare a godere tra i loro
connazionali le delizie del voluttuoso sovrano
dell'Adriatico. I francesi, padroni di Corfù,
devono, seguendo i principi che li guidarono,
cercare di ritemprare l'animo dei corfioti e degli
altri isolani; per guadagnare sostenitori,
aprirono i loro porti a tutti i Greci perseguitati in
patria, e che accorrevano in massa a cercarne un
altro nelle Isole Ionie. Portano con sé lo spirito
guerriero che li anima, l'amore per il lavoro e la
severità dei costumi che li caratterizzano. Che
essi, sfuggendo ad un giogo così pesante come
quello dei turchi, non arrivino a corrompersi,
con il pretesto di vigilare su se stessi, e a non
scambiare le virtù native loro concesse con i
brillanti vizi della civiltà, di cui non siamo
riusciti
a
sbarazzarci
completamente,
nonostante la nostra cosiddetta rigenerazione!
20
LETTERA III.
Uno sguardo particolare ai monti Acrocerauni
durante la notte. - Isola di Fano. - Gli Scogli. Costa d'Italia. - Vascello in sosta. - Città di
Otranto. - Ufficio della Sanità. - Cerimonia
burlesca. - Note storiche.
Otranto, 15 agosto.
L'ordinaria traversata da Corfù in Italia dura solo
ventiquattro ore; abbiamo esplorato per otto
giorni la parte orientale di quest'isola, visitando
dettagliatamente, nostro malgrado, i suoi porti
minori e i suoi più piccoli approdi. Siamo
incorsi nell'avversione di Nettuno? Ha egli
deciso di spingere la nostra pazienza al limite?
Finiremo la nostra odissea naufragando sulle
rocce minacciose della Chimera, con
un'escursione forzata attraverso i monti
Acrocerauni, i cui cumuli di macigni vediamo
alla nostra destra? Questi dubbi, queste paure, ci
hanno accompagnato fino al nostro arrivo in
Italia.
21
Durante la notte, la catena montuosa
dell’Epiro ci ha offerto uno spettacolo singolare
e imponente. Un denso fumo rossastro,
rotolando lungo il pendio delle colline, ha
circondato la loro parte superiore con una
cintura infiammata; il vento diffondeva il fuoco,
stendendone le linee sinuose, simili a torrenti di
lava che rischiaravano le montagne,
definendone i contorni con i loro riflessi più o
meno vivi; anche il mare era infiammato, e tutti
questi effetti erano simili ad una grande
eruzione vulcanica. Ciò non era altro che il
bruciare degli arbusti aromatici di quel paese;
operazione con cui gli abitanti riforniscono il
terreno, in primavera, con una vigorosa messe di
arbusti che servono da pascolo alle greggi. Allo
stesso tempo, colonne di fumo si alzavano anche
all'orizzonte, sul versante della pianura della
Puglia (1). Erano stoppie che venivano bruciate;
se l'atmosfera era riscaldata da tutti questi
______________________________________
(1) - Adotteremo questa denominazione al posto di
quella francese di "Pouille", che non da l'idea
dell'etimologia del nome, che deriva dal latino
"Apulia".
22
fuochi, c'era almeno il beneficio di purificare
l'aria perniciosa di quest'ultima contrada.
Dalle coste dell'Epiro, siamo stati rigettati
dai venti sulle isole di Fano, o Scogli, vere e
proprie insidie, dove abbiamo trovato solo un
piccolo numero di abitanti affamati, che non
potevano fornirci pane o viveri di alcun tipo,
nemmeno acqua. La nostra impazienza era
aumentata dal passaggio delle galere veneziane,
che attraversavano velocemente il canale per
mezzo del loro potente apparato di remi, e che
avrebbero potuto trasportarci in pochi istanti a
destinazione, se i capitani fossero
stati
disposti a renderci tale servizio. Una vera
calamità si aggiunse poi alle nostre ansie;
contando su una traversata ordinaria, le nostre
provviste, che non avevamo risparmiato, erano
finite, e fu necessario ridurci alla razione dei
marinai; per maggiore sfortuna, il caldo aveva
corrotto la nostra riserva d'acqua. Questo stato
sfortunato, stava per diventare molto allarmante,
quando una divinità propizia ci ha gratificato di
un soffio favorevole di vento, che ci ha fatto
superare il centro del canale; il nostro capitano,
novello Acate, esclamò allora: Italia! Italia!
23
mostrandoci all'orizzonte il profilo di un terreno
basso; Italia! Questa parola risuonò nei nostri
cuori, facendoli battere con la stessa gioia che i
compagni di Enea avevano vissuto, e anche con
una sorta di commossa tenerezza, dalla quale
non potevamo difenderci, sentendola come ogni
artista avrebbe senza dubbio sentito al nostro
posto.
Le sponde dell'antica Puglia, come le descrive
Virgilio, sono in netto contrasto con le scarpate
che si vedono dall'altra parte. Potevamo già
vedere le torri della città di Otranto; a vele
spiegate, corriamo all'approdo, felici di vedere
la fine delle nostre peripezie, quando una palla
di cannone fischia passando sopra le nostre teste
e colpisce la vela: il rumore e il fumo attirano il
nostro sguardo verso il luogo da cui è partito il
colpo, e riconosciamo all'altro capo della rada
una galera in sosta, che ci ha fatto segno di
ammainare le vele e inviare qualcuno al suo
bordo; sarebbe stato poco saggio rifiutare un
invito così pressante, e non abbiamo aspettato
una nuova ingiunzione. I marinai spaventati
lasciano cadere le vele; il capitano si imbarca
immediatamente sulla scialuppa; il mio amico
24
vuole andare con loro; si allontanano a forza di
remi, mentre noi aspettiamo l'esito di questo
evento inquietante. Arrivati a bordo della galera,
il loro capitano, ancora furioso per la nostra
mancanza di considerazione per i suoi segnali,
che noi non avevamo visto, minaccia di
affondare la nostra debole barca; l'aveva presa
per quella di pescatori che venivano verso di lui
con intenzioni poco chiare; ma quando
riconosce nel mio amico un francese, che
avrebbe potuto lamentarsi della sua azione poco
ortodossa, cerca di trasformare questa avventura
in uno scherzo, vantandosi della precisione del
suo tiro, che avrebbe attirato la nostra attenzione
per dargli l'opportunità di fare la nostra
conoscenza. Il mio compagno gli fa allora
intendere che lo scherzo era stato un pó forte, e
che avremmo preferito da lui meno precisione e
più circospezione. Con il ritorno dei nostri
ambasciatori, ci sentiamo liberi di correre
all'ormeggio; gettiamo l'ancora all'ingresso del
porto, vicino a una pila di rocce che sostengono
una piccola chiesa (Fig.1).
Senza perdere tempo ci mettiamo a terra per
andare all'ufficio della Sanità, che abbiamo visto
25
Figura 1
26
in un angolo delle mura fuori città. Al nostro
apparire, la folla che frequentava il litorale
si è allontanata con precipitazione; il
passaggio è rimasto libero, e noi arriviamo a
un piccolo edificio quadrato a cui si accede
da una scala esterna; lì troviamo i membri
della commissione per la salute, seduti, o
piuttosto stipati, su una sorta di piattaforma, al
di fuori della nostra portata; noi ci siamo
sistemati lungo il muro, di fronte a un lungo
tavolo. Poi il presidente ha chiamato il
capitano: quest'ultimo, consapevole degli usi
sanitari, si avvicina all'ufficio per mostrare il
ruolo del suo equipaggio e i passaporti. Non
basta che egli legga questi documenti, bisogna
che li srotoli uno dopo l'altro e li tenga con le
sue mani sul suo petto; allora il segretario della
Sanità ne legge ad alta voce tutto il contenuto
e ripete l'appello dei singoli presenti.
Quindi fanno al capitano una serie di
domande, alcune delle quali fortemente
indiscrete, ma a cui risponde con ambiguità.
Tuttavia, è richiesto che lui giuri, come noi, su
una croce formata con due canne, che la sua
dichiarazione è veritiera; ci viene ordinato di
27
colpirci duramente i palmi delle mani, sotto le
ascelle, le anche, e le altre parti in cui si
manifestano ordinariamente i bubboni, segni
caratteristici della peste. Non potevamo
eseguire senza ridere questa strana formalità,
che doveva essere ripetuta da ogni individuo,
e che ogni tanto divertiva anche i membri del
tribunale; ma avendo notato che uno di noi
stava trattenendo i colpi, un moto di terrore,
dipinto su tutti i volti, agita improvvisamente
l'assemblea, e al colpevole viene ingiunto di
dichiarare la causa di questo comportamento.
Si tratta, dice, del dolore per una recente
bruciatura. Dei testimoni affermano il fatto
con un nuovo giuramento, e i nostri giudici si
accontentano di questa spiegazione. Ci viene
chiesto di mostrare le lettere scritte alle nostre
famiglie e al console di Francia a Napoli, per
chiedergli di abbreviare la nostra quarantena.
È permesso al capitano di posarle sulla
scrivania; ma o per goffaggine o per malizia da
parte del greco, uno di questi rotoli di lettere
cade sul vestito del presidente, che non può
schivarne il contatto infelice: grande baccano,
conflitto di opinioni, confusione generale. Il
28
presidente sarà costretto a dimettersi dallo
incarico, o si spoglierà solo dei segni della sua
dignità? Si adotta quest'ultimo partito; il
vestito fatale è posto alla fine di una canna, e
preso con cura da un cameriere che dovrà, a
proprio rischio, sottoporlo alle irrorazioni e
alle fumigazioni praticate in questo caso.
Tuttavia, portano una stufa e le lettere sono
triturate con un temperino, immerse nell'aceto
e poi fatte asciugare e quasi bruciare sopra i
carboni e al fumo degli aromatici, di un odore
molto penetrante, per spogliarli di ogni
miasma contagioso. Finalmente la barriera
della tribuna si è aperta, ed è uscito un
individuo, che doveva servire come nostro
guardiano, responsabile e interprete. Questi,
dopo essere stato indottrinato dal presidente, si
è fatto avanti dalla nostra parte, ha dato un
abbraccio al capitano, e ha toccato la mano di
tutti, mettendosi così in condizione di
condividere la nostra quarantena, la cui durata,
malgrado le nostre proteste, era stata fissata in
ventotto giorni.
Lasciando l'ufficio della Sanità, avevamo
fretta di procurarci le necessità di cui eravamo
29
stati privi per diversi giorni: gli abitanti ce le
avevano fornite. Provviste di tutte le specie
erano state portate a riva, e in particolare dei
meloni, fichi, uva, arance e altri frutti, la cui
vista e profumo ci hanno deliziato. Una linea è
stata tracciata sulla sabbia tra noi ei mercanti;
da entrambi i lati, eravamo attenti a non
superarla; un cane, che aveva avuto la sfortuna
di venire a compromettersi, è stato colpito con
durezza. Tuttavia, alcuni oggetti, che a quanto
pare sono stati considerati come ininfluenti,
hanno stabilito una sorta di comunicazione
amichevole tra noi e gli abitanti della città. Ci
potevamo passare un bicchiere di liquore e
bere insieme; offrivamo noi stessi,
reciprocamente e in modo sicuro, una presa di
tabacco, e accendevamo la pipa da quella del
nostro vicino. Perché non siamo rimasti a
Otranto! Sono sicuro che ci saremmo
familiarizzati, ci sarebbero stati forniti dei
servizi che normalmente si rifiutano a persone
sospette. Ma, siccome non c'è un lazzaretto in
questa città, dobbiamo completare la nostra
quarantena a Brindisi, e ci è stato anche
rifiutato il permesso di andarci via terra. Il
30
nostro capitano deve trascorrere qui alcuni
giorni, per trattare degli affari; abbiamo così
avuto modo di andare giù a terra, per
arrampicarci sulle rocce che fiancheggiano la
riva, da dove scopriamo lo sviluppo di tutta la
città; non possiamo tuttavia avvicinarci di più
ad essa.
Otranto offre un aspetto molto pittoresco
(Fig. 2). Possiamo vedere a destra la fine delle
rocce a cui siamo autorizzati ad accedere; dal
lato opposto, c'è una spiaggia che funge da
porto di sbarco per le merci, e un marciapiede
inclinato, terminato da due colonne, che
conduce alla porta dalla città. Questa spiaggia
funge da passeggiata per gli abitanti; nella sua
depressione si vedono basse colline coronate
da un fresco verde.
La città si estende alla nostra sinistra e forma
alla sua estremità un promontorio ricurvo. È
costruita su una piattaforma rocciosa di cui le
fortificazioni ricoprono la scarpata, mettendola al sicuro dalle mareggiate e dagli attacchi
di artiglieria. La fortezza, che è stata costruita
dal re Alfonso d'Aragona, e il cui piano è
31
Figura 2
32
difficile da indovinare, è dominata da una torre
quadrata; porta in cima un campanile che
serviva a suonare l'allarme sulla costa quando
i turchi minacciavano un attacco. Il ricordo
degli orrori dell'assedio sostenuto nel 1480
contro i musulmani, che si impadronirono
della città, e che minacciano ancora questi
paesi, impegna gli abitanti in un grande
monitoraggio. Non so se lo sconvolgimento, di
cui l'intera costa offre tracce, risale a
quell'epoca sfortunata, o se va attributo a un
terremoto; ma le mura della città, cedute da
tutte le parti sotto il loro stesso peso, e crollate
in sezioni enormi, sono ancora in piedi lungo
la roccia a cui erano applicate, e dove
distinguiamo il loro strappo. Resistono in
questo stato allo sforzo delle onde che ne
minano il piede, ribollendo attraverso i loro
vasti detriti. La costruzione di queste mura è
molto antica e forse risale ai Romani, se
giudichiamo dal sistema di costruzione, che
mostra piccole pietre legate con un cemento
che ha modellato un insieme omogeneo e
quasi inalterabile.
33
I terremoti sono comuni nel regno di Napoli.
Nel 1450, a dicembre, ce ne fu uno che diffuse
il terrore tra gli abitanti di questo paese, che
durante tutto il mese, avevano continuamente
paura di essere sepolti sotto le rovine delle loro
case. La provincia di Otranto ne fu
particolarmente colpita; la Terra di Lavoro,
l'Abruzzo, l'intera Puglia erano coperte di
rovine; alcuni castelli furono inghiottiti senza
poterne più trovare un minimo di vestigia e
trentamila persone perirono in questi disastri.
Infine, per placare la rabbia celeste, il re
Alfonso ordinò una processione che lasciò
Brindisi per andare alla vecchia chiesa di
Santa Maria di Leuca, situata sul promontorio
di Otranto (1).
____________________________________
(1) - Questo promontorio, detto dagli antichi Iapigio
o Salentino, da Plinio Ara Iapigia, e da Strabone
Scopulo Iapigio, è chiamato anche Leuca, dal nome
di una piccola città precedentemente distrutta, e di cui
Lucano dice:
Secretaque littora Leucae.
34
Ai tempi antichi esisteva un tempio in questo
luogo; era quello di Minerva che Enea vide al
suo arrivo in Italia (1).
A questo proposito, vale la pena notare che,
in generale, di tutti i templi delle divinità
mitologiche, quelli di Minerva hanno resistito
meglio alla distruzione, forse perché questa
dea, considerata come quella della saggezza,
godeva, anche tra i cristiani, di maggiore
popolarità rispetto agli altri dei del
paganesimo. Ad ogni modo, molti di questi
templi sono stati convertiti in chiese. Possiamo
menzionare quello di questa dea ad Atene, che,
sebbene fosse uno dei più vecchi, sarebbe stato
ancora integro senza lo sfortunato incidente
che lo ha fatto saltare di recente. Vediamo
anche a Roma il tempio di Minerva Medica, la
chiesa di Santa Maria della Minerva, ecc.
Possiamo anche notare che le statue di
questa dea, con lievi cambiamenti, possono
____________________________________
(1) - Crebrescunt optatae aurae, portusque patescit
jam propior, templumque apparet in aree Minervae.
Eneide, lib. III.
35
essere servite al culto cristiano, e che le più
antiche madonne hanno nella loro posa e nel
drappeggio alcune relazioni con le statue di
Minerva, soprattutto perché è solo nel quinto
secolo che abbiamo iniziato a rappresentare la
Vergine che tiene il piccolo Gesù.
Le case della città di Otranto sorgono sopra
la linea di macerie offerta dallo sgretolamento
delle sue pareti crollate, e la incoronano in
modo piacevole e pittoresco. Dalla semplicità
delle loro masse, i tetti estremamente piatti, le
terrazze che li finiscono, e le loro finestre
piccole e distanziate, ho riconosciuto lo stile
che i pittori danno agli edifici italiani, che
differisce sostanzialmente da quello degli
edifici di altri paesi.
La diversità dei climi influenza la maniera di
costruire: qui l'assenza di neve rende inutile
l'attico inclinato, che sfigura i nostri
monumenti. Il bisogno di respirare freschezza
durante le notti e l'uso di dormire all'aperto,
motivano le terrazze e le logge; le finestre,
strette e rare, danno meno accesso al calore
negli interni. In questo, gli italiani hanno
36
seguito l'esperienza e il gusto dei loro antenati;
riconosciamo anche che hanno ereditato il loro
genio, nel carattere di grandezza, semplicità e
bellezza che danno a tutte le loro costruzioni,
dalle semplici capanne, ai palazzi e templi.
La città di Otranto, l'antica Hydrus o
Hydruntum, si dice che sia stata costruita dai
Cretesi. In epoca romana, era considerevolmente forte; il suo porto, uno dei più vicini
alla Grecia, era e non ha cessato di essere
molto mercantile, sebbene non offrisse molta
sicurezza. Credo che fosse di Pirro l'idea folle
di unire la Grecia all'Italia con un ponte, lungo
non meno di tredici leghe, dalla costa
dell'Epiro al promontorio di Otranto. Questa
città è sempre stata fedele agli imperatori
dell'est, e resistette per lungo tempo alle armi
dei loro nemici, che successivamente si
impadronirono della Grande Grecia. Totila, re
dei Goti, per due volte cinse invano d'assedio
le sue mura; nemmeno i Longobardi, sotto la
guida di Alboino che fondò il principato di
Benevento, poterono diventarne padroni; ma i
Saraceni d'Africa, che avevano conquistato un
gran numero di città della Calabria e della
37
Puglia, riuscirono infine a conquistare
Otranto, e la governarono dall'814 fino al
1016, epoca in cui furono cacciati dai
Normanni, che fondarono la monarchia delle
Due Sicilie.
Non avendo potuto esplorare l'interno di
Otranto, non potevamo giudicare della sua
ricchezza e della sua popolazione di tremila
anime. Il porto è coperto delle merci, e
l'approccio continuo dei bastimenti fa
presumere che il commercio sia molto
fiorente; anche la città sembra molto vivace. A
sera, abbiamo visto delle vetture sulla
spiaggia, più ricche che eleganti; cavalieri
agili e ben vestiti; belle ragazze contadine,
adornate con un corsetto di taffetà, una
sottoveste in mussola a strisce bianche e con la
testa coperta da un cappello di paglia, o un
fazzoletto di seta. Fino a quando, molto prima
di notte, l'aria ha risuonato di accordi musicali
e voci melodiose, che si mescolavano al suono
di ogni tipo di strumento.
A giudicare dal gran numero di religiosi, i
cui costumi erano molto vari, e dai seminaristi,
38
che si vedevano passare in gruppi numerosi,
devono esserci in città diversi monasteri e
istituti scolastici per la gioventù. Nel decimo
secolo, le scuole di Otranto erano famose per
lo studio del greco, ed essa conta due scrittori
eruditi, Giovanni e Nicola di Otranto (1). Ci
hanno parlato della cattedrale come di un
monumento molto vecchio, adornato con bei
marmi e con una bella pavimentazione a
mosaico. C'è anche un ospedale, che funge da
ritiro per i disabili, e dove pellegrini e poveri
viaggiatori sono ricevuti e trattati per alcuni
giorni. I dintorni dalla città producono grani
abbondanti, verdure e frutta eccellenti. Gli
aranci e gli alberi di limoni formano boschetti
che noi vediamo da lontano, rammaricandoci
di non poterli visitare. Alcune case eleganti
sorgono in mezzo a questi boschetti balsamici;
le colline sono ricoperte di viti e il vino che se
ne ottiene è abbastanza buono; l'olio e il
tabacco sono importanti oggetti del
commercio locale. Infine, questa città è,
dicono, più ricca e più piacevole di Lecce,
capoluogo della provincia, anche se è
infinitamente meno popolosa.
39
____________________________________
(1) - All'inizio dell'undicesimo secolo, Nicola
d'Otranto, monaco e abate dell'Ordine di San Basilio,
fece diversi viaggi a Costantinopoli e in Grecia, dove
aveva preso il gusto della letteratura. Con i molti
manoscritti da lì riportati, egli allestì una delle più
belle biblioteche di quel tempo, con libri di filosofia,
logica e teologia. La città e il monastero furono presi
dai turchi, nel 1480; la maggior parte di quei libri fu
bruciata, e il resto trasportato a Roma e Venezia. Tra
questi citiamo il lavoro di Quinto Calabro e le poesie
di Coluto Licopolita.
40
LETTERA IV.
Traversata da Otranto a Brindisi. - Aspetto di
questa città. - Porto interno. - Nuovo lazzaretto.
- Ormeggio nella rada. - Fontana antica.
Brindisi, 20 agosto 1797.
Abbiamo percorso rapidamente il tragitto da
Otranto a Brindisi, dove dobbiamo trascorrere il
tempo della nostra quarantena. Il vento ci è
mancato entrando nel porto, ma non abbastanza
da impedirci di raggiungere la costa occidentale,
dove è stata calata l'ancora nei pressi di un
serbatoio d'acqua e in vista di un castello
costruito su delle rocce a fior d'acqua, e che
occupa il centro del grande porto e ne domina
entrambi gli accessi. I nostri cuori si sono aperti
con la certezza che non dovevamo più dipendere
dal capriccio dei venti e dall'incostanza dei mari
e che, dopo un periodo di prigionia, troppo
lungo per i nostri gusti, ci sarebbe stato
finalmente permesso di vagare liberamente in
una terra che noi consideriamo quasi come la
41
nostra patria. La certezza di essere capiti
parlando il linguaggio delle arti e di trovare ad
ogni passo motivi di studio e ispirazione, era per
noi un divertimento anticipato.
La barca ci ha trasportati al porto interno, dove
si arriva attraverso uno stretto canale aperto
recentemente per comunicare direttamente dal
porto alla città; il vecchio passaggio è quasi
riempito. Questo canale dà una via d'uscita alle
acque del mare che, essendo in stagnazione, si
erano corrotte, esalavano vapori mefitici e
causavano malattie crudeli. Questa acqua inizia
a prendere il suo flusso; prendendosi cura del
porto, l'aria diventa più pura e le febbri sono
meno mortali. Tuttavia, l'olfatto è ancora affetto
da esalazioni nauseabonde.
La città di Brindisi è costruita su un picco di
terra il cui angolo principale è di fronte
all'entrata del porto. In questo posto sorge
un'alta colonna di marmo bianco, coronata da un
capitello composito molto ricco; accanto c'è il
piedistallo e la base di una colonna simile, che,
ci è stato detto, si rovesciò improvvisamente e
senza alcuna causa apparente, il 20 novembre
42
1528; sorprendentemente, il tamburo superiore
della colonna cadde a piombo sul piedistallo e vi
rimase; gli altri frammenti, sparpagliati a terra,
erano ancora visibili nel 1674; successivamente,
furono trasportati a Lecce, capitale della
provincia, dove ora ornano la piazza principale,
e supportano la statua del santo protettore.
Gli altri edifici di Brindisi sono costruiti in
pietra e in mattoni. Chiese coperte da tetti piani
in terracotta, o da cupole ribassate, con
campanili quadrati e portici sostenuti da piccole
colonne, ci hanno offerto alla vista lo stile di
architettura longobarda che ha preceduto quello
del rinascimento dell'arte, stile di gran lunga
superiore a quello di una folla di monumenti più
recenti, dove la bellezza della massa scompare
sotto il lusso di ornamenti inutili e ridicoli
elementi architettonici di contorno. Vediamo
anche qua e là elevarsi delle palme, dei cipressi
e alcuni altri alberi che contrastano con le
costruzioni, rendendo le linee estremamente
pittoresche. Il porto è diviso in due braccia che
affondano nelle terre a destra e a sinistra:
abbiamo preso quest'ultima direzione per andare
43
al nuovo lazzaretto, costruito in fondo alla città
e in riva al mare.
La pianta di questo monumento è vasta e ben
progettata: il padiglione principale è adornato da
colonne doriche, terminanti in una cupola molto
elegante e forata da diverse finestre, con
frontoni e balaustre: l'interno è affrescato e
decorato con stucchi. Questo edificio, decorato
con gusto e di architettura pura, è circondato da
altri piccoli padiglioni, di forma ottagonale,
coperti ciascuno da un tetto piramidale molto
piatto e forato da piccole finestre alte, poste a
semicerchio. Questi servono ai contagiati come
un ritiro durante le passeggiate: uno spazio
abbastanza ristretto e circondato da mura, di cui
ciascuno di questi padiglioni occupa il centro.
Questi recinti sono provvisti di panchine di
pietra, e vi si devono piantare degli alberi.
Questi piccoli edifici, dipinti e decorati con
modanature e cornici, dominati da una sala
riunioni del comitato di salute, sono posti su una
piattaforma rocciosa, e vi si arriva per delle scale
scavate nel suo spessore. L'incontro di tutte
queste costruzioni offre un aspetto piacevole e
rimuove l'idea di una prigione, di cui tuttavia
44
rivelano lo scopo. Ma l'aridità del luogo, il fetore
delle acque, e l'azione malsana degli intonaci
appena finiti, hanno motivato il nostro rifiuto di
entrare per primi in questo lazzaretto, la cui
eleganza esteriore non ne ha nascosto gli
inconvenienti; abbiamo preferito tornare alla
nostra feluca, rimasta all'ancora in un luogo
scoperto, e costantemente spazzato dai venti del
mare aperto, che puliscono l'atmosfera.
Le cerimonie dell'ufficio sanitario non sono
state, in confronto, ridicole come ad Otranto e le
precauzioni meno minuziose. Ma siamo stati
gravati da domande alle quali il nostro titolo di
francesi ha attribuito molta importanza, e che
abbiamo in parte eluso, con il pretesto della
nostra ignoranza del linguaggio, che capivamo
meno del puro italiano. Il dialetto, impiegato in
questa parte del regno di Napoli, ci sembrava
corrotto da una quantità di espressioni straniere
o professionali, e terminazioni in un accento
sgradevole.
È con piacere che siamo tornati di sera nel
porto, per poter finalmente calpestare, sulla
costa deserta, un prato erboso e respirare,
45
all'ombra di alcuni alberi, un'aria balsamica e
rigenerante. La fresca vegetazione di questi prati
e del fogliame è mantenuta dall'umidità
nutriente delle acque di una fontana. La sua
fonte, molto abbondante, sgorga dalle rocce che
fiancheggiano la costa; essa riempie un vasto
bacino sotterraneo, scavato nella massa
rocciosa, il cui accesso presenta parecchie arcate
semicircolari tagliate a scalpello. Non abbiamo
potuto ignorare, in questo lavoro, la mano
potente e laboriosa degli antichi a cui è stato
attribuito. Plinio parla di questa fontana, situata
nella parte ad ovest del grande porto. Essa è la
stessa, senza dubbio, da cui si prendeva l'acqua
che serviva ai soldati ed ai marittimi per i lunghi
viaggi. La si diceva "incorruttibile" a causa delle
sue proprietà, che noi non siamo stati in grado di
verificare. Il Pratilli pensa che dei condotti
segreti conducessero le acque di questa fontana
a quella che si vede ancora in città, e che anche
questo lavoro fosse opera di quegli antichi.
Probabilmente avrò occasione di parlarne.
Anche se lo spazio in cui potevamo andare era
molto circoscritto, e che il nostro guardiano
monitorava attentamente per impedirci di
46
superarne i confini, comunque ci divertiva l'idea
di calpestare finalmente il suolo d'Italia, e non
dipendere più dagli eventi di cui eravamo stati
fino ad allora i giocattoli.
47
LETTERA V.
Situazione critica in cui ci siamo trovati durante
la quarantena. - Cause dell'insalubrità dell'aria.
Brindisi ...
La nostra gioia e la nostra sicurezza sono state
di breve durata; sarebbe stato più saggio
diffidare del futuro: ci stava preparando dei
dispiaceri. Con il pretesto che era impossibile
esercitare su di noi una sorveglianza efficace,
che ci impedisse di comunicare con gli abitanti
della costa e con i marinai che venivano a
rifornirsi di acqua alla vicina cisterna, abbiamo
ricevuto l'ordine di tornare nel porto interno, al
lazzaretto e sotto gli occhi dei dipendenti dalla
Sanità. Non so cosa abbia provocato questa loro
avversione nei nostri confronti, ma essi hanno
usato verso di noi un rigore straordinario. Ci è
stato rifiutato ogni modo per ammorbidire la
nostra situazione ed anche per evitare
l'inclemenza dell'aria. Senza letti diversi dalle
tavole della barca, senza una copertura diversa
48
dal cielo, privati non solo del superfluo che
avremmo pagato a peso d'oro, ma spesso anche
del necessario, ricevemmo solo l'indispensabile;
ciò equivaleva a vivere nell'indigenza più
assoluta; non si rispondeva alle nostre richieste
se non imponendo le dure leggi della
quarantena. Le nostre ripetute suppliche
divennero inutili e perfino umilianti; noi ce ne
siamo infine astenuti e prendendo il nostro male
con pazienza, ci siamo limitati ad informare
l'ambasciatore francese a Napoli della
disumanità dei nostri guardiani, chiedendogli di
abbreviare, se possibile, il tempo di una tale
rigorosa prigionia, che metteva in serio pericolo
i nostri giorni.
Infatti, esposti senza tetto durante il giorno ad
un sole cocente, non avevamo altra risorsa, per
estinguere il calore interno che ci divorava, che
tuffarci nell'acqua infetta; questo bagno, lungi
dall'essere salutare, ci rinfrescava solo un
momento, lasciandoci poi sul corpo un prurito
insopportabile. Di notte, nulla ci proteggeva
dall'influenza malsana dell’aria e della nebbia,
che ci penetravano di un'umidità gelida, il cui
contrasto era tanto più marcato quanto il caldo
49
della giornata era stato più forte. Le estremità
delle insenature che circondano la città, e
soprattutto il luogo in cui ci trovavamo, sono
coperte di canne nere abitate soltanto da insetti
e rettili insidiosi. Inoltre, il fondo delle acque,
che regge in dissoluzione una massa di sostanza
putrida, esala continuamente un gas fetido i cui
globuli vengono a scoppiare sulla superficie del
mare, facendolo ribollire. Un forte odore
sgradevole si diffonde in lontananza e colpisce
il senso dell'olfatto non appena il vento che lo
insegue soffia verso questa parte della rada. Se
al contrario lo spinge in città, esso diffonde
quasi ovunque la sua influenza maligna su tutti
gli abitanti, che non possono sfuggirgli se non
muovendosi frettolosamente verso un cantone
più salubre. Abbiamo persino notato pesci che
sembrano in qualche modo scappare dal loro
elemento
avvelenato;
essi
corrono
continuamente al di sopra della sua superficie, e
vi si tuffano solo malvolentieri.
Brindisi, ci hanno detto, contiene abbastanza
case per ospitare fino a quarantamila abitanti;
ma solo seimila vi abitano. La maggior parte dei
ragazzi che nascono qui non raggiunge la
50
pubertà; gli altri, pallidi e deboli, trascinano
un'esistenza dolorosa che spesso si conclude con
terribili malattie.
La sera, al tramonto, la città sembra deserta.
Questo momento della giornata è davvero molto
pericoloso; ma più tardi, quando il lavoro cessa,
ed altrove si gode del resto del crepuscolo,
nessuno qui lascia la città per vagare per la
campagna, a respirare aria fresca e a concedersi
all'allegria; non si sentono qui accenti gioiosi, né
le canzoni che altrove si suonano. Se scorgo
gente in giro, mi sembra di vedere delle ombre;
camminano lentamente ed in modo instabile,
con i volti stravolti e lividi che attestano che la
morte li segue da vicino. La guarnigione del
castello, che non viene rinnovata abbastanza
spesso, perde fino ai tre quarti dei suoi uomini,
e la popolazione diminuisce ogni giorno in
maniera spaventosa, specialmente durante il
gran caldo.
Gli abitanti accusano Giulio Cesare di essere
stato lui la causa dell'insalubrità della città,
avendo chiuso l'ingresso al porto facendovi
affondare delle navi che lo resero impraticabile,
51
facendone stagnare le acque. Ci hanno mostrato
i relitti di queste antiche navi, il cui legno, molto
ben conservato, aveva acquisito il colore
dell'ebano ed ancora maggior durezza. Non
credo però che quell'ostruzione risalga ad un
tempo così remoto. È vero che, per tagliare la
ritirata a Pompeo, Cesare costruì degli ostacoli
che potevano solo temporaneamente impedire
l'ingresso al porto; ma non c'è voluto molto
tempo per rimuovere questi impedimenti (1).
Augusto ed i suoi successori hanno avuto grande
interesse a rendere questo porto perfettamente
praticabile. Esso fu considerato, ancora per
molto tempo dopo, come uno dei migliori porti
di questa costa. Quindi bisognerebbe attribuire,
lo stato in cui ora il porto si trova, alla
negligenza ed all'indifferenza degli abitanti, che
______________________________________
(1) - La scoperta fatta dall'Ing. Pigonati di due file di
pali, che sembrano essere gli stessi piantati da Cesare
per ostruire l'entrata del porto, distrugge questa
affermazione. Tuttavia, non si può concepire che
Brindisi abbia potuto godere, molto tempo dopo, dei
benefici di un porto molto frequentato, se questi
ostacoli non fossero stati rimossi.
52
hanno trascurato le precauzioni necessarie per
prevenirne la completa ostruzione. Per quanto
riguarda la salubrità dell'aria, essa deve essere
necessariamente aumentata; ma ai tempi di
Cesare, questa contrada era già molto malsana.
Egli vi perse, di ritorno dalla Spagna, gran parte
delle sue truppe. Anche Cicerone si lamenta di
essere stato costretto a soggiornarvi; e Virgilio
vi trovò la morte.
L'attuale re di Napoli, riconoscendo
l'importanza di questo porto, dove non entrano
più che delle barche, sta attualmente affrontando
grandi spese per metterlo in grado di ricevere
vascelli. Ma, sia per il difficile reperimento di
lavoratori per lavori così estremamente malsani,
sia per l'impiego di mezzi meccanici non molto
rapidi ed efficienti, i lavori procedono
lentamente, e non si notano sensibili
miglioramenti nel risanamento dell'aria.
Quanto è deplorevole lo stato attuale di questa
città rispetto a quello che era al tempo dei
Romani! Questo porto, ora congestionato, era
aperto a navi di tutte le nazioni; riceveva le
produzioni utili della Grecia e le ricche
superfluità dell'India. Le flotte della repubblica
53
vi si riunivano, e da questo punto avanzato
dominavano l'Adriatico, tenendo a bada la
Grecia, e sempre pronte a partire per imporre il
nome romano nelle sue colonie e su terre lontane
soggette al suo potere, o per aprire alle sue
legioni la via per nuove conquiste. Brindisi
potrebbe ancora diventare la chiave
dell'Adriatico; non si potrebbe fare un
movimento in questo mare senza destare le
sentinelle poste nel suo porto. Collocato tra
l'Illiria e le isole ioniche, sarebbe il punto più
favorevole per coltivare relazioni con questi
paesi e fornire loro o riceverne aiuto di qualsiasi
tipo. Questo porto, considerato come posto
militare, sarebbe certamente il massimo
bastione delle coste orientali d'Italia, in grado di
ripararla da tutte le sorprese e da ogni attacco
ostile; potrebbe infine diventare uno dei
magazzini commerciali più favorevoli. Ma a tal
fine sarebbe necessario restituire alla città i suoi
precedenti vantaggi; il che non sarebbe
impossibile, se si usassero mezzi più attivi, più
potenti e degni, in una parola, di un risultato così
importante.
54
LETTERA VI.
Visita di un abitante di Brindisi e del console
di Venezia. - Tempesta. - Arrivo di un
vascello. - Distrazioni piacevoli.
Non ci è stato mostrato finora alcun segno di
benevolenza, e nemmeno di commiserazione:
rassegnati al nostro destino, abbiamo
aspettato pazientemente e senza avanzare
reclami, ormai inutili, la fine della nostra
quarantena, proponendoci di ripartire subito
dopo da questa terra inospitale; quando
abbiamo ricevuto la visita di un residente di
Brindisi, che ha compensato la lunga
indifferenza dei suoi concittadini, dei quali
non condivideva i pregiudizi.
Toccati da
questi segni di un interesse tenero e sincero,
che non ci aspettavamo e di cui avevamo
estremo bisogno, il nostro stupore è cessato
apprendendo che questo giovane apparteneva
a una rispettabile famiglia della Provenza, da
lungo tempo stabilitasi in questo paese, e che
55
aveva conservato un vivo attaccamento alla
sua vecchia patria. Il nostro titolo di francesi
era servito da raccomandazione a Don Pippo
(1) (Philippe They), questo era il nome del
nostro nuovo amico. Da quel momento in poi,
egli non cessò di venire ogni giorno a portarci
distrazioni piacevoli e parole di consolazione;
ma sfortunatamente ciò era tutto quello che
gli era permesso di offrirci. Tuttavia, egli
riuscì a procurarci qualcosa che fu di grande
aiuto per noi, come il farci conoscere gente
nuova, fra cui il console veneziano, un uomo
tanto amabile quanto istruito, che venne
spesso, con conversazioni interessanti e
spirituali, ad interrompere la triste monotonia
della nostra lunga giornata. Egli ci ha
mostrato dei cammei molto belli che aveva
trovato rimescolando la terra del suo
giardino, e ci ha detto che scavando al porto
____________________________________
(1) - Il titolo spagnolo di "don" era dato, nel regno
di Napoli, a tutti gli appartenenti ad una classe più
elevata, anche della borghesia. Pippo o Pippino
sono diminutivi di Filippo.
56
erano stati scoperti molti frammenti antichi,
epitaffi ed iscrizioni greche e latine.
Erano state ritrovate anche le fondamenta di
antichi monumenti, tra cui quelle di alcuni
bagni termali, dove si utilizzavano le acque
del mare, che vi arrivavano facilmente,
trovandosi questi locali sotto il loro livello.
Questo fatto dimostrerebbe che gli antichi
conoscevano le proprietà curative di queste
acque salate, di più facile uso per i più
fortunati, rispetto a quello delle acque
minerali, e la cui virtù curativa si
estenderebbe forse ad un più gran numero di
malattie. In un armadietto abbiamo trovato
una tessera con queste parole disegnate in una
cornice: "bene dormio". Per curiosità gli
scavi si erano estesi lungo la costa e
cominciavano a dare i loro frutti; ma si era
sparsa la voce di ritrovamenti preziosi, e
subito era giunto da Napoli l'ordine di far
cessare immediatamente ogni indagine e di
ricoprire gli scavi, con la minaccia di pene
severe; il governo si riservava il diritto di
continuare gli scavi a sue spese e per il suo
57
profitto. Questa misura probabilmente privò
per molto tempo il pubblico di scoperte che
potevano diventare molto interessanti.
Una terribile tempesta, verificatasi in questi
giorni, ci ha portato nuovi compagni di
sventura, cioè di quarantena. I vascelli che
avevamo già incontrato e che da allora non
avevano mai smesso di attraversare questo
tratto di mare, al momento della tempesta, si
trovavano
nella
parte
più
stretta
dell'Adriatico, e non potevano, senza rischio,
correre verso la costa; essi lottavano
disperatamente contro il vento che ve li
spingeva contro. Noi li vedevamo alla luce
dei fulmini che si riflettevano sulle loro vele
bianche; un fulmine è scoppiato in mezzo a
queste imbarcazioni; una di loro, a quanto ci
è apparso, è stata colpita. L'abbiamo vista
affondare e scomparire subito, mentre le altre
si sono perse presto in lontananza. Si era
sparsa la voce che su uno di questi vascelli
erano morte le circa cinquecento persone che
vi erano imbarcate; ma ora è certo che sono
state in grado di salvarsi sulle coste di Corfù.
58
Un altro di questi vascelli, molto malandato,
per una circostanza davvero straordinaria,
aveva, durante la notte, distrutto l'ingresso del
porto di Brindisi. Sempre spinto dal vento, si
era avventurato nella stretta apertura del
nuovo canale, ed era infine arrivato,
nonostante la superficialità dell'acqua, fino
alla metà del porto dove, molto sorpresi, lo
abbiamo veduto il giorno successivo: un
veliero così grande, non lo si vedeva lì da
molto tempo (1). Non sappiamo, a meno di un
secondo miracolo, come questo veliero
naufragato possa riacquistare il mare aperto.
Una discussione diplomatica tra il tribunale
di Napoli e la Repubblica di Venezia,
potrebbe rivolgersi a vantaggio degli abitanti
_________________________________________
(1) - Secondo il Pigonati, alla fine di agosto del
1778, il canale aveva 20 palmi di profondità, così
che navi da carico potevano entrare nella rada; il 26
giugno dello stesso anno era entrato nel porto di
Brindisi un veliero olandese, per scaricare grano e
caricare olio. Da allora sia il canale che il porto sono
stati di nuovo abbandonati.
59
di Brindisi, se contribuisse a rendere la loro
porta più accessibile. Questa repubblica
intrattiene strette relazioni di amicizia con gli
stati che hanno possedimenti sull'Adriatico e
che le permettono di sfruttare estesi diritti
relativi alla polizia di questo mare; essa li
esercita con severità su tutti i piccoli vascelli
che incontra, e ne abbiamo avuto esperienza
quando siamo arrivati ad Otranto. Le sue navi
estendono
questa
sorveglianza
fino
all'ingresso dell’Arcipelago, dove danno la
caccia ai barbari che minacciano di sbarcarvi.
I veneziani ricevono, ci è stato detto, sussidi
a tale scopo da vari stati; essi si arrogano nei
loro porti una sorta di supremazia, godendo
privilegi che le navi di altre nazioni non
ottengono. I loro passeggeri sono, tuttavia,
anch'essi soggetti alle leggi della quarantena,
ma in maniera meno rigorosa e per un tempo
limitato a pochi giorni.
L'arrivo di questo veliero è stato un felice
diversivo per il nostro modo di vivere ed ha
incrementato i nostri rapporti sociali. I nostri
amici ci hanno anche procurato, in questa
60
occasione, una piacevole sorpresa; abbiamo
visto avvicinarsi al nostro carcere
galleggiante due scialuppe elegantemente
ornate: una con Don Pippo e le sue gentili
sorelle; l'altra era occupata da ufficiali
veneziani e loro compagni. L'influenza del
gentil sesso ha subito vivacizzato i nostri
cuori, appassiti per un lungo isolamento e
abbandono, sperimentato in paesi in cui
anche un'occhiata alla bellezza diventa un
crimine, dove la minima traccia di galanteria
e anche la semplice cortesia sono considerate
un tradimento, che infiamma immediatamente la gelosia e reclama vendetta! La
vista dei nostri amici e di un gruppo di donne
giovani e attraenti ci hanno riportato infine, ai
modi educati e facili dell'Europa; potevamo
rispondere alla cura toccante dell'amicizia e
all'elegante
civetteria
delle
nostre
consolatrici, con effusioni di cuore, cosa che
è un crimine solo in Turchia. Da quel
momento, abbiamo dimenticato i modi rustici
che avevamo contratto in quel paese di
barbari e, al cospetto della grazia e della
61
bellezza, abbiamo sentito rinascere in noi il
buon umore e l'urbanità francesi.
Perfino il porto di Brindisi sembrava più
ridente; vi echeggiavano degli accordi di
musica e accenti di gioia. Le donne a volte
cantavano, accompagnate dalla chitarra o dal
mandolino, queste canzoni composte dai
gondolieri di Venezia, le cui arie sono così
semplici e melodiche da trasmettersi
rapidamente di bocca in bocca, fino ad
incantare tutta l'Italia, e passare addirittura in
Grecia, dove ne abbiamo riconosciute
diverse. Queste "barcarole" (1), cantate con
l'accento proprio del dialetto veneziano, in
cui abbondano le z, e che ingentilì la lingua
di Dante, avevano un fascino particolare nella
bocca dei nostri amici veneziani; e noi ci
siamo uniti a loro, con le nostre voci poco
esercitate, in questa dolce melodia, di cui
volevamo imparare e ricordare il motivo. Una
conversazione allegra seguiva a questi piccoli
concerti e le nostre serate trascorrevano tanto
più piacevolmente in quanto erano condite
con un leggero vincolo: le barche dovevano
62
stare al sicuro, ad una certa distanza dalla
nostra barca; qualsiasi comunicazione era
proibita; potevamo trasmettere solo suoni.
Una leggera infrazione a questo trattato
avrebbe potuto compromettere la sicurezza
dei nostri amici.
_________________________________________
(1) - Canzoni in lingua veneta, cantate dai gondolieri
a Venezia. Anche se le arie delle barcarole sono
fatte per la gente del popolo, e spesso sono
composte dagli stessi gondolieri, hanno tanta
melodia e un accento così bello, che non c'è
musicista in tutta Italia, a cui non interessi
conoscerle e cantarle.
63
LETTERA VII.
Note storiche su Brindisi. - Fine della
quarantena. - Foresterie.
In attesa dell'arrivo delle lettere che
dovrebbero annunciare la nostra liberazione o
la riduzione dei termini della nostra prigionia,
e per occupare utilmente il mio tempo libero,
traccerò un profilo storico, con il materiale
che sono riuscito a procurarmi su Brindisi.
Tutti gli storici sono d'accordo sulla remota
antichità di questa città. Alcuni la chiamarono
Brundusium o Brundisium; alcuni poeti
Brenda, per facilitare la metrica; nel
medioevo, Brundusiopolis. Varie le ipotesi
sulla fondazione di Brindisi. Dovrebbe essere
attribuita a Brendo, figlio di Ercole; agli
Etoli, compagni di Diomede; infine, ai
Cretesi; certamente i suoi abitanti furono
coinvolti nelle antiche guerre tra i popoli dei
confini fra la Messapia e i Tarantini. Quando
64
questi ultimi chiamarono Pirro in Italia,
Brindisi, allora città capitale dei Salentini,
condivise la punizione inflitta dai Romani
alla città di Taranto. Essi la saccheggiarono,
l'anno di Roma 487, ed usarono il pretesto
della sua distruzione per rimanere i padroni di
questo porto, che doveva aprire loro un
passaggio sicuro e veloce verso la Grecia; vi
fu fondata perfino una colonia nel 509. Sotto
il loro dominio, questa città divenne in
seguito molto fiorente, ed una delle più ricche
e più importanti città d'Italia. Essa fu nel
novero delle diciotto colonie che fornirono
grande aiuto alla repubblica nel periodo della
seconda guerra punica.
Durante le guerre civili tra Cesare e
Pompeo, Brindisi svolse un ruolo importante.
(1).
_______________________________________
(1) - Appiano e Cesare stesso hanno raccontato
questi avvenimenti. Quest'ultimo ha descritto il
porto e gli stratagemmi da lui messi in atto per
assediare Pompeo; ma queste descrizioni sono un pó
confuse.
65
Sappiamo che Pompeo si era ritirato a
Brindi-si con le sue truppe; Cesare, che lo
aveva inseguito per assediarlo in questa città,
vi si stabilì e concepì un progetto di chiusura
del porto con una diga ed una palizzata di
sbarramento. Mentre le
due parti
combattevano con pari accanimento intorno a
queste opere, ancora in corso di costruzione,
le navi che avevano trasportato i senatori ed i
consoli, con trenta coorti, sulle coste
dell'Epiro, sostavano allora, non nel porto di
Brindisi, come si crede comunemente, ma
nella grande rada esterna; Pompeo ebbe
quindi tutto il tempo di imbarcarvisi con i
suoi uomini e fuggire a Durazzo durante la
notte, lasciando solo due navi, le uniche
probabilmente che si trovavano nel porto
interno e che, tentando la fuga, si arenarono
contro la diga in costruzione, che bloccava
l'uscita del porto. Lucano (libro V) descrive
il sito più esattamente. Questa manovra può
essere considerata come uno stratagemma
diversivo, utilizzato da Pompeo per attirare
l'attenzione di Cesare su questo lato, mentre
66
il suo nemico allontanava le sue truppe e le
imbarcava, all'esterno sulla costa opposta.
L'ispezione dei luoghi mostra quanto fosse
impossibile far fuggire da Brindisi anche una
sola barca, per le precauzioni prese da Cesare,
ingombrando l'entrata del porto. Questo
progetto di ostruzione fu facile da eseguire,
dal momento che tale passaggio non è mai
stato molto più ampio di quanto non sia
adesso, posto com'era tra due spuntoni di
roccia distanti non più di venti tese uno
dall'altro.
Dopo aver distrutto in Spagna l'armata
spagnola di Pompeo, Cesare si trasferì in
Grecia, nell'Epiro, dove attese con
impazienza l'arrivo delle truppe che aveva
lasciato a Brindisi. Era di grande interesse per
Pompeo impedire l'unione di queste forze
nemiche; così inviò una flotta che doveva
impadronirsi dell'isola su cui fu poi costruito
il castello che domina ora la rada e l'ingresso
del porto di Brindisi. Ma avendo Antonio
sparso le sue truppe sulla costa, rendendosi di
67
fatto padrone di quel sito, la flotta nemica fu
costretta a ritirarsi.
Cesare, tuttavia, preoccupato per il ritardo
del passaggio delle sue legioni, si risolse
infine ad andare a prenderle lui stesso. Si
travestì da schiavo, montò sulla barca di un
pescatore, e partì nel mezzo della notte,
nonostante l'avvicinarsi di una tempesta che
presto mise quella fragile barca in grande
pericolo. Il pescatore sgomento stava per
tornare indietro; Cesare si fece allora
riconoscere e gli si rivolse dicendo: - Che
cosa temi? Tu porti Cesare e la sua fortuna! Bisognò, tuttavia, cedere a un elemento che
era più forte dell'ostinazione umana (1).
Conosciamo il seguito di questa guerra che
terminò con la famosa battaglia che stabilì i
____________________________________
(1) - Questo fatto fu ricordato al ritorno di Carlo V
dalla sua spedizione imprudente e sfortunata su
Algeri; durante il suo ingresso pubblico a Napoli, fu
esposto un dipinto raffigurante Cesare su una barca
battuta dalle onde, con queste parole scritte sopra:
Et transire dabunt et vincere Fata.
68
destini del mondo, nei campi di Farsaglia.
Brindisi doveva ancora soffrire sotto
Augusto, Antonio e Bruto. I suoi abitanti
furono prima puniti per aver preso le parti di
Ottaviano; godettero poi del lungo periodo di
pace che fu concesso al mondo. Questa città
rimase fedelmente attaccata ai destini
dell'Impero, fino alla sua decadenza. Essa si
trovò, con le altre città pugliesi, in fondo al
periodo delle devastazioni dei barbari, che, a
poco a poco si impadronirono anche di queste
terre. Brindisi fu ridotta tre volte allo stremo;
se il suo porto non fosse stato considerato
sicuro ed importante, probabilmente sarebbe
stata abbandonata del tutto, così come
avvenne per molte altre città vicine. Totila,
essendosi impadronito di Brindisi, ne fece
radere al suolo le mura, in modo che non
potessero servire da riparo ai Greci d'Oriente,
che già reclamavano qualche diritto su questa
città. Poco dopo, avendo Belisario e Narsete
cacciato i Goti, questa città, così come tutto il
resto della Magna Grecia, tornarono sotto il
dominio degli imperatori, con Ruggero,
69
primo sovrano del regno di Puglia. Deve
essere qui osservato, in onore di questa città,
che per molto tempo le fu riservato
l'appannaggio ed il titolo di capitale di quello
che oggi chiamiamo il regno di Napoli.
Quest'ultimo nome non apparve che molto
più tardi, quando Napoli fu occupata da Carlo
d'Angiò e divenne essa capitale, nel 1266; il
regno di Puglia fu diviso nel 1501, tra
Ferdinando e Luigi XII, re di Francia. Fu solo
allora che l'espressione "regno di Napoli"
venne usata negli atti, e che il sovrano iniziò
ad adottare il titolo di Re delle Due Sicilie.
Alla fine del XII secolo, Ruggero, figlio del
re Tancredi d'Altavilla, ricostruì le mura di
Brindisi, e fondò i due castelli tuttora
esistenti, così come anche il Duomo (la
cattedrale), edificio di grande carattere e dalla
magnifica architettura. C'è una cerimonia
notevole nel giorno della festa del Santo
Sacramento (Corpus Domini), che viene
portato in processione fuori dalla porta
principale della cattedrale, dall'arcivescovo,
accompagnato da dignitari, nobili e numerosi
70
capitoli. L'arcivescovo monta un cavallo
bianco, coperto da un baldacchino dello
stesso colore; uno dei dignitari più titolati, o
il primo barone della provincia, tiene il
cavallo per le briglie e le stecche del
baldacchino sono rette dai nobili della città.
Questa processione ha luogo al suono di
tamburi e trombe e sotto il frastuono di colpi
di pistola, fucilate e fuochi d'artificio.
L'arcivescovo viaggia per le strade ed entra a
cavallo nelle chiese. Ovunque gli vengono
stesi ai piedi dei ricchi tappeti, palme,
fogliame e fiori, e lui stesso è incoronato da
una specie di diadema di fiori artificiali e fili
d'oro e d'argento.
Questa cerimonia è fatta in memoria del
ritorno di San Luigi IX, re di Francia, dalla
Terra Santa durante la VII crociata. Ecco
come raccontano le cronache napoletane
questo evento: Saladino, sultano dell'Egitto,
avendo fatto prigioniero il re di Francia, volle
rimandarlo nei suoi Stati, dietro la promessa
di un forte riscatto, accettando in pegno, per
la fede del monarca, un'ostia consacrata. Re
71
Luigi, ansioso di ritirare un così prezioso
deposito dalle mani di un infedele, si imbarcò
e, favorito dai venti, arrivò in pochi giorni a
Brindisi. Lì, per una fortunata coincidenza,
incontrò il suo amico imperatore Federico, al
quale spiegò la sua preoccupazione; questo
generoso principe lo rassicurò facendo subito
coniare, nella stessa Brindisi, trentamila pezzi
di denaro in oro e argento, recanti l'impronta
di un tabernacolo, e sul rovescio l'aquila
imperiale. Il re di Francia ritornò in Egitto;
Saladino, sorpreso dalla puntualità del suo
prigioniero e toccato dall'azione generosa del
suo augusto amico, non volle essere da meno:
restituì l'ostia consacrata, mise in libertà il re,
e nobilmente rifiutò il pagamento del suo
riscatto. Federico attendeva a Brindisi il
ritorno della nave che, battuta dalla tempesta,
naufragò all'ingresso del porto. Immediatamente l'arcivescovo, pieno di zelo, ma
indebolito dall'età e dalle infermità, fu posto
su un cavallo e così uscì dalla città, seguito
dal suo clero, dai baroni del regno e dalla folla
degli abitanti. Raggiunsero la nave
72
naufragata (1); il prelato ricevette l'ostia
consacrata e la ricondusse in processione alla
cattedrale, accompagnato dal re e
dall'imperatore, che tenevano il cavallo per le
briglie. Si aggiunga che le monete che
Federico aveva coniato e che gli erano state
restituite, presero, in quell'occasione, il nome
di "tornese" e furono usate per la costruzione
di una bella chiesa nella città di Manfredonia.
Diversi uomini famosi vissero o nacquero a
Brindisi; fra essi Eucratide, Filosofo
epicureo, come riferisce la sua pietra
sepolcrale e Marco Pacuvio, nipote del poeta
Ennio. Questo Pacuvio, che scrisse alcune
tragedie, e morì a Taranto, potrebbe essere lo
stesso che, seguendo Plinio, ornò di dipinti il
tempio di Ercole a Roma.
____________________________________
(1) - La trappola all'ingresso del porto che causò il
naufragio, si trovava di fronte alle isole Pedagne, ed
è ancora chiamata la Roccia del Cavallo. Una torre
vicina porta lo stesso nome, e vi si trova, scolpito
sulla porta, un calice con l'ostia.
73
Interrompo qui i dettagli storici su Brindisi:
li riprenderò forse più avanti, con alcuni
dettagli della città e dei suoi dintorni. Il
corriere, così impazientemente atteso, è
finalmente arrivato. Don Pippo è venuto,
desideroso
di
portarci
la
lettera
dell'ambasciatore francese indirizzata a noi,
da cui abbiamo appreso che il tribunale
sanitario generale stabilito a Napoli, da cui
partono tutte le decisioni amministrative
relative ai porti del regno (1), aveva
gentilmente ridotto la nostra quarantena a
ventotto giorni, a partire da quello della
____________________________________
(1) - Ogni porto marittimo ha il suo ufficio sanitario;
ma non ci sono in tutto il regno, che una trentina di
deputazioni, che hanno la facoltà di ricevere i
vascelli soggetti a quarantena. Questo è il motivo
per cui non siamo stati ricevuti a Otranto. Vengono
versati, agli ufficiali della salute, dei contributi sulla
visita delle imbarcazioni in quarantena e sulla
registrazione dei documenti alla partenza.
L'ammontare di queste tasse è valutato in mille
ducati per ogni deputazione.
74
nostra partenza da Corfù; le nostre sofferenze
si erano così ridotte ad un'altra settimana di
attesa. Era necessario un certificato, firmato
dal proprietario della barca, dai passeggeri e
dall'equipaggio, per accertare quella data, e
ne abbiamo incaricato don Pippo, il nostro
zelante intermediario in tutti i nostri affari.
Non appena gli altri nostri amici hanno
saputo che stavamo per ottenere la nostra
libertà, sono venuti a congratularsi con noi e
ad offrirci ospitalità nelle loro case, dove era
stata predisposta una foresteria per riceverci.
Rispondendo, come dovevamo, a questo
segno di benevolenza, noi lo abbiamo
cortesemente rifiutato, avendo già dato
incarico al nostro buon connazionale di
affittarci una casa in città.
Non esiste una sola locanda a Brindisi;
l’ospitalità vi è esercitata con una franchezza
e un disinteresse degno dei tempi antichi. Le
persone benestanti organizzano un padiglione
o un appartamento nella loro casa, dandogli il
nome di foresteria: è destinato a ricevere
75
forestieri o viaggiatori; ed ivi praticano a tutti
loro le virtù dell'ospitalità. Questa usanza è
generale in gran parte del Regno di Napoli;
anche nei villaggi, si trovano edifici destinati
allo stesso uso dei caravanserragli
dell'Oriente e delle ostellerie della Spagna.
Questi edifici offrono di solito un grande
cortile circondato da un porticato coperto
dove si riparano cavalli, muli o bovini. Nel
centro di questo cortile, c'è un pozzo con
abbeveratoi di pietra; il primo piano è diviso
in stanze dove si trovano materassini o tavole
per sdraiarsi. Per quanto riguarda gli
approvvigionamenti, si è costretti a portarseli
dietro per il viaggio, o a procurarseli nelle
fattorie.
76
LETTERA VIII.
Soggiorno a Brindisi. - Antica casa di piacere.
- Monumenti, tombe. - Mura della città,
castello. Fontana di Tancredi.
Brindisi, settembre.
Siamo scesi dalla nostra barca per non più
tornaci, faremo solo un'ultima apparizione
all'ufficio della salute. La contumacia del
vascello veneziano aveva gli stessi tempi della
nostra. Tutti i nostri conoscenti erano riuniti
sulla riva e ricevemmo le loro congratulazioni,
senza tuttavia avvicinarci a loro, perché prima
di entrare in seno alla società, dovevamo subire
la visita del medico del lazzaretto. Questo si
limitò a constatare il buon stato della nostra
salute, a sentire il nostro polso, accelerato dalla
gioia, e dopo aver dichiarato che non avevamo
alcuna malattia contagiosa, ci autorizzò alla fine
a comunicare con i nostri amici, ed a ricevere le
testimonianze della loro soddisfazione.
Abbiamo anche baciato con tenerezza il nostro
77
buon capitano, ed i marinai che avevano
formato così a lungo la nostra società più
intima. Meno sensibili di noi alle privazioni,
hanno sempre cercato, coi loro servizi obbligati
e attenti, di farci dimenticare il rigore e
l'amarezza della nostra situazione. Noi
scorgevamo nei loro modi rustici un fondo di
bonomia e persino sensibilità; il loro francese
rozzo e improvvisato contrastava vivamente
con le maniere melensi e cortesi, ma fredde e
dispregiative dei deputati della Sanità. Noi
perdonammo, tuttavia, i loro severi
procedimenti; ci piace credere che il loro fosse
solo un eccesso di zelo nell'adempiere alle loro
importanti funzioni.
La folla ci ha seguiti fino a casa nostra. Don
Pippo aveva preparato spuntini e rinfreschi di
ogni tipo, e non abbiamo lasciato la compagnia
che ci aveva portati fin lì, senza aver risposto ai
numerosi brindisi fatti a nostro favore.
Sappiamo che il nome di questa città esprime in
tutta Italia i desideri che formiamo quando si
beve alla salute di qualcuno. La parola brindisi
deriva dall'abbondanza e dall'ottima qualità dei
78
vini brindisini, dalla propensione dei suoi
abitanti ai piaceri di Bacco o da una società che
aveva introdotto l'abitudine di improvvisare
alcune rime ad ogni bicchiere di vino da bere;
uso che esiste ancora in poche città d'Italia e
forse anche da Roma. Uno studioso antiquario
di Brindisi dà a questa parola un'etimologia più
nobile e antica: la fa risalire di nuovo ai Romani
che usavano l'espressione brindisi o brindare,
accompagnando i loro genitori o gli amici fino
a Brindisi, o nel riceverli al loro ritorno, come
addio, auguri per il viaggio, e arrivederci (1).
______________________________________
(1) - Aulo Gellio cita così: Cum e Graecia in Ilaliam
rediremus et Brundusium iremus: egressique e navi in
terram in portu illo inclito spatiaremus. In una nota di
viaggio del Barone di Riedesell si fa derivare la parola
brindisi dal tedesco "ich bringdirs" espressione
equivalente al "tibi propino" dei latini, che si usava
dire bevendo in gruppo. Gli italiani pensano che l'uso
di dire fare un brindisi, bevendo dalla salute di
qualcuno, è equivalente a queste parole: arrivederci a
Brindisi, che si pronunciano partendo. Francesco Redi
è di questa opinione nel suo Bacco in Toscana:
Io gir men voglio
79
Dopo molti brindisi, la compagnia si ritirò per
farci godere in pace questi primi momenti di
libertà, così preziosi dopo tanto tempo di
cattività. Solo allora abbiamo assaporato la
dolcezza di un'esistenza indipendente, e, nelle
effusioni dell'amicizia, abbiamo potuto
sbizzarrirci, con aspettative di successo, a
progetti piacevoli per il resto del nostro viaggio.
_____________________________________
Per mio gentil diporto,
Conforme io soglio,
Di Brindisi nel porto,
Purchè sia carca
Di brindisevol merce
Questa mia barca.
Su voghiamo, Navighiamo,
Navighiamo infino a Brindisi:
Arïanna, Brindis, Brindisi.
Inoltre, questa espressione era usata dai Romani, come
testimoniano questi versetti di Plauto: Poegnium, tarde
cyathos mihi das, cedo sanè; Bene mihi, bene vobis,
bene amicae meae. E penso ancora che risalga al
tempo dei crociati, che consideravano il porto di
Brindisi come il loro punto di riunione generale.
80
La nostra immaginazione era esaltata e,
seguendo il nostro percorso sulla mappa,
abbiamo divorato in anticipo lo spazio che ci
separava da Napoli e da Roma. Non potevamo
tuttavia rifiutarci ai desideri impazienti dei
nostri amici che cercavano di trattenerci con
pressioni gentili. Don Pippo, per distrarci
dall'inevitabile tristezza, ci procurava oltre il
necessario; il superfluo era presente in tutte le
sue disposizioni: potevamo godere di un piccolo
giardino dove maturavano il moscato, il fico e il
melograno. Il nostro amico stava organizzando
per noi un lungo soggiorno in questo paese; ci
prometteva, fra vari divertimenti e piaceri,
l'esplorazione di questa costa, poco nota ai
viaggiatori, fornendoci un abbondante raccolta
di studi pittoreschi e curiose ricerche.
Impazienti di utilizzare la facoltà che
avevamo di andare, venire e camminare in
libertà e per soddisfare un primo moto di avida
curiosità, abbiamo percorso la città in tutte le
direzioni senza mettere nessun ordine nel nostro
cammino. Dopo essere stati così a lungo
costretti in una barca senza poter fare qualsiasi
81
esercizio, la dimensione dei luoghi e la
lunghezza delle strade ci sono sembrate
immense; alla più piccola novità emettevamo
un'esclamazione di gioia o di sorpresa; la vista
della campagna produceva su di noi un
delizioso effetto.
Questo gusto particolare è stato favorito in noi
dalla visita ai resti di una casa di piacere che
offriva uno spettacolo degno di tutta
l'attenzione di artisti e amanti dell'antichità.
Infatti, anche se gli edifici erano caduti in
rovina, ed i giardini erano abbandonati alla cura
della natura che vi era tornata in tutti i suoi
diritti, non eravamo meno sorpresi che incantati
nel riconoscere in questo luogo le caratteristiche
principali di un'antica villa.
Probabilmente queste caratteristiche le sono
rimaste in quanto essa è appartenuta, fino ai
primi secoli della nostra era, a famiglie
benestanti, che, con qualche amorevole piccolo
cambiamento, vi avevano goduto gli stessi
benefici e gli stessi piaceri dei loro antenati, e
non sono mai stati tentati di cambiare qualcosa
nell'ordine e nell'antica distribuzione dei locali.
82
Essa non segue un piano molto regolare,
approfittando semplicemente delle disuguaglianze del terreno, che supportano, in alcuni
luoghi, delle terrazze in cui si trovano stanze
basse, a volta, adornate da stucchi e dipinti, che
servivano ai vecchi proprietari, e che
potrebbero ancora essere usate come ritiro,
durante il grande caldo.
Quella che sembrava meglio conservata era
un'ampia passeggiata (ambulacrum), ombreggiata da una vite molto antica, a giudicare dalle
dimensioni dei ceppi, e che sorge e corre lungo
dei pilastri di marmo. La maggior parte dei
capitelli aveva la forma, molto singolare, di un
cestino quadrato, sulle cui facce erano scolpiti
in rilievo scene di agricoltura, o animali, come
pecore, capre, ecc. Alcuni di questi capitelli, in
cui si riconosceva uno stile di restaurazione
visibilmente moderno, facevano meglio
giudicare l'antichità degli altri.
Ci è stato indicato un pilastro di marmo, di
circa due piedi quadrati, e di una forma davvero
singolare. Era cavo all'interno, dove mostra gli
scaffali di una biblioteca, con montanti e
83
mensole di tre pollici di spessore; nel mezzo e
sopra ciascuna mensola erano praticati due
solchi abbastanza profondi. Questo bellissimo
pezzo di marmo, alto dai sette agli otto piedi,
era posto in giardino di fronte a un pergolato.
Per cosa era usato? Abbiamo fatto questa
domanda al proprietario, che ha risposto, senza
esitazione, che ciascuna delle scatole doveva
contenere un alveare, e che i solchi dovevano
servire come entrata per le api. Era questa una
sua opinione personale, o un residuo di
tradizione di cui era solo il propagatore? Non ve
lo so dire. Altri pensavano seriamente che
ognuna di queste scatole serviva per mettere un
formaggio che gocciolava nei solchi o che
contenesse anfore o brocche di olio, ecc. Ma in
queste ultime ipotesi, questo marmo sarebbe
stato molto meglio metterlo in cantina, invece
che nel giardino, in cui sembrava essere stato
fondato e non portato per caso; argomento di
discussione per archeologi.
Una vasca di forma piuttosto bella, sostenuta
da una base decorata con sculture molto
degradate, ma che occupa ancora il centro di un
84
bacino, ci ha indicato molto chiaramente una
fontana, la cui acqua però non arriva più
all'altezza della vasca, ma si sta diffondendo
intorno, e rende fortemente umida questa parte
del giardino. Un gran numero di sezioni di
colonne di marmo, alcune riccamente decorate
con larghe foglie di alloro poste a guscio e
circondate da una corda a spirale, altre scanalate
e rigonfie, ad un quarto della loro altezza, con
un ornamento di foglie di acanto, molti
frammenti di marmo lavorato con delicatezza,
non ci permettevano di dubitare che stavamo
calpestando il terreno dell'antica casa delle
delizie di un facoltoso romano che, ai tempi del
declino della Repubblica e dei primi Cesari,
vennero su questa costa per un ritiro più sicuro
e favorevole, al minimo pericolo, ad un
passaggio, con una parte dei loro tesori, nelle
proprietà che avevano in Grecia e in Asia (1).
Quando siamo tornati in città, ci hanno mostrato
delle antiche tombe che erano state trovate
scavando il terreno, e molte altre di cui le rovine
si ergevano ancora sopra la sua superficie. Dopo
aver costeggiato il cammino spesso interrotto
85
delle vecchie mura, abbiamo visto il castello, le
cui torrette sono spesso ombreggiate dalle
nuvole di corvi che ne sono gli unici abitanti. Ci
hanno parlato, con compiacimento, dei lunghi
assedi sostenuti da queste fortificazioni, e ci è
stata indicata la loro solida costruzione
composta da pietre perfettamente unite, che
sembrano aver stancato i tempi. Da questo lato
(al tramonto), Cesare avrebbe assediato
Pompeo, e lui stesso non sarebbe entrato in città
se gli abitanti non gli avessero aperto le porte.
Di fronte a queste stesse mura, i Greci, sotto la
guida del valente Giovanni Ducas, generale
dell'imperatore Manuele I Comneno, vennero
ad accamparsi nel 1155, il giorno prima di
Pasqua; sotto il pretesto delle feste, vi rimasero
diversi giorni in inattività per osservare da
_____________________________________
(1) - Ho conservato solo una traccia confusa di questa
villa e di tutti gli oggetti che vi ho visto; e sebbene li
abbia disegnati, questi schizzi sono troppo imperfetti
per mostrarli qui. Mi ero proposto di tornare al sito per
farne una pianta dettagliata. Vedremo presto cosa mi
ha impedito di eseguire questo progetto.
86
vicino le forti mura dalle quali non potevano
strappare una sola pietra, anche usando la più
potente macchina da guerra. I loro vari tentativi
di offesa risultarono vani; perciò i greci si
misero a scavare fino in fondo alle fondamenta
delle mura, dando poi fuoco ai puntelli che
avevano sostenuto la terra durante gli scavi.
Quindi il muro crollò trascinando giù chi lo
difendeva. Il nemico, tuttavia, non potette
espugnare la fortezza; glielo impedì una
seconda costruzione che resistette a tutti i suoi
sforzi. Non lontano da qui, mi sono fermato per
disegnare una vecchia fontana, detta Appiana, o
grande fontana, ed ora Fontana di Tancredi
(Fig. 3). Alcuni la attribuiscono ad Appio il
cieco, altri a Traiano, e ne fanno risalire la
costruzione allo stesso periodo dell'antica via
che conduce alla città da questa parte.
Questa fontana ha due riserve quadrate (1),
_____________________________________
(1) - Ne ho indicata solo una nel mio disegno; la
seconda si trova dall'altra parte. Il cartello e le
iscrizioni occupano il centro del muro tra i due
serbatoi.
87
Figura 3
88
aperte da un'arcata, con un tetto piramidale in
pietra. Queste riserve sono alle estremità di un
grande muro e sono unite da un canale, che
serve da abbeveratoio per il bestiame, formando
con questi il corpo di tutto l'edificio. Gli
ornamenti del cartello e le iscrizioni che
vediamo in mezzo al muro, visibilmente posti
dopo, non risalgono al periodo indicato nelle
iscrizioni, e non rispettano il piano generale
dell'edificio. Respingendo l'opinione che
attribuisce a Tancredi o a Ruggero suo figlio la
costruzione di questo monumento, crediamo di
riconoscevi uno stile più antico, e non quello
che contraddistingue le opere dei principi
normanni. Un acquedotto sotterraneo che
spesso va a grande profondità, e dopo aver fatto
una lunga deviazione, porta a questa fontana le
acque del Cerano, un piccolo fiume a sette
miglia di distanza dalla città, conferma il nostro
modo di vedere; quest'opera, notevole per la sua
audacia e solidità, è degna degli antichi, ai quali
giustamente la attribuiamo. Nel 1618 venne
nominato governatore di Brindisi un illustre
benefattore: Pietro Aloisio de Torres. Egli usò
89
la fontana di Tancredi come una torre d'acqua;
per mezzo di un nuovo acquedotto che passa
sotto la torre di San Giorgio, alimentò diverse
altre fontane costruite all'interno della città e sul
porto. L'acqua è, secondo i medici, la migliore
del paese; essa è sempre molto abbondante e
non si è mai esaurita, nemmeno durante le
grandi siccità che prosciugavano i pozzi e le
altre fonti dei dintorni. Rientrando in città dal
molo settentrionale del porto, abbiamo assistito
ad una scena la cui descrizione fornirà materiale
per la prossima lettera.
90
LETTERA IX.
Tarantola, effetti del suo pungiglione. Guarigione dal tarantismo con la danza. Formalità osservate a tale riguardo. - Storia
della malattia.
Si è spesso messo in dubbio l'uso bizzarro della
danza, per diversi giorni di seguito, con il
pretesto di guarire le persone che sono state o
che pensano di essere state punte dalla tarantola.
Abbiamo appena assistito a questa pratica e
posso quindi affermarne l'esistenza, senza
tuttavia garantirne i risultati.
Sappiamo che la tarantola è una specie di
ragno che prende il nome dalla città di Taranto,
dove è, dicono, molto comune. Lo si trova in
alcuni altri cantoni del regno di Napoli; ma
quello della Puglia è il più pericoloso,
soprattutto durante l'estate. Si sostiene che dopo
essere stato punto, il paziente non impiega
molto a cadere in una profonda malinconia, e
muore, a meno che non lo si soccorra. Di tutti i
91
rimedi in uso, il più efficace e persino l'unico
che guarisca completamente è la musica.
La puntura della tarantola è mortale? Non c'è
cura per questa diversa dai suoni armonici e
dalla pratica della danza, o il pericolo esiste solo
nell'immaginazione degli ammalati? Se si
consultano gli abitanti del paese, questi
rispondono affermativamente alle prime due
domande, e diverse opere accademiche possono
fornire nozioni molto ampie su questo
argomento. Per quanto riguarda l'ultima
proposizione, sembra confermata l'opinione di
quelli che credono che il pungiglione del grasso
ragno sia una favola, e la maggior parte di
coloro che credono di soffrirne, sono invece
affetti da una specie di mania malinconica, i cui
sintomi
possono
essere
dissipati
temporaneamente, se non curati del tutto, da un
esercizio violento e dai suoni della musica.
Anche gli antichi consideravano la musica
come la cura più pulita per calmare
l'effervescenza del sangue e l'acredine di alcuni
stati d'animo (1), e quando questa risorsa era
impotente, si ricorreva agli incantesimi, a cui la
92
moltitudine attribuisce ancora grande fiducia.
Sappiamo dagli epigrammi di Asclepiade, che
egli aveva liberato l'arte della guarigione da
queste puerilità superstiziose. Tuttavia, i
moderni prestano ancora un pò di fede
all'efficacia della musica come rimedio
calmante: se ne citano alcuni esempi, tra cui
quello del famoso musicista J. Berryat, che la
febbre continua aveva gettato nel delirio.
Questi, nel calore dell'accesso, chiese di ascoltare un concerto. Alcuni amici presenti gli
suonarono una cantata di Bernier; dai primi
accordi, la faccia del paziente si fece serena, i
suoi occhi calmi, le convulsioni si fermarono,
versò lacrime di piacere; non appena ebbero
finito, egli tornò nel suo stato precedente.
Bisognava continuare con l'uso di un rimedio il
cui successo era talmente felice. La febbre e
_____________________________________
(1) - Secondo Vitruvio, la musica dovrebbe essere
studiata da medici, architetti, ecc. I suoi effetti
ammirevoli sono noti fin dai tempi di Saul. Platone,
Aristotele, Dionigi di Alicarnasso, Diodoro di Sicilia,
Pitagora e Aulo Gellio ne fanno menzione, e l'ultimo
parla di medici musicisti.
93
il delirio erano sospesi durante i concerti, e
l'ammalato riceveva un tale sollievo dalla
musica, che fece cantare e anche ballare giorno
e notte i suoi genitori e persino la sua guardia.
Torniamo al tarantismo e ai suoi sintomi. La
malattia attribuita al pungiglione della tarantola
potrebbe essere anche causata dalla natura del
clima, dall'aridità del suolo, dalla scarsità dei
boschi e dal calore eccessivo. In effetti, queste
cause tendono a sviluppare e a rendere
pericolose molte altre indisposizioni; è risaputo
che l'idrofobia regna dentro la Puglia più che
altrove; l'umidità dell'aria calda e la sua gravità
durante l'estate, possono far sì che piccole
malattie diventino mortali in questo paese.
Ma il tarantismo, che credevamo l'effetto di
uno spirito colpito, non è meno reale, secondo
l'opinione dei medici; e queste sono le ragioni
per cui non lo si può prendere con leggerezza:
uno che è stato punto dalla tarantola cade
rapidamente in uno stato di profonda
malinconia e assoluto sconforto; la sua faccia
assume un aspetto cadaverico, il suo respiro è
molto difficile, ha ansia e languore allo
94
stomaco, le sue membra si raffreddano, il suo
corpo traspira un sudore gelido e gelatinoso, i
suoi occhi, fissi e immobili, sono coperti da una
nuvola, il suo respiro e il suo polso diventano
sempre più deboli, la conoscenza diminuisce;
alla fine, perde ogni sentimento e muore, se non
gli è stato dato aiuto in tempo (1).
Naturalmente, non si può fingere un tale stato
e non si dovrebbe sospettare di frode la persona
malata, a meno che non ci sia un certo
vantaggio: questa malattia fa molto male,
specialmente alle ragazze, per la loro
costituzione; inoltre, il rimedio della musica è
piuttosto costoso, bisogna pagare almeno un
ducato al giorno ai musicisti, senza contare il
dottore, ed il paziente balla per quattro e fino a
_____________________________________
(1) - Tra i fatti autentici raccolti dai medici nella la
provincia di Lecce, citiamo quello di un uomo di San
Vito, tale Giovanni di Tommaso, sul quale il
tarantismo produceva, oltre agli altri sintomi ordinari,
il priapismo più violento: Onde per impedirgli che
facesse movimenti troppo sconci lo fecero ballare colle
mani legate.
95
sette giorni di seguito. Inoltre, questo esercizio,
invece di rendere le ragazze e le donne più
gradevoli, le deturpa; alcune, molto belle prima,
sono diventate in tale occasione molto
sgradevoli; infine, si ha opinione che il male sia
periodico e che ritorni ogni anno fino alla
vecchiaia: c'è molta cura, nelle famiglie di
classe elevata, di nascondere al pubblico la
conoscenza di un tale incidente; se una ragazza
è punta della tarantola, la si fa ballare in un
posto lontano dagli sguardi di tutti.
Non è quindi né per interesse né per piacere
che si fa ricorso a un rimedio costoso, che
scredita così tanto coloro che ne fanno uso, che
a Taranto e in altre città della Puglia, quando si
sa che una donna è stata colpita dal tarantismo
e che ha ballato per guarire sé stessa, si crede di
farle ingiuria venendo a cantare sotto le sue
finestre i brani dedicati alla guarigione della sua
malattia.
Qui si ha l'opinione che i pazienti fuggano la
società, cerchino l'acqua con avidità e vi si
precipitino, anche se sono guardati; si crede
anche che a loro piaccia essere circondati da
96
oggetti dai colori molto vivaci. Ma non ho
notato la loro presunta antipatia per il blu e per
il nero. I nostri vestiti blu e i nostri cappelli neri
non sembrano aver fatto la minima impressione
sulla paziente di cui parlerò, o sugli spettatori,
che ci hanno anche invitato a ballare con lei.
Si sa comunemente che quando l'individuo
affetto abbia perso i sensi, venga chiamato un
musicista che prova diverse melodie molto
allegre su uno strumento, e quando ha
incontrato quella che piace al paziente, si veda
immediatamente quest'ultimo muoversi in
cadenza, alzarsi e mettersi a ballare. Ci è stato
detto che le arie utilizzate per guarire il
tarantismo sono state per molto tempo sempre
le stesse, e che all'inizio erano suonate molto
lentamente e gradualmente divennero molto
vivaci e rapide, come avrete occasione di
giudicare, avendo incaricato uno dei musicisti
di scriverle e darmene una copia.
Lascio questi dettagli, che tuttavia ho creduto
necessari, e riprendo la mia narrazione, che
presenterà i fatti in un modo più veloce e più
97
pittoresco, e soprattutto nello stesso ordine che
avevano colpendo i miei occhi.
Passando sulla banchina del molo, siamo stati
fermati da una folla, che si precipitava alla porta
di una casa dove si sentiva della musica. Ci
hanno fatto spazio e siamo stati invitati ad
entrare in una stanza bassa che serviva da
diversi anni per allestirvi le formalità teatrali da
osservare per la cura del tarantismo. Le pareti di
questa vasta stanza erano adornate con
ghirlande di foglie, bouquets e piante di vite
cariche dei loro frutti. C'erano anche, sospesi
equidistanti, dei piccoli specchi e nastri di tutti
i colori; una grande compagnia era seduta in
giro nella stanza, e l'orchestra ne occupava uno
degli angoli: era composta da un violino, un
basso, una chitarra e una grancassa.
C'era una donna che ballava: non aveva che
venticinque anni, ma noi gliene avremmo dati
quaranta; le sue caratteristiche regolari ma
alterate da un'eccessiva emaciazione, i suoi
occhi spenti e la fisionomia triste e abbattuta,
erano in contrasto con il suo ornato, molto
ricercato e variegato, di nastri e pizzi di oro e
98
argento; le trecce dei suoi capelli erano sciolte e
un velo bianco di garza cadeva sulle sue spalle;
lei stava ballando senza lasciare la terra, con
nonchalance, girando costantemente su se
stessa, molto lentamente; le sue mani
stringevano le estremità di un fazzoletto di seta,
che ondeggiava sulla sua testa, che ha
rovesciato indietro alcune volte: in tal modo,
essa ci offriva la posa delle baccanti che si
vedono su alcuni antichi bassorilievi.
L'aria che veniva suonata in quel momento era
languida, trascinava le cadenze e si ripeteva da
capo fino alla sazietà. Quindi il motivo è
cambiato senza interrompere la misura; questo
era meno lento, e un terzo è diventato più
vivace, svelto e saltellante. Questi pezzi di
musica formavano una successione a rondò, o
ciò che chiamiamo pot-pourri. Si passava
alternativamente dall'uno all'altro, tornando
finalmente al primo, per dare un pó di riposo
alla ballerina permetterle di rallentare i suoi
passi, senza smettere di ballare; essa seguiva il
movimento della musica, e come questo si
animava, lei si agitava e girava con più vivacità;
99
ma il sorriso non rinasceva sulle sue labbra
scolorite, la tristezza era sempre stampata nei
suoi occhi, a volte diretti verso il soffitto, più
spesso a terra, o mossi a caso senza fissarsi su
nulla, anche se abbiamo cercato di distrarla in
tutti i modi. Gli offrivano fiori e frutta; li teneva
per un momento nelle sue mani, e poi li gettava;
gli presentavano anche fazzoletti di seta di
diversi colori; essa li scambiava con i suoi, li
agitava in aria per qualche istante, e poi tornava
a riprendere gli altri. Parecchie donne della
compagnia hanno successivamente figurato e
ballato con lei in modo da attirare la sua
attenzione, e per ispirarla con gaiezza, senza
tuttavia avere successo. L'esercizio violento che
essa sembrava prendere contro voglia, ma per
una naturale spinta irresistibile, dovette
stancarla molto; il sudore scorreva dalla sua
fronte; il suo petto ansimava e ci fu detto che
questo stato sarebbe terminato con una
sospensione totale delle facoltà; che poi
bisognava portarla a letto, e che il giorno dopo,
quando si svegliava, avrebbe ricominciato a
ballare, e che si sarebbe usato lo stesso rimedio
100
per i giorni seguenti, finché non le procurava
sollievo.
Questo spettacolo nascondeva qualcosa di
doloroso, e mi ha profondamente commosso
quando ho appreso la storia di questa
interessante ammalata. Non era stata punta dalla
tarantola, sebbene ne fosse convinta; e la si
lasciava nel suo errore per nasconderle o farle
dimenticare la vera causa della sua condizione,
e per non toglierle alcuna speranza di
guarigione.
Ginevra era il nome della ragazza, ed ecco
l'origine della sua alienazione. A vent'anni,
senza essere la ragazza più carina della sua età,
essa si faceva notare per una fisionomia
piccante e molto espressiva; la sua bocca era
rosea e attraente; i suoi occhi neri erano pieni di
fuoco; il suo corpo era fatto più di flessibilità e
di abbandono che di grazia; il suo carattere,
sebbene buono e sensibile, era ineguale; spesso
gioiosa fino al delirio, si abbandonava poi ad
una vaga tristezza, senza motivo; esagerata in
tutti i suoi sentimenti, spingeva l'amicizia per le
sue compagne fino all'eroismo, e la sua
101
indifferenza per gli uomini fino al disprezzo:
era anche prevedibile che se avesse amato una
volta, sarebbe stato fortemente e per la vita. A
venti anni la sua ora non era ancora arrivata:
essa ha suonato troppo presto per sua disgrazia.
Un giorno stava camminando coi suoi pensieri
malinconici sulla spiaggia deserta di Patrica;
l'aria era stata raffreddata da una tempesta, ed il
mare ancora agitato rovesciava le sue onde sulla
riva. Una barca mezzo distrutta era appena
approdata lì: conteneva un solo uomo. Partito
dal porto di Durazzo per tendere le sue reti,
verso la metà del canale una folata di vento gli
aveva strappato la vela; il suo timone si era rotto
tra le sue mani e, in balia delle onde, la sua barca
era stata gettata sulle rive dell'Italia. Esaurito
dalla fatica, morendo di bisogno, deplorava la
sua disgrazia, quando la ragazza si fece avanti,
gli diede una mano e si offrì di portarlo a casa
di sua madre, che esercitò su di lui con
entusiasmo i doveri dell'ospitalità.
Quest’albanese era giovane; era infelice;
sembrava ragionevole e riconoscente: Ginevra
credette di abbandonarsi al puro piacere che la
102
beneficenza procura, ma l'amore si stava già
insinuando nel suo cuore con i tratti della pietà.
Tuttavia il giovane albanese, combattuto fra il
desiderio di rivedere il suo paese ed il tenero
interesse che lo univa alla sua benefattrice,
finalmente parla della sua partenza. A queste
parole, come un tratto di luce colpisce Ginevra,
chiarendole i suoi sentimenti; lei riconosce
l'amore attraverso l'angoscia che le fa sentire
l'idea della separazione, che era lontana dal suo
pensiero; onesta ma appassionata, non essendo
più in grado di nascondere il suo problema, lei
lo lascia esplodere in tutta la violenza dei suoi
sentimenti; ma esige da questo straniero che
adora, il sacrificio dei legami indissolubili che
lo legano al suo paese. Senza esitare, egli
acconsente. Allora lei stessa sollecita la sua
partenza dall'Italia, dove non può stabilirsi
senza aver prima consultato la sua famiglia.
Viene così fissato il giorno del suo ritorno, e
Ginevra deve aspettarlo sulla costa, nel luogo
stesso in cui gli ha salvato la vita.
Fiduciosa nella sua parola, lei vi si reca molto
prima del tempo concordato; lei conta gli
103
istanti, nel loro fluire con una lentezza
disperata. Tuttavia, il sole sta già tramontando:
preoccupata, lei cammina sulla riva, con gli
occhi rivolti verso il mare, interrogando le onde;
il più leggero respiro di vento, la minima nube
le fanno temere una nuova tempesta. Il giorno
scende, il suo cuore si stringe, e il crepuscolo,
di cui la natura si copre, oscura e disturba le sue
idee; infine, scopre un punto nero all'orizzonte;
si sta avvicinando; è una barca; lei corre verso
la cima della scogliera ed agita un velo cremisi,
il segnale concordato. Lo stesso segnale è
attaccato all'albero maestro della barca: non c'è
più dubbio, questa barca le porta il suo amante.
In effetti, il felice albanese si era imbarcato in
una barca a remi decorata con tutti gli attributi
della gioia. Gli alberi erano addobbati e le vele
di un bianco brillante. Dei musicisti seduti sulla
panca di poppa, facevano risuonare la riva di
accenti felici; la sua famiglia albanese, stava per
partire per stabilirsi nel paese di sua moglie,
conferendo a Ginevra, per la cura e la felicità
del figlio, la loro modesta fortuna e
l'arredamento necessario per la giovane coppia.
104
La barca avanza come in trionfo verso le coste
dell'Italia: già il suono degli strumenti arriva
all'orecchio di Ginevra toccando la superficie
ondulata del mare, calma le sue preoccupazioni
e porta nel suo cuore speranza e sicurezza. La
barca si avvicina: l'amore rende i suoi occhi più
grandi e penetranti; lei distingue, riconosce suo
marito che tende le sue braccia; lei pensa di
sentirlo, e questa illusione rapisce una sua
risposta.
Ma improvvisamente suona in aria un suono
sinistro; una galera barbarica esce da dietro uno
spuntone di roccia che la nascondeva alla vista
di tutti. I suoi numerosi remi salgono a ritmo,
cadendo tutti insieme e le danno un movimento
veloce. Come un avvoltoio che aleggia sull'aria,
si dirige verso la sua preda. A questa vista, non
meno inaspettata che fatale, Ginevra cade in un
cupo torpore; lo spavento incatena le sue
facoltà, solo i suoi occhi mostrano un segno di
vita: essi seguono i movimenti contrari delle
due barche.
La delicata barca a remi fugge e grida di
spavento e di dolore fanno seguito agli accenti
105
gioiosi. Il giovane e coraggioso albanese è
impegnato, con i suoi compagni ad opporre una
vana resistenza…. Le ombre della notte si
avvolgono su questa scena di desolazione,
sottraendola agli sguardi dell'infelice Ginevra
che cade inanimata sulla riva.
Molto tempo dopo, lei esce da un sonno
profondo: apre gli occhi, ma la luminosità del
giorno glieli fa chiudere subito. Lei non può
muovere le sue membra, irrigidite dal freddo
della notte. Comunque le sue idee, dapprima
confuse, ripercorrono la scena del giorno prima;
quindi, disorientata, fa risuonare la costa con il
suo grido di disperazione; lei percorre con gli
occhi l'estensione del canale; nessuna barca sta
attraversando la sua superficie; non c'è più
felicità o speranza per lei; i suoi sensi sono
sconvolti, la sua mente è persa e dalla cima della
roccia precipita nel mare.
Dei pescatori la vedono, si affrettano a venire
in suo aiuto e la portano via a casa di sua madre.
Questo atto di disperazione fu seguito da una
lunga apatia ed una crisi che degenerò
nell'alienazione della sua mente. Ginevra aveva
106
dimenticato la causa dei suoi dolori; lei l'ha
attribuita alla puntura della tarantola. Le fu
mantenuta questa idea facendole sperare che
l'esercizio della danza e gli accordi della musica
placassero l'agitazione dei suoi sensi,
guarendola infine da questa mania malinconica.
107
LETTERA X.
Usi e costumi degli abitanti di Brindisi. Monumenti medievali. - Frammenti e statue
antiche. - La palma di Pontano.
Meno curiosi di conoscere la città di Brindisi,
per distinguere le tracce del vecchio
Brundusium in mezzo alle sue costruzioni
moderne o medievali, eravamo anche meno
desiderosi di comunicare con i suoi abitanti di
cui non saremmo stati in grado di evocare lo
spirito dei degli antenati. Ma, come si dice
"vivere con i vivi" e quindi ci siamo risolti a fare
alcune visite. Abbiamo iniziato con il
governatore di Brindisi; esso non poteva
riceverci, essendo nell'accesso di una febbre
ostinata.
Siamo
stati
poi
condotti
dall'arcivescovo: era anch'egli ammalato ed era
stato portato in campagna. Ne siamo rimasti
un pó contrariati, perché ci era stato presentato
come un uomo di tutto rispetto, studioso,
108
dilettante delle arti e possessore di un gabinetto
molto ricco di oggetti di antiquariato. Ci restava
solo la risorsa dei conventi per avere un'idea
della società brindisina. Non preoccupatevi di
questa affermazione, presto smetterò di
sorprendervi. Chiostro e società: queste due
espressioni erano precedentemente incompatibili; non lo sono state più da allora; i gesuiti
hanno dato al loro ordine il titolo di società, ed
hanno operato una sorta di rivoluzione nei
monasteri che sembrano, a partire da quel
momento, essere divenuti asilo di tolleranza,
gentilezza e piaceri decenti. I religiosi, senza
perdere la dignità del loro stato, hanno assunto
il tono e le buone maniere della buona
compagnia.
Questo cambiamento è particolarmente
sensibile a Brindisi dove, senza esagerare, la
metà degli abitanti della città abita i conventi
(1). La ragione è semplice: in un posto dove non
c'è né industria né commercio, quindi con poche
ricchezze, e dove si è esposti, durante tre quarti
dell'anno, a malattie ostinate, si dovrebbe
109
preferire la vita in comunità a quella famigliare:
è molto meno costosa ed offre risorse molto più
grandi. Inoltre i monasteri hanno un reddito
fisso, e proprietà amministrate con ordine e che,
essendo inalienabili, sono al sicuro dagli eventi
che spesso minacciano la fortuna dei privati.
L'esiguità dei mezzi della maggior parte delle
famiglie, non permette loro di concedersi i
costosi piaceri della società. I conventi vi
suppliscono; vi si trova accoglienza e numerosa
compagnia; vi si praticano diversi tipi di giochi;
vi si fa musica; in una parola, i parlatori
diventano veri e propri salotti, dove ci si può
liberare dall'imbarazzo delle formalità. Non
stupitevi se i giovani, che sono cresciuti fin
______________________________________
(1) - Ci sono diversi monasteri e congregazioni di
donne nobili, sotto la regola di San Benedetto e San
Francesco; dai conventi degli Agostiniani,
Domenicani, Minimi, Carmelitani Scalzi, Cappuccini
di San Francesco; un conservatorio di giovani donne e
signore; un collegio di padri delle Scuole Pie; un vasto
seminario; infine sei confraternite; e la popolazione
non sale che a 6000 anime.
110
dall'infanzia in un luogo che ha solo il nome di
convento senza averne l'austerità, lo
preferiscano ad un mondo che non conoscono, e
perfino alla casa paterna. In effetti, essi non
godrebbero di alcuno dei servizi che questi ritiri
religiosi offrono loro, e dell'attraente
opportunità di poter decidere di pronunciare,
dall'età di quattordici anni, i voti che dovrebbero
fornire loro, per il resto della vita, almeno una
esistenza assicurata, se non del tutto
indipendente. Perciò, il primogenito della
famiglia, destinato a perpetuarne il nome,
eredita la totalità del patrimonio; e i cadetti,
limitati aduna più ristretta legittima, entrano in
qualche comunità, o partono con il mantello e la
spada, in cerca di fortuna altrove.
Abbiamo visitato diversi conventi di donne.
Non appena eravamo annunciati, esse si
accalcavano numerose in parlatorio, mostrando
molta impazienza di vedere i francesi. Ci
rivolgevano domande così insignificanti quanto
le nostre risposte; una musica deliziosa è venuta
111
in nostro soccorso. Credo che solo nei chiostri si
sentano simili voci. I mottetti e gli inni, cantati
con un assieme perfetto, accompagnato da un
clavicembalo e altri strumenti, ha prodotto un
effetto straordinario; ci sembrava di sentire un
concerto eseguito da degli angeli sospesi in aria.
Rinfreschi e ricercata delicatezza sono stati
profusi su di noi, e siamo venuti fuori da questi
monasteri con alcune idee carine. Ci è parso di
scorgere su alcune fisionomie, tracce di
costrizione, di noia e talvolta di allegria forzata;
ma forse questa osservazione era l'effetto di una
vecchia prevenzione, perché, in generale, queste
suore ci sembravano contente del loro destino.
Il loro stesso costume sembrava in contrasto con
i loro modi, e questo le rendeva quasi tutte
fortemente attraenti.
Abbiamo detto che la città è povera; anche
l'interno è triste e silenzioso. È quasi senza
negozi, e quei pochi che si vedono contengono
solo generi di prima necessità. Se si vuole
ottenere un oggetto di lusso, questo deve essere
112
fatto venire, con grandi spese, da Lecce, Barletta
e persino da Napoli. La malattia ha spopolato
intere strade. Si vedono qua e là alcune grandi
case che qui chiamano palazzi. Sono vuoti e
l'erba vi cresce vicino. I proprietari vivono
altrove per godere di un'aria più pura e
un'esistenza più sicura e meno monotona.
Camminando si incontrano poche donne e molti
monaci. Abbiamo contato fino a tre carrozze
gotiche trascinate da muli; contenevano dei
religiosi.
Il porto che dovrebbe offrire un'immagine
animata dal movimento dei mercanti e delle
merci, è tanto poco vivo quanto la città, e
attualmente contiene solo il vascello incagliato
e alcune barche. I lavori ordinati dal governo
languivano; uno di questi occupava solo
detenuti forzati, sorvegliati da un numero quasi
uguale di soldati, per lo più disabili. Il
nutrimento abituale degli uni e degli altri è
costituito da cipolle bianche, di cui alcune
hanno un diametro di sei pollici. La gente non
113
mangia molto meglio; schiere di mendicanti
assalgono le porte di chiese e conventi dove
viene distribuita della zuppa. La miseria è così
grande e gli ammalati così numerosi, che un
ospedale non è sufficiente ed è necessario
stabilirne un secondo. Gli abitanti della
campagna sembrano godere di una maggiore
agiatezza, almeno a giudicare dai vestiti delle
loro donne, che sono molto ricercati.
In generale, non c'è, credo, nessun paese dove
i costumi siano più eleganti e più ricchi che nel
regno di Napoli (1); loro variano da cantone a
cantone, da villaggio a villaggio, e presentano
delle singolarità rimarchevoli che sarebbe
troppo lungo descrivere. Alcuni di questi
aggiustamenti potrebbero essere usati dalle
nostre signorine più eleganti, e di sicuro
starebbero loro molto meglio di mode strava______________________________________
(1) - Esistono a Napoli delle collezioni di questi
costumi, eseguiti in scala abbastanza grande, e colorati
con cura.
114
ganti che ora adottano e che per fortuna non
durano più del capriccio di chi le ha fatte
nascere.
I costumi degli abitanti di Brindisi ci sono
sembrati singolari, meno nelle donne, che
adottano pressappoco le mode francese e
inglese, che negli uomini, che vestono ancora
come noi cinquant'anni fa. In effetti, le nostre
mode vanno in giro per l'Europa; ma non
raggiungono che molto tardi le sue estremità.
Parigi è un centro di attività che in questo campo
esercita la sua influenza con meno forza man
mano che ci si allontana da esso. Questa capitale
dell'impero della moda non ne prende, per così
dire, che il fiore che va dalla mattina alla sera.
Portata nelle province vicine, dura un pò di più;
e finalmente, arrivata più tardi nei paesi
stranieri, lei prende in qualche modo radice, e vi
si acclimata per lungo tempo.
Parliamo ora dei principali monumenti di
Brindisi. Le chiese sono quasi tutte di stile
Normanno; non molto interessanti dal punto di
115
vista artistico, esse sono costruite su fondazioni
romane, o con materiali antichi, spesso usati in
maniera inadeguata; per esempio, entrando in un
portico, abbiamo calpestato un bassorilievo
antico di marmo, che, usato come gradino per
diversi secoli, si era quasi consumato per attrito:
abbiamo comunque riconosciuto nella linea
delle figure, una composizione ben concepita e
piena di movimento. Per il resto era troppo
malridotto per poterne indovinare l'argomento.
Abbiamo notato la facciata di una piccola
chiesa, anche di costruzione normanna; gli
ornamenti, molto numerosi, erano scolpiti con
una rara delicatezza ed anche composti con
gusto. Diversi campanili erano di una
architettura audace ed elegante; ma solo un
edificio, abbastanza ben conservato, ci ha
offerto lo stile antico in tutta la sua purezza; è
aperto in tutta la sua facciata da due grandi
portici a tutto sesto, con gli archivolti poggianti
su dei piedritti, composti da due dadi, di cui
quello inferiore molto più sporgente. Il piano
116
superiore è forato da quattro archi dello stesso
stile, coronato da una trabeazione a modiglioni.
Lo schizzo allegato (Fig. 4) darà un'idea più
precisa di questo monumento, che a noi è
sembrato di grande carattere. Abbiamo anche
disegnato una figura molto bella in marmo
bianco, abbandonata sulla riva, e le cui mani
erano state mutilate. Si vede che la testa era stata
precedentemente staccata, e si notano le tracce
dei ramponi che la legavano al collo. Questa
statua (1) è quella di una donna seduta su una
specie di tronco d'albero: lei indossa una tunica
con piccole pieghe, di tessuto estremamente
fine, incrociata sul seno, e stretta sotto da una
cintura; un ornamento rotondo, che sembra un
medaglione, è appeso al collo da un largo nastro,
e le cade nel mezzo del seno; un mantello,
arrotolato attorno al braccio sinistro, passa
dietro i reni, copre un ginocchio e cade a grandi
______________________________________
(1) - Per una coincidenza esemplare, la ripetizione di
questa figura è a Roma. È incisa nel libro intitolato:
Museo Pio-Clementino, 1° vol.
117
Figura 4
118
pieghe attorno alla figura; i piedi sono nudi, ma
stretti con strisce incrociate che passano tra il
pollice e il secondo dito, e sono unite da un
ornamento a forma di cuore. Questa figura è di
buona fattura: il nudo è ben accentuato
attraverso la tunica e l'altro drappeggio è di
ottimo gusto. Non mi concedo, per il momento,
nessuna riflessione su questa statua che è stata
trovata nel porto, insieme ad altri frammenti che
consistono in una gamba di tavolo, terminante
con una testa di grifone che emerge da alcuni
avvolgimenti, di stile molto bello, ed una
ciotola, anche in marmo bianco, i cui profili e la
forma ci sono sembrati singolari (Fig. 7). Ci
vorrebbe molto tempo per disegnare e
trasmettere il piano di tutte le rovine che ci
circondavano: terme, tombe, mosaici, vecchie
mura, alle quali erano state assegnate sontuose
denominazioni; qui, la casa dove Virgilio è
spirato; vicino, quella dove Cicerone, divorato
dalle preoccupazioni e fluttuante tra i due
famosi rivali che si disputavano l'impero del
mondo, attendeva l'epilogo di quella grande
119
tragedia; più oltre, i resti del palazzo abitato
alternativamente da Pompeo e da Cesare;
ovunque ricordi, e niente di più. Inoltre, anche
se l'interno della città appare triste e desolato, le
linee dei fabbricati offerte dalla sua periferia,
sono di uno stile bellissimo. Palme e altri alberi
alzati qua e là attraverso i vuoti delle case,
rendono l'aspetto generale tanto pittoresco
quanto gradevole (Fig.6) (1). Queste palme mi
ricordano la storia raccontata da Giovanni
Pontano, precettore di Alfonso d'Aragona, re di
Napoli, verso la metà del XV secolo. Sappiamo
che la palma non darebbe frutti se non fosse
nelle vicinanze di un albero della stessa natura,
ma di sesso diverso, essendo la polvere fecon______________________________________
(1) - Le figure 5 e 6, possono dare un'idea delle
costruzioni di Brindisi; la visione generale di questa
città, essendo tutta in lunghezza, era troppo estesa per i
due luoghi in cui mi ero trattenuto a disegnarla; inoltre,
non si poteva abbracciare l'intero insieme con una sola
occhiata dal lato del porto, e questo dalla terra era poco
interessante.
120
dante portata dall'uno all'altro tramite il vento.
Pontano racconta in latino, in modo molto bello,
che ai suoi tempi vivevano due palme, la prima,
un maschio, cresceva a Brindisi e l'altra una
femmina, era nei boschi di Otranto.
Quest'ultima vegetava, già da diversi anni, senza
dare frutti, finché, essendo salita al di sopra
degli altri alberi della foresta, potette vedere,
dice il poeta, la palma maschile di Brindisi; e pur
essendo questa lontana più di quindici leghe,
essa cominciò a dare buoni frutti e continuò a
darne in abbondanza. Questo fenomeno ha
fortemente imbarazzato gli antichi, che ne
attribuirono la causa a una sorta di occulta
simpatia. Il buon La Fontaine avrebbe potuto
dire loro: Les mystères de leur amour sont des
objets d'experience; ce n'est pas l'ouvrage d'un
jour que d'epuiser cette science.
121
Figura 5
122
LETTERA XI.
Dissertazione sulle colonne colossali di
Brindisi, e sulle altre antichità di questa città
(1).
Entrando nel porto di Brindisi, i primi oggetti
che si offrono allo sguardo del viaggiatore,
rievocano grandi ricordi. Una colonna
dall'aspetto colossale che si eleva su una sorta
di promontorio, ed il cui ricco capitello in
marmo domina le altre costruzioni, segnala,
per così dire, l'esistenza della prima
Brundusium; a lato si vede, su un altro
piedistallo, la base di una colonna simile, il cui
tronco è stato rotto.
_____________________________________
(1) - Questo saggio, insieme a molti altri pezzi legati
alle arti e alle antichità, fu letto alla Reale Accademia
delle Belle Arti (francese). Alcune note e alcuni
frammenti sono stati inseriti nel "Moniteur" e in altri
periodici.
123
Questo monumento è, senza dubbio, il più
notevole della città e l'unico forse, della sua
specie, che è sfuggito alla fame del tempo.
Inoltre, esso ha eccitato vivamente la nostra
curiosità. Senza dubbio esso meritava di essere
sottoposto a un serio esame; ne stiamo
studiando attentamente l'origine, l'uso a cui era
destinato, e cerchiamo di determinare le
sue
proporzioni: tuttavia, esso è stato
disprezzato da molti scrittori di viaggi, che lo
hanno solo menzionato molto superficialmente; e, cosa singolare ed incredibile, lo
storico della Via Appia, lo stesso Pratilli, non
trae alcuna conclusione da queste due colonne,
che avrebbero dovuto formare, in maniera
interessante e naturale, la conclusione del suo
lavoro, così come concludono, secondo quanto
appare, il famoso percorso della via consolare.
Egli dice vagamente che molte rovine, e
specialmente due colonne alte e belle, non
lontano dalla chiesa principale offrono le
tracce della magnificenza dell’antica Brindisi.
124
Figura 6
125
Altri scrittori di viaggi hanno imitato il
laconismo e l'indifferenza di Pratilli. Non
hanno fatto altro che riportare l'iscrizione letta
sul piedistallo di una di queste colonne; anche
le descrizioni che ne fanno, tutte molto diverse
tra loro, sono molto difettose. De Saint-Non,
nel suo "Viaggio pittoresco", scrive che questo
monumento è sproporzionato, e che il capitello
è notevole solo nella composizione: vediamo,
dice, quattro figure di Nettuno «che formano
come tante cariatidi su ogni angolo del
capitello; delle figure di donne occupano
ciascun lato, e otto tritoni, sotto forma di
volute, sono in ogni angolo. Questo singolare
capitello era sormontato da un piedistallo che
avrebbe potuto portare una statua, e che oggi
supporta solo una cattiva trabeazione».
Questo capitello sarebbe davvero molto
singolare, se fosse così come questa
descrizione lo rappresenta. Le cosiddette
figure di Nettuno non sono negli angoli, ma nel
bel mezzo di ciascuna delle facce del capitello.
Al contrario, le figure di donne sono
126
raggruppate, a due a due, agli angoli, e le loro
braccia, riunite e curvate, occupano il posto
delle volute. Al posto di sedici figure
bizzarramente composte, noi ne abbiamo
riconosciute dodici, che ci sono sembrate
raggruppate con grande intelligenza e buon
gusto. Inoltre, non abbiamo riscontrato alcuna
trabeazione sul capitello, che in realtà è
sormontato da un basamento circolare, della
proporzione e il profilo di un architrave.
La descrizione di questo monumento, fatta
dal barone Riedesell nel suo libro "Viaggio in
Sicilia e in Grecia", è più verosimile, anche se
si sbaglia ancora sul numero delle figure. Egli
ne conta solo otto; ma mette almeno al loro
posto le quattro grandi divinità che dice essere
Giove, Ercole, Nettuno e Plutone. Pigonati,
uno degli ingegneri incaricati nel 1775 dei
lavori di riapertura del porto di Brindisi, e che
ha fatto un lungo soggiorno in quella città,
descrive questo capitello in maniera più
accurata, anche se un poco differente dal
127
disegno che ne diamo noi (Fig. 7). Esso è
adornato, dice, con dodici figure in busto,
quattro nel mezzo di ogni faccia, che
rappresentano Giove, Nettuno, Pallade e
Marte; gli altri otto sono tritoni che, con i loro
corni ricurvi formano gli angoli.
La differenza che esiste tra questa
descrizione e il nostro disegno deriva forse
dall'aspetto sotto il quale abbiamo considerato
questo
capitello.
Inoltre,
il
lavoro
approssimativo e grossolano non consente di
distinguere perfettamente gli attributi di tutte
queste figure, i cui caratteri sono molto vari.
Le imperfezioni e le mutilazioni che si notano,
possono risalire all'epoca del restauro del
monumento, che è molto più tardi della sua
costruzione, perché queste figure sono di uno
stile che indica quello dei bei tempi
dell'architettura e della scultura dei Romani.
Per quanto riguarda la proporzione di queste
colonne, essa sembra essere vicina a quella che
noi attribuiamo all'ordine corinzio; essa è
128
elegante, ed è in rapporto col piedistallo, che
dovrebbe occuparne circa un terzo dell'altezza.
L'abbiamo stimata per approssimazione, non
potendo misurare accuratamente questo
piedistallo e la base della colonna; per questo
motivo, le nostre misure non concorderebbero
con quelle fatte da altri viaggiatori. Noi
abbiamo stimato circa settanta piedi per
l'altezza totale del piedistallo e della colonna,
compresa la base, il capitello e il tamburo ad
architrave. Secondo il de Saint-Non, questa
altezza sarebbe di cinquantadue piedi, e
secondo Riedesell di circa quarantatre. Si può
concludere che entrambe le fonti abbiano
ignorato il piedistallo, intendendo parlare solo
della colonna; ma per Riedesell, che ne fissa il
diametro a tre piedi e nove pollici, la canna
sarebbe alta solo trenta piedi, mentre, secondo
il nostro calcolo basato su un diametro di
cinque piedi, deve essere alta quarantuno piedi
e mezzo. Queste differenze possono essere
solo il risultato della disattenzione e della
mancanza di interesse che questo monumento
129
aveva ispirato finora; e sebbene rimpiangiamo
molto le circostanze critiche in cui ci troviamo,
che non ci hanno permesso di eseguire il nostro
lavoro in maniera più accurata, speriamo che il
nostro disegno ripristini, almeno i fatti
materiali, in un modo più probabile. Vogliamo
che ciò sia lo stesso per gli altri punti
controversi che dobbiamo ancora esaminare.
Ci siamo poste due domande importanti:
quale è il periodo dell'erezione delle due
colonne di Brindisi? Quale era la loro
destinazione originale? L'iscrizione che
leggiamo ancora su uno dei piedistalli non può
essere di grande aiuto per noi, perché essa ne
menziona solo il recupero da parte dei
cittadini. Questa iscrizione (Fig. 7) recita:
«illustris pius actibus atque refulgens
Prothospata Lupus urbem hanc struxit ab imo
quam imperatores, pontificesque benigni . . . ».
Ma, chi era questo Lupus che nessun altro
monumento menziona? Alcuni autori lo
confondono con un Lupo Protospata, autore di
una cronaca del dodicesimo secolo. Noi credia130
Figura 7
mo più comunemente che questi versi siano
stati incisi dai brindisini in riconoscimento e
memoria perpetua di Lupo Protospata
131
(governatore) che, per ordine dello imperatore
Basilio, ha restaurato e in parte ricostruito la
città di Brindisi, saccheggiata intorno al 979
dai Saraceni. Per il resto, non sappiamo perché
questa iscrizione non sia stata completata;
Andrea Della Monaca, storico di Brindisi,
pensa che la continuazione di questi versi sia
stata rintracciata sull'altro piedistallo nell'anno
1670, ma era già così consumata dal tempo,
che era impossibile leggerne il fine, che era
quello di elencare i benefici e le grazie
concessi alla città dagli imperatori.
Comunque sia, questa iscrizione risale
evidentemente ai tempi del Basso Impero; la
croce che la precede indica che è posteriore al
periodo di Costantino, tempo di decadenza per
le arti ed in cui era impossibile produrre un
monumento di questo stile, per la bellezza dei
profili e le proporzioni generali; il capitello
sarebbe in notevole contrasto con le
produzioni di questo periodo, per le divinità
pagane
che
vi
sono
rappresentate,
132
probabilmente mutilate di proposito per
rimuoverne
gli
attributi
che
le
caratterizzavano, senza tuttavia renderle
irriconoscibili. Queste colonne sono quindi
molto antecedenti al tempo del restauro della
città, e si può audacemente farne risalire
l'erezione al tempo dei primi imperatori.
Secondo le vecchie cronache, sarebbero state
erette da Brento, figlio di Ercole, in memoria
di suo padre, o ad imitazione di quelle che
questo eroe aveva eretto alla fine della Spagna.
Questo, secondo lo storico Andrea Della
Monaca, sarebbe poco probabile, perché, dice
ingenuamente, le colonne non presentano i
caratteri di una tale antichità: la loro massa e la
loro solidità, che non sono paragonabili a
quelle delle piramidi d'Egitto, non avrebbero
potuto resistere per quasi quattromila anni. Ciò
può essere provato, aggiunge, dal capitello su
cui vediamo scolpita la figura di Nettuno, mito
che risulta essere posteriore di trecento anni a
quello dell'Ercole libico, padre di Brento. Si
133
potrebbe dire al massimo che furono i suoi
posteri ad alzare queste colonne in onore di
Brento, fondatore di Brindisi. Riportiamo
questo ragionamento singolare solo per dare
un'idea delle favole che ci piace vendere al
mondo in buona fede.
Si sostiene anche che ci siano delle medaglie
antiche di Brindisi dove si vedono le colonne
e, sul retro, un uomo sopra un delfino (1). Ma
temo che queste cosiddette medaglie non siano
altro che monete coniate in questa città,
durante il regno di Ferdinando d'Aragona.
Anzi, per premiare gli abitanti della loro
fedeltà e dei servizi resi negli anni, questo
principe permise loro di scolpire le due colon_____________________________________
(1) - Le medaglie di Brindisi mostrano un uomo sopra
a un delfino, che tiene in una mano una vittoria, e
nell'altra una lira. Si crede che si tratti dello stesso
Brento. Su altre medaglie si vede l'ulivo, o un vaso, o
una stella, o una testa di Nettuno incoronato dalla
vittoria; ma non abbiamo potuto scoprire le colonne.
134
ne sui loro scudi e di comporre l'impronta delle
monete d'oro, d'argento e di rame, coniate a
Brindisi, con questo risalto: Fidelitas
brundusina. In tale occasione i brindisini
scolpirono il loro stemma su una base di
marmo con questa iscrizione: «Stemma
Brundusii marmor geminaeque columnae
domus Arragoniae gloria prima sumus» a
testimoniare di essere obbligati sia nei
confronti di Ferdinando, per i suoi benefici alla
città, sia verso Brento, il suo fondatore, in
memoria del quale avevano originariamente
eretto le colonne (1).
Se le medaglie e gli altri monumenti storici
_____________________________________
(1) - Lo stemma della città ricorda quello che dice
Strabone sul nome di Brundusium, che nella lingua
antica dei Messapi significa testa di cervo;
designando così la forma del porto, che si divide in
due rami che abbracciano la città. Questo stemma
offre quindi una testa di cervo, e, tra i boschi, due
colonne sormontate da una corona che le unisce.
135
non tengono traccia delle colonne di Brindisi,
e se gli storici non ne fanno menzione, non
significa che la loro esistenza non risalga al
tempo dei romani. Noi non possiamo darne
altre prove se non attraverso le osservazioni
già fatte sullo stile di questo monumento, e
che, pur convincendo, acquisiranno un più alto
grado di credibilità se collegate a ciò che ho
ancora da dire su questo monumento.
Vediamo ora se sarà più facile determinare lo
schema di erezione di queste colonne.
Appartengono ad un altro edificio, oppure
formano da sole un monumento completo? e in
quest'ultimo caso, a cosa servivano? Hanno
uno scopo di utilità o uno scopo ornamentale?
Alcuni ne fanno un monumento trionfale, altri
un faro; infine, si ritiene che esse indichino il
termine delle strade romane in Italia.
Esamineremo in poche parole ciascuna di
queste opinioni. Quella che vuole che
queste colonne appartengano ad un immenso
monumento di cui sarebbero gli unici resti, non
136
meriterebbe di essere discussa. L'ispezione
accurata del luogo, la loro proporzione
colossale, la forma e la spaziatura dei
piedistalli e specialmente il tamburo rotondo
che incorona la testa e che non può aver
supportato che una statua o qualche oggetto di
ornamento, tutto dimostra che queste colonne
erano isolate, molto simili a quelle con cui gli
antichi ornavano la "spina" dei loro circhi.
L'opinione, poco credibile, di Riedesell era
che queste colonne fungessero da faro per
mezzo di una trave trasversale a cui erano
legate un certo numero di lanterne. Questo
armamentario di lanterne che doveva essere
abbassato e rialzato per mezzo di funi e
carrucole, sarebbe stato di cattivo effetto per il
gusto degli antichi: loro davano ai loro fari un
carattere di grandiosità e solidità molto diversi.
Inoltre quello di Brindisi andava situato
all'ingresso del porto, in un locale molto più
adatto; ne è esistito uno ai tempi
dell'imperatore Basilio: era una torre alta che
serviva, durante il giorno, ad osservare l'arrivo
137
delle navi e da faro durante la notte. Ma più
tardi, questa torre è andata in rovina, e siccome
non si poteva fare a meno di un segnale per
guidare le navi all'ingresso dell'Adriatico,
mare temuto dai marinai e fertile di naufragi,
si pensò di utilizzare le colonne, estendendo
dall'una all'altra una traversa di bronzo, a cui
era appesa una lanterna dorata. Questo fatto
potrebbe aver dato origine all'opinione di
Riedesell; ma lui dimostra allo stesso tempo
che se queste colonne erano servite come faro,
ciò era solo momentaneamente, e non erano,
originariamente, destinate a questo scopo.
L'opinione più fondata e quella secondo cui,
probabilmente, queste colonne indicavano la
fine delle vie consolari romane in Italia; esse,
come le colonne di Ercole, designavano i limiti
del mondo allora conosciuto, o meglio la fine
delle fatiche di quel semidio. Ecco
un'obiezione tratta dal carattere dei romani e
dall'idea che essi avevano mentre stavano
costruendo il loro impero. Come credere infatti
138
che il popolo sovrano, proprio nel periodo più
brillante della sua gloria, e nel momento in cui
le sue conquiste erano le più vaste, abbia
voluto in qualche modo porne egli stesso i
limiti? Al contrario, lungi dal considerare
Brindisi come la fine della via Appia, e
ignorando il braccio di mare che separava
questa costa dell'Epiro, i Romani avevano la
pretesa di andare da Roma ad Atene e a
Bisanzio, sulla stessa strada a cui
continuavano, per così dire, a dare il nome di
via Appia; e questa orgogliosa finzione non
sarebbe stata d'accordo con l'idea di erigere un
monumento a Brindisi, che sembrava limitare
i loro possedimenti a questa costa. Solo con
una distinzione, più sottile che soddisfacente,
possiamo superare questa difficoltà, partendo
cioè dal presupposto che i romani non abbiano
attribuito, propriamente parlando, il nome di
patria solo a Roma e al resto d'Italia. Tutto ciò
che era fuori da questi limiti naturali, e
specialmente i paesi d'oltremare, doveva
essere considerato come straniero, ed era
139
infatti diviso in province governate dai
proconsoli. È quindi solo lasciando Brindisi,
che il cittadino romano lasciava davvero la sua
patria; egli considerava questa l'Italia, che
riuniva tutto come in un termine sacro che solo
un naturale desiderio di rivederla poteva
esprimere. Era fin là che egli accompagnava i
suoi genitori e i suoi amici quando partivano
per la guerra o per lunghi viaggi. E nello stesso
posto veniva, al loro ritorno, per godersi i loro
primi abbracci. Non erano queste ragioni
sufficienti a fargli erigere a Brindisi un
monumento, tanto più straordinario quanto la
sua gioia o il suo rimpianto nel rivederlo?
Senza dubbio, queste colonne supportavano
statue, come mostra la base rotonda ancora
esistente; ma non c'è indicazione che, come
colonne trionfali, abbiamo sostenuto quella di
qualche imperatore. D'altronde, la stessa forma
a tamburo che non finisce con un cappello
emisferico, come quello delle colonne Traiana
e Antonina, ci indurrebbe a credere che questa
140
base ha supportato una figura seduta.
Spingiamo oltre la supposizione e
riconosciamo in queste statue le figure
dell'Italia e della Grecia personificate, riferite,
per allusione, alle coste dei paesi
corrispondenti, che sono separati solo da un
canale piuttosto stretto. Sarei perfino propenso
a credere che la statua di marmo che ho già
descritto, trovata durante le ricerche nel porto
e non lontano dalle colonne, sarebbe una di
queste due figure. La sua proporzione, che è
circa la stessa di quella del capitello, la natura
del marmo, la base rotonda e dello stesso
diametro della base dell'architrave, rende
questa opinione abbastanza probabile.
Quindi dobbiamo supporre che le colonne
siano state erette alla fine della via Appia, e
che dominano il porto di sbarco e il luogo
pubblico. Questo sarebbe facile da verificare,
esaminando il sito con più attenzione. Forse
dovrebbero essere qui discusse le varie
opinioni e pesate le testimonianze di una
141
schiera di autori, per poter impostare la vera
storia della famosa via Appia. Preferiamo
rinviare i nostri lettori al libro del Pratilli, e noi
riportiamo, così come lui stesso, la
testimonianza formale e inconfutabile di
Strabone. Vedremo questa famosa antica via
partire da Roma ed arrivare, in linea retta, fino
a Capua; lì, dividersi in due rami, uno dei
quali, mantenendo il nome di Appia e di via
militare, va a Brindisi, passando per Taranto;
l'altro, considerato il percorso dei mulattieri,
attraversa le terre dei Peuceti e dei Dauni,
guadagna le rive del mare, prosegue attraverso
Egnazia, e arriva anche a Brindisi,
attraversando il braccio nord del porto,
mediante un ponte; il primo (1) ramo in_____________________________________
(1) - Noi differiamo qui di opinione con Pratilli, che
crede che le tracce della via Appia si debbano cercare
verso la porta di Mesagne, e sulla strada per questa
piccola città, che è in direzione di Taranto. Noi
crediamo che i resti di questa via siano situati più a
sud, e in linea con l'antico acquedotto che è ancora
visibile da questo lato.
142
vece, conduce alla città da sudovest, la taglia
per tutta la sua larghezza e termina sul porto,
di fronte alle colonne ed al suo imbocco nella
rada. La traccia di quest'ultimo sentiero è così
profondamente impressa nel terreno, e così
facile da seguire attraverso la città, che divide
in due, che è molto strano che Pratilli non lo
abbia riconosciuto, lasciando a noi
l'opportunità di tracciarne gli sviluppi in
questo grande e magnifico libro, che sembra
piuttosto un’opera accademica.
L'aspetto della città, entrando nel porto,
indica che essa si adagia su due colline
separate da uno stretto avvallamento, ora
coperto di case. Ma, un più attento esame sul
campo, ci convince facilmente che questo
avvallamento è solo un taglio o una trincea
praticata dalla mano dell'uomo nella massa
della collina su cui è costruita la città, e che si
estende in linea retta fino alle colonne e al
porto. Questa trincea sale, con delicata
pendenza, fino alla fine della città moderna,
riducendo quasi a nulla il suo dislivello dalla
143
terra che la circonda. Essa, che divide ancora
la città in due, fu formata in precedenza,
secondo lo storico di Brindisi, come un vasto
bacino dove l'acqua del mare si intromise per
una distanza di circa cinquecento passi,
estendendosi fino alla piazza bassa e fino ai
cosiddetti giardini Urso Lilli e Oliva Cavata.
Ora il terreno si è alzato di molto, e non rimane
più alcuna traccia della presenza del mare
in questo posto, tranne che alcuni ritrovamenti
di ancore di navi ed antichi relitti marini.
Questo terreno, anche se in parte coperto da
edifici già molto vecchi, è ancora molto umido
e malsano (1). Nel mezzo si trova la piazza De
Marco, e nelle vicinanze, le rovine di un
magnifico edificio costruito, si dice, dai
Romani, dove si amministrava la giustizia.
_____________________________________
(1) - Secondo Andrea della Monaca, possiamo
riconoscere la direzione di questa trincea nel piano
della città fornito dal Pigonati. Egli lo descrive come
segue: Seno nel porto interiore che esisteva nei tempi
di Strabone.
144
Questa basilica, trasformata in palazzo, che era
servita come dimora al Duca di Atene, nel
1674 era già in rovina. Ci sono ancora, su
questo lato e nelle vicinanze, alcune colonne.
Una volta esisteva qui vicino un tempio,
dedicato ad Apollo e Diana, nella cui posizione
e con i suoi detriti, re Ruggero fece costruire la
cattedrale, intorno al 1140. Salendo, attraverso
i giardini, verso le mura, tra le cosiddette porte
di Mesagne e Lecce, che al tempo dei romani
erano comprese nelle mura della città, allora
due terzi più grande di quanto non sia
attualmente, notiamo un acquedotto che segue
la direzione della trincea, e poche altre
costruzioni antiche in cui, per la loro distribuzione e per la vicinanza dell'acquedotto, si
potrebbero riconoscere una riserva d'acqua e
dei bagni termali.
Questa esposizione dello stato attuale dei
luoghi, sembra descrivere un piano generale,
secondo cui esisteva, verso la parte più bassa
vicino al porto, un grande bacino a forma di
145
parallelogramma, riempito dalle acque del
mare e delimitato su quel lato dalle due
colonne, la cui roccia fresca formava come una
specie di palo isolato; all'altra estremità, c'era
una piazza, che può essere considerata come il
"foro" della città antica, e che si trovava lungo
il
prolungamento
della
via
Appia.
Immaginiamo questa piazza circondata da
palazzi e templi e la vasca interna riempita
dagli arsenali della marina, pieni di navi, in
costruzione o in carenatura, o al momento di
salpare; gettiamo infine gli occhi su queste
due belle colonne di marmo (1), oltre le quali
_____________________________________
(1) - La direzione di questa valle fittizia non passa per
la nuova bocca d'ingresso (il canale Pigonati), ma,
restaurando per questa bocca la direzione che essa
aveva in origine, attraverso le corrosioni del terreno
che ancora si vedono, si trova che l'asse della via
Appia e del bacino dovevano passare tra le due
colonne, seguire il centro dell'antica imboccatura del
porto e dirigersi verso la punta dell'isola situata nel
mezzo del porto esterno.
146
possiamo vedere lontano la bocca del porto e
anche il mare aperto. Certamente, questo colpo
d'occhio, davvero unico, era degno delle
persone che giustamente si definivano i
sovrani del mondo. C'era indubbiamente anche
un molo alto, che occupava l'ingresso del
bacino interno, e lasciava abbastanza spazio da
ciascuno lato per l'entrata e l'uscita delle navi
(1); era, dico, su questa piattaforma, tra le
colonne e su delle tribune, che si
posizionavano i comandanti e gli ufficiali
militari che dovevano ispezionare il lavoro del
porto e passare in rassegna le triremi, cariche
di truppe, che partivano per qualche spedizione
lontana. Era anche lì che si consultavano le
viscere delle vittime sacrificali per trarne
presagi per il successo delle armi romane, e si
offrivano sacrifici alle divinità marine, in
riconoscenza di quegli stessi successi.
_____________________________________
(1) - All'ingresso del porto di Traiano ad Ostia, c'era
anche un molo isolato che lasciava due uscite
abbastanza strette alle navi.
147
Era infine nella piazza adiacente, che si
radunavano i mercanti di tutte le parti del
mondo, e dove forse è nato l'uso del "brindisi"
che si faceva al momento della partenza. E fu
in
questo
stesso
foro,
occupato
successivamente dalle truppe di Pompeo e di
Cesare, che Cicerone fu preso da quella
"tragica incertezza"; e fu ancora qui che Orazio
lasciò Mecenate e Virgilio partendo per la
Grecia, e che Agrippina approdò portando con
sé le ceneri di Germanico.
Questo posto, così ricco di ricordi, è ormai
diventato quasi irriconoscibile agli occhi poco
esercitati; tuttavia siamo riusciti, con il potere
dell'immaginazione, a trarre fuori dalle rovine
il maestoso monumento di Brindisi, abbiamo
scavato il suo bacino interno e disegnato il
luogo del suo antico foro. Tuttavia, daremo
questo piano di ripristino solo come una sorta
di programma che servirà da indicazione e
punto di paragone ad un altro osservatore, in
possesso dei mezzi che ci sono mancati per
148
estendere e completare questo lavoro, a cui
forse abbiamo dato troppa importanza, ma sul
quale non mi preoccuperò di restare più a
lungo.
149
LETTERA XII.
Relazione di una escursione fatta dal mio
compagno di viaggio nell'entroterra; il suo esito
infelice.
Siamo stati spesso cullati dalla romantica idea di
compiere il nostro viaggio in Italia, alla maniera
degli antichi filosofi, un sacco in spalla e il
bastone bianco in mano. Ne abbiamo avuto
l'esempio da alcuni artisti, pittori paesaggisti,
che attraversavano monti e valli, per fermarsi
quando trovavano del materiale da disegnare;
così erano state esplorate la Svizzera, l'Italia e
soprattutto i dintorni di Napoli e Roma; ma
nessuno aveva ancora tentato la lunga traversata
della pianura pugliese: sono luoghi aridi, privi
d'acqua, spogli e senza alberi; non presentano
alcun oggetto pittoresco, e nulla può
compensare la fatica che si sperimenta e i
pericoli che vi si corrono in questa stagione; il
viaggiatore è esposto, sera e mattina, alla
malvagia azione della nebbia, e il resto della
150
giornata a quella di un sole cocente. Dopo una
dolorosa passeggiata, non vi si trova, per rifugio,
che la capanna di un pastore, o le quattro mura
di una foresteria. Questo era il quadro poco
lusinghiero che i nostri amici hanno tracciato per
noi, per farci schifare un tale imprudente
progetto, al quale avremmo dovuto rinunciare
senza difficoltà. Il mio compagno di viaggio non
era convinto dell'impossibilità di eseguire una
simile impresa; voleva conoscerne gli
inconvenienti ed i vantaggi, e cedere solo dopo
averli giudicati da sé. Così, lui ha deciso di fare
una corsa dalle parti di Lecce, capitale della
provincia; e se avesse avuto successo, saremmo
poi partiti in compagnia verso Napoli e Roma, e
Dio sa fin dove altro . . .
È partito per la sua avventurosa escursione,
con un equipaggiamento modesto: lo zaino in
spalla, la spada al lato, una borraccia, tavolette,
matite e l'indispensabile album da disegno. Non
vedo l'ora che arrivi il risultato di questo
imprudente tentativo. Il rimpianto di trovarmi
solo; il desiderio di distrarmi dall'assenza del
mio amico, quello di testimoniare ai nostri amici
151
di Brindisi la nostra gratitudine per la loro
accoglienza, mi fece commettere un'imprudenza
di un altro genere. Avevo deciso di procurarmi
il piacere di una serenata alle signore della
nostra compagnia, percorrendo così la città,
scortato da una troupe di musicisti. Questo
intrattenimento, era a malapena in uso a
Brindisi, probabilmente a causa della maligna
influenza dell'aria durante la notte. Non avevo
comunicato il mio progetto a nessuno, neanche
a Don Pippo, e mi sono trovato allo scoccare
della mezzanotte sotto le finestre delle nostre
bellezze veneziane.
Il più grande silenzio regnava in città; tutti
dormivano o andavano a dormire. Io do il
segnale: il primo arco della mia orchestra
produce un buon effetto: fagotti, corni, clarinetti
e il tamburo basco, rinforzano l'armonia ed echi
di meraviglia si affrettano a ripetere le ultime
misure del nostro concerto. Si svegliano: le
finestre e le persiane si aprono; appaiono delle
luci a rischiarare il fascino piccante di qualche
vestaglietta. Così proviamo una di quelle
melodiose barcarole che queste signore ci
152
avevano insegnato durante la nostra prigionia.
Applaudono; buttano dei mazzi di fiori per
ringraziarmi della sorpresa galante che ho
riservato loro. Andiamo oltre a ripetere la stessa
serenata sotto le finestre di tutte le nostre
conoscenti; quasi tutta la notte passa in questa
piacevole occupazione; e mi accorgo della
imprudenza commessa solo quando sono
tornato a casa, penetrato da una fredda umidità,
e colto da un brivido che mi annunciava una
violenta febbre. In effetti, l'accesso fu molto
forte, e mi impedì di alzarmi il giorno dopo.
Dovevo pranzare con i nostri amici; preoccupato
di non vedermi arrivare, don Pippo arriva
correndo e mi trova in condizioni precarie;
l'allarme si diffonde nella cerchia degli amici: le
signore, causa innocente della mia disgrazia, mi
mandano delle fasciature per serrare la testa e un
antidoto alla febbre, che il dottore non trova
sufficiente. I miei amici mi bagnano con cura e
attenzioni, e don Pippo non mi lascia.
Una disgrazia, si dice, non viene mai da sola.
Il governatore di Brindisi mi manda una lettera,
comunicandomi che il mio compagno di
153
viaggio, malato, lontano da ogni aiuto e non in
grado di continuare la sua strada, era stato
trovato in una capanna, sulla strada opposta a
quella di Lecce, e che era stato
temporaneamente trasportato nella dimora di
una guardia costiera. Era urgente andarlo a
trovare. Di questo si incarica don Pippo, che
manda sul posto un corriere con un cavallo, per
mancanza di una vettura disponibile subito . . .
Questa brutta notizia fece aumentare la mia
febbre; noi, io e il mio compagno, restammo in
pericolo per quasi un mese. Per sopperire al mio
forzato silenzio, accludo qui l'estratto dal diario
tracciato dal mio amico durante la sua sfortunata
escursione. L'ho trascritto senza concedermi
alcun cambiamento. Questo è un quadro
veramente sorprendente, e fedelmente impresso,
dei colori locali.
Estratto dal diario di viaggio.
6 settembre. - Il servo è venuto a svegliarmi
all'alba: ho riposato ancora un momento. Stavo
pensando di non andare: finalmente, ho
ricordato tutte le mie risoluzioni; mi sono vestito
154
e ho salutato il mio compagno. Sono partito. . .
Volevo prendere la strada per Lecce; ma,
lasciando la città, mi sono ritrovato su quella per
Barletta. Ho concluso che il destino non voleva
che me ne andassi a Lecce, e ho seguito
l'impulso che mi era stato dato.
Faccio le prime miglia abbastanza
leggermente; mi affretto, ma il sole sta
diventando caldo; la terra è spoglia di alberi:
eccomi in una grande pianura disabitata; mi
piacerebbe bere, ma non riesco a trovare un
corso d'acqua; i miei piedi iniziano a dolermi; la
mia borsa diventa pesante; sento un dolore di
stomaco; aumenta; ho la testa imbarazzata: un
pò d'acqua mi farebbe bene! . . . Ecco delle case
bianche: senza dubbio vi troverò qualcosa per
rinfrescarmi; mi spingo fin là.
La porta è sbarrata da capre addormentate;
un'immensa corte ne è piena, e i cani stessi
dormono tranquillamente in mezzo al gregge.
C'è un povero pastore che vive in questi tuguri.
Gli ho chiesto dell'acqua: ha chiamato sua
moglie e mi ha mandato con lei ad un pozzo dal
quale ho attinto, in una brocca rovinata come la
155
casa, un pó d'acqua dolce, che assaporo con
gioia. Dico addio e provo, nell'andare via, a
mangiare un pó di pane; ma mi disgusta . . .
Continuo a camminare.
Faccio ancora qualche miglio; non ne posso
più, per la fatica ed il calore. Vedo un albero di
fico isolato in mezzo alla campagna; ci vado; i
fichi non sono maturi; ma sono freschi: ne
mangio un pó, poi ho voglia di stendermi
all'ombra, tra la macchia. Un lungo rettile nero
fugge attraverso la vegetazione.
Continuo quindi a camminare ancora per
qualche miglio . . . Mi ridurrò male senza acqua
. . . Andiamo in quella casa; eccola. Ho bevuto
avidamente: la freschezza dell'acqua mi ha tirato
un pó su. Cerco invano di mangiare; dormo
all'ombra di un muro. Avevo appena cominciato
a dormire, quando dei passanti sgraditi mi
svegliano con delle sciocche domande; riprendo
a camminare e continuo fino alle undici circa.
Un antico stabile, che serve ancora come rifugio
per le greggi, sarà il luogo del mio riposo
durante il grande caldo. Inutilmente di mangiare
del pane; posso solo ingoiare un pó di fichi.
156
Entro in un fresco locale, e mi addormento sulla
paglia, con la testa appoggiata sulla borsa.
Sono trascorse quattro ore; ho ricaricato il mio
fardello, e mi sono rimesso in viaggio. Il mio
sguardo si estende lontano su una pianura arida
e scoperta; non si vede alcuna dimora: queste
sono le infami pianure della Puglia. Cammino,
mi siedo ogni momento: ho difficoltà a
sostenermi. Sono sudato; tuttavia, il cielo è
coperto di nuvole, si accumulano: c'è più fresco.
Mi riposo ancora una volta; ma grosse gocce di
pioggia annunciano una tempesta; non vedo
villaggi: solo una casa bianca, lontano; non ci
sono altri rifugi . . . ci vado; coraggio! Già i
fulmini strappano le nuvole; il tempo diventa più
minaccioso, la pioggia aumenta: eccomi
arrivato.
Ci sono solo donne in casa; loro mi hanno
visto dall'alto della loro terrazza. Voglio salire,
perché non possiamo sentirci; le scale sono
ingombre di fascine: finalmente eccomi nella
stanza. Chiedo loro, in cambio di denaro, un
rifugio contro la tempesta. Chiamano i loro
uomini: dico loro chi sono, espongo loro, il più
157
drammaticamente possibile, la mia dolorosa
situazione; do la mia spada, per tranquillizzali:
acconsentono a ricevermi. Mi siedo di fronte a
un grande fuoco, dove mi asciugo e mi riscaldo,
perché i brividi si erano già diffusi nelle mie
vene. L'intera famiglia è riunita intorno a me:
sono interrogato, sono esaminato, mostro tutti i
miei documenti, li girano e rigirano:
riconoscono il sigillo del re di Napoli; le
fisionomie cambiano e la loro ansia sembra
scomparire. Mi viene offerto da mangiare: dico
che avrei preparato da me la mia zuppa; taglio
un grosso pezzo di pane che credo appena
sufficiente a placare la mia fame, chiedo un
piatto, un pó d'olio, sale e acqua bollente: la mia
zuppa è fatta. Mi esaminano; mi fanno mille
domande e le mie risposte fanno molto ridere la
compagnia. Ingoio appena qualche boccone, che
sono già sazio; la mia testa è appesantita dal
sonno e dall'affaticamento. La notte era arrivata;
Sono stato portato in un granaio dove dormivano
gli uomini. Lì, mi hanno fatto, con la gentilezza
più ospitale, un buon letto con delle coperte; ero
158
ben sistemato e ho dormito fino al mattino
successivo.
7 settembre. - Era già giorno; tutti si erano alzati;
sono stato colpito alla spalla per svegliarmi, e ho
aperto gli occhi con difficoltà, che un nuovo
arrivato ha iniziato a interrogarmi. All'inizio l'ho
ricevuto male e sono tornato a letto. Mi è stato
permesso di dormire ancora un pó. Al mio
risveglio, gli abitanti della casa erano tutti riuniti
intorno a me, e parlavano con tanta animazione
che non ero più in grado di riposare, Mi sono
alzato. Lo stesso uomo di prima, che ho
riconosciuto per un soldato, vedendomi esausto,
mi ha offerto i suoi servizi; mi ha detto che si era
preso la libertà di fumare dalla mia bella pipa;
ho risposto che aveva fatto bene: mi ha offerto il
suo tabacco, ma io non avevo nessuna voglia di
fumare. Lui ha chiesto il mio passaporto, ha
indossato gli occhiali, ed è stato un quarto d'ora
a leggerlo. E stato fatto a Corfù, mi disse infine,
per il capitano della barca, per uno di nome
Castellan, e per te . . . Che ne è dei tuoi compagni
di viaggio? Perché ti trovi da solo? Dov'è il tuo
passaporto del governatore di Brindisi? Lo
159
ignoravo; gli ho detto che ne ero sprovvisto e
che avrei risposto alle sue altre domande. Egli
replica: non puoi viaggiare nel paese con il
vecchio passaporto; devi scrivere a Brindisi per
ottenerne un altro. Nel frattempo, andiamo,
vieni nella mia torre; troverai un buon letto lì.
Sei così stanco che non puoi continuare la tua
passeggiata; riposerai, mangerai pesce buono,
berrai del buon vino. Tutto ciò che posso fare
per te, lo farò di cuore; credo di essere molto
interessato alla tua situazione. Mi piacciono i
francesi perché sono stato a Marsiglia e Tolone.
Raccogli le tue cose e vieni; sono solo due passi
da qui alla mia dimora.
Ho preso il mio leggero bagaglio; lui ha preso
in carico la mia sciabola, che ha esaminato con
una sorta di ammirazione. Volevo pagare per il
mio alloggio; si è opposto e siamo partiti. C'era
solo una mezz'ora a piedi fino alla sua torre.
Abbiamo attraversato un giardino; mi ha
invitato a riposare; ha cercato un'anguria
matura, e ne ha tagliata una, di cui ne ho
mangiato metà con piacere. Non sapevo cosa
intendesse con la sua torre. Alcuni alberi piantati
160
su una collinetta mi impedivano di vederla;
quando arriviamo, vedo una grande torre antica,
costruita in pietra, sormontata da merlature e
forata da feritoie. È posta su una base quadrata;
la porta è posta a circa venticinque piedi di
altezza: la si può raggiungere da una scala in
pietra staccata dal muro e su cui cade un ponte
levatoio. L'interno è pieno di armi da fuoco, e
sulla terrazza c'è un cannone. L'acqua del mare
bagna i piedi della torre, situata in fondo ad un
torrente, dove le barche sono al sicuro da
qualsiasi sorpresa.
La costa adriatica e le coste del mare Ionio
sono coperte da questo tipo di torri. Molti di
questi edifici sono antichi; gli altri furono
costruiti per opporsi alle invasioni dei Turchi e
dei Barbari, che spesso infestavano queste
spiagge. Vi si tenevano soldati, e gli abitanti ci
trovavano armi per la loro difesa. Queste torri di
guardia sono molto vicine tra loro e alla vista di
una nave nemica, il cannone spara, passo dopo
passo, sull'intera linea. Le truppe sono ovunque
sulla difensiva, e si preparano ad intervenire nei
punti minacciati.
161
Mi hanno raccontato alcuni episodi, di
coraggio e di presenza di spirito, che fanno
onore a questi guardacoste. Uno di loro ha ideato
una difesa molto ingegnosa. Dopo aver esaurito
quasi tutte le sue munizioni, vedendosi sempre
più messo alle strette, e sul punto di soccombere
sotto l'attacco dei suoi nemici, ha pensato di
lanciare su di loro sciami di api, chiusi in alveari
che erano stati organizzati sulla piattaforma
della torre. Questo esercito alato, che gli
assedianti non si aspettavano, e di cui sono stati
coperti in un istante, ha causato loro così tanto
spavento e tanto dolore, da obbligarli a togliere
l'assedio; per liberarsi di questi nemici, si
gettavano in mare, dove la guardia costiera
aveva occasione di ucciderne un grande numero,
prima che si unissero alle loro imbarcazioni.
Installato nella torre, dove stavo molto bene,
io aspettavo di riprendermi dalla fatica, per poi
continuare la mia corsa. Il guardacoste era
impegnato a scrivere al governatore di Brindisi,
per richiedere un altro passaporto, che era
essenziale; mi sono sdraiato e ho dormito
162
profondamente per il resto della giornata, tutta
la notte e il giorno successivo, fino alle tre.
8 settembre. - Il custode della torre mi ha dato
una lettera e mi ha presentato a un uomo di
Brindisi, che era venuto a prendermi,
portandomi un buon cavallo. La lettera era di
Don Pippo; egli era molto preoccupato per la
mia salute e quella del mio compagno, che aveva
anche la febbre, e mi esortava a tornare a
Brindisi. Era tardi, tuttavia, ero disposto a
partire.
Per riconoscenza verso il mio ospite, gli ho
lasciato la mia spada che aveva tanto ammirato;
egli stentava a credere a questo mio atto di
generosità, e mi ha chiesto un certificato di
donazione che gliene assicurasse la proprietà.
Ho scritto il suo indirizzo, e ho promesso di
farlo, scrivendogli da Brindisi. Mi ha baciato,
con le lacrime agli occhi. Sono sicuro, mi ha
detto, di avere un amico al mondo. Monsieur
Stanislas, non dimenticarmi! Glielo ho
promesso, e mi sono rimesso sulla strada.
163
Abbiamo camminato fino al tramonto; così,
iniziando a far freddo, ho chiesto alla mia guida
dove poter trovare una casa per passare la notte.
Mi ha portato in una piccola fattoria, dove mi
ero già rinfrescato; sono stato riconosciuto, e
sono stato accolto. Mi sono coricato, ma ho
passato una brutta notte; aspettavo ansiosamente
che il sole si alzasse e si scaldasse abbastanza,
per continuare il mio viaggio verso Brindisi,
dove sono arrivato il giorno successivo.
164
LETTERA XIII.
Convento di Nostra Signora del Casale. Partenza da Brindisi.
10 ottobre.
Convento della Madonna del Casale. Riprendo a
scrivere. Il nostro stato di debolezza non ci ha
permesso di partire per Napoli; tuttavia
volevamo lasciare l'aria malsana di Brindisi, per
respirare, in qualche luogo vicino, un'aria più
salubre. Abbiamo consultato il nostro amico
Philippe They, la cui compiacenza era
inesauribile, e che, durante la nostra malattia,
aveva acquisito nuovi diritti alla nostra eterna
gratitudine. Ci ha consigliato di trasferirci al
convento della Madonna del Casale, situato a
pochi chilometri dalla città, su una collina.
Questo posto, costantemente spazzato dai venti,
era considerato un rifugio per chi soffriva di
febbri ostinate. I monaci di San Pasquale, che vi
abitavano, erano conosciuti per la loro umanità
e anche per la loro conoscenza della medicina.
165
In generale, i monasteri sono forniti di tutti i
farmaci necessari, che i religiosi sanno
amministrare con il talento che danno una lunga
esperienza e le continue osservazioni. Vi si
aggiunga uno zelo, in cui si riconosce lo spirito
di carità che li anima. Potrebbero essere
paragonati agli Asclepiadi, discendenti e alunni
di Esculapio; come quelli, essi studiano i
sintomi e il progresso delle malattie vicino al
letto degli ammalati, e la loro routine
accademica è spesso preferibile alla brillante
teoria dei medici speculativi.
Quindi, siamo stati portati da questi buoni
religiosi, che hanno accettato di riceverci
volentieri, cosa che non ci aspettavamo come
francesi, e ci hanno mostrato il più vivo interesse
per la nostra perfetta guarigione. Nelle diverse
interviste avute con questi rispettabili religiosi,
loro ci hanno raccontato la storia della loro
chiesa.
Nel 1322, Filippo, principe di Taranto, fratello
di re Roberto, tornato da Costantinopoli, dove
aveva sposato la figlia dell'imperatore
Baldovino, Conte delle Fiandre, approdò sulla
166
costa vicino a Brindisi, nei pressi di una piccola
cappella, dove si venerava un'immagine
miracolosa della Vergine. Il principe acquistò
questa terra, dipendenza di un vecchio castello i
cui resti erano ancora visibili nel 1670, e costruì
una chiesa intorno alla cappella, circondandola
con una grata di ferro. In seguito, la miracolosa
immagine fu trasportata, con il muro su cui era
dipinta, sull'altare maggiore, per renderla più
visibile.
Questa chiesa, e il monastero dipendente,
presero il nome di Nostra Signora del Casale (da
Castello); furono ceduti nel 1566 agli
Zoccolanti, e gli abitanti della città si
impegnarono a dare loro sessanta scudi all'anno
per i loro vestimenti; ciò è stato osservato finché
i monaci furono sostituiti da quelli della riforma
di San Francesco. Questi, a quanto pare meno
poveri, sebbene di un ordine mendicante,
costruirono lì un monastero, lo abbellirono con
dipinti e sculture, e lo unirono a bellissimi
giardini piantati con aranci, limoni e altri alberi
da frutto molto ricercati. L'aria di questo
convento è meno malsana di quella della città; e
167
la vista, che ci è piaciuta soprattutto da lato
mare, è molto pittoresca.
Ogni anno, a settembre, si celebra qui la festa
della Natività della Vergine, in pompa magna e
nel mezzo di una grande competizione fra tutte
le classi sociali. Il compimento di un voto, o il
desiderio di perpetuare il ricordo del loro
pellegrinaggio, sull'esempio della imperatrice,
moglie del fondatore, di cui si scorge la statua
sotto un ricco baldacchino, hanno attratto qui
molti principi, che hanno fatto dipingere o
scolpire i loro nomi e stemmi sulle pareti della
chiesa. Lo stesso giorno della festa, si svolge in
questo luogo una fiera abbastanza importante,
affollata dagli abitanti della provincia. La strada
da Brindisi via terra è lunga e faticosa: è
preferibile venire qui via mare. I marinai si
sfidano a chi arriverà prima. Queste barche,
decorate con nastri e bandiere di vari colori,
vanno veloci e cercano di superarsi a vicenda,
offrendo uno spettacolo che rallegra un
momento queste coste, quasi solitarie per il resto
dell'anno. Per andare dalla spiaggia al convento,
c'è un tratto di circa ottocento passi; il percorso
168
è ombreggiato da vigneti, ulivi e altri alberi
piantati espressamente, ed offre ai buoni
religiosi, una passeggiata molto piacevole.
Non descriverò questo convento; sono troppo
debole per pensare di vederlo nei dettagli. Vi
dico solo, con poca chiarezza, che i suoi chiostri,
forati da arcate, circondano un vasto cortile
ombreggiato a quinconce da alberi d'arancio; un
bacino, riempito con acqua limpida e
costantemente rinnovata, occupa il centro. Vedo
ancora alberi cespugliosi, carichi di foglie verdi
scintillanti, carichi di belle mele d'oro, il cui
peso schiaccia le estremità dei ramoscelli, e una
moltitudine di fiori, di cui aspiro con piacere i
dolci profumi, quando apro la mattina la stretta
finestra della mia cella, o di notte, camminando
lentamente e male sotto i silenziosi portali,
pavimentati con pietre sepolcrali e adornati con
dipinti che ripercorrono i misteri della nostra
religione. Siamo quasi sempre soli; questi
discreti cenobiti non disturbano le nostre
meditazioni; ci passano vicino inchinandosi, e si
perdono presto, come ombre, nei lunghi corridoi
del monastero. A volte mi trattengo nel letto,
169
abbattuto da un accesso di febbre, e sento
comunque una specie di sollievo, ascoltando gli
accordi
dell'organo,
ammorbiditi
dalla
lontananza, e i suoni salmodianti delle voci dei
religiosi, che recitano le preghiere in diversi
momenti del giorno e della notte.
Questa esistenza pacifica, ma molto
monotona, non poteva convenirci a lungo; così,
ci siamo decisi a partire per Napoli. Avendolo
comunicato a don Pippo, che da pochi giorni non
veniva a farci visita, questi ha contrastato la
nostra risoluzione con ragionamenti ispirati
dall'amicizia; il nostro partito era stato preso: ci
piaceva di più correre il rischio di soccombere
alla fatica, a quello di morire lentamente di noia
e di apatia.
Non siamo riusciti a trovare un vetturino che
ci portasse a Napoli; bisognava cercarlo a Lecce,
la capitale della provincia. Brindisi è in qualche
modo immobile nel mezzo di una sfera di
attività; i viaggiatori evitano questa città come
un luogo afflitto dalla peste, e gli abitanti non
hanno quasi nessuna comunicazione con il resto
dei loro compatrioti.
170
20 ottobre.
Questa mattina ci hanno annunciato che una
vettura ci stava aspettando alla porta del
convento. È una carrozza a due posti, di forma
gotica, risalente probabilmente all'invenzione di
questa macchina nei tempi moderni. Anche se
porta ancora le tracce di un'antica magnificenza,
non è per questo più conveniente o più comoda;
ma è coperta, abbastanza ben chiusa, e così
com'è, ci sembra una benedizione dal cielo. A
proposito, la stagione è favorevole, il calore è
passato, l'atmosfera è più pura; respiriamo
soprattutto un balsamo di speranza, che circola
nelle nostre vene e sembra portarci con gioia i
tesori della salute. Ringraziamo i nostri bravi
monaci di San Pasquale per la loro premurosa
cura e toccante sollecitudine; ed è con difficoltà
che noi facciamo loro accettare un tributo di
gratitudine. Ci accompagnano con i loro consigli
di ricorrere alla preghiera per allontanare ogni
influenza maligna, e di raccomandarci al loro
santo protettore.
Ma abbiamo altri addii, che sono molto più
difficili da pronunciare. Dobbiamo separarci dal
171
nostro eccellente amico Philippe They. Ci stava
aspettando a casa sua per completare i
preparativi per il nostro viaggio. Abbiamo
cenato con la sua rispettabile famiglia. Questo
pasto era diverso da quello in cui avevamo
celebrato la nostra liberazione dalla quarantena!
Quindi l'abbiamo accorciato, così come la
dolorosa scena degli addii . . . La tenerezza
reciproca era la garanzia della sincerità e
vivacità dei nostri rimpianti, ed il presagio di
una separazione, forse eterna. L'amicizia è così
rara! perché seminarla così sulla strada della
vita, e in terre lontane, dove semplicemente si
passa senza speranza di tornare?
Abbiamo avuto, molto tempo dopo, il dolore
di apprendere che, a seguito di eventi sfortunati,
Philippe era stato costretto a tornare in
Provenza, dai suoi parenti, dove avrà certamente
trovato le virtù dell'ospitalità da lui stesso
profuse a Brindisi sui suoi compatrioti infelici.
Se esiste ancora, possa questo libro cadere nelle
sue mani, affinché possa trovarvi l'espressione
dei sentimenti di gratitudine che gli abbiamo
dato, e che conserveremo per sempre.
172
LETTERA XIV.
Difficoltà del viaggio. - San Vito, Torre Santa
Sabina. - Foresterie. - Soggiorno a Monopoli. Rovine di Egnazia. - Note storiche. - Polignano,
Mola, ecc.
20 ottobre.
Uscendo da Brindisi eravamo immersi in una
sorta di stordimento e malessere, che derivava
tanto dalla debolezza per la recente malattia, che
dal modo in cui viaggiavamo, di cui avevamo
assolutamente perso l'abitudine. Infatti, ci
eravamo imbarcati dalla Francia, e il tragitto via
mare era durato parecchi mesi. Avevamo ancora
preso la strada di mare lasciando Costantinopoli,
ed avevamo fatto tutti gli altri spostamenti a
piedi o a cavallo. Inoltre, i sobbalzi della
carrozza, il rumore delle ruote su una
pavimentazione sconnessa e persino la velocità
del movimento, che ci impediva di fissare gli
oggetti, e sembrava farli correre nella direzione
opposta, tutto questo ci appariva strano; ci è
173
voluto del tempo per abituarci a queste
sensazioni, prima dolorose, e poi divenute
piacevoli e salutari.
Abbiamo seguito, lasciato, ripreso o
attraversato più volte la via Traiana e molte altre
strade antiche che vanno tutte verso Brindisi.
Ciò, in un'altra circostanza, sarebbe stato
oggetto di curiosità e di studio: ora è causa dei
nostri lamenti; e se Traiano aveva diritto al
riconoscimento dei suoi contemporanei per aver
costruito queste belle e utili opere, non ispirava
più gli stessi sentimenti ai poveri viaggiatori, la
cui marcia è ora incessantemente ostacolata dai
resti in rovina di questi antichi sentieri. Se uno è
costretto a servirsene, per evitare luoghi bassi e
fangosi, allora niente è più orribile di questo
mucchio di grandi pietre irregolari che, non
avendo adesione tra di loro, lasciano lacune
larghe e profonde che i cavalli incontrano con
difficoltà e dove le ruote si impegnano e
minacciano di rompersi in qualsiasi momento.
Il mio compagno di viaggio ha rivisto, con una
sorta di piacere misto a tenerezza, quegli stessi
luoghi dove una volta aveva sperimentato tutte
174
le ansie del dolore e della malattia. Me li ha
mostrati con eccitazione. Quello, mi diceva, è il
fico i cui frutti hanno spento la mia sete e nella
cui ombra ho cercato riparo dal caldo; lì ho
accelerato il passo per fuggire, ma senza
successo, la tempesta che mi stava minacciando.
Ah! Penso di vedere, a destra, fuori e lontano
dalla strada, la casa bianca, dove ho trovato,
come un nomade del deserto, franca e benevola
ospitalità. Non un cespuglio, non una pietra, mi
ha fatto notare. Ho condiviso il suo entusiasmo;
gettando uno sguardo al passato, rivedevo quello
che avevamo sofferto; il mio cuore, sollevato da
un pesante fardello, si godeva l'idea consolante
di un nuovo futuro. Perché i luoghi in cui
abbiamo conosciuto la sfortuna sono quelli che
rivediamo con maggiore entusiasmo? Perché
ricordiamo con piacere le antiche tribolazioni?
L'uomo è come l'animale fedele che viene a
leccare la mano di chi lo corregge? o come il
bambino che spesso preferisce quelli che gli
mostrano una giusta severità, a quelle buone
anime che lo rovinano travolgendolo di carezze?
Non sarebbe piuttosto un ritorno su noi stessi,
175
che ci fa apprezzare di più la sicurezza attuale,
rispetto alle pene passate? Arrivati nel porto,
non diamo forse un'occhiata soddisfatta allo
spettacolo di un mare agitato, e non sentiamo un
piacevole sollievo al ricordo dei pericoli a cui
siamo sfuggiti? Questa contraddizione della
mente umana, che non si osa spesso confessare,
perché potrebbe essere considerata egoismo,
merita di occupare i pensieri del moralista.
Ci sarebbe piaciuto visitare la buona guardia
costiera che aveva accolto il mio amico nella sua
torre; ma la nostra strada si stava allontanando
sempre di più dalle rive del mare: la notte si
avvicinava, e avevamo bisogno di riposo per
essere in condizioni di ripartire di buon'ora la
mattina successiva.
Era troppo tardi, quando arrivammo a San
Vito della Macchia, per permetterci di vedere
questa piccola città che, ci è stato detto, ne
sarebbe valsa la pena. Viene anche chiamata San
Vito degli Schiavi, perché si sostiene che sia tata
costruita all'inizio del quindicesimo secolo dagli
Schiavoni, che vi hanno eretto una magnifica
chiesa e un bellissimo palazzo. Non siamo stati
176
in grado di giudicarlo; ma quello che è certo è
che i fondatori non hanno esteso la loro
munificenza alle foresterie, perché quella in cui
ci siamo fermati, la migliore, anzi l'unica che
c'era, era molto miserabile; tuttavia, la
popolazione ammonta a quasi quattromila
anime. Inoltre, questa città si glorifica, con più
ragione, per aver dato i natali al famoso
compositore Leonardo Leo, rivale di Francesco
Durante e maestro di Pergolesi.
21 ottobre.
Il vetturino era già sveglio un'ora prima della
partenza, per non farsi aspettare, e ha annunciato
una lunga giornata di trentacinque miglia. Il
sole, alzandosi, ha scoperto un paesaggio
abbastanza piacevole: le prime alture pugliesi
correvano alla nostra sinistra, stagliandosi
nell'azzurro in modo pittoresco; a destra, il mare
brillava di tutte le luci del sole, che sembrava
balzare dalla cima della torre di Santa Sabina,
una delle più forti della costa. Qua e là abbiamo
visto alcuni alberi, capanne di pastori, e greggi
177
che andavano verso i pascoli. Abbiamo anche
visto la piccola città di Ostuni, che si trova su
una collina circondata da boschi, dove gli
abitanti dei dintorni godono i piaceri della
caccia. L'aspetto del paese, il tempo, l'aria
aperta, l'esercizio, avevano già rianimato le
nostre forze e stuzzicato il nostro appetito.
Siamo arrivati in queste disposizioni a Ottara,
dove dovevamo cenare.
La vettura si fermò nel cortile della foresteria,
la più misera e desolata che si possa
immaginare. Il vetturino ci ha avvertito che c'era
ancora molta strada da percorrere, poteva solo
fermarsi un momento, e si è immediatamente
preso cura dei suoi cavalli, molto più che di noi.
Quindi abbiamo dovuto correre di casa in casa
per comprare l'occorrente per un pasto frugale,
e, per ulteriore imbarazzo, fare noi stessi e in
fretta la nostra cucina. Era già molto tardi
quando siamo arrivati a Monopoli, e abbiamo
avuto anche un sacco di problemi per farci aprire
le porte.
Dovendo sostare un giorno intero in questa
città, non abbiamo potuto resistere al desiderio
178
di andare a contemplare le rovine dell'antica
Egnazia, da cui si sostiene che essa sia nata. È
stata una passeggiata molto piacevole in questa
stagione. Quindi, ci siamo diretti all'abbazia di
Santo Stefano, una commenda dei Cavalieri di
Malta, attraverso boschi profumati, circondati
da aranci e limoni. A una certa distanza, in riva
al mare, c'è un piccolo forte di artiglieria,
presidiato da un distaccamento di soldati,
sempre pronti, al segnale della guardia marina,
ad andare verso il punto della costa minacciato.
Poco dopo, siamo arrivati sul sito di Egnazia.
Lo spettacolo di una città in rovina, priva degli
abitanti, è uno di quelli che più interessano lo
storico, l'osservatore e l'artista. Vi si trovano
ricordi, altre sensazioni, ed effetti pittoreschi;
tutti deplorano il destino di questa potente città,
di cui il disastro, senza dubbio eclatante, non ha
lasciato che delle tracce nella memoria degli
uomini.
Non conosciamo l'epoca esatta della
distruzione di questa città. Alcuni pensano che
ha avuto luogo intorno alla metà del nono
secolo, sotto l'impero di Lotario in Occidente, e
179
di Michele Porfirogenito in Oriente, quando i
Saraceni, avendo invaso la Sicilia e la Calabria,
hanno devastato questa parte della Puglia. Altri
credono che questo evento sia avvenuto intorno
al 968, durante la guerra che ha diviso i due
imperi. I cittadini di Egnazia, fluttuavano allora
tra il partito di Ottone e quello di Niceforo Foca,
e fu facile per i barbari approfittare di questa
situazione per devastare e distruggere questa
sfortunata città. Il piccolo numero di abitanti
sfuggiti al disastro si unì ai greci e si trasferì a
Monopoli, abbandonando Egnazia senza più
farvi ritorno.
Nei tempi antichi, una ninfa, chiamata
Hippona, era particolarmente venerata (1) ad
Egnazia. Forse è alle cerimonie praticate nel
suo tempio, che Orazio fa allusione nel
seguente passaggio della piacevole relazione del
______________________________________
(1) Secondo Reinesius, che riporta la seguente
iscrizione: HIPP. EGNATIAE NEPTUNO CUM
CERERE
ERYMNI
AEDEM
II.
VIRI
JURIDICUNDO H. H. S. S. (HAEC SAXA).
ERIGUNT POSTERITAS DISCE.
180
suo viaggio da Roma a Brindisi: “Il giorno
appresso il tempo migliora, ma non la strada,
almeno sino alle mura della pescosa Bari. Poi
Egnazia, eretta contro il volere delle ninfe, ci
offrì motivo di risa e di scherni, perché volevano
qui farci credere che l’incenso sulla soglia del
tempio si consumava senza fiamma. Può
pensarlo il giudeo Apella, (2) io no: gli dei, così
______________________________________
(2) - Senza dubbio Orazio aveva in mente ciò che si
diceva del sacrificio di Elia, dove il fuoco celeste aveva
consumato l'oblazione. Inoltre, era comune credenza
fra i Persiani, i Greci e i Romani, che le combustioni
spontanee, sugli altari, fossero un augurio felice.
Questo fu uno dei presagi della grandezza di Tiberio.
Seleuco conobbe, con un tale segno, la sua futura
elevazione; e il consolato di Cicerone fu preceduto da
un tale presagio. Ci sono anche posti diversi da
Egnazia, dove sarebbero avvenuti prodigi simili:
Solino riferisce che in Sicilia, vicino ad Agrigento,
c'era un altare sul quale venivano sistemati dei sarmenti
che si accendevano da soli, se il sacrificio era gradito
al dio al quale era offerto. Pausania riferisce, come
testimone oculare, che la stessa cosa era accaduta in
Lidia, in due città diverse. Eliano ne parla descrivendo
il famoso tempio di Venere, sulla montagna di Erice.
181
ho sentito dire, passano il loro tempo
indifferenti e, se qualche prodigio si verifica in
natura, non è certo l’ira divina a precipitarcelo
dall’alto dei cieli. Brindisi pone fine al lungo
viaggio e fine alla mia satira”.
In questo brano, più che altro filosofico,
Orazio ci dice che l'acqua dolce era molto rara
a Egnazia. Tuttavia, ci sono ancora presso le
mura antiche che la cingevano dalla parte del
mare, fonti di acqua pura e limpida, che gli
abitanti del luogo chiamano le fontane di
Agnazzo, che sono, si dice, le più rinomate di
questa costa.
Secondo Strabone, il nome di questa città era
dato non solo al percorso che da Benevento
andava a Brindisi, ma anche a quello che partiva
dalla sponda opposta dell'Adriatico, e si dirigeva
verso la Macedonia e la Tracia. I viaggiatori e le
milizie spesso si imbarcavano al porto di
Egnazia per andare a Durazzo, sulla costa
dell'Epiro, separata da quella d'Italia
dall'Adriatico. Cicerone dice che era una via
militare, e che apriva alle truppe il cammino del
mare Ionio e dell'Ellesponto. Questo porto, che
182
doveva essere importante, era senza dubbio
molto frequentato; noi ne abbiamo appena visto
le tracce verso la torre di Agnazzo, nei pressi di
un torrente dove solo le barche possono
ormeggiare. I resti dell'antico castello e le mura
della città sono facilmente riconoscibili; ma non
abbiamo trovato il tempio di cui parla il Pratilli,
né siamo penetrati nel luogo che lui chiama il
Parco, che aveva un corridoio sotterraneo, a
volta, illuminato da finestrelle. Queste
costruzioni, che dovevano servire come bagni
termali (1), e gli altri monumenti che consistono
nelle tombe, riserve d'acqua, ecc., non sono più
che una massa confusa di pietre coperte per metà
da piante parassite. Queste rovine non hanno
soddisfatto le nostre aspettative, nonostante il
desiderio che avevamo di arrivare ad ammirare
tutto; e avendo anche riconosciuto in loro un
interesse pittorico molto secondario, ci siamo
affrettati a tornare a Monopoli.
______________________________________
(1) Pratilli fornisce una mappa di questa città, poco
accurata, che appare tracciata a vista senza regolarità.
183
Gli abitanti dovrebbero vantare un'origine
greca, indicata dal nome di questa città, piuttosto
che attribuirla agli Egnazi, dei quali Orazio
rende un ritratto così poco lusinghiero. Del
resto, il nome di Monopoli (città unica e
singolare), mostra che, dalla sua origine, almeno
nel paese in cui si trovava, questa era
probabilmente l'unica città notevole. Dal tempo
dei Normanni, che si divisero la Puglia,
Monopoli è appartenuta ai Tutabovi, e solo
all'estinzione di questa famiglia, fu restituita al
dominio reale. La sua popolazione ammonta
oggi a diciannovemila abitanti. È situata sulla
costa adriatica; è circondata da giardini pieni di
alberi da frutto, che ne rendono l'aspetto molto
piacevole. Fortificazioni zeppe di artiglieria
sono disposte lungo viali. Le strade sono dritte,
le case ben costruite. Vi sono diverse chiese di
buona architettura; la cattedrale in particolare è
un edificio molto bello. Fu prima consacrata a
San Mercurio, e fecero bene a cambiare questo
nome in quello della Santa Vergine, la cui
immagine, probabilmente fatta di legno, fu
portata da Costantinopoli, al tempo della
184
persecuzione degli iconoclasti, da un uomo di
nome Euprasio, che la nascose sulla riva del
mare per paura che non fosse bruciata. L'interno
di questa chiesa è molto ricco e vediamo buone
statue attribuite a Ludovico Fiorentino. Ma chi
era questo "Fiorentino"? Molti artisti famosi
sono conosciuti in Italia solo per il loro nome, a
volte per il soprannome o per il nome della loro
città natale; questa circostanza getta molta
vaghezza e indecisione negli annali delle arti.
Comunque
sarebbe
interessante
poter
ripristinare l'attribuzione di queste statue al loro
vero autore. Io credo che siano di Ludovico
Salvetti, allievo di Pietro Tacca di Firenze.
Questo Salvetti aveva un talento molto vario; ha
lavorato anche lo stucco, il marmo e il bronzo.
Ha restaurato diverse statue antiche; fu in
seguito nominato ingegnere e riempì questo
posto con distinzione. Spirituale, galante e
amabile nella società, era anche un grande
cacciatore, e sapeva imitare, fischiettando, il
canto di tutti i tipi di uccelli.
185
23 ottobre.
Da Monopoli a Polignano, abbiamo seguito le
rive del mare, dove abbiamo visto, ad intervalli
regolari, delle torri di guardia. Il paesaggio è più
fertile che pittoresco; è piantato con ulivi e
vigneti. Polignano è una graziosa cittadina il cui
nome greco indica che è stata costruita su una
elevazione (1). Le rocce che la supportano sono
forate da enormi caverne dove entrano le acque
del mare e dove si può andare in barca; si viene
giù dalla città per scale scavate nella roccia. La
popolazione, che non ammonta che a
quattromila anime, conta un gran numero di
famiglie benestanti; c'è molto buon cibo e i
dintorni producono frutta e buon vino; e il suo
porto, eccellente pesce. Non molto tempo fa, è
stata scoperta, nelle vicinanze, una tomba che
doveva essere quella di un gastronomo; vi hanno
trovato più di sessanta vasi di diverse forme, di
cui alcuni erano di dimensioni enormi e sembra______________________________________
(1) Polignano potrebbe anche avere per etimologia le
parole: poli = molto e glanis = specie di pesce, cioè:
città del pesce abbondante.
186
vano destinati a contenere cibo e bevande. A
poca distanza dalla riva, possiamo vedere lo
scoglio di Sant'Antonio, sul quale esisteva, al
tempo della dominazione greca, un famoso
monastero. Vediamo solo le rovine di questo
grande edificio, così come la vecchia chiesa, ora
abbandonata. Finalmente, a due miglia dalla
città c'è l'Abbazia di San Vito, dove gli stranieri
sono accolti molto bene, ed i cui giardini,
decorati con vasche, fontane e statue, servono
come passeggiata agli abitanti di Polignano a
Mare.
Mola, dove abbiamo cenato, e che chiamiamo
Mola di Bari, per distinguerla dalla Mola di
Gaeta, che si trova sulla strada che va da Napoli
a Capua, è un castello costruito da una colonia
di Atene, una punta di lancia in mare. Gli 8400
abitanti, non hanno conservato nulla del buon
gusto e della gentilezza dei loro antenati. Le
strade sono strette e buie; diverse fabbriche di
sapone e delle concerie contribuiscono a
renderle sporche e infette. C'è anche un ufficio
doganale e un magazzino del sale. La torre di
guardia è molto forte; è stata costruita, circa due
187
secoli fa, dal marchese di Polignano, della
famiglia dei Toraldo. Finalmente, dopo aver
fatto in un giorno quasi trenta miglia, su un
cammino abbastanza piatto, ma estremamente
sassoso e molto stancante, siamo arrivati a Bari,
una delle città più interessanti di questa costa.
188
LETTERA XV.
Città di Bari; la sua storia. - Via reale. - La
cultura è ben compresa. - Giovinazzo. Bisceglie. - Case di contadini molto notevoli. Trani, capitale della provincia.
Bari, 24 ottobre.
Ognuna delle piccole città che incontriamo sulla
nostra strada si vanta, forse a ragione,
dell'importanza che le è stata attribuita per
l'anzianità o per i fatti storici di cui è stata teatro.
Gli abitanti non mancano di raccontare tutte le
rivoluzioni, le vicissitudini e i disastri di cui
hanno conservato la memoria, e nominare gli
imperatori, i re, i vescovi, in una parola, le
persone importanti che hanno dovuto lodare o
biasimare, e in particolare i grandi uomini di cui
si vantano. Meno prolissi di loro, non possiamo,
tuttavia, trascurare le principali caratteristiche
storiche relative a queste città, che sono in
stretta relazione con la storia generale del
regno. Abbiamo solo l'imbarazzo della scelta
189
nel nostro materiale, perché non c'è villaggio
qui, che non abbia il suo cronista. Abbiamo
avuto la pazienza di leggere o ascoltare i
dettagli spesso noiosi di queste lunghe storie; e
il lettore, tenendo conto della pena che ci siamo
presi per accorciarli, potrebbe esserci grato per
questo estratto.
La città di Bari, soprattutto, potrebbe fornire
materiale per un volume, non privo di interesse,
dal momento che è una delle città più antiche
del paese, e il suo nome è mescolato con tutti i
fatti importanti della storia antica e moderna.
La fondazione di Bari risale ai tempi favolosi;
si dice che questa città, di cui gli autori antichi
parlano spesso, portasse una volta il nome di
Iapigio, figlio di Dedalo, e suo fondatore; che
divenne la capitale della provincia della Iapigia,
e in seguito fu chiamata Bari, da Barione,
generale delle milizie peucezie in Grecia; era
una di quelle città autonome, che si
governavano con leggi proprie e che
nominavano i loro magistrati. Alla morte di
Alessandro, re dell'Epiro, sull'esempio di altre
città di Puglia e Lucania, Bari si sottomise al
190
popolo romano. Rimasta fedele alla repubblica,
ottenne dei privilegi, divenne una città
municipale, e sotto i primi imperatori fu
considerata una delle città più importanti in
Italia. Successivamente, cadde nelle mani dei
duchi di Benevento, che la tennero fino
all'arrivo dei Longobardi.
Nell'839, la pace di cui godeva fu disturbata
dai dissidi fra Adelgiso e Siconolfo.
Quest'ultimo aveva chiamato i Saraceni in suo
aiuto; arrivarono su questa costa l'anno
seguente; nascostamente riconobbero il posto;
un traditore, Pandone, che era governatore, aprì
loro le porte durante la notte; gli abitanti, senza
sospetto, passarono dal sonno alla morte, o dal
risveglio alla schiavitù. I Saraceni rimasero
circa trent'anni nella città e vi risiedettero col
loro principe; Puglia, Lucania e Calabria
continuarono ad essere infestate dalla loro
pirateria fino all'870. A quel tempo,
l'imperatore Luigi II venne in Italia e, dopo un
lungo assedio, si impadronì di Bari, cacciandoli
via. Tuttavia, temendo che dopo la sua partenza
questi barbari vi rientrassero, nell'886 convocò
191
i greci per aiutare gli sfortunati abitanti della
Puglia. Gli imperatori d'Oriente nominarono un
magistrato supremo, col titolo di catapano o
stratego, un ufficiale che governava nel loro
nome i loro possedimenti in Italia.
Durante la decadenza dell'impero greco,
queste contrade caddero nelle mani dei
Normanni; Bari, seguendo l'esempio di diverse
altre città, si diede al conte Umfredo, che,
morendo un pò dopo a Venosa, lasciò la sua
eredità a suo figlio Abelardo, sotto la
supervisione di suo zio Roberto il Guiscardo.
Ma quest'ultimo, argomentando che, secondo
l'uso dei principi normanni, l'eredità doveva
passare ai fratelli, a danno dei ragazzi, si
impadronì degli stati di Umfredo. Il nipote
oppresso ricorse all'Imperatore Costantino che
nominò un nuovo catapano. Questo si
impadronì di Bari, dove Roberto il Guiscardo lo
tenne assediato, da mare e da terra, per quattro
interi anni. Infine, gli abitanti, costretti dalla
carestia e dalle disavventure del lungo assedio,
si arresero al Guiscardo, su consiglio di
Argirizzo Joannaci, capo dei loro magistrati. Il
192
vincitore trattò la città con gentilezza e umanità
e risarcì gli abitanti per tutte le perdite subite. In
seguito, con un buon numero di truppe e una
flotta di cinquanta navi, accompagnato da voti
e gratitudine pubblica, si avvio alla conquista di
Reggio e di Palermo, che gemevano sotto il
giogo degli africani; conquistò queste due città
e tornò a stabilire a Bari la sede del suo potere.
Re Ruggero I, seguendo l'esempio dei principi
normanni suoi antenati, considerando questa
città come la capitale del suo regno, volle essere
incoronato con grande pompa, l'anno 1130,
dall'antipapa Anacleto, di cui aveva abbracciato
il partito. Guglielmo I, detto il Cattivo,
succedette a Ruggero; i baroni della Puglia, e in
particolare gli abitanti di Bari, si ribellarono. Il
monarca implacabile fece radere al suolo la città
nel 1155, e mise a morte un gran numero di
nobili. Era stata appena ricostruita, che fu
nuovamente distrutta dall'imperatore Federico
II. Alla fine, ricostruita per la terza volta, nello
stesso luogo, divenne molto più ricca, e fu
considerata una delle città più importanti del
paese, anche se decaduta dal suo rango di
193
capitale, e non più titolare, fino ad oggi, del
nome della provincia
Il ducato di Bari è stato unito al regno di
Napoli, i sovrani lo diedero all'illustre famiglia
dei Caldara; poi a Luigi Sforza di Milano, con
il principato di Rossano, come ricompensa per
aver ristabilito sul trono la casa di Aragona.
Infine, i diritti su questa città passarono, intorno
al 1550, nella persona di Bona, figlia della
celebre Isabella d'Aragona, alla Polonia, che in
seguito la rese alla corona delle Due Sicilie.
Il ricordo di questa Bona, sposata con
Sigismondo I il Grande, re di Polonia, si è
conservato nel paese. Alla morte di suo marito,
lei risiedette a Bari, che era anche servita come
ritiro a sua madre. Bona era una donna di grande
carattere, che conservava, insieme ai suoi
disordini, una sorta di magnanimità e
grandezza. Benefattrice della città che l'aveva
ospitata, la decorò e la arricchì dei tesori che
aveva portato dalla Polonia.
La duchessa Isabella aveva cominciato ad
ingrandire, abbellire e fortificare la città di Bari,
194
in cui venne a vivere nel 1501. Voleva isolarla
del tutto, avendo tagliato l'istmo che la legava
alla terraferma, e costruito diversi ponti sopra il
canale pieno delle acque del mare, ma,
obbligata dalle circostanze a fare ritorno a
Napoli, dove morì nel 1522, non poté terminare
questo grande lavoro. Quarant'anni dopo, i
ponti furono portati via da una forte tempesta; il
canale rimase ostruito e si formò un piccolo
lago, che conserva ancora il nome di Mare di
Isabella.
Fu solo nel 1554 che, all'età di settantuno
anni, Bona si ritirò nel suo principato; e sebbene
vi abbia vissuto solo due anni, con una corte
numerosa e brillante, fortificò il castello, come
si vede da un'iscrizione in grandi lettere di
bronzo fissate sul cornicione attorno al parco.
Corresse il lavoro iniziato da sua madre, costruì
diverse chiese e due cisterne per raccogliere le
acque che mancavano agli abitanti. Sulla porta
di uno di questi edifici si legge questa
iscrizione:
BONA, REGINA POLONIAE,
PRAEPARAVIT PISCINAS. PAUPERES
195
SITIENTES, VENITE CUM LAETITIA ET
SINE ARGENTO.
Ha anche fatto regali molto ricchi ai religiosi
della famosa chiesa di San Nicola, donando
loro, tra le altre cose, degli arazzi che
rappresentano le sette opere di misericordia.
Infine, con il suo testamento, stabilì una
fondazione perpetua di mille corone, per
maritare, ogni anno, dieci povere orfanelle. Ha
anche fondato un monastero per altri bambini
abbandonati.
Vediamo ancora che questa principessa non
finì i suoi giorni in povertà; la magnifica tomba
che esiste nel coro della chiesa di San Nicola,
mostra il rispetto avuto per la sua memoria. È
stata eretta da una delle sue figlie, che aveva
anche sposato un re di Polonia (Stefano I). Le
pareti della cappella sono ricoperte di marmo
prezioso. Si vedono cinque statue di bella
fattura: una, in ginocchio, offre la figura della
Regina Bona; la seconda e la terza, sedute,
rappresentano il regno di Polonia e il ducato di
Bari; le altre due, in piedi, San Stanislao e San
Nicola. L'altare, sormontato da un grande
196
bassorilievo, raffigurante la Resurrezione di
Nostro Signore, è ornato da una profusione di
colonne di vari marmi. È particolarmente
notevole il sarcofago, che è di una materia nera
il cui lucido imita il cristallo.
Non faremo la descrizione del tempio, in cui
si venerano, da più di sette secoli, le ossa
miracolose di San Nicola. Qui si continua a
distillare una manna sacra che guarisce,
nonostante la medicina, una miriade di mali;
anche il concorso di pellegrini di tutte le classi
è continuo. La chiesa è bella, e il tesoro molto
ricco. Il castello è circondato da fossati e quattro
forti con cannoni. Il porto è comodo e l'arsenale
in buone condizioni. La città ha un commercio
abbastanza ampio; vi sono fabbriche di vetro e
cappelli. Infine, la popolazione ammonta a
quasi diciannovemila abitanti.
Tutte le vicende vissute da Bari devono
averla privata dei suoi antichi monumenti. Non
si vede che una pietra miliare, contrassegnata
col numero centoventotto, che potrebbe riferirsi
alla linea ininterrotta descritta da Pratilli.
197
Questa colonna è coricata a terra, sul molo del
porto, ed è fortemente usurata dal tempo…
25 ottobre.
Lasciando Bari, ad una certa distanza da questa
città, abbiamo trovato un fondo paludoso, dove
si vede un magnifico ponte; esso si lega alla "via
reale", che si sta costruendo in questi giorni e
che diventerà molto utile per i collegamenti
commerciali su questa costa. È ampio, ben
livellato, e sostenuto da una costruzione in
muratura molto solida. Sfortunatamente per noi,
questa strada non è stata completata; e quando
siamo stati costretti a lasciarla, il cammino è
diventato spaventoso. Comunque ci siamo
goduti la bellezza di questo paese, coltivato
ovunque e seminato, per così dire, a distanze
molto ravvicinate, da piccole città ben costruite,
tutte situate ai margini del mare, con porti
comodi per l'approdo, e circondate da
bellissime proprietà rurali, da casette e ville, che
fanno presumere che gli abitanti siano ricchi e
industriosi. Si possono distinguere, in questi
198
giardini, boschetti di aranci e limoni, vigneti,
allori, melograni, aiuole circondate da siepi
tagliate, che racchiudono i fiori della stagione.
Abbiamo anche attraversato foreste di grandi
alberi di ulivo, che avanzano fino al limite del
mare, e piantagioni di cotone. Lungo la strada
abbiamo incontrato spesso abbeveratoi di
grandi dimensioni, per le greggi in viaggio
verso il Tavoliere (pascoli reali di cui parlerò
presto), e, in mezzo ai campi, varie costruzioni,
come frantoi e mulini, dove ognuno porta il
prodotto del suo raccolto. Specialmente in
questo periodo dell'anno, un gran numero di
albanesi attraversano il mare e giungono su
questa costa per aiutare gli abitanti nei loro
lavori. Diverse loro famiglie si sono stabilite
qui, conservando i loro costumi, e abbiamo
avuto il piacere di ritrovare in Italia le abitudini
e le maniere della Grecia. Questo spettacolo di
operosità, risultato di un lavoro ingegnoso, era
fatto per interessarci. I borghesi e i contadini
che abbiamo incontrato sulla strada erano ben
vestiti e ci hanno accolto in maniera
amichevole; sembravano felici e deduciamo che
199
erano governati con saggezza. L’amminitrazione comunale è infatti ben organizzata:
ognuna di queste piccole città ha rispettabili
edifici pubblici: istituti per la gioventù, ospedali
per poveri, infermi e trovatelli, monti di pietà,
ecc.
Giovinazzo, la prima di queste città che si
incontra dopo Bari, è antica e costruita, si dice,
sulle rovine della Netium peuceta; ma l'epoca
della sua costruzione è incerta. E' circondata da
mura; la sua cattedrale è di buona architettura.
La popolazione ammonta a cinquemiladuecento
abitanti, e lei diede i natali a due Spinelli, uno
stimato storico, l'altro giureconsulto e
soprannominato il Papiniano del suo tempo.
Pochi chilometri più avanti troviamo Molfetta,
una città moderna, i cui abitanti, tredicimila,
sono molto laboriosi; ci sono circa quattrocento
tessitori del lino e una fabbrica di sapone, che
sfrutta i nitrati che si trovano nelle vicinanze.
Questa è la patria di un pittore del secolo scorso,
un tale Corrado Giaquinto, allievo di Solimena
e di Conca; ha lavorato molto negli stati del
Papa; poi andò in Piemonte e da lì in Spagna, al
200
servizio della corte, dove ha adottato lo stile
spedito e manierista di Jordaens, che era allora
di moda nel regno.
Bisceglie, che viene dopo, è costruita su una
roccia bagnata dal mare. Secondo Guglielmo di
Puglia, questa città deve la sua origine a Pietro,
conte di Trani, uno dei dodici capitani
Normanni che ha conquistato il regno di Napoli
nell'undicesimo secolo. Ma un geografo
napoletano deriva il nome di Bisceglie da quello
di "vigiliae", che gli antichi davano alle guardie
militari su queste coste; si afferma che questa
città fu presa da Annibale, ripresa da Fabio, e
posseduta successivamente dai Romani, dai
Longobardi, dai Saraceni e dai Normanni. I
viali portano il nome di Federico Barbarossa,
che li costruì; e vediamo un teatro a volta che
può contenere diverse migliaia di spettatori.
In queste contrade ci sono case di contadini,
tutte costruite sullo stesso modello, e che
abbiamo scambiato, come altri viaggiatori, per
tombe antiche, per la loro forma, abbastanza
singolare, che ho qui riprodotto (Fig.8). Sono
alte e isolate, poste qua e là in mezzo ai campi
201
e ai pascoli; è qui che inizia il Tavoliere.
L'origine di queste costruzioni è singolare, forse
la stessa di quei tumuli che ricoprono certi
paesaggi. Per ripulire la superficie dei campi e
dei prati della quantità eccessiva di pietre che
sembrano uscire ogni anno dal cuore della terra,
gli agricoltori formano dei cumuli, che a volte
raggiungono una grande altezza. Alcuni pastori
più industriosi, approfittando del lungo tempo
libero che lascia loro la guardia delle loro
greggi, si prendono cura di sistemare le pietre
per ripararsi dal caldo e dal maltempo. La forma
più semplice e più adatta per legare e dare una
certa solidità a questi rozzi edifici era, senza
dubbio, la forma circolare; poi, per la copertura
di queste capanne, non riuscendo a trovare gli
elementi adatti a portata di mano, poiché
mancano, in queste pianure, alberi e persino
cespugli, si industriano ad eseguire le volte con
le stesse pietre; per questo, era necessario
adattarle, restringendole a cerchi concentrici
mentre le pareti si alzavano, fino a formare un
cono cavo, arrotondato in alto, che prende luce
solo dalla porta. Infine, i più operosi, praticano
202
Figura 8
203
un'apertura nella parte superiore dell'edificio
per creare una corrente d'aria e dare una via
d'uscita al fumo; questa cupola regolare ha una
forma ellittica, simile a quelle volte che gli arabi
hanno costruito in Sicilia, e che Leandro Alberti
compara ad una pigna. Questa volta poggia su
una terrazza piuttosto ampia, che fa il giro
dell'edificio, a cui si arriva dalle scale, che si
sviluppano da destra e da sinistra, rampando
lungo le pareti circolari. Queste terrazze,
comuni in tutto il paese, sono motivate dal
bisogno naturale di alzarsi il più possibile da
terra, sia per respirare freschezza, sia per
esporre, lontano dall'umidità e dall'azione del
vento o del calore, leguminose, biancheria e
altre cose che si vogliono asciugare. Queste
stesse terrazze possono ancora essere il risultato
dell'istinto naturale dell'uomo di elevarsi, per
scoprire da lontano i pericoli da cui è
minacciato, prevenire le sorprese, o dominare le
sue proprietà e poterne abbracciare la distesa a
colpo d'occhio.
Vediamo che i contadini pugliesi, senza avere
conoscenza dell'architettura, hanno natural204
mente usato il primo metodo noto per costruire
le volte, un processo che esisteva ben prima
dell'invenzione dell'arco e dei segreti del taglio
delle pietre. Ci sono diversi esempi di
monumenti antichi, che mostrano questo modo
primitivo di costruire la volta, in Egitto, Grecia,
India e persino in Cina; si potrebbe dire che
«l’ignoranza ci è valsa i lavori più duraturi
dell'architettura, e affermare che la scienza del
tratto varrà per i nostri discendenti la perdita
della maggior parte delle nostre opere». Per il
resto, credo che debba assegnarsi a questo
primo processo, la forma degli archi e delle
volte a vela, piuttosto che all'imitazione
dell'intreccio dei rami degli alberi sacri che
riparavano le misteriose cerimonie dei nostri
druidi. Questo carattere distintivo della
cosiddetta architettura gotica (1), la cui origine
_____________________________________
(1) M. Dagincourt riferisce dell'uso, nell'architettura
gotica, dell'arco a tutto sesto, fino a quando, alla fine
del tredicesimo secolo, l'arco a ogiva prevalse in tutte
le costruzioni della Svezia, della Germania,
dell'Inghilterra e della Francia.
205
iperborea è quantomeno molto dubbia, a noi
sembra non essere altro che un brancolare
nell'ignoranza o una deviazione dal buon gusto,
causati
dalla
mescolanza dei popoli
occidentali con quelli dell'Oriente e
dall'adozione di mode, usi ed arti provenienti
dall'India, che ha infestato a poco a poco
tutta l'Europa... Stavamo quindi costruendo
gradualmente il nostro nuovo sistema
sull'origine dell'architettura gotica, e lo stavamo
fortificato con nuove prove. Ma le nostre idee
hanno preso un altro corso quando siamo entrati
nella città di Trani, capitale dalla provincia.
Costruita, si dice, da Tirreno, figlio di Diomede,
ingrandita e adornata da Traiano, che le diede il
nome di Traianopoli, l'origine di questa città è,
seguendo alcuni altri scrittori, assolutamente
sconosciuta, dal momento che Strabone e Plinio
non ne fanno menzione. Esisteva al tempo dei
Normanni; fu assegnata al conte Pietro, come
baronia; fu distrutta da Ruggero I nel 1133, per
essersi ribellata. Ricostruita qualche tempo
dopo, l'imperatore Federico II vi costruì un
castello, che esiste ancora, e che noi
206
consideriamo come uno dei migliori boulevard
in Puglia. Durante la guerra tra Ferdinando I
d'Aragona e Giovanni d'Angiò, un soldato di
ventura, Jacopo Piccinino, cercò di conquistare
Trani, promettendo una grossa somma al
governatore. Ferdinando, avvertito in tempo,
chiamò dall'Albania Giorgio Castriota (il
famoso Scanderberg), che presto arrivò con un
esercito, scacciò dagli Angioini, prese il
castello di Trani, e lo restituì al suo legittimo
proprietario. Carlo VIII, re di Francia, durante
la sua invasione del regno di Napoli, con il
pretesto dei suoi diritti ereditari sulla corona di
Napoli, fece assalire la città di Trani dai
Veneziani, suoi alleati, che la presero nel 1493
e vi lasciarono, per guardarla, tutti i cattivi
soggetti (marrani) e gli ebrei espulsi dalla
Spagna. Dopo la partenza del re di Francia,
Trani passò sotto il dominio della casa
d'Aragona.
Questa città, così come tutte le altre sparse
sulla costa, è costruita in bellissime pietre di una
tonalità giallastra che non si annerisce mai e che
dà un aspetto piacevole a tutti i suoi palazzi e
207
alle sue mura, che sono lunghe due miglia e
mezzo; molti dei suoi monumenti ci sono
apparsi notevoli; tra gli altri la cattedrale, a tre
navate, adornata con dipinti e colonne di
marmo. In essa si vede una magnifica tomba,
che contiene le reliquie di diversi Santi; il
campanile, ricoperto di sculture, ha centoventi
palmi di altezza e trenta palmi su ciascuna delle
sue quattro facce. L'architettura esterna del
teatro pubblico è elegante, e la platea può
contenere, ci è stato detto, ottocento persone
sedute. La grande piazza è bella e spaziosa: vi
si tengono tre fiere nell'anno; le strade sono
ampie, pulite e pavimentate con grandi pietre
quadrate. La nobiltà è numerosa, e si incontra in
quattro occasioni, come a Napoli; vi sono
edifici, o casette dove vengono procurati i soliti
divertimenti della società; vale a dire, la
conversazione, il gioco e dei balli. La
popolazione ammonta a quattordicimila anime;
ma la città è meno commerciale di Barletta,
dove siamo arrivati molto tardi, e dove
dobbiamo rimanere uno o due giorni.
208
LETTERA XVI.
Città di Barletta; saline reali; statua colossale
di bronzo. - Congetture a questo riguardo.
Barletta, 26 ottobre.
Finora abbiamo seguito le rive dell'Adriatico
dirigendoci a nord-ovest. Quando lasceremo
Barletta taglieremo la penisola nella sua
larghezza dirigendoci a ovest, e arriveremo a
Napoli scendendo a sud-ovest. Avremo così
fatto un gomito, che forse si potrebbe evitare
seguendo un percorso più diretto; ma per questo
sarebbe necessario che il porto di Brindisi
ridiventasse importante come una volta, e che il
governo napoletano, più potente, fosse più
interessato agli interessi del commercio. Al
tempo dei Romani, la grande Grecia era
attraversata da un'infinità di strade; anche se la
via Appia era la più famosa, ce n'erano molte
altre, tutte praticabili e tutte costruite con la
stessa tecnica, come la Domiziana, la Campana,
la Latina, l'Egnazia, ... Queste strade avevano
209
loro particolari ramificazioni. La differenza
oggi è grande; ce n'è solo una principale che
attraversa il regno, ed è anche mal gestita.
Comunque, abbiamo percorso la metà del
nostro cammino per raggiungere Napoli, e se
questa parte della strada, tracciata su pianure
interminabili, ci ha offerto solo un debole
interesse pittorico, saremo ricompensati non
appena arriviamo in montagna, brutta agli occhi
dell'uomo comune, ma che un paesaggista deve
trovare ammirevole.
La città di Barletta è stata costruita
nell'undicesimo secolo da Pietro, conte di Trani,
uno dei dodici capitani normanni che
conquistarono il regno di Napoli. Diventò una
delle più belle e più grandi città pugliesi;
Ferdinando I d'Aragona volle esservi
incoronato dal legato apostolico, inviato da
Papa Pio II. Consalvo, generale di Ferdinando
il Cattolico, fece di questa città una piazza
d'armi, quando cacciò dal regno i partigiani
della casa d'Angiò.
Le strade di Barletta sono diritte e ben
pavimentate; le mura, che hanno il perimetro di
210
un miglio, sono solidamente costruite, e il
castello è ben fortificato. Agli stranieri vengono
indicati: l'Orfanosio, ospizio per orfani, due
scuole di "belle lettere" e alcune chiese. C'è qui
la residenza del Reggio Portolario, un incaricato
della regia camera di Napoli, per l'ispezione del
carico di viveri attinto dalla Capitanata e dalla
terra di Bari. Vi risiedono, il consiglio reale del
Commercio, così come l'amministratore
generale dei sali, e il grande priore dell'ordine
di Malta, che vi tiene le assemblee dei cavalieri.
La popolazione ha quasi sedicimila anime. Il
più forte ramo del commercio dei dintorni è
costituito dal sale, che viene estratto dalle saline
reali, a sei miglia da Barletta, dall'altra parte
dell'Ofanto. Forniremo su questo oggetto alcuni
dettagli, che non saranno privi di interesse per
alcuni dei nostri lettori.
Queste saline si trovano nella vasta pianura
delimitata dal Golfo di Manfredonia e dal lago
di Salpi. La loro forma è rettangolare, lunga due
miglia e larga due terzi di miglio. Il terreno è
composto, sulla superficie, da uno strato di
sabbia, più sottile man mano che ci si allontana
211
dal mare; scavando circa quattro palmi, si trova
l'acqua. All'entrata delle saline, sul lato di
Barletta, è praticato un canale (foce), attraverso
il quale viene introdotta l'acqua dal mare; nel
mezzo c'è un altro canale tortuoso che cammina
in tutte le direzioni, e diffonde l'acqua su tutta
la sua superficie.
I processi utilizzati per ottenere il sale,
sembrano avvicinarsi alla semplicità primitiva;
inoltre, differiscono in diversi punti da quelli
che si usano comunemente: non entreremo in
questi dettagli, che possiamo saltare senza
inconvenienti.
La salina è divisa in cinque parti, e ciascuna è
divisa in spazi chiamati vasi, che sono appiattiti
e circondati da un bordo di terra alto mezzo
palmo e largo quattro palmi; i primi bacini
contengono il resto dell'acqua salata dell'anno
precedente; i secondi la più grande quantità
possibile di acqua nuova, e i terzi sono destinati
alla confezione del sale.
All'inizio di maggio, si libera l'ingresso ai
canali dalla sabbia ammucchiatasi durante
212
l'inverno; affinché l'acqua possa fluire
facilmente e in quantità maggiore, alle loro
bocche si formano due palizzate composte da
pali e paglia intrecciata, che si estendono
abbastanza lontano nel mare. Poi si puliscono e
si riparano tutti i contorni dei bacini e delle
vasche d'acqua; infine, con un rastrello di legno,
si toglie il fango che sporca il fondo di questi
bacini, e si lascia la terra esposta al sole per
diverse ore, per farla asciugare e indurire.
Approntato tutto ciò, si introducono nuove
acque, che si mescolano con una parte di quelle
dell'anno precedente, che contengono molto più
sale in soluzione, e si ha cura di riempire le
riserve, in modo da poter rifornire
successivamente i bacini in cui il sale si deve
formare. Questa acqua, che si sviluppa su una
grande area, avendo poca profondità, evapora in
due o tre giorni, a seconda del calore del sole o
dell'azione dei venti che accelera il processo di
essiccazione: poi si consolida, come se fosse
congelata, per uno spessore di una linea e
mezza. Non appena questo primo strato di sale
è formato, si introduce nuova acqua, per
213
formare un altro strato di sale, e così
successivamente, fino a quando la crosta è
aumentata fino ad uno spessore di quasi due
pollici, che è il punto di maturazione. Allora si
fa scolare l'acqua in eccesso nei bacini vuoti:
con un piccone si rompe questa crosta, e con
delle pale di legno si ammucchia il sale in pile
piramidali, negli stessi bacini. Quindi si
trasporta il sale in sacchi di tela, a spalla
d'uomo, sui bordi delle saline, formando dei
mucchi che si coprono con paglia o tavole.
Fatto questo primo raccolto, si prova una
seconda operazione, se la stagione lo consente;
ma raramente riesce; così, nonostante tutta
l'acqua non sia completamente evaporata, non
essendo il sale abbastanza spesso, si immette
nei bacini della nuova acqua, che sarà più satura
per il prossimo anno; infine, svuotati gli altri
bacini e chiuse tutte le uscite, oltre alla bocca
dei canali, per interrompere qualsiasi
comunicazione con il mare, si attende la
prossima primavera per ricominciare di nuovo.
C'era anche una salina sulla costa vicino a
Taranto, ma non viene più utilizzata. Ci sono
214
anche due miniere di salgemma: una nella
provincia di Cosenza, e l'altra vicino a
Catanzaro.
Barletta ci ha offerto, in una delle sue piazze,
un oggetto interessante per un artista; si tratta
della famosa statua in bronzo colossale, che è
stata argomento di così tante discussioni tra gli
antiquari. Signorelli riassume le opinioni e
considera questa statua come un monumento
incontestabile di scultura dell'ottavo secolo. Ma
bisognerebbe sapere, dice, se è opera dei Greci
o dei Longobardi, e chi è il personaggio che
rappresenta. È molto difficile pronunciarsi su
questi due quesiti.
Al tempo di Villani, cioè di Carlo II d'Angiò,
questa statua si trovava nel porto di Barletta, ed
era, come oggi, chiamata dagli abitanti
Arachio. Lo storico di Firenze pensò che
rappresentasse il re Rashi, che lui chiamava
Eracco, e che fu eretta dai Longobardi di
Benevento. Scipione Ammirato dice che gli
abitanti di Barletta l'avevano elevata in onore di
Eraclio, quando costruirono il molo che chiude
il porto della loro città. Giannone discute contro
215
il primo parere: non sembra probabile che una
statua così magnifica sia stata eretta a Barletta
dai Longobardi, quella città essendo di poca
importanza rispetto a Benevento, Salerno,
Capua e Bari, che sarebbero state naturalmente
preferite. Inoltre, dice, il mento della figura è
rasato, l'abbigliamento è greco e porta in una
mano la croce, e nell'altra il globo, indizi e segni
distintivi di un imperatore orientale piuttosto
che di un re longobardo, che sarebbe stato
rappresentato con una lunga barba, lo scettro e
la corona. Aggiunge, contro l'opinione
dell'Ammirato, che il molo di Barletta fu
costruito molto dopo Eraclio, e che era
successivo all'ampliamento della città. La
critica di queste diverse opinioni è giudiziosa,
ma ci lascia nell'incertezza. D'altra parte il
nome corrotto di Arachio ha tanto a che fare con
il nome greco di Eraclio, quanto con quello di
Rashi, longobardo; e ancor più con quello di
Arachi, l'ultimo duca e primo principe di
Benevento, a cui i suoi successori avrebbero
potuto erigere questa statua, eseguita in un
paese lontano da qualche artista meritevole.
216
Nulla può essere dedotto dalla croce e dal
globo, segni del potere imperiale, perché Arachi
poteva esserne considerato degno dai suoi
contemporanei, per aver promulgato leggi,
battuto moneta con la sua effige, nominato
conti, e per i palazzi ed i monumenti magnifici,
eretti in molte città del suo reame.
Cosimo della Rena, di cui il Signorelli non
parla, chiarisce questo punto nella storia delle
arti, segnalando antichi versi conservati negli
archivi della città, e in base ai quali questa
statua sarebbe quella dell'imperatore Eraclio,
che la fece fondere dal famoso scultore
Polifobo, circa l'anno 624, il tredicesimo del suo
regno, dopo aver vinto Cosroe, re di Persia, e
riportato il legno della Santa Croce a
Gerusalemme. Questa figura è rimasta a
Costantinopoli fino al 1204; a quel tempo, i
veneziani, in coalizione con altri principi latini,
fatti padroni di questa città, caricarono sulle
loro navi diversi monumenti di scultura antica,
tra gli altri i quattro cavalli di bronzo che
decorano il palazzo ducale, e questa colossale
statua di Eraclio. Ma la nave che la trasportava,
217
sorpresa da una tempesta, fu spinta sulle rive di
Barletta, dove questa figura mutilata e
abbandonata rimase sepolta per diversi secoli.
Finalmente, nel 1491, gli abitanti chiamarono
un famoso scultore, Fabio Albano, che
aggiustò, in qualche modo, le gambe e le
braccia di questa statua, per impostala dove si
vede oggi.
Questo artista sconosciuto, era un ignorante,
che ebbe almeno il buon senso di ammetterlo
tacitamente, nascondendo, per quanto potette, e
a rischio di peccare contro il costume, i nudi
della sua opera. Ha coperto le braccia fino al
polso con una manica grezza, e le gambe intere
con una specie di stivale con risvolto, senza
ornamento. La sua ignoranza si manifesta
ancora di più nella forma tozza delle gambe, che
sono di un terzo troppo corte. Se fossero in
proporzione, la figura non sarebbe male, perché
il busto e la testa sono di buon gusto; la corazza
è ben aggiustata; l'inflessione del corpo ha
agilità, e il getto del manto della grandezza. Per
il resto, il volto è fortemente caratterizzato,
l'acconciatura è singolare, consistendo in un
218
diadema ornato di perle, con una grande pietra
preziosa nel mezzo, e i capelli che scappano dai
due lati e cadono sulle guance in due riccioli
rotondi; questi caratteri, dico, dovrebbero
aiutare a stabilire, attraverso il confronto con
medaglie e altri monumenti, a quale secolo
risale l'esecuzione di questa colossale statua,
che non ha meno di quindici piedi di altezza. Se
le gambe fossero in proporzione, ne avrebbe
anche sedici e mezzo, senza contare la croce che
tiene nella mano destra, che sale ancora di due
piedi. Infine, questa figura, restaurata e posta su
un piedistallo alto, sarebbe adatta per adornare
la piazza pubblica di una città più grande di
Barletta. Concludo, aggiungendo fede alla
tradizione conservata nel paese; e credo, per
quanto si possa giudicare dalla natura del lavoro
e dallo stile di questo monumento, che non sia
posteriore al tempo di Eraclio, se non risale al
secolo di Costantino.
219
LETTERA XVII.
Campo di battaglia di Canne.- Piana
dell'Ofanto.- Tavoliere della Puglia. - Sistema
pastorale. - Suoi svantaggi.
Ordona, 28 ottobre.
Siamo stati portati nel famoso campo di
battaglia di Canne. L'espressione dedicata a
designare il teatro di questo evento memorabile,
dove l'orgoglio del popolo sovrano fu umiliato,
dipinge bene le tracce profonde che questa
orribile catastrofe ha lasciato nelle menti, il
terrore che ha catturato i contemporanei e che è
stato perpetuato nei loro posteri: il posto è
ancora chiamato il campo di sangue! Non
proveremo ad indovinare le evoluzioni delle
parti opposte, né a spiegare con alcuni autori,
dalla configurazione del terreno, le cause del
disastro degli eserciti romani; solamente, di
fronte a questo luogo, che è notevole solo per il
suo nome, noi ci chiederemo: perché le Muse
della Storia prediligono le brillanti storie di
220
conquiste e grandi rivoluzioni, mentre
sembrano trascurare le virtù pacifiche, le arti
della pace, la prosperità e la felicità dei popoli.
È lo stesso sentimento che ha ispirato a Dante i
sublimi versi del suo Inferno, facendo apparire
in confronto deboli e scoloriti quelli che
dipingono il soggiorno della beatitudine.
Bisogna dunque, per interessare gli uomini,
mettere in gioco le passioni esaltanti e le azioni
barbare; ci vuole l'ansia, il pericolo, il terrore,
per catturarli, e lasceranno sempre la
rappresentazione di una pastorale per correre in
folla ad applaudire una tragedia. Tuttavia,
sembra che ciò che avvenne allora qui, nella
piana di Canne, abbia convertito per sempre
questo luogo in una vasta landa desolata,
cosparsa di tombe. Questo spazio è vuoto; le
città e i villaggi sono molto rari. Delle rovine si
ergono qua e là; queste città ospitavano una
grande popolazione, che non esiste più. Il paese
era coperto di alberi, giardini, terreni coltivati;
ora è nudo, sterile, e vi sono solo magri pascoli
di bestiame, che vagano incessantemente in
questo deserto, temuto dai viaggiatori, che si
221
uniscono in carovane per attraversarlo. Alla
nostra partenza da Barletta, siamo stati seguiti
da molte vetture, che si sono unite alla nostra
per camminare in compagnia fino all'ingresso
della provincia di Lucera.
Dopo aver lasciato, a destra, l'Adriatico per
non rivederlo più, e la torre di Barletta, situata
a pochi chilometri da questa città, alla foce
dall'Ofanto, abbiamo attraversato questo fiume
su un ponte. È il vecchio Aufidus che, nel fatale
giorno di Canne, rotolò così tanti cadaveri; esso
nasce nella provincia di Matera, nel territorio di
Torella. Anche se non è molto considerevole
nel suo lungo corso, le piogge lo aumentano in
modo spaventoso e inonda la campagna,
specialmente verso la foce. In passato era
navigabile fino a Canosa, città di commercio,
famosa nel tempo di Strabone.
Oltre il fiume, siamo entrati in un'immensa
pianura, dove la vista, fin dove poteva
espandersi, non percepiva un solo albero. Non
abbiamo avuto altra distrazione che la marcia di
numerose mandrie, disperse a perdita d'occhio
su questo terreno sterile. Dalla mattina alla sera,
222
l'aria risuonava del latrato dei cani, delle grida
dei pastori e del suono rauco dei corni, che
rispondevano l'uno all'altro, e richiamavano le
greggi sotto la guida del pastore.
Abbiamo attraversato borghi e miseri villaggi:
San Cassano, Latomba, Cirignola. Abbiamo
fatto una cena triste in quest'ultimo posto. Tra
Cirignola e Stornara, si attraversano i due rami
del Tratturo delle pecore che, da Foggia,
capitale della provincia, vanno ad Ascoli e a
Canosa. Siamo arrivati molto tardi a Ordona,
una foresteria circondata da alcune capanne con
il tetto di paglia, dove non abbiamo potuto
procurarci dei giunchi per andare a dormire,
essendone questo posto assolutamente privo.
È tempo di parlare del Tavoliere della Puglia,
di cui abbiamo già attraversato una gran parte.
È così chiamato lo spazio delle terre tra
l'Adriatico e l'Appennino, che si estende da
Civitate ad Andria, per una lunghezza di
settanta miglia e per trenta miglia di larghezza.
Questa vasta pianura offre un singolo pascolo
frequentato da un popolo nomade che ne divora
successivamente tutte le parti. Tuttavia,
223
potrebbe nutrire un più grande numero di
abitanti agricoltori, anziché sostenere il
bestiame, se il sistema pastorale, favorito dal
governo che vi trova una risorsa pecuniaria
assicurata, non prevalesse, nonostante il
continuo
reclamare
dei
sostenitori
dell'agricoltura.
Le gaie idee che abbiamo di un popolo
pastore, e le piacevoli descrizioni delle Egloghe
di Teocrito, Virgilio e Gessner, possono solo
fornire una falsa conoscenza della condizione
dei popoli antichi e moderni che sono stati o
sono tuttora pastori. Sembra che questa idea
chimerica non possa realizzarsi completamente,
e che una nazione non possa combinare
l'esistenza nomade con la civiltà. Ne abbiamo le
prove nella Puglia in Italia, e nell'Estremadura
in Spagna, che sono tanto desertiche e selvagge,
quanto gli abitanti poveri e infelici; perché vi si
è voluto stabilire un regime controllato, in cui il
governo trova un interesse eventuale che gli fa
perdere la sua vera ricchezza, cioè una
popolazione numerosa.
224
La difesa del sistema pastorale è molto antica,
e risale al tempo dei romani. In seguito allo
spopolamento causato dalle guerre, le città,
distrutte e ridotte in solitudine, non potevano
servire che da ritiro a dei pastori erranti; ma,
non appena le tracce di queste antiche calamità
venivano cancellate, esse si ripopolavano di
nuovo. Questi stessi pastori, se incoraggiati,
costruivano abitazioni stabili, coltivavano il
terreno, e finalmente ricominciavano a godere
di tutti i benefici della civiltà.
Entriamo ora in alcuni dettagli su questa
attività, che sembra così contraria alla felicità e
alla prosperità della gente. I luoghi collinari
dell'Abruzzo, che si vestono di ottimi pascoli in
estate, e le pianure della Puglia, la cui
temperatura è molto mite durante l'inverno,
favoriscono la diffusione delle mandrie e la loro
trasmigrazione dall'uno all'altro di questi paesi,
secondo le stagioni. Varrone è il più antico
scrittore che fa menzione di questo uso; ai suoi
tempi, per il passaggio del bestiame dal Sannio
in Puglia, si pagava una tassa ai pubblicani che
risiedevano a Sepino e a Bojano; loro avevano
225
la facoltà di confiscare il bestiame a quelli che
si affrancavano da questa tassa.
Durante l'invasione dei popoli barbari,
distrutto il dispotismo romano in Italia, la
divisione di queste province in piccoli
principati, interruppe la trasmigrazione delle
mandrie; ma quando i principi normanni misero
tutto questo paese sotto la loro dominazione,
unendo le pianure della Puglia al dominio reale,
gli abitanti dell'Abruzzo e delle Marche di
Ancona tornarono alla pratica di guidare qui le
loro greggi, durante l'inverno.
Re Ruggero represse alcuni abusi commessi
dagli ufficiali che avevano la custodia dei
pascoli pubblici. Anche l'imperatore Federico
fece delle leggi su questo oggetto. Nel 1254,
questi pascoli fruttarono al fisco 5200 once
(62400 franchi). Si trova negli archivi, che nel
1327 furono pagati due fiorini d'oro per il diritto
d'entrata di cento pecore straniere nel regno. Il
re Ladislao, che vendette la gran parte delle aree
fiscali della Puglia, mise nel 1411 un diritto su
tutto il bestiame nelle varie province, ad
eccezione della Calabria. Questa tassa era di 20
226
ducati per cento capi di buoi e 2 ducati per cento
pecore. La gente ha sopportato questa pesante
tassa, fino alla sua abolizione nel 1443; ma,
l'anno seguente, Alfonso I si occupò
dell'organizzazione del sistema pastorale;
aumentò l'estensione dei pascoli che
appartenevano al fisco; si arrogò anche il diritto
di unirsi temporaneamente a quelli che
appartenevano ai baroni, alla Chiesa e a varie
persone, quando l'afflusso di greggi straniere
stava aumentando, e i pascoli reali diventavano
insufficienti. Infine, formò ciò che chiamiamo
il Tavoliere della Puglia, e lo divise in locazioni
generali e particolari. Ogni locazione fu divisa
in un certo numero di poste stabili, specie di
parchi chiamate anche ovili, con i loro pascoli
in terra salda, cioè mai arata, la cui erba è molto
apprezzata. Le circondò con recinti di ferola,
una pianta della natura del finocchio, non
essendovi cespugli nelle vicinanze. Si lavorò il
terreno con uno strato di letame di pecora,
essiccato, battuto e indurito per formare un
terreno duro e asciutto. Le mandrie non
avevano ripari per la notte e per il tempo freddo
227
e piovoso. Di conseguenza, durante i rigidi
inverni, la mortalità si estendeva, soprattutto
nelle pecore; le pecore perdevano il latte e gli
agnelli; ma questo era raro. Inoltre, tra la Puglia
e le montagne, venivano riservati alcuni pascoli
autunnali, detti riposi, così che gli animali
potessero moltiplicarsi e riposare fino a quando
non venivano distribuiti nei pascoli invernali.
Il migliore di questi riposi è il Saccione,
situato tra i fiumi Sangro e Fortore, sulle rive
dell'Adriatico; il secondo, i pascoli di
Minervino, Andria, Corato, Ruvo e Bitonto. Il
terzo è il Monte Gargano, aggiunto da
Ferdinando I. Il Tavoliere non è ovunque di pari
bellezza. I migliori pascoli sono quelli che
abbiamo attraversato a Cerignola e quelli di
Foggia, Orta e Ascoli; quelli di Salpi e Trinità
sono i peggiori, perché sono coperti con
lentisco; e quelli di Bari, ecc., chiamati Murge,
sono pietrosi e aridi.
Alfonso stabilì anche tre ampi percorsi per
facilitare la trasmigrazione delle mandrie
straniere. Sono indicati come Tratturi.
Inizialmente rimossero un immenso spazio per
228
l'agricoltura, ovunque andassero, perché le
greggi dovevano trovarvi il pascolo durante il
viaggio. Dopo furono limitati a sessanta passi
napoletani in larghezza, circa trecento piedi.
Alfonso creò anche diverse postazioni, tra le
altre quella di un doganiere che era costretto ad
attraversare il Tavoliere in tutti i sensi, e che
fissava i tempi delle fiere; infine, concesse
molte strutture e privilegi ai commercianti
stranieri. I diritti che il governo traeva da questo
regime pastorale erano molto considerevoli. Per
cento pecore si pagavano 8 corone veneziane,
per cento mucche o giumente, 25 scudi. Questo
diritto si percepiva a maggio, alla partenza delle
greggi, e dopo la fiera di Foggia. Questa fiera
attraeva commercianti di pecore dall'Umbria,
dalla Romagna e persino dalla Toscana. Ma tale
era lo stato deplorevole del paese, che questi
mercanti avevano bisogno di una scorta e della
protezione speciale del sovrano per arrivarci.
I pascoli, tuttavia, assorbivano la terra
migliore; un gran numero di città e villaggi, che
erano stati distrutti, non venivano ricostruiti.
Gli abitanti della Puglia fecero finalmente i loro
229
reclami al trono, e costrinsero il re Alfonso a
lasciare alcuni pezzi di terra per la coltivazione;
questa è quella che è ancora chiamata "terra
daportata", cioè appartata (staccata dalla Salda).
E, nel 1457, il sovrano fu nuovamente costretto
a concedere il permesso di estendere le
coltivazioni.
L'ingresso delle greggi straniere in Puglia fu
di un così grande vantaggio per il governo, che
Ferdinando, figlio di Alfonso, non trovando
sufficienti i pascoli del fisco, unì a loro molte
proprietà particolari.
Nel 1474, il numero di pecore che pagavano
il dazio ammontava a un milione e
settecentomila. Da allora, per fortuna, non è mai
stato così considerevole, perché, se il Tavoliere
si fosse ancora esteso, l'intero paese sarebbe
diventato come il deserto dei Tartari. Nel 1536,
la nazione implorò l'imperatore Carlo V di
restituire la libertà all'agricoltura nella
Capitanata; i locati, chiesero, al contrario, di
limitarne il progresso; e i desideri di questi
furono esauditi. Pastori e agricoltori hanno
continuato a discutere; infine, il regno essendo
230
stato esposto a una carestia, nel 1555, il governo
permise di coltivare porzioni più grandi di terra,
che furono ancora aumentate nel 1745.
Attualmente il Tavoliere nutre dodici milioni di
pecore e i diritti del fisco ammontano a 425600
ducati.
La Puglia non è l'unico paese in cui il sistema
adottato dal governo, abbia provocato le
lamentele degli sfortunati abitanti; è lo stesso in
Spagna, che è divorata da parecchi milioni di
animali, che cospirarono contro la prosperità di
questo bellissimo regno. Questa condiscendenza sconsiderata del governo è utile solo
ad un piccolo numero di individui, e soprattutto
alla mesta, società di grandi proprietari,
composta da monasteri ricchi, grandi di Spagna,
capitalisti opulenti, che trovano vantaggio
nell'alimentare le loro pecore ai danni del
pubblico, in tutte le stagioni dell'anno, e che
hanno fatto sanzionare, con ordinanze
avventate, un'usanza introdotta per necessità in
tempi remoti, e la cui convenienza è diventata
presto diritto. Infine, quando l'abuso
cominciava a sembrare intollerabile, aveva già
231
messo radici profonde. Il risultato fu, per più di
un secolo, una lotta continua tra gli associati
della mesta da una parte e dall'altra gli
Estremenos, gli abitanti dell'Estremadura, la
provincia che ha sofferto di più di queste
vessazioni e che aveva per avvocati tutti gli
amici del bene pubblico. Inoltre, questo
sfortunato paese, che forniva sussistenza a due
milioni di uomini, contava a malapena
centomila anime.
È noto, che ciò che era vantaggioso mille anni
fa non è più conveniente oggi. Il sistema
pastorale può sussistere solo tra popoli erranti e
incivili; l'agricoltura è preferibile a questo stato
incerto e precario. L'industria del gregge, non
può essere vantaggiosa, a meno che non sia
esercitata come in Inghilterra, dove si trova un
popolo pastore e contadino allo stesso tempo.
Senza dubbio, in Puglia, i prati sono migliori
dei campi coltivati. Tuttavia, l'ambiguità dei
fatti e dei risultati offerti dai sostenitori dell'una
o l'altra opinione, e lo spirito di parte che li
anima, li fanno contraddire così tanto, che è
difficile trovare la verità. L'abitante della Puglia
232
vuole diventare agricoltore, quello dell'Abruzzo
vuole solo pascoli; gli uni affermano che le
pianure diverrebbero solitarie senza le mandrie
che le animano, e che tutti gli elementi si
oppongono alla propagazione della specie
umana; gli altri incolpano il sistema pastorale
per aver desertificato il paese. Quale partito
prendere in mezzo a queste opinioni e a questi
vari interessi contrastanti? L'unico conveniente,
sarebbe quello di dare agli abitanti la libertà di
agire a loro discrezione, consultando solo i
propri interessi, il cui incontro dovrebbe sempre
formare l'interesse pubblico. Abolire tutte le
leggi proibitive; vendere in proprietà assoluta
tutte le terre, in piccoli lotti, ai vecchi locatari;
dare ai proprietari alcune esenzioni; e si
vedrebbe presto gli uomini prendere la
direzione più vantaggiosa, anche per il governo.
Popolerebbero queste aride pianure; le
coprirebbero con alberi e raccolti, lasciando le
mandrie in posti da cui non potrebbero ricavare
nessun'altra risorsa. Ma si dovrebbe evitare che
i fondi cadessero nelle mani degli speculatori,
233
perché ciò sarebbe a discapito della prosperità
pubblica e dell'industria.
Infine, nel giro di pochi anni, si potrebbero
apprezzare i risultati di questo tentativo, che, ci
piace credere, presenterebbe presto al governo,
la rapida crescita della popolazione, la
prosperità dell'agricoltura e del commercio, ed
un graduale aumento di forza, ricchezza e
potere.
234
LETTERA XVIII.
Entrata nelle montagne. - Bei siti. - Tavola
storica, geografica e industriale del Sannio.
Ariano, 29 ottobre.
A pochi chilometri da Ordona, e dopo aver
attraversato il Carapelle, notiamo l'avanzare
della vegetazione. Prima, seminati sul terreno
abbastanza distanti, mazzi di ulivi, poi alcuni
cespugli. Poi abbiamo visto davanti a noi le
tanto desiderate montagne, la cui tonalità verde
bluastra indicava la presenza di vaste foreste.
Man mano che ci avvicinavamo, la loro
apparizione ci ha fatto provare un vero piacere,
che solo i pittori possono sentire bene. A poco a
poco le loro forme crescono, i loro piani si
staccano gli uni dagli altri; distinguiamo le varie
specie di alberi di cui sono ricoperti, i piccoli
centri abitati e le abitazioni rurali edificate sulle
loro pendici. Attraversiamo colline sempre più
alte. Il Castello di Sauri costituisce il primo
piano di questa tavola pittorica; domina la
pianura bagnata dalle tortuose ramificazioni del
235
Cervaro; finalmente Bovino si presenta ai nostri
occhi.
Questa città doveva essere importante, a
giudicare dalle rovine che la circondano, dai
marmi lavorati, dalle medaglie e dalle altre
antichità che si trovano spostando il terreno;
Plinio la chiama Bibino, e gli abitanti le fanno
derivare il suo nome moderno per il buon vino
che lì si raccoglie. Sono quattromila, e
comprendono, secondo l'usanza, diversi uomini
illustri poco conosciuti altrove, e tra gli altri un
medico-filosofo, di nome Giacinto Alfieri, che
senza dubbio non ha altro in comune se non
quello con il grande poeta moderno.
Mancavano ancora una ventina di miglia per
raggiungere
Ariano.
Quindi
cenammo
frettolosamente e, favoriti dal cielo più bello, ci
abbandonammo a tutto l'incanto che ci
regalavano le scene campestri, le cui bellezze si
svolgevano successivamente davanti ai nostri
occhi durante il resto di questa giornata e delle
seguenti. A volte il sentiero era realizzato su
strette cenge sospese lungo ripide pareti; a volte
era sostenuto da alte strade rialzate; oppure
236
attraversava arditi ponti, gettati da una roccia
all'altra, per lasciare libero sbocco alle acque
passanti del torrente. Più avanti scendeva per un
pendio più dolce fino al fondo delle valli; noi lo
seguimmo. Vedemmo allora la sinuosità dei
fiumi le cui rapide acque si affiancano, girando,
alle rocce che ne ostacolano il corso; oppure
trovando uno spazio meno angusto, scorrono lì,
più tranquille, per i prati, e all'ombra dei
noccioli, dei sambuchi e dei pioppi tremuli.
Anche se nell'ultima parte della stagione, la
vegetazione era ancora ovunque ricca e
abbondante, nella pianura che stavamo
lasciando, gli alberi perdevano le foglie, e i prati
erano ingialliti dal caldo, opachi dalla polvere.
Qui gli alberi sono carichi di tutti i loro
ornamenti autunnali; le viti si tingono di
porpora; gli acini trasparenti, rinfrescati da una
benefica rugiada, pendono alle estremità dei
rami; i pendii si arricchiscono di frutteti dove la
gioiosa Pomona riempie le sue ceste; e le cime
dei monti sono ricoperte dall'eterna bellezza dei
pini.
Qua e là, isolati e aridi picchi di roccia bucano
237
le nubi; parecchi sono coronati da questi antichi
castelli le cui rovine ancora minacciose indicano
il covo dei Saraceni, o di quegli audaci baroni
che anticamente, e a seconda del loro carattere,
proteggevano o facevano tremare i deboli
abitanti delle valli di queste torri snelle; queste
segrete piramidali sono abitate solo da corvi; e
servono tutt'al più a lusingare l'orgoglio di poche
famiglie nobili di cui ricordano le origini.
Questo spettacolo variava ad ogni momento;
ci ha mandato in visibilio e ci ha strappato
esclamazioni veramente ridicole per il nostro
impassibile conducente, e che forse lo saranno
anche per qualcuno dei nostri lettori. È solo in
montagna, però, che la natura si mostra all'uomo
in tutto il suo ornamento, a volte leggiadra ma
sempre rustica, più spesso severa e selvaggia, è
lì che stupisce con i suoi contrasti, e dove
incanta con le sue armonie; è lì che nelle diverse
ore del giorno e della notte la luce si modifica in
modo da produrre i migliori effetti di
chiaroscuro. Stavamo viaggiando attraverso una
valle profonda al mattino? l'ombra proiettata dai
monti ne copriva la maggior parte, mentre le
alture opposte risplendevano di tutte le luci del
238
sole nascente; i suoi raggi uscivano di mezzo
alle rocce, e attraversavano in colonne luminose
e diagonali gli oscuri vapori raccolti nei piani
inferiori; oppure la sera il suo disco si abbassava
davanti a noi in fondo all'immensa estensione
della valle, e illuminava tutto. Prima di
scomparire,
sembrava
comunicare
un
movimento più rapido alle miriadi di atomi che
nuotavano nell'atmosfera infiammata, e che di lì
a poco sarebbero precipitati, come noi,
nell'ombra e sarebbero tornati alla calma e al
sonno della notte.
A volte, ci trovavamo su alture circondate da
una luce splendente, mentre la valle era
ricoperta da una nebbia fitta e biancastra, che la
nascondeva e formava come una vasta distesa
d'acqua, da cui si ergeva la punta di una roccia,
la sommità di una torre o l'estremità piramidale
di alti pioppi; presto ci tuffammo anche noi in
questo mare aereo e scintillante, che si
trasformava in nuvole sospese sopra le nostre
teste, in questa massa di vapori; questo velo, poi
diventato più diafano, si squarciò, e i suoi
brandelli sparsi, dopo aver fluttuato contro le
montagne, si ridussero in reti invisibili.
239
Quante curiose osservazioni offrono in questi
luoghi le operazioni della natura! Come l’uomo
può rimanere freddo davanti a tutte queste
meraviglie? Perché preferisce il fondo delle
pianure spesso umide e paludose, o almeno
solitamente ricoperte da uno spesso strato di
vapori, a queste regioni eteree dalle quali,
librandosi sopra i suoi simili, gode quasi sempre
di un cielo terso e di un'aria di calma balsamica
e ristoratrice? Come compatisco coloro che
vedono nelle montagne solo masse inerti, nelle
loro scarpate solo precipizi, nella disuguaglianza del terreno solo fatica e pericoli, e nelle
lunghe deviazioni del sentiero solo ostacoli che
impediscono il loro cammino! Sono davvero da
compatire; privati del senso squisito di cui sono
dotati gli artisti, che fa loro vedere, sentire e
apprezzare, gli oggetti più sorprendenti della
creazione; indifferenti o stanchi, non possono,
come loro, godere attraverso il pensiero delle
scene ammirevoli di cui sono stati testimoni, il
cui ricordo esalta la fantasia e fa ancora fremere
di gioia sotto il ghiaccio dell’età.
Ho viaggiato attraverso vari paesi, tutti
famosi per la bellezza dei loro luoghi. Ho visto
240
quelli della Grecia, dell'Italia, della Svizzera e
quelli più allegri della nostra Patria; ma da
nessuna parte avevo notato una messe più ricca
di oggetti pittoreschi che nel regno di Napoli.
Forse era l'effetto del contrasto con la pianura
monotona che avevamo appena attraversato;
oppure devo questa disposizione ad ammirare
ogni cosa alle grazie della convalescenza?
Uscendo, per così dire, dalla tomba di cui avevo
scandagliato la profondità, assaporavo con gioia
il cammino che facevo verso la terra; i miei
organi ancora deboli venivano colpiti ancora più
deliziosamente dai minimi godimenti che una
Provvidenza soccorrevole non provvide a
compensare. A tutte queste considerazioni si
aggiunse infine il famoso nome del paese, patria
di quei fieri Sanniti che, per quasi un secolo,
contesero ai Romani l'impero d'Italia e, sebbene
meno numerosi, misero spesso la potenza di
Roma sull'orlo della distruzione.
La storia di questo popolo guerriero, che
ritracciamo ripercorrendo i luoghi delle sue
imprese, consiste solo in un susseguirsi di
attacchi rinnovati ogni anno con tanto vigore
quanto audacia. Livio li descrive come i più
241
pericolosi che i romani abbiano sostenuto; e fu
loro più facile sterminare questi fieri montanari
anziché sottometterli. I Sanniti persero in queste
guerre più di 200.000 uomini; tuttavia, sconfitta
ed esausta la loro immensa popolazione,
potettero ancora rifornire i romani nella guerra
dei Galli 70.000 fanti e 7.000 cavalieri. Il Sannio
era infatti ricoperto di città e villaggi; e inoltre
tutto il territorio fino al monte Matese, benché
orribile e pietroso, era disseminato di piccole
abitazioni molto vicine le une alle altre. Infine il
barbaro Silla rovinò completamente il paese: le
città o furono ridotte a miseri villaggi, oppure
completamente rase al suolo; e Floro dice che
nell'anno 102 della nostra era invano cercarono
il Sannio in questo stesso paese; non vi fu
trovato nulla che potesse far credere che i
romani avessero ottenuto ventiquattro trionfi sui
suoi antichi abitanti. Non c'è ancora un comune
in tutta la provincia la cui popolazione superi le
6.000 anime.
È deplorevole che tutti i dettagli relativi ai
Sanniti siano stati soppressi; perché sarebbe
interessante conoscere la costituzione politica
alla quale attribuire l'origine e la durata di un
242
potere così formidabile. Ma i romani
conoscevano le nazioni solo per sottometterle; e
una vile gelosia li spinse a distruggere tutti i
monumenti della loro storia.
Il successivo Principato, o Samnium
Hirpinum, fornisce un terreno estremamente
irregolare. È ricoperto quasi ovunque da
montagne separate da profonde valli, irrigate da
abbondanti sorgenti. Là la coltivazione è in
vigore, si estende anche ai pendii più ripidi, che
devono la loro fertilità alle antiche foreste di cui
erano ricoperti, e che abbiamo sacrificato a poco
a poco e molto imprudentemente. È vero che
questi luoghi, ricoperti da uno spesso strato di
terriccio, sono molto produttivi; ma questa
straordinaria abbondanza cederà presto il posto
alla più spaventosa carestia. Vediamo
quotidianamente il pendio delle colline
devastate dalle acque piovane e dai torrenti che
portano via la terra smossa dai contadini.
L'esempio delle isole della Grecia e di diversi
paesi del continente deve convincere i popoli
che non rispettano le foreste, e che non hanno
cura, man mano che i vecchi alberi vengono
distrutti, di lasciarli riprodurre nei loro giovani
243
germogli. Devono aspettarsi di non avere più né
foreste né coltivazioni, non appena il fronte
montano sarà completamente spogliato della sua
chioma verde e umida. Allora bisognerà scavare
nelle viscere della terra per estrarre il carbone
fossile, ammesso che esista nel paese, perché
qui non ne hanno ancora scoperto; e, se questa
risorsa manca, bisognerà abbandonare il paese
alle bestie feroci, che almeno non andranno
contro i desideri della natura e permetteranno
che un giorno la terra torni ad essere adatta a
sostenere nuovi abitanti.
Il clima di questa provincia è più temperato e
gode di aria più pura di quello della Campania,
dove si avvertono gli effetti disastrosi della
malsana evaporazione delle acque stagnanti e
dell'incompresa coltivazione del lino e della
canapa. Tutte le città e i villaggi sono situati in
collina, tranne un piccolo numero, come
Benevento, Avellino, Mirabella, Gesualdo e
Grotta Minarda, dove l'aria non è meno salubre.
Le acque non si fermano né ristagnano da
nessuna parte, e le febbri epidemiche, che
talvolta regnano in autunno tra la gente comune,
sono più il risultato della povertà che di
244
un'atmosfera malsana. L'elevazione del terreno
e la sua configurazione montuosa devono
renderlo più freddo di quello campano; in effetti
lì cominciamo a vedere qualche gelata alla fine
di ottobre; anche la neve cade in questa stagione,
ma i fiumi non gelano mai.
I terreni sono di buona qualità, eccetto che
nella valle avellinese che è sabbiosa; tuttavia,
quella è la provincia più popolata. Lì abbiamo
trovato a bassa profondità, così come a
Pozzuoli, ossa di elefante e altri fossili. Questa
provincia fornisce bellissimi marmi che furono
usati nella costruzione di Caserta; e c'è, vicino a
Monte-Fuscoli, un'abbondante miniera di sale
che il governo ordinò di chiudere circa
cinquant'anni fa.
Nel cantone dell'Ofanto non vediamo olivi; e
si dice che non li si possa coltivare ad Avellino,
a causa della neve che vi cade spesso. La scarsità
è attribuita anche allo scarso incentivo dato a
questa cultura, e all'eccessivo rigore dei
contributi e dei diritti signorili che gravano sul
Paese. Un naturalista sostiene che gli ulivi
dovrebbero crescere in tutto il regno di Napoli,
245
poiché esistono in altre parti d'Italia più a nord.
Ma, secondo quanto abbiamo osservato nei
nostri viaggi, e particolarmente nella Morea, gli
ulivi crescono solo sulle coste basse e in
prossimità del mare; prendono una crescita
straordinaria e, man mano che questi alberi si
allontanano dalla riva, e soprattutto man mano
che salgono sui monti, diventano magri, gracili,
e finiscono per morire ad una certa altezza. Non
è quindi per la neve, né per mancanza di cure,
che gli ulivi non prosperano nelle vicinanze di
Avellino, ma perché questa valle si trova a una
grande altitudine sul livello del mare.
Nonostante il governo feudale che governa
questa provincia, essa è la più popolosa del
regno, dopo la Campania, e fornisce in
abbondanza tutto il necessario per la vita. E,
nonostante i boschi vengano distrutti
quotidianamente, notiamo ancora, soprattutto
nei pressi di Ariano, bellissimi boschi di querce
bianche, di cerri, un'altra specie di quercia
sconosciuta in Francia, e soprattutto di
magnifici faggi. In questi cantoni i pascoli sono
scarsi e le mandrie vengono difficilmente
nutrite, tranne che nella valle di Benevento. Non
246
ce ne sono nei dintorni di Ariano e Avellino. Ma
le rive dell'Ofanto sono piene di grandi mandrie
di bestie cornute; e il pianoro del Formicoso
conteneva allevamenti di cavalli dove i principi
d'Aragona allevavano razze di cavalli
provenienti dalla loro terra.
Vediamo anche dei buoni pascoli sui monti di
Solofra e Serino, dove quasi tutte le pecore sono
nere. In generale, la lana è di scarsa qualità e qui
l'educazione del bestiame è ancora agli inizi.
Le fabbriche non sono molto importanti, e
quelle di Avellino, le migliori della provincia,
forniscono solo un panno grossolano adatto a
vestire i contadini e la livrea.
Anche se l’industria tende naturalmente
all’agricoltura, nell’economia rurale c’è tuttavia
una grande ignoranza. Le persone ricche e
benestanti sono infatuate da una vanità ridicola;
considerano la scienza del blasone prima di
tutto, e non c'è piccolo medico o notaio di
villaggio che non ostenta uno stemma.
Il movimento dei commerci trasporta tutte le
ricchezze sulla strada maestra da Napoli alla
Puglia. Nel resto del Paese i rapporti
247
commerciali sono nulli, a causa della mancanza
di comunicazioni; e la miseria è tanto maggiore
man mano che si avanza verso i monti. Il
progresso del lusso da un lato, la povertà
dall'altro, e la generale pigrizia, fanno sì che i
furti e gli omicidi siano molto frequenti e che le
strade siano insicure. Abbiamo stilato un elenco
di omicidi commessi dal 1784 al 1789; ne
consegue che il numero è più o meno grande in
ciascuna provincia rispetto alla differenza di
popolazione; ma segue approssimativamente la
stessa proporzione. In Campania è arrivato
nell'arco di sei anni, a millenovanta, cioè 182
all'anno, su una popolazione di quattrocentosettantatremila anime. Nell'ultimo Principato,
dove non si contano che trecentosettantatremila
anime, si contarono, nel 1790, centodieci
omicidi. Per quanto riguarda i furti, la quantità è
così considerevole che abbiamo rinunciato a
tenerne conto; inoltre, per la perdita di diversi
piccoli oggetti, ai quali non abbiamo prestato
sufficiente attenzione, essendo stati in qualche
modo sparsi sul nostro percorso, tutte le nostre
lamentele al riguardo sono state vane. Ci hanno
risposto con un suono inarticolato, con una
248
smorfia, e con l'alzare le spalle; oppure siamo
stati presi in giro. Avendo lasciato, ad esempio,
un bicchiere d'argento in una locanda, ci fu
consigliato di mandare un espresso a cercarlo.
Ma poiché avemmo la bontà di pagargli in
anticipo il disturbo, non vedemmo più, come ci
si aspetterebbe, né il bollitore né la posta. Che
differenza sotto questo aspetto tra i cosiddetti
paesi civili e la dura e barbara Turchia!
249
LETTERA XIX.
Ariano. - Situazione pittoresca. – Avellino. –
Monte Vergine.
Avellino, 30 ottobre.
Già da tempo vedevamo Ariano, situato su un
gruppo di rocce molto alte e isolate al centro di
una pianura bagnata dal Calore e dal Tripaldo
(Sabato).
Arriviamo in questa cittadina solo dopo
numerose deviazioni; e la sua posizione aerea
deve dare l'etimologia del suo nome che ha
molto messo in imbarazzo gli antiquari (1).
La giornata volgeva al termine e non eravamo
separati dalle porte della città che da una cintura
di rocce di cui dovevamo costeggiare la
scarpata. Si sentivano già le campane che
annunciavano l'Ave Maria: si sentivano
addirittura i clamori ed i canti degli abitanti.
______________________________________
(1) Secondo Flavio Biondo e Alberti, il nome Ariano
deriverebbe da un altare di Giano (Ara Jani) che
doveva esistere su questo monte.
250
Pensavamo di essere sul punto di arrivare,
quando il sentiero, ricavato sul pendio della
montagna, ci ha offerto improvvisamente un
vasto sviluppo e lunghe deviazioni che ci hanno
portato a grande distanza, per poi riportarci ai
piedi delle pareti, dalle quali abbiamo deviato un
attimo dopo per sprofondare attraverso
strapiombi rocce, dove il pericolo, accresciuto
dall'oscurità della notte, ci obbligava a rallentare
il nostro cammino. Somigliava molto a quello di
una nave in pericolo, sconvolta dai venti, e che,
per entrare in porto, è costretta a moltiplicare le
sue bordate. La stanchezza dei cavalli che non
obbedivano più allo schiocco e ai colpi di frusta,
l'atmosfera che diventava sempre più cupa e
gelida, la fame che ci opprimeva, tutto deve aver
eccitato la nostra impazienza, di cui il nostro
cocchiere sembrava farsi gioco. Insisteva sui
vantaggi della posizione inespugnabile della
città; ci ha lodato la purezza dell'aria, la bellezza
del colpo d’occhio; e, incalzato da domande,
concludeva sempre con queste parole: adesso,
adesso, arriviamo…. ci vuol pazienza…. Non
siamo arrivati; e ci è voluta più pazienza di
quella che ne abbiamo avuta per non insultarlo,
251
e per non maledire di tutto cuore la smania degli
uomini che li porta a rifugiarsi su altezze
inaccessibili.
Come abbiamo già osservato, le città qui sono
costruite su cime alte; da ciò si può dedurre che
il paese è stato a lungo in mezzo a dissensi e che,
devastato dalle guerre, è diventato povero e
infelice. Ci viene detto che il senso della propria
conservazione costrinse i primi uomini riuniti in
società a stabilire il loro domicilio in luoghi di
difficile avvicinamento, e quindi facili da
difendere contro le tentazioni delle orde erranti
dei loro nemici; ma lo stato di guerra non è
naturale per l'uomo civilizzato. Così notiamo
che le uniche città che hanno visto aumentare la
loro potenza e ricchezza, le capitali in breve, non
sono fortificate. Quasi tutte sono aperte e situate
nelle valli, vicino ai fiumi o lungo le strade. Se
un paese è pacifico e governato paternalisticamente, presto si assiste all'abbandono di
questi castelli fortificati, e di queste città,
circondate da mura e fortificazioni naturalmente
scoscese, dove l'industria è troppo rinserrata,
dove i tesori del commercio non possono
circolare liberamente; gli abitanti sono dispersi
252
nelle campagne, e non c'è buona coltivazione se
non quella dove le case rurali, sparse su ogni
piccola proprietà, non possono avere nulla da
temere da questo isolamento. Non c'è contratto
più ricco di quello in cui le ruote tracciate in tutti
i sensi, o i ponti gettati su tutti i fiumi, aprono
facili comunicazioni agli scambi commerciali.
Infine, non c'è paese più felice di quello in cui si
può viaggiare senza passaporto, senza armi,
senza scorta, e che è sempre in pace con i suoi
vicini.
Ariano deve la sua origine a un disastro:
distrutta la città di Aequum-Tuticum, gli
abitanti, ancora spaventati, si rifugiarono su
queste alture per proteggersi da una nuova
sorpresa; Ma più questa città diventava forte, più
correva pericoli e doveva vivere vicissitudini.
Così la vediamo, nella storia, cambiare
continuamente padroni: una folla di baroni la
contende, la possiede per tiranneggiarla con il
pretesto di difenderla; ne sono cacciati gli uni
dagli altri e la sicurezza non ritorna nel suo
recinto fino a quando non è unita al dominio
reale. Re Ruggero, preso possesso di Ariano, la
scelse per tenervi l'assemblea dei suoi Stati
253
Generali (Parlamento generale) nel 1140, alla
quale intervennero i deputati siciliani. Vi
pubblicò le sue prime leggi e diede corso a una
nuova monetazione. Questo paese tornò poi
sotto il giogo del baronaggio, che si scrollò
definitivamente di dosso solo nel 1586. In
questo intervallo di tempo, Manfredi la fece
distruggere dai Saraceni di Lucera; e questa fu
anche una delle accuse per le quali fu citato nel
1262 dal papa. Anche questa città è stata esposta
ai flagelli della natura; rovesciata verso la fine
del X secolo da un terremoto, i principi di
Benevento furono costretti, per ripopolarla, ad
inviarvi una colonia. Una calamità simile si
ripeté nel 1456 e diede il colpo finale alla sua
prosperità.
Ariano è ancora infelice, e non ha altra
manifattura che una fabbrica di terracotta
grezza. Il suo terreno è un tufo misto a testacee
marine. Produce noci, mandorle, grano turco e
piante medicinali; qui vengono sfruttate cave di
marmo e gesso. Quanto ai monumenti della
città, non siamo stati in grado di giudicarli;
perché arrivammo lì di notte, e partimmo il
giorno dopo prima dell'alba.
254
30 ottobre. - Il paese tra Ariano e Avellino ci
ha offerto panorami ammirevoli ed effetti
pittoreschi: a volte circondati da rocce, e
sebbene in profonda solitudine, eravamo
assordati dal rumore dei torrenti, dalle grida
degli uccelli rapaci o dal rollio dei venti
attraverso le strette gole delle montagne. Più
avanti, abbiamo trovato il silenzio sotto le cupe
chiome
dei
boschi
che
sembravano
impenetrabili. Quando uscì dal bosco, la scena
cambiò; e fummo avvertiti della vicinanza di
qualche luogo abitato, dal ticchettio di un
mulino, dall'abbaiare dei cani, o dalla zampogna
dei pastori. Abbiamo poi attraversato altre
solitudini di carattere diverso; siti di uno stile
molto variegato. Infine, la piana di Avellino si è
presentata ai nostri occhi con tutte le sue
ricchezze.
Non esiste una terra incolta: ogni luogo è
ricoperto di produzioni; frutteti intervallati da
viti; i prati accanto ai campi di grano. Tutti i doni
della natura sono esposti in essa con lusso,
incantano l'occhio e deliziano il pensiero.
Magnifici viali alberati conducono alle porte
della città; e si riconosce, entrandovi, la facilità
255
del commercio, l'attività dell'industria, il gusto
per le arti e il movimento di una città popolosa.
Si entra dapprima in una vasta piazza,
occupata al centro da una piramide marmorea,
sormontata dalla statua di Carlo I d'Austria,
eseguita da Cosimo Fansaga. Lo stesso artista ha
decorato la città con una miriade di altri
monumenti di scultura e architettura; come una
fontana con figure in marmo, situata in via del
Mercato; il Palazzo del Comune, la sua bella
torre che funge da orologio; e la costruzione
della Dogana, la cui facciata, molto ornata, offre
alcune statue antiche, ma la maggior parte di
esse mediocri.
Felice è l'artista che sa legare il suo nome e il
suo destino all'esistenza di una città,
adornandola con le proprie opere; egli è ancora
più fortunato se può rendere questo servizio alla
sua città natale, e ottenerne la ricompensa: ma
questo è molto raro, perché, si dice, nessuno è
profeta nel suo paese. Fansaga aveva infatti
adottato il regno di Napoli per il suo paese; ma
era nativo di Bergamo. Giunse giovanissimo a
Roma, dove studiò statuaria e architettura, alla
256
scuola di Pietro Bernini, padre del celebre
cavaliere Bernini. La Chiesa dello Spirito Santo
dei Napoletani, unico monumento che Fansaga
eseguì in questa capitale, influenzò molto il
resto della sua esistenza. Chiamato a Napoli, gli
fu dato tanto lavoro, che si stabilì in questa città.
Da quel momento la sua fortuna fu assicurata: fu
creato
cavaliere,
godette
di
grande
considerazione, e fu impiegato in tutte le
maggiori opere eseguite in questo regno nel
corso del XVII secolo (1).
I monumenti che abbiamo visto ad Avellino,
che gli vengono attribuiti, sono, come tutti quelli
di questo periodo, di quel gusto bizzarro di cui
Bernini, nonostante tutto il grande talento che
___________________________________________
(1) L'elenco sarebbe troppo lungo; possiamo farci
un'idea delle sue invenzioni dall'obelisco di San
Gennaro, quello di San Domenico Maggiore, e la
fontana della Medina, che il viceré, duca di quel nome,
gli ordinò di trasportare da via Platamone, dove era
inutilizzabile, alla piazza del Castello; l'ingegnoso
artista eseguì questa operazione con, molta
intelligenza, ma aggiunse a questa fontana una
profusione di pessimi ornamenti augustei.
257
siamo lungi dal contestargli, diede il cattivo
esempio. Infatti i suoi imitatori, che non
avevano il suo genio, puntando sul loro maestro,
spinsero l'abuso della decorazione all'estremo, e
scrollandosi di dosso il giogo del decoro e di
ogni regola, crearono lo stile al quale Borromini
ebbe la sfortuna di dare il suo nome. Questo
esempio deve far tremare gli artisti che, gelosi
di creare un nuovo genere, si abbandonano a
un'immaginazione incontrollata. Le loro
produzioni, esaltate dalla moda, e accolte da
quello spirito leggero così fatale alle arti,
potrebbero piacere per un momento. Abbagliati
da questo successo effimero, crederebbero di
avere diritto all'immortalità. Ma presto gli occhi
si aprono, la ragione riacquista i suoi vantaggi, e
questi cosiddetti capolavori, additati come una
trappola, ispirano solo freddo disprezzo; e il
nome di questi innovatori diventa una sorta di
insulto.
Torniamo ad Avellino. La posizione di questa
città la rende un luogo importante per il
commercio interno. I grani pugliesi affluiscono
al suo mercato, per essere poi distribuiti sulla
costa salernitana e ai confini della Campania.
258
Queste regioni ottengono in cambio dalle
fabbriche di Avellino carta, stoffe e mobili vari
piuttosto rozzi, ma adeguati alla povertà di
questi cantoni.
Un monaco, che ha scritto la storia di questa
provincia, fa risalire l'origine di tutte le sue città
e dei suoi più piccoli villaggi ai nipoti di Noè.
Un altro cronista dice che Avellino prende il
nome da sant'Abele, suo fondatore, che lì è
tuttora molto venerato. Altri fanno derivare
questo nome dai frutti dei noccioli (abellini) che
costeggiano i ruscelli, i sentieri, e che separano
tutte le proprietà. Secondo Camillo Pellegrino, i
romani la chiamarono Abellinum, da un tempio
di Bellina (Bellona); o perché avesse sostituito
l'antica Vellia o Avellia, i cui ruderi sono ancora
visibili nei pressi di Atripalda, sobborgo di
Avellino. La conquistarono nel 442 e fu
successivamente municipio, prefettura e
colonia.
Finché i Longobardi possedettero questo
paese, Avellino fu luogo di piacere dei Duchi di
Benevento; e si ritiene che uno di essi, Aione, lo
ricostruì nel IX secolo. Conquistato dai
259
Normanni, Ruggero vi fu incoronato (1) re di
Puglia dall'antipapa Anacleto. Fu nello stesso
luogo che l'imperatore Lotario e papa Innocenzo
II gli tolsero questo principato, per donarlo a
Rainulfo, conte di Capua.
La piana di Avellino, circondata da colline, è
sormontata, a ovest, dal Monte Vergine detto
anche Virgiliano, oggi Verginiano, e che
domina il paese e l'intera provincia. È un celebre
santuario e convento dei Benedettini bianchi,
fondato intorno al 1134 da San Guglielmo da
Vercelli. Si ritiene che occupi il posto di un
tempio rinomato tra gli antichi, ed edificato in
onore della madre degli dei, sotto il nome di
Mater Magna; è citato nell'itinerario di
Antonino, che lo colloca a sedici miglia da
Aequum-Tuticum (2).
______________________________________
(1) Galanti, Descr. delle Sicilie. Sebbene Pietro
Diacono affermi (lib. IV) che ad Avellino fu incoronato
Ruggero, bisogna comprendere che Anacleto gli diede
solo il titolo di re; poiché la cerimonia
dell'incoronazione fu celebrata a Palermo, qualche
tempo dopo il 25 dicembre 1130.
260
I Normanni concessero al monastero di Monte
Vergine molti privilegi ed il feudo di
Mercogliano; ma, nel XVI secolo, fu eretto (3)
l'ospedale dell’Annunziata di Napoli, che
ottenne le entrate da papa Leone X. I monaci
supplicarono; e ciò portò ad una sentenza in
virtù della quale i feudi furono ceduti
definitivamente all'ospedale, il che portò grandi
benefici ai feudatari, liberandoli da imposte e da
diverse altre servitù.
Il cimitero del convento è considerato un
oggetto curioso. Si tratta di una vasta volta,
situata al livello della chiesa, e scavata nella
roccia. Ha la proprietà di conservare i cadaveri
___________________________________________
(2) Pellegrino Campana, Disc. I, dice: Questa opinione
deriva dal fatto che abbiamo voluto seguire Flavio
Biondo, che non ha capito e ha corrotto il testo di
Antonino. Ma, distruggendo questa affermazione, non
dice dove si trovava il tempio di Mater Magna.
(3) A favore del cardinale Ludovico d'Aragona,
vescovo di Aversa, che cedette la baronia di Monte
Vergine a Leone X; comprende dodici città o villaggi e
diversi castelli. (Sigismondo, Descriz. di Napoli).
261
dei monaci nello stato in cui si trovavano al
momento della morte. Ne sono mostrati una
quarantina che sono secchi, incorruttibili, dritti
o più o meno curvati con l'età. Ci sono tre
generali dell'ordine, uno dei quali è in piedi in
una bara; ha conservato, si dice, la barba, i
capelli e perfino gli occhi che sono aperti.
Ai piedi della montagna, presso Mercogliano,
è il palazzo del capo dell'ordine dei Verginiani.
Questo edificio, chiamato Loreto, è vasto, ma ha
un design barocco. Vi sono archivi considerati i
più preziosi del regno, in titoli e manoscritti del
Medioevo.
Uscendo dal paese lasciamo alla nostra destra
il Monte Vergine. Curiosa la vista da questo
monte; è costellato di cappelle, oratori e croci,
lungo il tortuoso percorso per raggiungere il
santuario. Tutti questi edifici formano linee la
cui massa è molto pittoresca e ha l'effetto più
teatrale.
262
LETTERA XX.
Arrivo a Napoli. – Piacevole furfante. Costumi,
divertimenti e tratti morali dei napoletani.
Napoli, lì...
Siamo arrivati a Napoli da diversi giorni, e
sarebbe ora fuori luogo tornare indietro sulla
strada che ci ha portato fin qui. Non passerò
quindi in rassegna una miriade di piccole città e
graziosi paesini, che animano e abbelliscono la
regione, è vero, ma che, nella nostra impazienza,
abbiamo trascurato per rivolgere tutti i nostri
pensieri verso la capitale. Fino ad allora
avevamo avuto piacere nel fermarci,
girovagando ai lati del sentiero; ogni nuovo
oggetto forniva spunti di discussione, o portava
distrazioni piacevoli, e talvolta utili e istruttive;
così abbiamo sopportato la fatica e la lunghezza
del viaggio. Man mano che ci avvicinavamo alla
meta, l'impazienza ci ha sopraffatto; abbiamo
guardato solo noi stessi; occhi fissi, bocca muta,
sembrava che noi aspettassimo qualche grande
evento. Avevamo finalmente raggiunto questa
263
città, così meravigliosa che agli italiani
mancano le espressioni per lodarla, e che sono
costretti a confinare tutta la loro ammirazione in
questo proverbio: Vedere Napoli e poi morire.
Volevamo soprattutto vedere la cima fumante
del Vesuvio. Ansiosi di questo spettacolo, di cui
esageravamo la magnificenza, abbiamo chiesto
al nostro autista. Adesso, adesso, ripeteva; e
questa volta ci ha completamente presi in giro;
perché per questa strada non possiamo scoprire
il vulcano. Eravamo incastrati tra due filari di
immensi pioppi, che ci nascondevano i lontani
piani, di cui vedevamo solo scorci attraverso i
tronchi di questi alberi che formavano una
doppia cortina del verde più bello, ma anche
della più faticosa uniformità.
Questa passeggiata che, dalle porte della città,
si estende per più di una lega, è fiancheggiata da
fontane, cappelle e piccole case, dove la gente
viene a divertirsi. Più tardi ci sembrò molto
piacevole; ma in quel momento ci offriva solo
rumore, polvere e movimento disordinato.
Immaginiamo, infatti, la gara dei contadini il cui
costume è molto vario; l'avvicinarsi dei carri
264
carichi di produzioni dei campi, che
attraversavano con vetture brillanti precedute da
corridori; carrozze aperte, e cavalieri che
fendono l'aria e la folla dei passanti; e, in mezzo
a tutto questo trambusto che annuncia sempre
una grande città, e al quale non eravamo più
abituati, il nostro triste equipaggio in pessime
condizioni, e trascinato lentamente da cavalli
esausti.
Ci stavamo avvicinando alla città, quando un
uomo a cavallo fece cenno al conducente di
fermarsi e ci chiese con grande premura e
cortesia se non fossimo ingegneri francesi
arrivati da Costantinopoli. Alla nostra risposta
affermativa arriva, ci dice, il generale C...
ambasciatore di Francia, per accompagnarci
all'alloggio che è stato preparato per noi e dove
siamo attesi con impazienza. Sebbene il
generale ci avesse scritto numerose lettere
estremamente cortesi, non potevamo credere
che si fosse preoccupato così tanto di
intromettersi in questi piccoli dettagli. Tuttavia
l'ansioso napoletano ci assicurò con tanta bontà
la realtà della sua missione, che abbandonandoci
alla sua condotta entrammo in Napoli confusi,
265
ma incantati dalla provvida e delicata gentilezza
del Ministro di Francia; e, dopo aver fatto una
breve comparsa all'ufficio doganale generale,
sempre scortata dal nostro autista non ufficiale,
l'auto si fermò nella via principale di Toledo,
davanti alla porta di un grande albergo. Alcuni
servitori molto premurosi si impossessarono
delle nostre cose e ci condussero
nell'appartamento più bello, composto da un
gran numero di stanze. Vi trovammo un bel
fuoco, una tavola apparecchiata con due coperti,
e quasi subito fu servita una cena che sarebbe
bastata per dieci persone; gli rendiamo onore
benedicendo la mano che ci aveva guidato fino
al porto, e non indugiamo ad andare a dormire
in ottimi letti, dove, nonostante la sorpresa
provocata da una simile accoglienza, ci
addormentammo cullandoci nei sogni più
gradevoli.
Dovevamo avere già un'alta idea della città di
Napoli, della gentilezza dei suoi abitanti, e
soprattutto della munificenza del nostro
ambasciatore che non vedevamo l'ora di
ringraziare. Il giorno dopo, espresso questo
desiderio, fu pronta un'elegante carrozza, che ci
266
condusse, bruciando il marciapiede, al molo di
Chiaia. Il lacchè corre a chiedere se possiamo
essere ricevuti, e torna a dirci che il ministro era
con la corte al castello di Portici; poi ci chiede il
permesso di essere il nostro cicerone e mostrarci
alcune delle innumerevoli meraviglie della
Partenope moderna. Trascorsero così due giorni
in inutili commissioni per vedere il generale, e
con molta attenzione impiegati nella visita delle
chiese, dei palazzi, dei gabinetti dei quadri e
delle altre curiosità della città. Tuttavia,
sospettando qualche mistero nella nostra
avventura, il terzo giorno ci rifiutammo
accettammo il brillante equipaggio e, sfuggendo
all'ossessione del nostro invadente cicerone,
prendemmo un calesse, o cabriolet, che ci portò
al Palais de France. Ammessi subito senza la
minima difficoltà, l'ambasciatore ci ricevette
gentilmente, e si degnò di esprimere la sua
preoccupazione di non averci più visti; non era
stata certo colpa nostra e glielo abbiamo
assicurato. Poi, esponendo nei dettagli tutto
quello che ci era successo da alcuni giorni,
abbiamo insistito sugli obblighi che già
avevamo nei suoi confronti, e gli abbiamo
267
chiesto di permetterci di scambiare il magnifico
appartamento che ci aveva messo a
disposizione, con una sistemazione più modesta
e molto più conforme ai nostri mezzi.
Il generale ci lascia parlare senza
interromperci. Alla fine non poté più trattenere
la voglia di ridere, e ci fece vedere che noi
eravamo stati completamente raggirati da dei
mascalzoni che non erano nuovi a questo genere
e che cospiravano con i padroni delle grandi
locande per attirare così i clienti. Eravamo
consapevoli del nostro errore, che sarebbe
potuto durare a lungo se non avessimo
ingannato noi stessi il nostro Argo. Ci ha offerto
in compenso la sua casa e la sua tavola; e non c'è
onestà, nessun segno di interesse, nessuna
delicata attenzione che non abbia utilizzato per
rendere piacevole il nostro soggiorno a Napoli.
Tuttavia non abbiamo ritenuto necessario
accettare un appartamento al Palais de France;
infatti, dopo aver riso molto di una truffa di cui
gli stessi splendori di Parigi, così fatali agli
stranieri, non offrono esempio, corremmo a dare
congedo alla nostra effimera grandezza, e a
pagare una spesa di tre giorni, equivalente a
268
quella che avremmo potuto fare in un mese, in
un luogo più adatto, che ci aveva indicato il
segretario dell'ambasciata, e dove saremmo stati
al sicuro da truffatori di ogni genere, di cui la
capitale del regno di Napoli pullula.
Dopo che la nostra prima disavventura ci ha
informati sull'astuzia, la finezza e l'avidità dei
napoletani, abbiamo deciso di sfuggire all'abuso
che si stava commettendo, anche nel palazzo
dell'ambasciatore. È consuetudine, quando si
cena in una casa a Napoli, pagare più del valore
della cena. Ecco come: quando ci ritiriamo
troviamo tutti i servi allineati nell'anticamera, e
in attesa del tributo di coloro che hanno servito
a tavola. Per ottenere nuovamente gli stessi
servizi, bisogna distribuire a destra e a sinistra,
e anche nelle mani dello sguattero alcune
monete d'argento che sono state stanziate in
anticipo. Invitati una volta per tutte a casa
dell'ambasciatore (e non era una vuota cortesia
da parte sua, perché ci sgridava quando
restavamo parecchi giorni senza pranzare in
casa sua), l'uso della mancia ci pesava
pesantemente, per i suoi numerosi servi; e
abbiamo deciso di far sentire l'inconveniente
269
alla prima occasione. Il generale, un giorno, ci
rimproverò utilmente la nostra discrezione, e
gliene confessammo la causa. Non era a
conoscenza di questo abuso; e mandò a
chiamare il suo cameriere, che rimproverò
aspramente, minacciando di scacciare il primo
che avesse alzato la mano verso i suoi ospiti e
che avesse mostrato il minimo disappunto.
Il numero dei servi è immenso in Napoli; ogni
palazzo ne è pieno; e il borghese stesso ne nutre
parecchi, per averne il piacere di essere seguito
quando esce di casa. Un uomo che non vuole
essere confuso con la plebe può andare solo in
macchina; chi non può permetterselo esce solo
all’imbrunire per non compromettersi. Al
mattino, però, ci si può avventurare,
all'occorrenza, ma in vestaglia elegante, a
esplorare le strade a piedi: anche le donne
solitamente ci vanno da sole o in compagnia,
avvolte in un mantello alla spagnola, una sorta
di sottoveste di taffetà nera bordata di pizzo; se
lo arrotolano sopra la testa e nascondono il
volto. Vediamo solo gli artigiani a braccetto con
le loro mogli mentre passeggiano.
270
Il napoletano ama la libertà, il piacere e il
rumore: è vivace, parla velocemente e a lungo;
e i suoi gesti, moltiplicati, hanno spesso
un'espressione comica. Desideroso di feste e
spettacoli, ovunque incontriamo solo artisti,
prestigiatori, marionette, balli e compagnie di
cantanti. Utilizza il tamburello, le castagnette o
nacchere, e il colascione, strumento a due corde
e dal manico lungo.
Le feste religiose sono quelle che preferisce,
e sono molto brillanti: le chiese si trasformano
allora in teatri riccamente addobbati, che
risuonano degli accordi più gioiosi; gli assistenti
voltano le spalle all'altare e tutta la loro
attenzione è concentrata sull'orchestra. Anche le
processioni sono oggetto di curiosità, più che
frutto di vera pietà. Si estendono in file
immense, perché tutta la popolazione è iscritta
alle confraternite dei penitenti bianchi, azzurri,
grigi e neri; vi si portano baldacchini, stendardi,
ostensori ed altri oggetti riccamente adornati; e
gli spettatori che riempiono le finestre
accrescono ulteriormente la bellezza dello
spettacolo.
271
I napoletani soprattutto hanno una grande
venerazione per la Madonna. Le sue cappelle
sono ricavate nello spessore dei muri, o
sporgono dalla facciata di quasi tutte le case; di
notte vengono illuminati da lanterne o piccole
candele che vengono continuamente rinnovate,
e questa devozione ha anche uno scopo utile:
solleva la polizia dal doversi preoccupare
dell'illuminazione delle strade, e previene molti
furti e altri delitti.
I piaceri della tavola sono molto ricercati dagli
abitanti di Napoli, i meno sobri tra tutti gli
italiani. Durante il carnevale e le grandi
solennità, le strade sono ingombre di una
quantità prodigiosa di beni commestibili, che
basta appena per la giornata. Vediamo a tutti gli
incroci enormi caldaie di maccheroni dove la
gente pesca costantemente a piene mani; e,
accanto, botti colme di neve dell'Etna, sospese
su un dondolo e costantemente scosse, da cui
sgorgano rivoli di bevande ghiacciate. Altrove
viene distribuito ai lazzaroni, e a bassissimo
prezzo, il cosiddetto caffè levante, che almeno
ne ha il colore, se non proprio la virtù.
272
Lo splendore e la povertà, così vicini in tutte
le grandi capitali, formano qui un contrasto
sorprendente. Gli individui, che sfoggiano
all'esterno un sontuoso equipaggiamento, lacchè
e un corridore, vestiti con livree prese in
prestito, sono ridotti allo stretto necessario
all'interno del loro palazzo, di cui occupano solo
una soffitta.
Un tale cosiddetto signore, la cui anticamera è
ingombra di lacchè, può nutrirli solo a spese
degli ospiti e dei visitatori, mentre lui stesso vive
solo con i soldi delle carte e il profitto che gli dà
il gioco.
Un altro, che oserebbe mostrarsi in macchina
solo in pieno giorno, scappa da una porta sul
retro quando le strade sono illuminate solo dalla
lampada della Madonna; e si nasconde ancora
nel mantello, per non farsi riconoscere in questa
fioca luce. Dove corre con così tanto mistero?
Va in piazza, a comprare una ciotola piena di
maccheroni, che divorerà nello studio non
ammobiliato, unico rifugio che gli è rimasto.
Almeno il lazzarone mostra in pieno giorno la
sua vana povertà; con la sua beretta di lana di
273
colore vivo, e il suo ferrajolo, una specie di
pastrano marrone, decorato con grossolani
ricami di varie tonalità; non si vergogna di
andare scalzo, spesso senza camicia, e di
dormire sui gradini di una chiesa, riparato da un
tendone o da una panchina, che gli dà il nome di
banchiere.
Queste persone non possiedono nulla e
difficilmente ne hanno abbastanza; senza fuoco
né luogo, vivono sempre all'aria aperta, sul porto
o per le strade; e si abituano fin dall'infanzia,
perché la maggior parte di loro sono trovatelli.
Non esercitano alcuna professione e solo
occasionalmente prestano servizio come
facchini, commessi e manovali. Ma una volta
rimediato qualche carlino, pensano solo a bere
il gelato, a mangiare maccheroni bolliti, pesce
sotto sale, verdure o qualche rimasuglio di
vivanda; poi si addormentano, finché il bisogno,
facendosi nuovamente sentire, li obbliga a
guadagnare un'altra piccola somma, per poter
godere ancora una volta del benedetto far niente.
Ci sono molte storie stupide su questa grande
classe della popolazione napoletana.
274
Si diceva che formasse un corpo e che si
autonominasse un re, riconosciuto dal governo,
che le concedeva una pensione. Niente di più
falso. Lo stesso vale per il loro numero, che fu
stimato a quarantamila. Poiché Napoli conta
appena quattrocentoventimila abitanti, non è
probabile che la decima parte sia composta dai
lazzaroni. Anche il numero degli avvocati o
delle persone addette ai tribunali fu valutato a
trentamila. Si tratta di un'esagerazione
manifesta, che forse deriva dal fatto che l'abito
dell'avvocato (l'abito nero e il mantello) è
adottato, come quello dell'abate a Roma, dalla
folla di persone senza status, che non hanno altro
modo di distinguersi dal popolo. Le statistiche
napoletane contano solo tremila avvocati, e il
numero è ancora considerevole.
Dobbiamo trovare nei costumi, nelle
istituzioni, e anche nella lingua dei napoletani,
tracce del passaggio dei vari popoli che hanno di
volta in volta dominato questa regione.
I francesi soprattutto hanno lasciato ricordi
così profondi in tutto il sud e l'est dell'Europa
che il loro nome è diventato generico per
275
designare gli stranieri, e si confondono tutti con
quello di Franchi.
Tra diverse espressioni e usi francesi, i nomi
delle rues a Napoli sono stati conservati per
quelle abitate da mercanti stranieri. Fu tale il
loro sostegno sotto la regina Giovanna I, che per
amore dell'ordine, e volendo impedire ogni
causa di discordia tra tante nazioni diverse, la
regina assegnò a ciascuna un distretto distinto;
separando così i francesi dai provenzali, dai
catalani, dai genovesi, dai fiorentini. Le strade
in cui vivevano si chiamano ancora Rua
Française, situata vicino alla chiesa di San
Giovanni a Mare; Via Catalana, vicino a Piazza
Olmo. La rue Provençale esisteva fino al XVI
secolo, quando al suo posto fu costruito il
palazzo del re. La strada dove abitavano i
mercanti di Genova formava un lungo portico,
sostenuto da trenta pilastri che furono abbattuti
dai principi d'Aragona; e, al tempo dello storico
Summonte, si mantenne il nome Via Toscana
per quella che vediamo presso la sellaria.
La dominazione spagnola ebbe molta
influenza anche sui costumi e sul carattere dei
276
napoletani del XVII secolo: tutto allora veniva
fatto alla spagnola. Il continuo scambio di
interessi tra i due popoli portò a Napoli le
formalità del galateo, i costumi misti a cortesia
e altezzosità, il cambio di costume, magnanimità
e fierezza, cortesia verso il gentil sesso, gelosia
e vendetta segreta. Furono introdotte anche le
corride, le mascherate arabe, i tornei, le serenate,
le rappresentazioni dette reali; e furono messe
in scena le Vite dei Santi.
Tuttavia l'origine greca dei napoletani si
riconosce ancora nella loro fisionomia e nel loro
carattere. Hanno, come i Greci, un'intelligenza
vivace, una grande finezza d'organi, molta
abilità manuale; soprattutto, come loro, sono
amanti del rumore, dell'allegria, degli scherzi e
delle azioni mimiche e satiriche. Crediamo
anche che le emanazioni di nitro e di zolfo, di
cui è permeata l'atmosfera che respirano,
comunichino loro una preoccupazione e una
mobilità d'animo che danno a tutte le loro azioni
e ai loro minimi movimenti una vivacità che ci
appare disordinata, smorfiosa, che a volte
assomiglia persino al delirio.
277
Inoltre, è tra questi che possiamo trovare i
migliori mimi; Fu da Napoli che portammo il
faceto Tiberio Fiorillo, tanto famoso in Francia
sotto il nome di Scaramouche. Attirò il pubblico
al teatro italiano mentre Molière fece ammirare
i suoi primi capolavori in un altro teatro. Il
Terenzio francese apprese da Scaramouche
alcuni misteri dell'arte scenica. Frequentò
assiduamente le rappresentazioni spirituali di
Fiorillo; e presto riconoscemmo, nei personaggi
ridicoli delle sue commedie, lo studente, per
così dire, di Scaramouche. Ménage dice che non
è mai apparso sulla scena un attore più
ingegnoso: Homo non periit, sed periit artifex; e
che era la pantomima più perfetta che si fosse
vista fino ad allora. Quando Scaramouche si
allontanò da Parigi per alcuni mesi, la folla si
spostò verso Molière; ma quando tornò il mimo
italiano, Molière predicava nel deserto; e i
lineamenti del suo genio bello e potente furono
eclissati dagli scherzi piacevoli e naturali di
Scaramouche. Infine, carico di gloria e di
ricchezze, Fiorillo abbandonò il teatro, e morì
vecchissimo, a Parigi, nel 1694, lasciando al
figlio, divenuto prete, più di centomila scudi.
278
LETTERA XXI.
Vesuvio. - Porto. - Lanterna, o faro; e la
passeggiata del Molo. - Napoli. - Veduta del
mare al tramonto e alla luce della luna.
Napoli.
L'oggetto che più ha stuzzicato la mia curiosità,
al mio arrivo a Napoli, è stato il Vesuvio. Quale
fu la mia sorpresa e il mio disappunto alla vista
di questa famosa montagna! Non ti è capitato,
dagli scritti o dalle azioni di un uomo famoso, di
cercare di farti un'idea della sua fisionomia?
Crediamo di trovare sul suo volto e in tutta la
sua persona tracce delle sue qualità morali, o
delle sue grandi azioni; e spesso vediamo solo
un uomo comunissimo, gracile, di cattivo
aspetto, trascurato nell'abbigliamento e nel
comportamento, e il cui aspetto, lungi dal farlo
distinguere dagli altri individui, lo avvilisce ai
tuoi occhi tanto più la tua l'immaginazione lo
colloca su un piedistallo più alto. Lo stesso vale
per il vulcano che immaginavo solcato da
profonde asperità, e per i torrenti di lava che
279
segnano con una linea nerastra la traccia della
devastazione che avevano prodotto sui suoi
fianchi. Pensavo di poter camminare solo tra
rocce pendenti, edifici in rovina, cumuli di
detriti; e questo spettacolo di desolazione
doveva sempre essere, almeno immaginavo,
coronato da ondate ondulate di denso fumo, che
sembravano indicare uno degli sfoghi del
Tartaro.
Tuttavia non vedo che un tumulo di grandezza
ordinaria, di forma conica molto svasata, senza
varietà nei piani, senza disuguaglianze nella
pendenza, di colore uniformemente cinereo, e il
cui cratere, spogliato di ogni prestigio, trasuda
appena pochi vapori, percepibili solo al mattino
e alla sera, quando i raggi del sole li colpiscono
in direzione obliqua.
Il vulcano, circondato da fuochi, da fulmini e
da fiamme, splendente nell'oscurità, facendo
risuonare il paese con i suoi ruggiti e
scuotendolo con i suoi tremori, avrebbe senza
dubbio prodotto nei miei sensi un'impressione
più viva di questa massa triste, inerte, sterile. e
polverosa, che domina il paese più allegro.
280
Tuttavia, quando pensiamo che un intero popolo
canta e balla allegramente sull'orlo di un abisso
sempre spalancato; che questi raccolti, questi
frutteti, questi deliziosi vigneti sono sorretti da
un magro strato di terra, rivestito dello smalto
più brillante, ma minato di sotto da fuochi
costantemente accesi, che possono in ogni
momento farlo tremare, spaccarlo e inghiottirlo;
questo contrasto di una natura animata,
vigorosa, con un unico punto dove tutto langue
e muore; questa opposizione dei colori più
brillanti con queste tinte di un grigio uniforme e
livido; questo cratere silenzioso, questa calma
profonda ma ingannevole; tutto in questo
spettacolo ispira tristezza, e offre perfino
qualcosa di sinistro, che suscita nell'animo un
sentimento doloroso, che richiama l'immagine
del nulla delle vanità umane, e che sembra
annunciare il pericolo o la morte.
È chiaro che non potrei rendere in uno schizzo
sbiadito queste dissonanze che risiedono
soprattutto nell'opposizione dei colori. Ho
preferito dare una visione del Vesuvio presa dal
Castel Nuovo, e come la vediamo di notte e alla
281
luce della luna. Suppongo che esala ancora solo
un leggero fumo bianco castrato, che annuncia
l'avvicinarsi di un'eruzione solo quando è
accompagnato dal ruggito della montagna. Il
molo e la sua lanterna occupano il primo piano
della composizione (Fig. 9) (1).
È la passeggiata preferita dei napoletani, che
vengono a respirare l'aria pura del mare e le
emanazioni dei fiori di cui sono tappezzate le
valli. Il vento di terra le trasporta nel suo corso
regolare; ogni sera profuma e rinfresca le spiag______________________________________
(1) Denis, pittore tanto modesto quanto pieno di
talento, i cui paesaggi ho spesso ammirato a Napoli e
nelle principali città d'Italia, rappresentava, in studi
fatti dalla natura, i diversi aspetti del Vesuvio, diurni e
notturni, durante un'eruzione di cui espresse tutti gli
effetti con grande verità. Del resto nessuno meglio di
lui ha immortalato i luoghi pittoreschi della Campania.
I suoi paesaggi, dal colore vero e dall'effetto speziato,
sono quasi sempre animati da animali che eccelleva nel
rappresentare.
Potremmo
solo
rimproverargli
un'eccessiva diffidenza nei confronti dei suoi mezzi,
cosa che spesso gli faceva abbandonare dipinti che i
dilettanti trovavano molto belli e di cui lui solo non si
accontentava.
282
Figura 9
283
ge di Napoli e le rive del Sebeto, asciugate dalla
calura del giorno; ravviva gli organi stanchi,
comunica notizie anche alle menti, ravviva gioie
e piaceri la cui durata si prolunga fino a tarda
notte.
L'antico porto di Napoli venne interrato in
seguito alle rivoluzioni vissute da questa terra in
costante vacillamento. Occupò la piazza che
ancora si chiama Contrada di Porto; e
vedevamo la torre che fungeva da faro, in un
vicolo dietro la chiesa di S. Onofrio de Vecchi.
Esistono ancora, mi è stato detto, nelle cantine
vicine, i resti di un antico monumento dove fu
rinvenuta una figura di Orione, che il popolo
ritiene essere quella di un personaggio di nome
Nicolò, famoso nuotatore, che veniva chiamato
il pesce napoletano, Piscicola. Questo Nicolò
esisteva al tempo di Federico d'Aragona. Si
sostiene che abbia nuotato dalla Sicilia alla
Calabria per trasportare dispacci segreti. A volte
trascorreva quattro o cinque giorni in mare,
nutrendosi di pesci, ostriche o piante marine, e
giocando anche con le onde agitate dalla
tempesta. Federico, trovandosi a Messina, fece
284
gettare negli abissi di Cariddi una coppa d'oro,
che l'uomo-pesce andò a prendere dal fondo del
mare dove rimase tre ore. Al suo ritorno dipinse
un quadro spaventoso delle grotte sotterranee
che aveva visitato e delle correnti di cui era stato
quasi vittima. Il re, per incoraggiarlo a fornirgli
nuove informazioni su questi luoghi sconosciuti
agli altri mortali, fece lanciare un sacchetto di
monete d'oro e un'altra coppa; ma il povero
Nicolò fu vittima del suo coraggio e della sua
avidità, in questa nuova immersione; e il suo
corpo non è mai più apparso.
All'epoca di Carlo I d'Angiò, esisteva una diga
sulla quale poi furono costruiti la darsena e
l'arsenale. Carlo II fondò, 1302, parte del molo
che ora vediamo. Carlo III, padre dell'attuale
sovrano, lo estese, nel 1743, verso est, di più di
trecento palmi, e lo completò con un forte
fornito di artiglieria, che controlla il porto ed il
mare aperto; il molo protegge le imbarcazioni
dal vento di scirocco che domina nel golfo. Ma
il porto è troppo piccolo per una capitale, perché
non ha duecento tese nel suo diametro maggiore.
Si potrebbe formare, attraverso alcune opere ben
285
conosciute, un altro porto il più vasto possibile
nello spazio tra il castello dell'Ovo e la Lanterna.
Sotto la costruzione moderna si trovavano
grandi magazzini per il disarmo delle navi da
guerra. La sommità offre un ampio e bellissimo
terrazzo, arredato con panchine in Piperno, e
pavimentato con pietre laviche a taglio
squadrato.
La lanterna o faro del porto, eretta nel 1301 da
Federico I, fungeva da polveriera; ed era ancora
lì, quando, intorno al 1626, un fulmine vi cadde
sopra, la incendiò e la fece saltare in aria. Il
Duca d'Alba la ricostruì sul modello composto
da Pietro Martino, architetto napoletano Si dice
anche che vi fosse un galeotto che forniva i
disegni e ne supervisionava l'esecuzione, e che
la gente fu così contenta di quest'opera che al
suo autore furono concesse libertà e grandi
ricompense. L'iscrizione posta sulla porta di
questo monumento menziona il re Filippo IV, il
duca d'Alba e un certo Francisco Mannique
triremium gub. curante. Questo è senza dubbio
il motivo per cui quest'opera è stata attribuita a
un galeotto. Per ovviare a un inconveniente così
diffuso, non dovremmo, invece di persone il cui
286
nome diventa poi un enigma, registrare, in
queste iscrizioni lapidarie, il nome dell'artista
che ha realizzato il monumento?
La passeggiata del molo termina con una
moderna fontana. Ve n'era un'altra nel
medesimo luogo, ornata di bassorilievi e di
quattro figure, eseguita dal Merliano, meglio
conosciuto sotto il nome di Giovanni di Nola,
donde questa piazza ha conservato il nome di
Quattro del molo. Queste bellissime opere di
scultura furono rimosse dal viceré Pietrantonio
d'Arragona, che le fece trasportare, di propria
autorità, in Spagna, per adornare i suoi giardini.
Questo incredibile atto di audacia e di
dispotismo suscitò dapprima solo i gemiti dei
napoletani che non osarono impedirlo; ma, in
seguito, lo stesso viceré volle spogliare anche la
fontana di S. Lucia a mare, dei bassorilievi
composti dal D'Auria, allievo di Merliano; gli
abitanti si opposero fortemente, minacciando di
ribellarsi. La condotta impudente di questo
governatore contrasta con quella del re Carlo III,
il quale, alla partenza per la Spagna, ebbe la
delicatezza di riporre nel gabinetto di Portici un
bellissimo cammeo antico che portava al dito da
287
sette anni. Considerandosi, disse, soltanto
custode delle ricchezze trovate ad Ercolano, non
voleva distrarne minimamente. Bellissimo e
raro esempio di integrità!
Dalla piattaforma della mole godiamo di una
vista molto bella. Ma, per comprendere l'intera
città, segnaliamo alcuni punti salienti, come la
certosa di San Martino, sul monte Sant'Elmo, e
il luogo chiamato Miratodos. Da queste altezze
godiamo, è vero, di un maggiore sviluppo del
territorio, e la vista spazia a distanze immense.
Ma se guardiamo indietro, ai piedi della scarpata
dove ci troviamo, vediamo solo i tetti degli
edifici; le strade sembrano solchi profondi;
cortili e luoghi presso pozzi; tutti gli oggetti,
ugualmente illuminati e senza effetto, non
presentano alcun interesse pittoresco. È quindi
preferibile avere una carta geografica di grandi
dimensioni approssimativamente illuminata, a
un dipinto di Claude Lorrain. Per godere
appieno della vista di una città è necessario
alzarsi un po' e allontanarsi ad una distanza tale
da poterla abbracciare tutta in un colpo d'occhio.
Napoli vista dai giardini di Portici ne offre una
molto bella, ma diventa ancora più imponente
288
quando ci si allontana in mare aperto. Quindi
varia a seconda che ci si muova e ci si allontani;
e, per un dipinto, ne abbiamo mille, tutti diversi
per linee, effetti e colore.
La vista di Napoli, arrivandovi via mare, è
stata spesso paragonata a quella di
Costantinopoli; e aggiungiamo che l'aspetto di
queste due città è il più meraviglioso del mondo
in questo genere. Quella della città turca
l'abbiamo già descritta; e, quanto a ricchezza ed
estensione, prevale su quella di Napoli. Ma
quest'ultima è infinitamente più pittoresca e
deve questo vantaggio al movimento del terreno
che, nelle sue linee sinuose e brusche, sviluppa
molto meglio gli edifici della città, li fa
piramidali gli uni sugli altri, e ne stacca le masse
e le imbardate; mentre le coste del Bosforo,
generalmente basse o arrotondate in colline,
offrono solo linee di grande estensione, senza
varietà nelle loro forme, e senza contrasto nei
loro effetti.
Arrivando nel Golfo di Napoli, e lasciando
sulle coste le isole di Ischia e Capri che
sembrano stelle avanzate, vi si offrono gli
289
scenari più mirabili. A sinistra si stagliano le
ripide rocce di Procida e di Capo Miseno, alle
cui spalle si vede il Golfo di Pozzuoli, dominato
dal Monte Barbaro; e, man mano che ci
avviciniamo, l'interesse diventa sempre più
concentrato e coordinato in un unico quadro
stretto tra il Monte Posillipo e il Vesuvio. Napoli
occupa il centro del bacino; e i suoi edifici sono
raggruppati attorno al Monte Sant'Elmo,
l'acropoli dell'antica Partenope.
Per godere appieno di un aspetto bisogna
scegliere l'ora, il momento favorevole agli
effetti pittoreschi. Imbarchiamoci su una barca a
remi, e lasciamo il porto verso la fine della
giornata: il sole tramonta sulla tomba di
Virgilio, e la circonda di un alone splendente.
Fuori della punta di Posillipo, illumina ancora le
antichità sparse sulle coste di Pozzuoli, e si tuffa
infine nel mare tra il promontorio di Miseno e
l'isola di Procida, anche se alle nostre spalle
indora le punte scoscese di Anacapri. Segue il
crepuscolo che dipinge a lungo il cielo azzurro
con le sue sfumature rosa e violacee, e infine,
con questo tono grigio argentato, prima
sfumatura del manto notturno, attraverso il
290
quale si vede già scintillare qualche stella. Cessa
la brezza, le onde si calmano, il mare è liscio e
trasparente, e la stella di Venere si ripete nelle
acque e lì risplende come un diamante che nuota
sulla loro superficie: i marinai cominciano l'inno
della sera, ed io aspetto senza impazienza che
venga la luna e illumini gli oggetti e mi dia
nuovi piaceri variando gli effetti di chiaroscuro.
Si era oltrepassato l'orizzonte e si stava
uscendo dal Golfo di Salerno, ma non riuscivo
ancora a scorgerne il disco, nascosto dietro le
creste del Vesuvio. Ma la sua luce tenue
argentava già il fumo che fuoriusciva dal
cratere, o meglio i vapori condensati che lo
coronano. Ma, appena la stella splendente ebbe
raggiunto la vetta dei monti, un rapido fascio di
raggi si precipitò, colpendo diagonalmente le
fabbriche della città, ne illuminò le facciate,
mentre lunghe ombre, proiettate da alcuni
grandi edifici, lasciavano i piani inferiori di
questo dipinto in una vaga oscurità: interi
quartieri di fronte al fuoco della luce si stagliano
contro i vapori biancastri emanati dalle acque
del Sebeto, oppure si stagliano sullo sfondo
aereo dei colli che dominano la valle di Nola.
291
Nel centro della città, i templi, i palazzi, le
terrazze, gli acquedotti e i giardini, sospesi
piramidalmente sui crinali della montagna, fino
alla sommità occupata dalla Certosa e dal Forte
Sant’Elmo, tutti questi oggetti formano, in un
certo senso, una pioggia di luce il cui spettro si
riflette nel calmo specchio delle acque del porto.
Il Castel Nuovo, il molo, il promontorio di Santa
Lucia e il Castel dell'Ovo, offrono ancora una
barriera ai raggi luminosi e proiettano l'ombra
sulla riva della Chiaia, che contrasta con la
Margellina e le rocce di Posillipo, ben
illuminate. Finalmente il Golfo di Pozzuoli si
perde in lontananza; e i muri biancastri delle
fabbriche sparse sulle sue coste non ne
determinano che i contorni, che, con la loro
unione, indicano le località di Pozzuoli e di
Bacoli.
Non potevo stancarmi di contemplare questo
spettacolo imponente; e avrei vagato a caso per
tutta la notte sul golfo, se la freschezza,
facendosi pungente e penetrante, non mi avesse
avvertito di pensare al ritiro. Mi avvicinai alla
lanterna del molo, che brillava di una fiamma
rossastra, di alcuni fuochi accesi sulla riva e del
292
loro fumo dorato, delle luci che illuminavano
l'interno delle case, delle torce che portavano i
corridori davanti alle macchine, tutte queste luci
fisse o vaganti si dipingono come scie di fuoco
sulle onde leggermente in movimento. Gli alberi
delle navi e dei battelli, riuniti nel porticciolo,
presentavano l'aspetto di una foresta spoglia
delle sue foglie; i pescherecci, incrociando il
porto, formavano tante macchie nere; ed i loro
remi, mossi con regolarità, facevano somigliare
queste leggere barche a quegli insetti che
viaggiano veloci sulla superficie degli stagni.
Dopo aver gustato la dolcezza della calma più
profonda, dopo aver goduto delle bellezze
naturali più sublimi, il movimento e il rumore
della città dovettero dispiacermi; così corsi e mi
chiusi nel mio rifugio. Lì, seduto davanti alla
mia finestra, con il foglio sufficientemente
illuminato dai raggi della stella notturna, scrivo
questa lettera in cui cerco di tracciare il contorno
del mirabile quadro che ha appena incantato i
miei occhi, e i cui colori rimarranno vividi,
impressi nella mia immaginazione.
293
LETTERA XXII.
Note storiche sulle arti napoletane fino al
quattordicesimo secolo.
Dopo aver trascorso la maggior parte della
giornata visitando i monumenti e le altre
curiosità di Napoli, mi allontano con nuovo
piacere dal tumulto di questa capitale, per
curiosare tra i buoni autori napoletani (1), e
trarre dai loro scritti una ricchezza di
conoscenze che nemmeno la conversazione più
istruttiva potrebbe darmi. Li preferisco
soprattutto ai Cicerone, che ti ossessionano e ti
stancano con le loro chiacchiere ufficiose e
insignificanti. Sono queste le note risultanti da
questa elusione, o meglio da questo
divertimento, che affido alla carta; il loro
oggetto deve essere la ricerca sulle arti
napoletane. Invece di buttare a casaccio e senza
metodo le nozioni che ho acquisito sui monu______________________________________
(1) Mi è stata particolarmente utile l'opera di Signorelli,
intitolata: Vicende della Coltura nelle Sicilie.
294
menti della città, le metterò in relazione con il
periodo della loro costruzione, facendo sentire
l’influenza che gli eventi politici esercitarono su
queste produzioni artistiche. È chiaro che non li
esaminerò tutti; forse non parlerò nemmeno di
quelli più interessanti. Non è quindi una
descrizione completa di Napoli quella che mi
impegno qui a dare, ma una raccolta delle mie
idee sugli oggetti che più mi hanno colpito in
una prospettiva pittorica. Un altro li considererà
da un aspetto diverso. E non dobbiamo perdere
di vista il fatto che io sono solo un artista, al
quale dobbiamo chiedere più sentimento che
erudizione e meno genialità che verità nei suoi
dipinti.
Del resto queste nozioni, per quanto
imperfette, potrebbero servire a qualcosa,
poiché compenseranno il silenzio di altri
viaggiatori che, molto preoccupati dello stato
delle arti nel resto d'Italia, hanno disdegnato di
informarsi sulle origini e seguirne l'evoluzione
nel paese che ho davanti agli occhi. Vasari,
Borghini, Baldinucci, infine Bettinelli, eco dei
suoi predecessori, estimatori esclusivi e talvolta
ingiusti delle scuole di Firenze, Venezia, Roma
295
e Bologna, hanno appena citato gli artisti
napoletani. Lanzi cita solo i pittori, e la sua
opera è incompleta sotto altri aspetti. Nell'attesa
di uno scrittore erudito e imparziale che
riunisca, in un corpus di opere, la storia generale
delle arti in Italia, crediamo si debba riabilitare
la memoria degli artisti del regno di Napoli, e
richiamare l'attenzione su questo paese, distratto
dalla fama abbagliante di altre scuole.
Non riporteremo i titoli di gloria della grande
Grecia; sono così conosciuti e di tale genuinità
che basta dare uno sguardo a questo felice paese,
o muovere leggermente il suolo, per trovare
testimonianze del gusto e della magnificenza dei
suoi antichi abitanti. I vasi dipinti campani, che
abbiamo ingiustamente insistito a chiamare
etruschi, gli eleganti mosaici, i dipinti di grande
stile che ancora decorano gli ambienti
sotterranei, le statue di marmo e di bronzo
sottratte sotto le macerie dei palazzi e dei templi,
le medaglie la cui serie è interessante tanto per
la storia stessa quanto per quella delle arti, e di
cui si direbbe che il progetto sia stato
perfezionato qui, ancor prima che ad Atene;
infine le testimonianze degli scrittori
296
dell'antichità, che nominano una schiera di
artisti le cui opere e fama onorano la grande
Grecia, dimostrano che essa fu prima di Roma il
centro del gusto. Gli storici moderni si uniscono
a noi nell’affermare che essa ha sempre meritato
di portare il nome dell'antica patria delle arti.
Abbiamo spesso dipinto il quadro deplorevole
della caduta dell'Impero Romano d'Occidente e
delle irruzioni delle orde settentrionali che
soffocarono le luci sotto le rovine delle città e
nel sangue dei cittadini. Tuttavia i Goti, sotto la
guida di Teodorico, non sono da considerarsi
assolutamente barbari (1); e, benché il loro re
non sapesse neppure firmarsi, ebbe il buon
animo di preservare i magistrati di Roma, di
confermare, con un editto, le leggi contenute nel
codice teodosiano: fece erigere magnifici
edifici; riparò quelli vecchi; proibì che i templi
venissero spogliati dei loro ornamenti di marmo
______________________________________
(1) Dione Cassio, che morì prima della fine del terzo
secolo, e che aveva scritto una storia generale dei Goti,
che è andata perduta, disse, secondo Jornandes, che i
Goti erano gli unici barbari educati, colti e saggi quanto
i Greci.
297
e di bronzo; infine protesse le lettere e le arti e
ne incoraggiò la cultura.
Fu un napoletano, il senatore Cassiodoro, noto
in quel tempo per essere il sostegno di dotti e
artisti, che seppe ispirare sentimenti così
moderati in Teodorico e nei suoi successori.
Rimase, per la felicità dell'Italia, settant'anni alla
guida degli affari; egli stesso ci racconta che
Teodorico restaurò gli acquedotti, le terme, gli
anfiteatri, i teatri di Roma e di altre città d'Italia;
e che costruì diversi palazzi nei quali volle
imitare e anche superare in magnificenza gli
antichi artisti romani.
È vero che i Goti vengono accusati di aver
introdotto un nuovo sistema di costruzione e di
aver violato le regole degli antichi ordini
architettonici. Ma preferiamo credere, con
Muratori e Maffei, che l'arte fosse già in declino
quando questi popoli del nord arrivarono in
Italia. Cassiodoro dice che usavano delle
colonne lunghe e sottili che somigliavano a
giunchi; e già Vitruvio si era lamentato
dell'abuso fatto di alcuni stravaganti oggetti
nella decorazione dei teatri e delle case private.
298
Per quanto riguarda gli archi cosiddetti gotici
o a sesto acuto, ne vediamo numerosi esempi
nelle costruzioni del Tardo Impero; ma erano
conosciuti molto tempo prima. Sallustio
sostiene che alla morte di Ercole in Spagna, i
Persiani, che facevano parte del suo esercito, si
imbarcarono per l'Africa, dove arrivati, tirarono
le loro navi a terra e, dopo averle rovesciate, ne
fecero la loro dimora. Lo stesso storico aggiunge
che, ai suoi tempi, le abitazioni dei Numidi
somigliavano allo scafo di una nave e troviamo
ancora la stessa forma negli archi e nelle volte
degli indiani, dei greci e dei turchi. Ma non
dovremmo, crediamo, formarne il carattere
distintivo dell'architettura gotica; e, sebbene non
possiamo dubitare che i principi gotici abbiano
eretto monumenti, come le terme di Verona e
Pavia, e un anfiteatro in quest'ultima città,
poiché non rimane nessuno di questi monumenti
la cui origine gotica è ben accertata, non
possiamo giudicare lo stile della loro
architettura.
Nella scultura abbiamo conservato il ricordo
di una statua che costoro eressero al loro re
Teodorico nella norrena di Napoli, e che era
299
composta, o meglio ricoperta di pietruzze di
vario colore; era una specie di mosaico in
rilievo. La testa di questa figura si staccò e cadde
durante la vita di questo re; otto anni dopo, il
resto del corpo si decompose fino alla cintura
turca; e, poco dopo, non ne rimase più nessun
vestigio. Queste statue, realizzate con piccole
pietre colorate, non erano rare a quel tempo.
Citiamo quelle che Teodorico aveva realizzato a
Ravenna. Una rappresentava questo principe in
piedi, con la lancia nella mano destra e il braccio
sinistro coperto da uno scudo; e al suo fianco
c'erano altre due statue che personificavano le
città di Roma e Ravenna. Finalmente vedemmo
nel palazzo di Pavia la statua equestre di questo
monarca, similmente eseguita in mosaico. Ne
fece erigere un’altra in bronzo dorato in
Ravenna; ma si ritiene che fosse già stata
utilizzata per l'imperatore Zenone, e che
l'iscrizione fosse stata cancellata per sostituirvi
il nome di Teodorico. In ogni caso Carlo Magno,
di passaggio a Ravenna nell'801, colpito dalla
bellezza di questa statua, la ottenne dai cittadini,
e con essa adornò la sua nuova città di Aix-laChapelle. Anche il Senato di Roma fece erigere
300
nel 500 una statua in bronzo a Teodorico. Ma
sembra che tutte queste figure furono poi
demolite da Rusticiana, vedova di Boezio.
Anche i dipinti a mosaico erano ampiamente
utilizzati, e furono persino prodotti veri dipinti
propriamente detti. Vi è, nella chiesa di
Sant’Agnello, un'immagine della Vergine con il
bambino Gesù, che deve essere stata dipinta al
tempo di Giustiniano, da un uomo di nome
Tauro. Fu davanti a questa immagine che nel
520 resero la loro devozione la beata Giovanna
e Federico, genitori di Sant'Agnello. Allo stesso
artista sono attribuiti alcuni dipinti antichi
conservati nelle grotte di San Gennaro.
Sotto i monarchi goti l'Italia, benché
languisse, aveva dunque conservato la sua
civiltà, le sue leggi, i suoi magistrati, ed anche il
suo gusto per le lettere e le arti; dovemmo
rimpiangere la dominazione di Teodorico,
Amalasunta, Totila e Teia, quando gli italiani
furono sottomessi e brutalizzati dai Greci e dai
Longobardi, che rovesciarono il governo e tutte
le istituzioni sociali.
Sembra, infatti, che
queste due nazioni si siano accordate per
301
distruggere tutte le produzioni del genio. I
Longobardi, ignoranti e feroci per istinto,
portavano dovunque ferro, fuoco e desolazione;
i Greci, intolleranti, avidi e saccheggiatori,
vedendo che a fatica potevano rimanere in un
paese di cui erano gelosi, lo spogliarono di ogni
cosa notevole e distrussero ciò che non potevano
portare via. I primi saccheggiarono, nel 589, la
ricca abbazia di Montecassino; gli altri, la
celebre Basilica del Monte Gargano. Costante II
spogliò i monumenti di Roma di tutti i loro
ornamenti, e rimosse le statue; degradò la cupola
del Pantheon per togliere il metallo che la
ricopriva; lo stesso fece a Siracusa; e alla sua
morte il frutto del suo saccheggio cadde in
potere dei Saraceni, che lo trasportarono sulle
loro navi ad Alessandria.
I Longobardi però, divenuti cristiani,
espiarono la loro prima devastazione facendo
costruire una serie di edifici religiosi, dove il
buon gusto era però soffocato sotto l'inutile
lusso. Agilulfo, Adaloaldo, Grimoaldo e gli altri
loro principi innalzarono chiese in Lombardia, e
restaurarono, nel regno di Napoli, quella del
Monte Gargano, e parecchie altre che erano state
302
saccheggiate. Nel 717 venne rifondato anche il
monastero di Montecassino. Pochi anni dopo
Gisulfo II costruì a Benevento la celebre chiesa
di Santa Sofia; ed il principe Arechi fece erigere
due magnifici palazzi, uno in questa città, l'altro
in Salerno.
La scultura, fedele compagna dell'architettura,
ha avuto lo stesso destino. La statua colossale di
Barletta era considerata il monumento più
autentico della scultura di questo periodo; ma
abbiamo già espresso parere contrario al
riguardo. Citiamo anche una vipera oro, che il
duca Rodoaldo custodiva nel suo palazzo come
oggetto di superstizione, e che il santo vescovo
Barbato ottenne dalla duchessa, per convertirla
in vasi sacri. Possiamo almeno dedurre che non
avesse cessato di essere esercitata; e gli storici
menzionano oggetti metallici di pregevole
fattura.
Si coltivava anche la pittura; e il Diacono parla
di pitture con le quali, agli inizi del VII secolo,
veniva decorata la stanza dove ricevevano la
cresima i neofiti battezzati. Alla cura di Papa
Onorio I e a San Zaccaria si devono anche i
303
dipinti e i mosaici di Sant'Agnese della Via
Nomentana e la carta geografica del palazzo di
San Giovanni in Laterano. Potone XI, abate di
Montecassino, fece dipingere la chiesa di San
Michele da lui costruita; e vedemmo a Capua,
nell'VIII secolo, il ritratto di Arigiso, duca di
Benevento.
Un lampo passeggero e ingannevole, che
brillò verso la fine dell'VIII secolo, sembrava
promettere il ritorno della luce. Carlo Magno
portò in Italia il suo amore per lo studio; protesse
e premiò il lavoro degli studiosi. Arechi,
principe longobardo, coltivò lui stesso le lettere;
suo figlio Grimoaldo, saggio in pace, valoroso
in guerra, imitò il suo esempio. Ma ben presto,
secondo l'espressione italiana, l'albero che i
principi di Benevento avevano piantato,
cominciò a essere roso dal tarlo feudale; e
nell'840, essendo stato questo ducato diviso, e
poi suddiviso all'infinito, seguirono infinite
guerre: i Greci ed i Saraceni devastarono il
paese, e questo stato calamitoso durò fino
all’inizio del secolo XI.
304
Tuttavia le arti non avevano cessato di essere
coltivate: il furore dell'eresia degli iconoclasti,
sostenuta dagli imperatori greci, e che si diffuse
in tutta Italia, dimostra che nell'VIII secolo
esistevano immagini in questo paese.
Nonostante gli ordini degli imperatori, nel IX
secolo il santo vescovo Anastasio arricchì di
dipinti diverse chiese. Lo stesso fece Antimo,
duca e console di Napoli. Citiamo come opera
di questo periodo un'immagine della Vergine, da
allora venerata nella chiesa di San Gaudioso a
Napoli. Verso la metà del secolo successivo
furono dipinte le pareti della chiesa di
Montecassino, ricostruita poco prima.
Per togliere all'Italia, e soprattutto al Regno di
Napoli, la gloria di aver fornito artisti in questo
tempo, si pretende che tutte queste pitture siano
state eseguite da Greci. Esaminiamo questa
affermazione, che ci sembra infondata.
Sappiamo che da Costantinopoli furono inviati
duchi, patrizi, catapani, ecc.; ma non si trattava
di artisti. E anche se alcuni di loro furono
introdotti con fama, ciò non costituisce la prova
che non ne esistessero in questo regno. Sarebbe
lo stesso se si dicesse che la pittura era
305
sconosciuta in Spagna, perché lì furono mandati
Tiziano, Giordano e Mengs.
È vero che i dipinti di questo periodo sono
quasi tutti firmati in greco. Ma noi stessi usiamo
fare così, scrivendo in fondo alle nostre tavole,
N. fecit anno..., in una lingua che non è la nostra.
Inoltre in Calabria, in Puglia, in Sicilia, a Napoli
e nelle altre città d'Italia soggette all'esarcato di
Ravenna, gli artisti potevano firmarsi con
caratteri greci, poiché vivevano sotto la
dominazione greca, o perché tale era la loro
origine. Inoltre officiavamo in greco; ed era la
lingua degli avvocati e delle leggi, come lo fu
per lungo tempo tra noi il latino. Basta infine che
un solo pittore, più abile degli altri, abbia dato
questo esempio perché l'uso si diffondesse tra i
suoi studenti, per accreditare il loro lavoro.
Questa opinione non è contraddetta da nessun
cronista dell'epoca; è addirittura supportata da
un fatto che risale al X secolo. In un diploma di
Giovanni, Duca e Console di Napoli, e scritto in
latino: questo Duca concede al monastero di San
Severino di possedere diversi mulini con relativi
annessi, e sottoscrive in caratteri greci
maiuscoli: IOANNEΣ KONΣOYΛ ET ΔOYΞ
306
ΣOYB - Joannes consul et Dux subscripsi; ora,
poiché questo console era greco, solo come lo
intendiamo noi, cioè napoletano, i suoi
connazionali potevano scrivere in greco, senza
essere della Grecia orientale. Ecco perché
l'antico crocifisso ligneo della chiesa di San
Severino, e le sculture marmoree che recano una
firma in caratteri greci, sono attribuiti, da
Criscuolo (1) e De Dominici, ad un artista
napoletano del X secolo, di nome Pierre Cola di
Gennaro.
Non ci soffermeremo a sottolineare l'errore di
Bettinelli, che rappresenta l'Italia dei secoli VIII
e IX, come sommersa da paludi da cui sorgono
alcune capanne coperte di paglia. Potremmo
citare diversi monumenti costruiti in questo
periodo, e ad imitazione delle magnifiche opere
degli Arabi o dei Saraceni in Sicilia: ma
continuiamo a ripercorrere la serie degli avveni______________________________________
(1) Angelo Criscuolo, notaio e artista del XV secolo,
autore di manoscritti conservati presso la Biblioteca
della Valletta, oggi unita a quella dei Padri Girolamini.
De Dominici ne fece molto uso nelle sue Notizie sui
Profess. napol.
307
menti più notevoli del periodo successivo.
Da circa due secoli vediamo il genio lottare
contro la barbarie che vuole arrestarne il
progresso. Una luce fugace sfugge dal trono dei
tre Ottoni; ma ben presto scompare tra i tumulti
e le dispute tra la corte di Roma e l'Impero. La
discordia civile copre di lutto l'Italia; ed i
Saraceni, già padroni della Sicilia, approfittano
di queste divisioni per penetrare nel regno di
Napoli. Questa città, Benevento, Capua e
Salerno, furono successivamente teatro dei loro
conflitti con i Greci e i Longobardi. Alla fine il
principe di quest'ultima città chiamò in suo aiuto
alcuni cavalieri normanni, che lo aiutarono a
combattere contro questo nugolo di nemici.
Questi cavalieri, tornando in Francia,
raccontarono le loro gloriose avventure.
Gisleberto e i suoi fratelli partirono, a loro volta,
dalla Normandia, nel 1017, per offrire i loro
servizi ai principi di Salerno e Capua. Furono
ben accolti e con il loro valore e le loro gesta,
contribuirono a riportare quest'ultimo principe
nei suoi Stati. Ma la sua ingratitudine li portò a
formare uno stabilimento indipendente nel
308
paese; essi fondarono, nel 1030, la città di
Aversa. Ristabilirono il duca Sergio nel
possesso della città di Napoli, da cui l'amicizia
di questo duca con Rainulfo, condottiero dei
Normanni, l'alleanza delle due famiglie, e la
cessione del territorio di Aversa, eretta a contea
intorno al 1032.
Questo primo insediamento aprì, poco dopo,
la carriera dei figli di Tancredi d'Altavilla, duca
di Normandia, che vennero a stabilirsi in Italia,
su invito di Rainulfo, e iniziarono a gettare le
basi del trono di Napoli e di Sicilia. Ma non
riuscirono a raggiungere questo obiettivo senza
grandi difficoltà e molti trionfi, i cui dettagli
lasceremo alla storia. Ci limiteremo a seguire
quella delle arti di questo periodo, famoso per
l'affermazione seminale della scuola greca di
Otranto e di quella di Salerno, e per la nascita
della lingua italiana.
I Normanni eressero grandi edifici; tra gli altri,
chiese che conservano ancora dipinti di
quest'epoca. Nella Cronaca dell’Ostiense si dice
che Desiderio portò da Costantinopoli artisti
esperti nell'arte musiva e quadraturisti, per
309
decorare il vestibolo della sua grande basilica, e
per realizzarne il pavimento di vari colori. Ciò
non prova che non vi fossero altri pittori in
Italia; ma i migliori mosaicisti furono i greci.
Inoltre, parlando di dipinti dell'XI secolo, non è
detto, nella Cronaca di Montecassino, che
furono utilizzati stranieri per eseguirli; e, in
un'altra Cronaca del Monastero di Cava,
menzionando mosaici rifatti nel 1082,
pavimentum opere grœcanico, non si intende
fatte dai greci, ma lavorate col procedimento
greco. La Raccolta delle Leggi Longobarde,
depositata nell'archivio dello stesso convento,
offre i ritratti di questi primi principi, eseguiti in
miniatura. A Napoli sono esposti solo due
dipinti del XII secolo: uno, nella chiesetta di
Santa Maria a Circolo, e l'altro a San Leonardo
di Chiaia, recante la data 1140.
Per quanto riguarda l'architettura e la scultura,
i monumenti non sono rari. Furono erette
numerose chiese, monasteri e castelli; e vi
abbondano pezzi di scultura. Niente è più
magnifico, per la bellezza della costruzione e
per la ricchezza dei materiali ivi utilizzati, della
chiesa di Monreale, eretta nel XII secolo da
310
Guglielmo II. Due ordini di colonne in marmo e
granito, di grande diametro, sostengono il tetto
di questo edificio, rivestito di mosaico e tavole
di marmo. Le porte sono di bronzo; le pareti del
coro sono rivestite in porfido, così come il
basamento delicatamente scolpito, che sostiene
la statua in bronzo di San Giovanni Battista.
Infine il pavimento è a mosaico. Le tombe di
Guglielmo I, e quella di suo figlio, sono decorate
con sei colonne di porfido, che sostengono la
cupola di un tempietto; ed il sarcofago di
Guglielmo II, morto nel 1189, è un pezzo unico.
Quest'ultimo cenotafio con il suo coperchio
sono tratti dallo stesso blocco.
I principi normanni lasciarono anche nelle
province diversi bellissimi monumenti. A
Salerno vediamo una chiesa magnifica, con
questa iscrizione un po' vanagloriosa di Roberto
il Guiscardo:
ROBERTUS GUISCARDVS IMPERATOR MAXIMUS.
Potremmo citare altri edifici a Mileto, Reggio,
Cava, Bari, ecc. e conserviamo la memoria di un
architetto di nome Buono, che lavorò, intorno
alla metà del XII secolo, a Ravenna e in
311
Toscana: fu lo stesso uomo a costruire la torre di
San Marco a Venezia.
Vasari dice di non conoscere la patria di
questo artista; ma il cavalier Massimo
Stanzione, nelle sue memorie manoscritte,
afferma che era napoletano. Questi due scrittori
vissero nello stesso periodo. È vero che
quest'ultimo non sostiene la sua opinione con
alcuna prova; e da allora non abbiamo altra
presunzione che il nome di Buono, perpetuato in
una famiglia napoletana che fornì diversi artisti.
In ogni caso assistiamo alla fioritura qui, nello
stesso secolo, di un pittore-architetto, che fu il
primo maestro del celebre Masuccio, di cui
parleremo più avanti. A lui viene attribuito il
Crocifisso miracoloso che parlò a San Tommaso
d'Aquino.
La carriera del gusto diventerà sempre più
praticabile e frequentata. Avendo il regno preso
una base fissa, le arti cominciarono a fiorire
liberamente sotto i re svevi Ruggero, i tre
Guglielmo e l'imperatore Federico II.
Vedemmo nell'antico palazzo di Napoli un
dipinto che rappresentava Federico sul trono, e
312
Pietro delle Vigne, suo cancelliere, su un
pulpito, mentre il popolo in ginocchio implorava
la sua giustizia, ed esclamava:
Caesar amor legum, Friderice piissime Regum,
Causarum telas, nostras resolve querelas.
E il sovrano rispose, indicando il suo cancelliere:
Pro vestra lite censorem juris adite. Hic est:
jura dabit, vel per me danda rogabit. Vinea
cognomen, Petru' judex est sibi nomen.
Questo dipinto, la cui esistenza è assicurata
dalla testimonianza di diversi storici, diede
spunto a Tiraboschi per segnalare l'ingiusta
pretesa del Vasari, che attribuisce a Cimabue
l'invenzione dell'arte pittorica tra i moderni, e
soprattutto quella di aggiungere alla
rappresentazione dei personaggi, le parole
scritte, che esprimono i loro sentimenti. Questa
affermazione cade, per mezzo di questo dipinto
eseguito prima di tutti quelli di Cimabue.
Del resto Vasari è stato accusato da un gran
numero di autori, se non di malafede, almeno di
parzialità a favore della sua patria. Ridolfi ci
assicura che la pittura era coltivata con un certo
313
successo prima di Cimabue; Il Malvasia mostra,
forse con troppa durezza e amarezza, che a
Bologna vi furono pittori altrettanto antichi e
abili quanto quelli di Firenze; i genovesi e i
romani offrono pitture ancora più avanzate;
finalmente possiamo portare avanti, a favore dei
napoletani, la testimonianza anche di un
toscano, Marco dal Pino, senese, pittore di
merito e contemporaneo del Vasari, il quale,
dopo aver operato lungamente in Napoli, si
stabilì in questa città, e vi acquistò il diritto di
borghesia. Pubblicata l'opera dell'artista
fiorentino, Marco dal Pino, riconoscendo con
dolore che costui aveva evitato il più possibile
di parlare degli artisti napoletani, decise di
vendicare l'onore di una patria da lui adottata per
sua; e su questo argomento scrisse un'opera che
non poté portare a termine, e della quale resta
conservato solo un frammento dal suo allievo, il
notaio Criscuolo, di cui abbiamo già parlato. Si
parla di un uomo di nome Tommaso de Stefani,
che nacque nel 1239, visse fino all'inizio del
XIV secolo e realizzò dipinti per diverse chiese
di Napoli. Alcuni esistono ancora; considerando
l'epoca in cui furono eseguiti, si nota (secondo
314
De Dominici) tanto di buono e del ragionevole,
che recano diletto a chiunque li guarda. Era
conservato nella chiesa dell’Annunciazione,
fino al momento dell'incendio che consumò
questa
chiesa,
un
quadro
dipinto
dell'Annunciazione, di Tommaso, su fondo oro.
Il cavaliere Massimo Stanzione elogia molto
questo dipinto, credendolo addirittura dipinto ad
olio. Il De Dominici aggiunge che i dipinti del
Duomo di Napoli, dello stesso autore, sono di
gran lunga superiori a quelli di Cimabue. Dello
stesso parere Criscuolo, Massimo e Marco dal
Pino.
Tra i monumenti architettonici del Duecento
citiamo il Castel dell'Ovo, che Bettinelli
attribuisce a Collenuccio, e che Tarcagnota e
Villani dicono essere stato edificato dai
Normanni. Federico fece costruire a Capua, sul
Volturno, un ponte con due forti torri; e, al
centro, la propria statua in marmo, che lo
rappresentava seduto, con la corona, la palla
imperiale e gli altri attributi della sovranità.
Demolite le torri per ordine di Carlo V, la statua,
apparentemente mutilata, fu ricollocata nel 1585
dagli abitanti di Capua. Federico fondò anche
315
diverse città; e Manfredi abbellì Salerno, e
costruì, nel 1260, sulle rovine dell'antica
Siponto, la città di Manfredonia, che conservò il
suo nome, nonostante gli sforzi di Carlo d'Angiò
e dei papi, i quali, per abolire la memoria del suo
illustre e sciagurato fondatore, cercarono invano
di far prevalere il nome di Nuova Siponto.
Si ritiene che vi dovessero essere artisti ed
ingegneri di merito per l'esecuzione di queste
grandi opere. Distinguiamo soprattutto
Masuccio, primo di questo nome, architetto e
scultore napoletano, morto nel 1305, all'età di 77
anni. Modificò il gusto gotico, e aprì la carriera
all'altro artista omonimo, che i napoletani
considerano il restauratore dell'architettura
moderna. De Dominici parla anche di numerosi
altri artisti, pittori, scultori e architetti del
Duecento, ben degni di essere annoverati tra i
maestri del Rinascimento. Ma il tradimento dei
baroni di Puglia a Ceprano, l'imprudente fiducia
di Corradino dopo la vittoria riportata sui suoi
nemici a Tagliacozzo, e l'odio costante di
quattro pontefici romani contro i discendenti di
Federico, insomma una fatale combinazione di
eventi contrari alle arti ed alla felicità del regno
316
di Napoli, lo privò del ceppo normanno e svevo,
quando cominciò a produrre prole per così dire
naturalizzata, e fece cadere la corona sul capo di
un nuovo straniero.
317
LETTERA XXIII.
Grotta di Posillipo. – Pozzuoli, tempio di
Serapide. – Anfiteatro, tombe, solfatare. – Lago
di Agnano
Napoli.
Il movimento è vita per l'uomo; e chi viaggia
raddoppia la durata e i piaceri della sua
esistenza. È vero che contrae l'amore per il
cambiamento; e il riposo diventa per lui un
bisogno solo quando la sua curiosità esaurisce il
nutrimento, o quando finalmente, soddisfatto di
nuovi piaceri, può risolversi a vivere, per così
dire, dei ricordi che ha accumulato. Ancora
desideroso di cose nuove, non riesco a
costringermi a godere a lungo degli stessi
oggetti. Interrompo le mie ricerche sull'arte
napoletana; e, trovandomi stretto tra le mura di
Napoli, desidero la libertà, la calma e la
freschezza della campagna. Ci sono, tuttavia, un
gran numero di abitanti delle città che non
lasciano mai la loro terra natale; l'abitudine li
fissa lì: la società, gli affari li tengono lì; e lo
318
spettacolo dei campi non è per loro attraente.
Glielo dirò con Orazio:
Tu nidum servas: ego laudo ruris amaeni Rivos,
el musco circumlita saxa, nemusque.
È vero che il mio gusto per il paesaggio deve
farmi preferire i dipinti e gli effetti pittoreschi
della campagna, a quelle lunghe linee
simmetriche o parallele offerte dagli edifici,
delle strade o delle pubbliche piazze. Mi piace
vedere queste masse di case solo da una certa
distanza, e soprattutto quando sono intervallate
dal verde. Se introduco nella mia pittura templi,
palazzi o le loro rovine, non li rappresento da
soli; perderebbero parte del loro effetto. Li
circondo d'erba; Li raggruppo con bellissimi
alberi; faccio circolare i lime nel loro quartiere;
e li incorono con la linea sinuosa e azzurra di
una catena montuosa. Questa mescolanza di
oggetti naturali con quelli che portano
l'impronta della mano operosa degli uomini,
produce un insieme tanto più pittoresco quanto
più si allontana dalla monotona uniformità
risultante dall'affollamento degli edifici di una
grande città.
319
Mi piace solo qui al mare; o sugli alti terrazzi
di Margellina o di Capo di Monte, da dove vedo
gli oggetti distanti e variegati. Quindi respiro
con meno costrizione. Ma mi credo
completamente libero solo dopo aver varcato le
porte della città.
Anche se nell'ultima parte della stagione, il
clima è stupendo, l'atmosfera è pura come nelle
nostre belle giornate estive, la campagna è
ancora verde. Non esiste momento più
favorevole per visitare i deliziosi lidi di
Pozzuoli. Ne traccerò gli aspetti strada facendo;
e riporterò le sensazioni che proverò durante
questa prima passeggiata.
Sono partito con il mio amico in un calesse,
una specie di cabriolet a forma di conchiglia,
aperto, leggerissimo, e trainato da un cavallino
senza apparenza, ma pieno di ardore e velocità.
Il conducente è dietro il calesse, in piedi, tiene
le redini con una mano sopra le nostre teste e con
l'altra agita un'immensa frusta che usa meno
della voce per animare il suo destriero.
Attraversiamo le strade affollate della città,
bruciando il marciapiede, fendendo la calca con
320
la velocità del fulmine, sfiorando, sorpassando
altre vetture altrettanto veloci, e senza che
accada altro incidente se non la preoccupazione
causata da questa corsa, che ci sembra tanto
imprudente quanto rapida. Arrivati al molo di
Chiaia, il nostro cavallo aumenta la velocità e in
un attimo raggiungiamo la grotta di Posillipo. Là
una nuvola di polvere e l'oscurità più profonda
ci avvolgono. Rassegnati, confidiamo più nella
fortuna che nella destrezza del nostro vetturino.
Cammina al suono di grida e imprecazioni,
ripetute dai conducenti delle altre carrozze. Ci
conduce però velocemente attraverso questo
passaggio così pericoloso per i pedoni; e
finalmente siamo alla luce del giorno.
Al tramonto, ma solo in questa stagione, qui si
gode di un effetto molto piccante. Un raggio
orizzontale sfiora la costa, entra nella cavità
della grotta, la illumina per tutta la sua
lunghezza; e, quando in questo momento lo
attraversiamo, gli atomi di polvere, sempre in
movimento, fanno l'effetto di una corrente di
fiamme dalla quale rimaniamo abbagliati,
soffocati, e nella quale i passanti, per così dire,
321
annegano, non somigliando più che a delle
ombre trasparenti.
Qualche parola su questo scavo, effettuato
attraverso la montagna e lungo un miglio, non
sarà fuori luogo. Strabone e Seneca lo
descrivono senza menzionarne l'origine, che è
sconosciuta o comunque molto incerta. Ha dato
origine anche a molte favole, Villani dice che
Virgilio lo scavò con la forza della sua arte
magica; e Petrarca ebbe bisogno di tutta
l'ascendenza della conoscenza per dimostrare a
______________________________________
(1) Un'altra tradizione altrettanto strana, raccolta da
Gervasio di Tilbury, nella sua rapsodia intitolata Otia
Imperialia, vuole che Virgilio pose una mosca di ottone
su una delle porte della città di Napoli, e che, durante
gli otto anni che lì rimase attaccata, mai una mosca
entrò in questa città. Tra gli altri racconti che lo stesso
Gervasio racconta su Virgilio, citeremo solo
un'invenzione di tutt'altra importanza, la cui perdita i
napoletani devono quotidianamente deplorare. Non era
niente di meno che una statua eretta sulla cima del
monte, e che aveva in bocca una tromba, che suonava
così forte quando soffiava la tramontana, che scacciava
il fuoco e la fiamma del vulcano, tanto che gli abitanti
non ne ricevevano alcun danno.
322
re Roberto che il Cigno di Mantova non aveva
alcun incantatore eccetto i suoi versi (1). Altri
dicono che Cocceio fece eseguire quest'opera
gigantesca da centomila schiavi nello spazio di
quindici giorni. Plinio dà la gloria a Lucullo.
L'opinione più comune è che questa strada
sotterranea sia stata tracciata dagli abitanti di
Cuma e di Napoli, i quali aprirono così una
facile e diretta comunicazione al commercio,
evitando una deviazione considerevole per un
sentiero collinare. All'inizio si diceva che avesse
solo venti palmi in larghezza e altezza. Ancora
molto ristretta e oscura ai tempi di Petrarca,
questo poeta afferma che non vi fu alcun
esempio del benché minimo attentato commesso
in questo luogo ritenuto dal popolo sacro;
Alfonso lo ingrandì, traendolo dalla cima della
montagna. Il viceré, don Pietro di Toledo, ne
aumentò allora la larghezza a quaranta palmi, in
modo che vi potessero transitare due vetture
affiancate, e che vi fosse ancora spazio
sufficiente per i pedoni. Lo fece anche
pavimentare con larghi tratti di lava; e fece
scavare una cappella nella roccia laterale, chiusa
323
da un cancello, davanti al quale una lampada
sempre accesa serve a guidare i passanti.
Dall'opinione dei locali risulterebbe che il
terreno della strada è sempre stato basso quanto
lo è oggi, e che ci siamo accontentati di
aumentare l'altezza della volta per dare maggior
volume d'aria e di luce a questo scavo. Credo
piuttosto che, in origine, il livello del terreno
fosse situato a breve distanza dall'attuale volta,
che per camminarci si facesse molta salita da
tutti i lati, e che successivamente tutto questo
terreno sia stato abbassato al livello della porta,
in modo da rendere la pendenza quasi
impercettibile e il sentiero più percorribile. La
roccia offre, ci sembra, anche una prova
materiale dei tre periodi in cui vi furono eseguiti
i lavori, nelle tracce che i mozzi delle ruote
hanno lasciato in profondità lungo le pareti
laterali.
C'era un altro passaggio sotterraneo sotto la
collina di Capo di Chino, che in dialetto
napoletano si chiama grotta degli Sportiglioni
(pipistrelli). È lungo un miglio e mezzo, ed è
diviso in due bracci, uno dei quali va verso est,
324
un altro verso ovest. Queste strade sono larghe
più di trenta palmi; e non sappiamo in quale
epoca né per quale uso fossero praticate. Ma,
durante la peste del 1656, vi furono deposti i
cadaveri di cinquantamila vittime del flagello;
successivamente, non appena queste terribili
catacombe furono riempite, le uscite furono
murate.
Uscendo dalla grotta di Posillipo, il cocchiere
ci consegnò le redini, come avevamo
convenuto; e abbiamo rallentato il nostro
cammino per godere con più serenità degli
aspetti canori che queste sponde ci offrivano.
Incontriamo prima un piccolo borgo, chiamato
Fuori Grotta; poi una campagna ricoperta di
alberi che le viti intrecciano e uniscono tra loro
con festoni.
Ci inoltriamo poi in un lungo viale di pioppi,
lasciando a sinistra Capo Posillipo, e a destra il
Vomero, disseminato di graziosi borghi e case di
piacere e dominato dal delizioso eremo
camaldulese, da dove scopriamo tutta la
Campania felice, e anche parte dello stato
romano. Il mare con le sue isole è di fronte a voi;
325
più avanti il sentiero si restringe tra rocce
composte di pozzolana o di lava e le onde
ruggenti si infrangono sui bordi della strada, che
degradano continuamente. Un folto gruppo di
galeotti era impegnato a riparare questi danni.
La triste sorte di questi disgraziati suscita
dolorose riflessioni, e getta su questo ridente
quadro ombre che ne offuscano la freschezza.
Ma già si vedono gli edifici di Pozzuoli:
affrettiamoci ad arrivarci.
La storia di questa città è abbastanza nota.
Famosa ai tempi dei romani, per il lusso più
sfrenato e la morbida voluttà dei suoi abitanti, fu
distrutta dai terremoti; e vediamo ancora in mare
i resti di uno dei moli dell'antico porto, che è
stato chiamato ponte di Caligola, in memoria di
quello che questo stravagante monarca stabilì su
barche oltre il braccio di mare che separa
Pozzuoli da Bacoli, viaggiandovi su un carro
trionfale. L'intero pendio della collina, ai piedi
della quale sorge la città moderna, è ricoperto
dai ruderi di antichi edifici e templi. C'è solo
quello di Giove Serapide di cui possiamo
facilmente riconoscere la forma (Fig. 10). Le
fondamenta esistono integralmente; tre colonne
326
Figura 10
327
sono ancora in piedi, e i frammenti delle altre
giacciono attorno ad esse, o sono stati rimossi
per ordine del re.
Chiamammo il buon Tobia, un esperto
cicerone, che doveva farci da guida; lo abbiamo
seguito, saltando sui detriti sparsi qua e là:
perché spesso il mare grosso inonda queste
rovine, e bisogna aspettare che le acque si siano
ritirate per vederne chiaramente tutti i dettagli.
Questo tempio era magnifico, ma di piccole
proporzioni; la sua forma circolare è segnalata
da colonne davanti alle quali erano poste delle
statue, di cui si possono ancora vedere i
piedistalli. Troviamo anche vasi cilindrici e
scanalati a spirale, che contenevano acqua
lustrale; e, attorno alla base dell'edificio, gli
anelli di ferro che servivano a sostenere le
vittime destinate al sacrificio. Questo tempio
sorge in mezzo ad un cortile quadrato, il cui
pavimento è in legno; attorno ad esso si ergeva
un portico, sostenuto da colonne; su una delle
facce, quattro colonne, anch'esse di ordine
corinzio, ma di diametro maggiore, che
sostengono un frontone, formano un vestibolo o
328
santuario. Restano diversi ambienti le cui uscite
conducono alternativamente sotto il portico
interno e in un cortile o vicolo che circondava
l'intero edificio e formava un secondo recinto
senza comunicazione con l'interno.
Abbiamo notato un torso nudo, più grande
della realtà e splendidamente eseguito, e le
volute di un fregio molto ben lavorato. Capitelli
corinzi ricoperti di lastre di marmo sono sparsi
sotto gli alberi e servono da tavoli e panche per
diversi invalidi che custodiscono le rovine e ne
impediscono addirittura il degrado. Entrammo
nella prima stanza, e vedemmo con piacere un
bassorilievo che, benché mutilato, conserva
tuttavia una grande bellezza. Abbiamo
attraversato tutte le stanze, esaminando
attentamente gli oggetti più piccoli. Tutta questa
costruzione è fatta di mattoni ricoperti di
marmo; quelli che formano le cinture sono di
dimensioni molto grandi. Lunghi pezzi di
marmo, incastrati come tegole cave e piane,
formano il tetto degli edifici.
Il luogo denominato stanza della purificazione
è unico: è presente una panca e un condotto in
329
marmo dove circola l'acqua lungo le pareti; in
questo banco furono praticati dei fori rotondi su
cui si dice che sedessero i sacerdoti; e, ai quattro
angoli della stanza, si notano delle specie di
forni o caminetti. Questa panca non sarebbe
piuttosto un fornello, e i ferri destinati ad
accogliere i grandi vasi dove l'acqua, messa in
ebollizione, riscaldava i bagni? Forse questo
luogo fungeva anche da cucina, e lì venivano
preparate le carni offerte in sacrificio, che poi
venivano distribuite a chi veniva a fare un ritiro
religioso nelle celle del recinto esterno.
Le tre colonne esistenti presentano un tipo di
fenomeno che non è stato ancora spiegato in
modo soddisfacente. Siamo quindi liberi di
esprimere anche la nostra opinione. Queste
colonne erette, e molte altre rovesciate, sono
forate all'incirca alla stessa altezza da una serie
di piccoli fori, dove crediamo di riconoscere
l'opera e anche i danni di un verme marino
chiamato Foladide (mitile litofago). Si pretende
di dedurre che le acque del mare siano state per
lungo tempo sospese quasi due tese sopra il
livello attuale, e che abbiano lasciato queste
tracce della loro permanenza sulla costa di
330
Pozzuoli. Questa affermazione, sostenuta da
uomini di merito, ci sembra tuttavia molto
strana. Come possiamo infatti supporre che
questa enorme alluvione, che avrebbe coperto
parte dell'Europa, e durò abbastanza a lungo da
dare ai Foladidi il tempo di corrodere il marmo,
non abbia lasciato traccia nella storia, e se ne
trovino indizi solo sulla riva di Pozzuoli?
Potremmo anche credere che queste colonne,
tutte estratte dallo stesso banco, contenessero un
letto di pietrificazioni marine, più tenero della
base del marmo, che, essendosi progressivamente decomposto, abbia lasciato i vuoti di
cui sono crivellate.
Se però volessimo insistere sulla permanenza
di queste colonne nell'acqua per motivare il
lavoro dei Foladidi e del sedimento calcareo
depositato dalle acque, potremmo spiegare
questi due fatti supponendo che l'acqua piovana,
o quella delle sorgenti più in alto, sia rimasta tra
questi detriti ostruiti da frane provocate da un
terremoto, che non permisero all'acqua di
fuoriuscire verso il mare; ed essendo stata
questa diga portata via dallo sforzo delle onde, o
331
essendo crollata per effetto di una nuova
convulsione del terreno, il tempio si sia trovato
improvvisamente liberato dalle alluvioni, e
restituito alla curiosità degli uomini.
Molti oggetti preziosi furono rinvenuti durante
le ricerche nel terreno; e tra gli altri un celebre
basamento marmoreo, decorato con iscrizioni,
che sorreggeva la figura di Tiberio. Questo
monumento era stato eretto dai sacerdoti
augustei di Pozzuoli, in ricordo della
rifondazione di quattordici città dell'Asia,
rappresentate ai piedi della base di questa statua,
con i loro attributi e i loro nomi iscritti sul
basamento (1).
Continuiamo l'esame delle antichità di
Pozzuoli. Risalendo la collina incontriamo vasti
sotterranei che costeggiano la strada e che
appartengono ai resti informi di un monumento
______________________________________
(1) - Possiamo consultare, per questo monumento, la
Dissertazione e i Disegni di Antonio Bulifon,
Napoletano; quella di Gronovius, inserita nel 7° vol.
delle Ant. Greche. ; e la Memoria di Lebeau, nella Coll.
dell'Accad. delle Iscriz.
332
chiamato tempio di Nettuno. Poco più in alto
vediamo resti simili che si dice fossero di un
tempio di Diana; poi i resti di un'antica strada;
un acquedotto, di cui alcuni tratti abbastanza ben
conservati; e arriviamo finalmente all'anfiteatro,
interamente ricoperto di orti coltivati, anche
sulle tribune che, ricoperte di sabbia, non si
riconoscono più. Tuttavia, cogliamo l'insieme di
questa vasta costruzione collegando le diverse
curve interrotte la cui unione ne costituiva
anticamente il recinto.
Tobia ci aprì una porta attraverso la quale
entrammo nella galleria dove finivano le celle
delle belve destinate agli spettacoli. Abbiamo
realizzato un disegno di questo interno (Fig. 11).
Tuttavia, qualunque sia il rispetto che ho per le
antiche rovine, devo ammettere che in questo
momento preferivo la vista di questa terra
ricoperta di prodotti deliziosi, come meloni,
fichi e uva, da cui avevamo preso una provvista
per la nostra cena, alla soddisfazione di vedere
quest'arena tinta del sangue dei gladiatori
all'aperto. Avremmo provato meno piacere nel
trovare gradinate di marmo lucido che servivano
333
Figura 11
334
da sedili ai voluttuosi abitanti dell'antica
Campania che nel seguire con lo sguardo,
attraverso i loro detriti, il percorso errante e i
salti capricciosi del cui latte rinfrescante
dissetavamo la nostra sete.
Usciti dall'anfiteatro, la nostra guida ci ha
condotto alla via Campana, un'antica via
consolare che costituisce un prolungamento
della via Appia. È inoltre fiancheggiata da
edifici costruiti dagli antichi abitanti di
Pozzuoli. Queste camere sepolcrali sono di
forma varia e la loro decorazione è di buon stile.
Sono tutte costruite con mattoni ricoperti di
stucco o cemento su cui possiamo vedere dipinti
di squisito gusto.
Di tutti i magnifici edifici che ricoprivano il
paese, di questi templi, di questi palazzi, di
questi giardini di delizie, di tutti questi ritiri dei
Sibariti, cosa è rimasto? Nient'altro che rovine
informi. Ma se troviamo un monumento in
piedi, in uno stato di conservazione migliore,
possiamo giudicare in anticipo che si tratta di
una tomba. I palazzi contenevano tesori: non
esistono più; le tombe dei cadaveri erano
335
rispettate perché l'invidia, l'avidità e le odiose
passioni solitamente si spengono alla vista della
dimora della morte, e anche i barbari più
raramente ne disturbano la pace.
Se questi asili sono stati violati, non possiamo
purtroppo che biasimare i popoli moderni, la cui
curiosa avidità gioca a sconvolgere le tombe, per
ritrovarvi i fragili vasi che contenevano...
lacrime, e qualche moneta d'oro mista a cenere.
Continuando a salire arriviamo finalmente in
un recinto che riconosciamo facilmente come il
cratere di un antico vulcano. Questa è la
Solfatara. L'aspetto di questo luogo singolare
suscita curiosità almeno quanto quello delle
antichità che avevamo appena visitato, poiché è
opera della natura.
L'apertura del cratere è immensa; circondato
da rocce aride, l'ambiente è ricoperto da un
bosco di giovani castagni. Un sentiero tortuoso
e ombreggiato ci ha portato alla Solfatara. Prima
di arrivare, la nostra guida ci ha fatto fare alcune
osservazioni curiose. Ad esempio, se scaviamo
trenta centimetri nel terreno, il calore è tale che
un sasso, preso a questa profondità, non può
336
essere tenuto in mano. Se si colpisce il suolo con
un po' di violenza, risuona; il che sembra
indicare che sotto ci siano grandi cavità. Infine,
se si lancia una grossa pietra, accelerandone la
caduta, si sente un rumore sordo che risuona
come un tuono lontano.
Ma lo spettacolo più straordinario è quello
delle fumarole che emergono continuamente
dalle fessure del terreno, che ricoprono di
cristallizzazioni gialle, rosse, aurora, insomma
di tutti i colori. Per giudicare correttamente a
colpo d'occhio, devi posizionarti al di sopra del
vento; o meglio ancora aspettare che l'atmosfera
sia calma e pura. Poi questi fumi si alzano in
spesse colonne contorte di un bianco
abbagliante. Turbinano, si allargano salendo e
finiscono per dissolversi nella vaghezza
dell'aria, senza lasciare traccia nell'azzurro del
cielo. È un po' difficile seguirsi e riconoscersi
attraverso queste colonne dense e irregolari, che
proiettano le loro ombre l'una sull'altra. Il
rumore dei passi su questo terreno senza
aderenza; il sibilo dei vapori che cercano di
uscire da ogni parte; l'odore penetrante di zolfo
che respiriamo: tutto in questo luogo stupisce e
337
produce nella mente l'effetto di un sogno.
Sembra che, trasportati sulle nuvole, viaggiamo
attraverso spazi immaginari. Ed è senza dubbio
da lì che Virgilio trasse le finzioni fantastiche
con cui abbellì la dimora delle ombre.
Avevano progettato di costruire un enorme
distillatore sopra lo scarico principale del
vapore, per attingervi l'acqua che manca su
queste cime. L'inventore ci riuscì, e vi fondò
anche fabbriche di allume, che rispondevano ai
suoi desideri. Ma la febbre lo scacciò
dall'abitazione che aveva tenuto sullo stesso
cratere. Gli invidiosi approfittarono della sua
malattia per rovinargli il credito, e delle sue
fabbriche ora non restano che i detriti (1).
Ridiscendendo i ripidi pendii della valle per un
sentiero molto difficile, abbiamo visitato la
fontana dei Pisciarelli, che sembra trarre la sua
sorgente dal focolare ardente della Solfatara,
così come tutte le acque termali di cui questi
luoghi forniscono una grande varietà. Sono note
le loro virtù curative (2); e alcune di queste
sorgenti sono così calde che le uova lì si
induriscono in un istante.
338
Avevamo bisogno di riposo, di frescura e di
ombra; li abbiamo trovati sulla riva del limpido
Lago di Agnano, dove abbiamo consumato un
pasto rustico. Bisognerebbe esaurire i colori più
brillanti della tavolozza per dipingere questi
luoghi incantati; siamo economici, non
ammucchiamo le rose, e lasciamole risplendere
qua e là ai lati della nostra strada; il loro
profumo ci sembrerà più dolce quando
abbelliranno altre solitudini.
______________________________________
(1) - La descrizione e i disegni sono reperibili in
Topografia fisica della Campania, di S. Brislak.
(2) - Esistono numerose descrizioni di queste acque
termali; eccitarono anche la fantasia di diversi poeti
napoletani, che cantarono queste benefiche Naiadi.
339
LETTERA XXIV.
Note sulle arti napoletane fino al sedicesimo
secolo.
Napoli.
Sotto Carlo di Francia, conte d'Angiò, fratello di
San Luigi, e sotto i suoi discendenti, la corte di
Napoli unì lo splendore al valore e alla
galanteria. Le arti acquisirono più attività e
vigore: architettura, scultura, pittura e oreficeria
produssero opere a lungo ammirate; e la capitale
era ricoperta di utili e magnifici monumenti. È a
Carlo I che si deve l'origine della bellissima
pavimentazione delle sue strade. Furono
utilizzate pietre di grandi dimensioni prelevate
dai ruderi della Via Appia; e quest'opera non fu
completata che nel tredicesimo secolo. Lo stesso
principe fece costruire il Castel Nuovo, al quale
i suoi successori aggiunsero nuove fortificazioni. Fece costruire, per la sicurezza del
porto, la torre di San Vincenzo, sull'antico molo,
oggi demolita. Cedette, fuori dalla Porta Nuova,
vicino al mercato, un terreno vuoto a dei suoi
340
cuochi francesi, che nel 1270 vi fondarono
l'ospedale e la chiesa di Sant’Eligio.
Il buono e saggio Roberto fece erigere il
convento e la ricca chiesa di Santa Chiara, che
fu completata solo nel 1340; e suo figlio Carlo,
duca di Calabria, la Certosa di San Martino. Fu
mentre accompagnava il convoglio funebre di
questo amato figlio, che lo sfortunato padre
gridò dolorosamente: Cecidit corona capitis
mei! Fece erigere per lui una magnifica tomba
(1) in cui si vede, in un bassorilievo, la figura di
Carlo seduto, con i piedi poggiati su un lupo e
un agnello che bevono pacificamente nella
stessa coppa: emblema ingegnoso, per mezzo
del quale lo scultore volle esprimere, allo stesso
tempo, l'imparziale equità di questo principe
nell'amministrazione della giustizia, e la
profonda sicurezza di cui giovani e vecchi
______________________________________
(1) Il Cicognara, nella sua Storia della Scultura, riporta
il disegno di questa tomba e di quella della regina
Maria, madre di Roberto. - Il D’Agincourt, Storia
dell'Arte (Scultura), offre, nella tavola 30°, la statua di
Re Roberto e i dettagli della tomba del Duca di
Calabria.
341
godevano sotto la protezione della sua spada (1).
Vediamo anche, nella chiesa di Santa Chiara, la
tomba di Roberto e quella di Maria sua madre.
Questi tre monumenti, attribuiti allo stesso
artista, presentano all'incirca la stessa idea
compositiva. Gli ornamenti architettonici sono
di gusto gotico; ma le figure offrono uno stile
abbastanza buono, quanto al movimento e al
getto dei drappeggi.
Tommaso de Stefani, detto Masuccio, è
considerato dai napoletani il Michelangelo del
Trecento; essi sostengono che, dopo aver
ultimato la chiesa di Santa Chiara, cambiò
completamente stile (il che è poco probabile), e
che adottò i tre ordini antichi nell'erezione del
campanile, dove si nota infatti l'uso del Toscano,
del dorico e dello ionico, in tutta la purezza delle
regole date dagli architetti dei secoli successivi.
Aggiungono, che non poté terminare questo
edificio, a causa della morte di Roberto e dei
______________________________________
(1) È sbagliato che nel Dizionario di Storia, di Chandon
e Delandine, si dica che questo bassorilievo adorni la
tomba di Roberto.
342
disordini sorti sotto la regina Giovanna, ma che
doveva incoronarlo con ordini corinzi e
compositi. Perciò questo artista è considerato
dai napoletani il primo restauratore del gusto
puro dei Greci in architettura, onore di cui era
stato ingiustamente privato a favore del
Brunelleschi. Tuttavia, siamo d'accordo con
l'opinione del signor D’Agincourt (1), buon
giudice in questa materia, e con chi crede che in
questa pretesa dei napoletani vi sia errore
evidente o malafede; perché le sole parti di
questo edificio che sono di Masuccio, cioè i due
piani inferiori, sono di gusto gotico, allora
regnante: mentre i piani superiori, decorati con
gli ordini dorico e ionico, furono rialzati solo
molto tempo dopo la morte di questo architetto,
e solo verso la fine del VI secolo.
Dalla scuola di Masuccio uscirono due buoni
______________________________________
(1) D’Agincourt, Storia dell'Arte (Architettura), tavola
LIII, e sua spiegazione. Vediamo il prospetto e la
sezione di questa torre, che indicano chiaramente il
contrasto tra i due sistemi costruttivi.
343
scultori: Giacomo de Santis e Andrea Ciccione.
Il primo fiorì intorno al 1384 e morì giovane. Il
secondo, che fu, come il suo maestro, architetto
e scultore, eseguì nel 1414 la ricca tomba del re
Ladislao nella chiesa di San Giovanni, a
Carbonara.
Per quanto riguarda la pittura, citiamo Filippo
Tesauro; e il suo allievo Maestro Simone, la cui
gloria fu oscurata da quella di Giotto, al quale re
Roberto commissionò i dipinti di Santa Chiara.
Tuttavia il grande artista fiorentino associò
Simone alla sua opera; e si sostiene che due
quadri, dipinti da quest'ultimo nella cappella dei
Duchi di Dino, fossero dipinti ad olio, così come
di quelli di Agnolo Franco, eseguiti intorno
all'anno 1400.
Colantoni del Fiore è il pittore più famoso di
questo periodo; superò tutti i suoi predecessori,
e conserva ancora una certa fama. Prima di lui si
dipingeva sempre su un fondo dorato. I contorni
delle figure, fortemente sentiti e la loro
vestibilità, erano così asciutti che sembravano
fatti di legno. Non si studiava il nudo; non si
capiva il chiaroscuro; e non c'era alcuna
344
comprensione della prospettiva. Le composizioni erano di una regolarità innaturale; gli
incarnati, scuri e velati, non avevano né
morbidezza né verità nel colore.
Colantoni abbandonò l'aridità dei contorni, e li
confuse con lo sfondo: escluse dai suoi dipinti la
ridicola ricchezza dei campi d'oro, che
distruggevano la brillantezza dei colori; aprì gli
occhi dei suoi contemporanei, e mostrò loro il
fascino del chiaroscuro e del colore: cercò di
unire la morbidezza con la forza e il vigore;
infine superò Giotto, Memmi, Pisanello,
Squarcione ed altri.
Tutte queste qualità le abbiamo riconosciute, è
vero, in un dipinto rappresentante Sant'Antonio
abate, nella chiesa omonima, eseguito per ordine
della regina Giovanna I, intorno al 1375; e
questa pittura è notevole, in quanto presenta
tutte le caratteristiche della pittura a olio (1). Ma
l'iscrizione,
che
abbiamo
attentamente
esaminato, è così concepita:
A MCCCLXXI.
NICHOLAVS THOMASUS FIORE PICTOR.
345
Da ciò consegue che non è di Colantonio, ma di
Nicola Tommaso Fiore. E questo errore rivelato
distrugge tutte le conseguenze che gli autori
napoletani traggono da questo dipinto. Inoltre,
se ne conoscono molti altri di Colantonio, il più
notevole dei quali è un San Girolamo, dipinto
nel 1439, e che può essere visto nella sagrestia
di San Lorenzo. Fiore fece anche i ritratti di
Giovanna I, Alfonso, ecc.
Le singolari avventure di Antonio Solario,
meglio conosciuto con il nome di Zingaro,
aggiungeranno un po' di varietà a questa lunga e
arida nomenclatura. Nato da artigiano, vicino a
Chieti in Abruzzo, venne a Napoli per esercitare
la professione del padre. Chiamato da
Colantonio per alcuni lavori da fabbro, si
innamorò della figlia dell'artista, ed ebbe
addirittura il coraggio di chiederle di sposarlo.
Colantonio, lungi dall'arrabbiarsi, non respinse
___________________________________________
(1) Non entriamo qui nel discorso relativo alla scoperta
della pittura ad olio, che è molto più antica di quanto
comunemente si creda. Ciò sarà oggetto di una tesi
speciale. Abbiamo già accennato alcune parole in un
articolo pubblicato nel Moniteur del 21 marzo 1814.
346
l'indiscreta richiesta del fabbro, e rispose
semplicemente che gli avrebbe concesso
volentieri sua figlia se fosse diventato, come
pittore, emulo del padre. Solario non si lasciò
spaventare da questa condizione, chiese tempo;
Colantonio gli concesse dieci anni e promise di
non sposare sua figlia fino a quel momento.
Questo singolare accordo divenne la notizia
della città, e anche della corte, dove si disse che
la convenzione era stata ratificata alla presenza
della regina Margherita e della principessa
Giovanna.
Il fabbro, pieno di entusiasmo, partì per
Bologna, attratto dalla fama di Lippo di
Dalmasio: studiò in questa scuola con tale
assiduità e intelligenza che in pochi anni riuscì a
disegnare e dipingere; e ben presto il nome dello
Zingaro divenne celebre in questa città e in tutta
la Lombardia. Dopo sette anni di lavoro assiduo,
e sebbene fosse già diventato più abile del suo
maestro, si affrettò a perfezionarsi in altre
scuole: lavorò nelle botteghe di Bicci di
Lorenzo, a Firenze; di Galasso, in Ferrara; di
Vivarini, a Venezia; di Vittor Pisani, e di Gentile
da Fabriano, in Roma. Finalmente, dopo nove
347
anni e pochi mesi, ritornò a Napoli. Vi regnava
Giovanna II. Ottenne di essere presentato a
questa principessa da un signore di cui aveva
dipinto il ritratto. Le rese omaggio con un
quadretto raffigurante la Vergine con il bambino
Gesù, circondata da angeli. In quel periodo, con
grande sorpresa di tutta la corte, divenne noto
per lo Zingaro della promessa. Il ritratto della
regina che dipinse successivamente confermò il
suo talento e accrebbe il suo credito.
Questi dipinti furono mostrati a Colantonio,
senza nominarne l'autore. Ne fu ammirato, e
ammise alla regina, con generosa bontà, che
questo pittore era molto più abile di lui, e
certamente il primo di tutti. A questa
confessione gli fu presentato Zingaro, il quale
pretese il mantenimento della promessa di
matrimonio. Colantonio, tanto sorpreso quanto
felicissimo, dopo essersi accertato che questi
dipinti erano effettivamente di mano del fabbro,
gli concesse di buon grado quella di sua figlia.
Alcune persone invidiose lo hanno incolpato per
questo. La unisco, disse loro, a Solario il pittore,
e non a Zingaro.
348
Alla sua reputazione contribuirono anche le
avventure e l'abilità di Zingaro, poiché
quest'ultimo nome prevalse; quindi da quel
momento in poi fu molto occupato. Lavorò per
Monte Oliveto. Vediamo il suo ritratto e quello
di sua moglie nel dipinto sull'altare maggiore di
San Pietro in Areno. De Dominici elogia anche
quello di San Domenico Maggiore, che
rappresenta una deposizione dalla croce, e lo
paragona ai migliori dipinti di Albrecht Dürer,
fioriti cento anni dopo. Zingaro iniziò a
dipingere a grisaglia il chiostro di San Severino,
ma questo procedimento non piacque ai monaci.
Colorò i suoi quadri e li arricchì con sfondi di
paesaggi tratti dalla natura. Dipinse anche
bellissime miniature per manoscritti, su campo
d'oro o d'oltremare. Questo abile artista morì nel
1455, all'età di settantatré anni; e, sebbene abbia
lavorato molto a Napoli, Roma, Bologna e
Venezia, Vasari e Baldinucci non ne fanno
menzione. Ha dato movimento e vivacità alle
sue figure; eccelse particolarmente nelle teste,
colorate col gusto di Tiziano; ma non ebbe
altrettanto successo nel disegnare i piedi e le
mani. La prospettiva gli era familiare; toccava
349
piacevolmente il paesaggio; e se non ha portato
il suo talento ad un livello più alto, è perché
dopo aver eguagliato i suoi maestri, non ha
cercato di superarli.
Dalla scuola di Fiore e Solario provengono
diversi valenti maestri, dei quali parleremo nel
periodo successivo. A questo appartiene
Antonio Bambosio o Baboso. Nacque a Piperno
nel 1458: studiò scultura con Ciccione, e pittura
con Fiore. Scolpì diverse tombe e gli ornamenti
marmorei che ornano la porta dell'Arcivescovato di Napoli. Tali opere gli valsero, dal
cardinale Minutolo, un appannaggio di 400
scudi di rendita.
L'ingresso trionfale di Alfonso nella sua
capitale, nel 1443, diede luogo ad un
monumento pubblico, il primo di questo genere,
ci sembra, che fu eretto dai moderni. Un arco di
trionfo che gli eletti, magistrati della città,
fecero costruire durante i primi anni del regno di
Alfonso, in onore di questo principe; e, sebbene
avessero artisti di valore nazionale, sedotti dalla
fama di Pietro di Martino, milanese, lo
invitarono a venire a eseguire questo
350
monumento, che doveva essere collocato
davanti ai gradini di ingresso dell'Arcivescovato, proprio nel luogo dove poi venne
costruita la guglia di San Gennaro; ma il re
assecondò i desideri e le richieste di un privato
di nome Bozzuto, la cui casa sarebbe diventata
inabitabile per la vicinanza di questa
costruzione, che lo avrebbe privato di aria e di
luce. Si decise quindi che questo arco costituisse
l'ingresso principale del Castel Nuovo. (Fig. 12).
Questo monumento è notevole nella storia
dell'arte (1), perché mostra a quale altezza
l'architettura venne elevata, improvvisamente,
dal fecondo influsso del genio del Brunelleschi.
Riconosciamo che Pietro di Martino aveva
studiato con una certa attenzione gli archi di
trionfo di Roma: tuttavia, più che imitarne i
modelli, assecondava la sua fantasia. Non si
impegnò nemmeno a copiare esattamente i
capitelli classici: sono tutti di ordine composito,
___________________________________________
(1) Il D’Agincourt pubblicò il primo disegno esatto di
questo monumento, con tutti i suoi dettagli. La nostra
Fig. 12 può dare un'idea della sua situazione.
351
Figura 12
352
nel quale si riconosce l'intenzione del corinzio
nel primo ordine, e dello ionico nel secondo.
Anche gli altri elementi architettonici sono
fantasiosi, ma l'intera composizione è di buon
effetto e non c'è quasi traccia di gusto gotico.
L'edificio è interamente in marmo, ed arricchito
di ornamenti, statue e bassorilievi, il principale
dei quali, posto nell'attico che è sopra il
porticato d'ingresso, rappresenta lo sfarzo
trionfale di Alfonso. Le tre statue che coronano
l'altissima sommità di questo monumento,
furono successivamente ivi collocate dal viceré
don Pietro di Toledo. Si ritiene che siano del
Maragliano. Esse sono piuttosto mal posizionate
e di proporzioni troppo piccole.
L'artista milanese, stabilitosi a Napoli, fu
colmato di onori e ricchezze. Morto nel 1470, gli
fu eretta una tomba nella chiesa di Santa Maria
la Nova (1).
Alfonso ingrandì il molo principale; fortificò
Castel Nuovo con alte torri; iniziò la grande sala
di questo castello, che è una delle più belle
costruzioni moderne; ed ampliò l'arsenale.
353
L'orribile terremoto del 1456 (2) ricoprì il
regno di rovine; gran parte dei monumenti di
Napoli furono rovesciati: tra gli altri il castello
di Sant’Elmo, la chiesa di San Pietro martire e
la cattedrale.
Il re Ferdinando, allora sul trono, si occupò di
rialzare prima gli edifici caduti o danneggiati. I
signori ed i ricchi baroni, seguendo il suo
esempio, restaurarono a proprie spese il resto; e
poterono applicare il loro stemma su ciascuno
dei pilastri della cattedrale che avevano
ricostruito.
______________________________________
(1) - Vasari attribuisce questo monumento a Giuliano
da Maiano; e i napoletani non mancano di accusarlo di
malafede al riguardo. L'epitaffio di Pietro di Martino,
riportato da Sigismondo, Desc. di Nap., dimostra che
questo artista è effettivamente l'autore dell'arco
trionfale di Alfonso.
(2) La Terra di Lavoro, la Capitanata, l'Abruzzo,
persero diversi centri abitati e un gran numero di
villaggi. Gli abitanti di Brindisi, allora molto popolata,
furono quasi tutti sepolti sotto le rovine delle loro case.
Aversa, Arpaia, Capua, Benevento, hanno sofferto
molto.
354
L'opera più grandiosa del regno di Ferdinando
fu l'ampliamento della città, di cui egli arretrò le
mura per soddisfare le esigenze di una
popolazione sempre in aumento, a causa del
movimento dell'industria e del commercio.
Sulle nuove porte che il re aveva costruito, si
vede la sua effigie a cavallo, con questa
iscrizione: Ferdinandus, rex nobilissimae
patriae. Tra le porte, di distanza in distanza,
furono erette le torri di Piperno, opera, come il
resto di questa vasta costruzione, dell'architetto
fiorentino Giuliano da Maiano. La regina
Isabella fece costruire anche diverse chiese e nel
1470 il magnifico palazzo di San Severino, su
progetto di Novello di San Lucano, questo
palazzo è stato poi trasformato in convento.
Nel 1681, essendo stata la città di Otranto
riconquistata ai Turchi da Alfonso II duca di
Calabria, ed essendo stato il regno pacificato
dalle cure di questo principe, fu eretto il
bellissimo palazzo di piacere, detto Poggio
Reale, situato fuori porta Capuana; e fu ornato
di pitture e di fontane. Alfonso fece costruire
anche il castello di Bacoli, per proteggersi
dall'invasione di Carlo VIII. Ma ritiratosi in
355
Sicilia, ivi morì, e gli fu eretta una tomba a
Messina, I monaci di Monte Oliveto, di cui era
stato benefattore, elevarono, a lui e a Ferdinando
suo figlio, statue in terracotta colorate da
Modanino, scultore modenese.
Tra gli artisti che eseguirono tutti questi
monumenti possiamo annoverare Andrea
Ciccione, e Agnolo Aniello Fiore, figlio del
celebre Colantonio, il quale, contro il parere del
padre e di Zingaro, suo cognato, volle dedicarsi
alla scultura. Lì acquistò una certa reputazione;
e alla sua morte fu rimpianto dal pubblico, e
specialmente da Giovanni da Nola, suo allievo,
che completò la tomba del cardinale Pignatelli,
che il maestro aveva lasciato incompiuta.
Bisogna distinguere anche l'architetto
Gabriele D'Agnolo, il quale, ad imitazione del
fiorentino Giovanni Francesco Mormando,
rifiutò lo stile gotico, che aveva ancora molti
sostenitori; Mormando costruì il palazzo del
Duca di Vietri; e D’Agnolo quello del Duca di
Gravina, il quale, benché imperfetto, manifesta
buon gusto e gli eccellenti principi del suo
autore, morto nel 1520 circa. Guglielmo Dello
356
Monaco, buon scultore, modellò e fuse in
bronzo la porta interna del Castel Nuovo. I
bassorilievi di questa porta, di stile grandioso e
ben disegnati, rappresentano le grandi imprese
di Ferdinando I.
Infine arriva il celebre Antonello da Messina.
I dipinti ad olio di Colantonio di Fiore, e, dopo
di lui, di maestro Simone e Franco, erano rimasti
ignorati a Napoli. Tale sarebbe stata la sorte di
quelli del pittore Giovanni di Bruges, eseguiti
all'inizio del XV secolo nelle Fiandre, se non ne
avesse mandati alcuni fuori da quel paese. Uno
di questi quadri, giunto nelle mani del re
Alfonso, sarebbe stato guardato con fredda
ammirazione, se Antonello, infiammato dal
desiderio di estendere i mezzi della sua arte, e
curioso dei segreti del pittore fiammingo, non
avesse deciso di andare a scoprirli lui stesso.
Partì con questa intenzione per le Fiandre; e
avendo presto catturato, con i suoi modi
accattivanti e con il dono di alcuni disegni dei
maestri italiani, la benevolenza e l'amicizia di
Giovanni di Bruges, ottenne finalmente da
questo riconoscente vecchio il tanto desiderato
permesso di entrare in il suo laboratorio. Qui
357
imparò facilmente, vedendolo operare, tutti i
dettagli della lavorazione del dipinto ad olio.
Antonello, ritornato in Italia, e aggiungendo a
questo segreto abbastanza talento da farlo
risaltare, era ricercato con impazienza da tutti i
dilettanti e anche dagli artisti. La sua fama si
diffuse con il gran numero delle sue opere; e il
nuovo processo, che trasmise a Domenico
Veneziano, fu subito dopo, come sappiamo,
generalmente adottato.
Ci stiamo avvicinando al bel secolo delle arti.
Le scuole di Firenze e di Roma esercitarono
allora una potente influenza su quella di Napoli;
e si vedono questi ultimi, se non lottare con
vantaggio, almeno talvolta camminare di pari
passo con loro, nella brillante carriera che sta per
aprirsi.
358
LETTERA XXV.
Tomba di Virgilio. – Villa di Sannazaro. –
Chiesa di Santa Maria del Parto.
Napoli.
Mi piace tornare sul contrasto che l'Italia mi
offre in ogni momento rispetto alla Grecia.
Dopo aver viaggiato attraverso paesi appena
civilizzati, si rimane fortemente colpiti dalle
prime immagini dei costumi e delle abitudini
europee; ci lasciamo andare con avidità a dei
piaceri di cui siamo stati a lungo privati; e siamo
trascinati dal turbinio della società, dallo sfarzo,
dalla varietà degli spettacoli e dall'ebbrezza di
tutti i godimenti artificiali che l'abitudine e
l'educazione ci hanno reso necessari. Ma questa
furia di godere si modera presto: le feste, i balli,
i pasti sontuosi, il tumulto delle passeggiate, e
perfino dei salotti, finiscono per stancare. Gli
organi abituati alla calma, non riuscendo più ad
abituarsi a questo rumore continuo, esigono il
riposo, le meditazioni dolci, e anche la
malinconia: questo fascino della solitudine.
359
Dopo aver accennato ai piaceri di cui i
viaggiatori sono avidi, e che non mancano di
esaltare il Cicerone; dopo aver visto qualche
spettacolo, visitato musei e chiese, ho preso
congedo dalle mie entusiaste guide, dalle loro
grandi parole vuote, dai loro grandi gesti
altrettanto insignificanti. Dico addio alle nuove
conoscenze che facciamo senza piacere e che
lasciamo senza rimpianti; e, lasciando la città
per la via più breve, vago con nonchalance sulla
costa deserta di Bacoli, tra le antiche rovine, e i
tesori della vegetazione di un terreno
eminentemente produttivo; oppure, seduto sulla
spiaggia, mi godo il dolce far niente. Mi ritrovo
a smistare i granelli di sabbia misti a conchiglie,
a contare le onde che successivamente si
infrangono ai miei piedi, seguendo le nuvole che
ondeggiano sopra la mia testa, e il cui
movimento, impercettibile o frettoloso, mi offre
l'immagine del tempo affrettato dalla gioia, o
rallentato dalla tristezza. Esso scorre per me
senza turbamento e con passo regolare in questi
divertimenti frivoli, infantili se si vuole, ma che
calmano i miei sensi più di quanto potrebbero
360
fare tutti gli elisir della medicina, e perfino gli
accordi melodiosi del teatro (il San Carlo).
Saliamo in cima a questo colle, dove sorge un
antico edificio ricoperto di verde, e coronato di
allori, (Fig. 13). Sulla roccia è tracciata
un'iscrizione:
QUAE CINERIS TUMVLO HAEC
VESTIGIA? CONDITUR OLIM ILLE HIC,
QUI CECINIT PASCUA, RURA, DUCES.
Questa è la tomba di Virgilio! ... Il tempo ha
meno rispettato quest'ultimo asilo dell'illustre
poeta che i titoli della sua gloria; ha rovinato
questo monumento e l'interno è vuoto. Mi faccio
strada tra i mirti, le lunghe ghirlande di edera e
clematidi; e giungo al sacro alloro, i cui
germogli si moltiplicano per pia frode. Scelgo
un ramo e sembra che premendolo al petto
faccia circolare un fuoco che mi ravviva. Il mio
sangue riprende nuova attività, scorre più
velocemente nelle mie vene.
Incanto di un grande nome, quanto riempi di
solitudini o di luoghi terribili, dai quali l'uomo
fuggirebbe senza l'esca magica offerta alla
fantasia! Ero circondato da oggetti che, al loro
361
Figura 13
362
interesse pittoresco, ne aggiungevano uno molto
più potente, quello di essere stati descritti da
Omero e Virgilio. Là mi furono offerti l'Averno
il Lucrino, le paludi dell'Acheronte e l'antro
della Sibilla; più avanti, la città di Cuma e le
profumate colline di Falerne. Avevo ai miei
piedi la superba Partenope, ed il mare di Miseno;
la mia vista vagava sulle isole di cui è costellato;
si allontanò da Capri, planò veloce sulle coste di
Sorrento, sui monti Lattari, sulla roccia di
Ercole e sulle rovine di Stabia, di Pompei e di
Ercolano. Alla fine si posò sui templi, sui
palazzi di marmo e sugli splendidi edifici della
capitale, il cui sordo ronzio e fumo mi
arrivavano a malapena.
Tutto, in quel momento, favoriva l'illusione
più seducente; nulla mi ricordava il presente e
mi credevo trasportato nell'età delle meraviglie.
Alcuni pastori, circondati dalle loro pecore, o
richiamando le loro capre erranti in queste rocce
solitarie, erano gli unici esseri animati che mi
circondavano; e questo quadro di antica
semplicità mi manteneva nella più dolce
illusione.
363
È una verità incontestabile che soltanto le
bellezze della campagna e i dettagli della vita
pastorale sono di tutti i tempi; mantengono
ovunque la stessa fisionomia e non cambiano
come gli usi e i costumi degli abitanti delle città.
Questi pastori, seminudi, o ricoperti della pelle
delle loro pecore, e che fanno risuonare le
rustiche pipe sotto le loro dita grossolane, mi
ricordano ancora i pastori di cui il cantore delle
Bucoliche raffigurò i piaceri, il lavoro, le
dispute ed i canti.
Il monumento a Virgilio fu, si dice, fatto
costruire da Augusto entro le mura della villa
che il poeta possedeva su Posillipo, e dove
compose gran parte delle sue opere (1). Plinio il
Giovane racconta che questa casa di piacere fu
acquistata da Silio Italico, console dopo la morte
di Nerone. Possedeva già la villa che Cicerone
chiamò Accademia. Silio amava sognare gli
stessi luoghi che avevano ispirato Virgilio, e che
gli dettarono il poema sulla guerra d'Africa. La
tomba del poeta immortale era per lui oggetto di
una sorta di culto, e non passava giorno senza
visitarla (2). Questo monumento, che Elio
Donato, grammatico del IV secolo, indica nel
364
luogo dove ancora lo vediamo, offre solo una
massa così degradata che è difficile districarne
la forma; è coperto con una volta in opus
reticulatum. All'interno sono presenti diverse
nicchie; e non vi si accede che per aperture
irregolari che mostrano tracce della violazione
di questo monumento, nel quale si vedeva, fino
al 1326, un sarcofago sostenuto da nove
colonnine di marmo bianco, che conteneva le
ceneri del poeta; ma il re Roberto d'Angiò,
temendo che questa preziosa custodia venisse
______________________________________
(1) - Egli stesso lo fa intendere in questi versetti che
concludono le Georgiche:
Illo Virgilium me tempore dulcis alebat
Partenope, studiis florentem ignobilis oti;
Carmina qui lusi pastorum, audaxque juventa,
Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi.
(2) - Silius haec magni celebrat monumenta Maronis,
Jugera facundi qui Ciceronis habet.
Haeredem, dominumque sui tumulique, larisque,
Non alium mallet nec Maro, nec Cicero.
(MARZIALE)
365
portata via, la fece trasportare, si dice, a Castel
Nuovo, dove, nonostante le ricerche di Alfonso
I d'Aragona, non venne più ritrovata. Al tempo
dell'Engenio, nelle vicinanze venne rinvenuta
questa iscrizione:
Siste viator, quaeso, paree, Icgito: hic Maro
situs est.
E il duca di Pescolanciano, proprietario del
terreno alla fine del XVII secolo, fece incidere
su marmo anche il celebre distico:
Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenct nunc
Parthenope. Cecini pascua, rura, duccs;
aggiungendovi:
D. Hieronymus de Alexandro dux
Pescolanciani hujus tumuli hercs P. anno
1684.
Lasciando l'antico eremo di Virgilio godiamo
di uno sguardo di grande ricchezza, che ho
abbozzato (Fig. 14).
Sentieri in dolce pendenza si snodano lungo i
fianchi della roccia; sono sostenuti da enormi
mura forate da archi e fiancheggiate da
contrafforti. Su queste rampe a forma di terrazza
366
Figura 14
367
si innalzano le case, intervallate da giardini.
Sono essi stessi su terrazzamenti che il cemento
pozzolanico rende impenetrabili all'umidità, e
su cui crescono fiori, arbusti e viti. Queste culle
aeree proteggono le case dai raggi del sole e
offrono suggestivi rifugi esposti alle più leggere
brezze marine, che temperano il calore
dell'atmosfera. Soprattutto durante la notte si
gode di una deliziosa freschezza. Molte persone
addirittura dormono su queste terrazze senza
altro riparo che la volta eterea, o i tetti verdi;
piaceri che si possono apprezzare appieno solo
sotto il cielo sereno di Napoli, o nel clima caldo,
secco e salubre della Grecia.
Ai piedi del monte, in riva al mare, e al termine
dei bellissimi moli che, in questo luogo, si
snodano a semicerchio, vediamo la chiesa e il
convento di Santa Maria del Parto, famosi per la
tomba di Jacopo Sannazaro, il Virgilio dei
Napoletani, (Fig. 15).
Il re Federico, che lo amava moltissimo, gli
donò questo ameno angolo di terra, con un
casino che lì aveva fatto costruire. Il poeta
abbellì questa solitudine da cui non si allontanò
368
Figura 15
369
mai, e di cui lodò incessantemente il fascino.
Una delle sue odi inizia così:
Rupis o sacrae pelagique custos
Villa, nympharum domus, et propinquae
Doridos, regum decus una quondam
Deliciaeque, etc.
Si consideri la sua disperazione quando,
durante l'assedio di Napoli da parte dei francesi,
nel 1528, il generale Lautrec, avendo fatto di
questo luogo il suo quartier generale, vi fu
attaccato implacabilmente da entrambe le parti;
Lautrec fu respinto; ma il casino e le piantagioni
furono distrutti. Il poeta ne fu così rattristato che
lasciò Napoli, e morì poco dopo, lasciando
questa terra ai Servi di Maria, per edificare sulle
rovine del suo amato ritiro una chiesa che dotò
di seicento ducati di rendita, e che venne
chiamata Santa Maria del Parto, in ricordo della
poesia di Sannazaro intitolata De Partu Virginis.
Il poeta aveva perdonato i suoi nemici solo
all'ultimo momento, e soprattutto il principe
d'Orange, al quale imputava tutte le sue
sventure. Inoltre, in punto di morire, avendo
saputo che questo principe era stato ucciso
370
nell'assedio di Firenze, gridò: Excedam è vita
hoc meo non inani voto loetus, postquam
barbarus Musarum hostis, ultore Marte,
immanis injuriae poenas persolvit. I parenti di
Sannazaro fecero trasportare il suo corpo a
Napoli, e gli eressero una magnifica tomba nella
chiesa di Santa Maria, ai piedi dello stesso
monte su cui riposavano le ceneri di Virgilio,
con questa iscrizione composta dal famoso
cardinale Bembo:
Da sacro cineris flores. Hic ille Maroni
Sincerus (1) musa proximus ut tumulo.
Il poeta napoletano infatti riprodusse la forma
delle opere, e alcune bellezze, del suo maestro.
Come lui cantava dei pastori, dei piaceri e delle
fatiche della campagna; ma, invece di dipingere
gli eroi, fece, nel poema su cui si basa la sua
fama, la più stravagante mescolanza dei misteri
della nostra religione e delle favole mitologiche.
______________________________________
(1) Sappiamo che Pontano aveva fondato
un'accademia. Entrando si prendeva un nome diverso
da quello ordinario. Si diede a Sannazaro quello di
Accius Sincerus.
371
Anche se i suoi versi latini sono scritti con
grande purezza, e nella sua poesia italiana, e
particolarmente nell'Arcadia, c'è molta
delicatezza e perfino ingenuità, tuttavia siamo
d'accordo che il suo talento è meno originale che
facile, che ha più grazia che vigore. Infine, per
aver voluto mescolarsi con i poeti dell'antichità,
sembra aver perso il suo rango tra i moderni.
La tomba di Sannazzaro è stata oggetto di una
discussione molto animata tra gli storici
dell'arte; e siccome è ben composta e ben
eseguita, parecchi artisti se ne disputano la
gloria. Alcuni la attribuiscono a Giovanni
Angelo Montorsoli, artista toscano, altri a
Girolamo Santacroce, artista napoletano.
Gli esecutori testamentari del poeta ed i fratelli
Servi del convento di Margellina, formarono
due partiti quando si trattò di erigere questo
monumento. I primi si dichiararono favorevoli
al modello composto dal Santacroce; i frati
vollero incaricare di tutto il lavoro il Montorsoli,
che era un religioso del loro ordine. Alla fine si
accordarono e stabilirono di dare a ciascuno
degli artisti una parte nell'impresa. Ciò spiega
372
ciò che riferisce il canonico Celano, e cioè: che
il Santacroce fece il modello dell'intera
composizione, e che il Montorsoli la completò.
La tradizione infatti, confermata dalla
somiglianza del carattere di queste opere con
quelle del Santacroce, riconosce che il
bassorilievo, raffigurante fauni, ninfe e pastori,
è opera sua, così come il busto del poeta. Non
sembra infatti che un artista straniero, che non
aveva mai visto il Sannazaro, sarebbe stato
incaricato a scapito di un connazionale suo
amico da tempo. È ancora probabile che le statue
di Apollo e Minerva, seduti accanto alla tomba,
e alle quali gli scrupolosi monaci diedero i nomi
di David e Giuditta, furono abbozzate dallo
stesso scultore, e completate, alla sua morte, da
Montorsoli. Così avvenne anche per le altre
figure e ornamenti; le opere realizzate da
quest'ultimo artista sono di uno stile del tutto
diverso da quello del Santacroce.
In una cappella della stessa chiesa è esposta
un'Adorazione dei Magi, attribuita a Giovanni di
Bruges, che il re Federico aveva donato a
Sannazaro. Questo dipinto su tela, non è
373
dell'artista fiammingo, e sembra addirittura
avere una mano e uno stile molto più moderni.
Si conosce un altro dipinto dove è
rappresentato San Michele che uccide il diavolo
sotto la figura di una donna molto carina.
L'arcangelo presenta le fattezze di un santo
vescovo; e il diavolo quelle di una donna che
aveva concepito una passione criminale per lo
scrupoloso prelato. C’è scritto, in fondo al
dipinto: Fecit Victoriam. Alleluia.
374
LETTERA XXVI.
Fine delle Note sulle arti napoletane.
Napoli.
Il colpo fatale che il governo dei viceré assestò
al commercio, alla marina, all'agricoltura e alla
popolazione, non ebbe un influsso così
sfortunato sul progresso delle arti del disegno.
Lo splendore che, partendo dal centro Italia, si
diffuse fino ai paesi più lontani, non fu offuscato
dagli attacchi politici e dagli scontri tra le varie
potenze, che tendevano a distruggere gli
equilibri dell'Europa.
Mentre il gusto raffinato dei Medici
impreziosiva Firenze e Roma con i capolavori di
Michelangelo e Raffaello, nel regno di Napoli la
vanità, l'orgoglio e l'ambizione dei viceré si
distinsero per la magnificenza, che suppliva alla
mancanza di gusto.
Il risultato fu che le arti furono protette; prima
dai baroni, gelosi di ostentare uno splendore
quasi regale agli occhi dei forestieri che
375
governavano; e forse anche sfidarli. Invece i
viceré, che non volevano essere inferiori a loro,
ostentavano il massimo lusso. Avevano il
duplice intento di abbagliare la moltitudine, di
far dimenticare gli inconvenienti di un governo
straniero, e di guadagnare merito presso i
sovrani di cui erano rappresentanti.
Questa
emulazione
produsse
opere
magnifiche a Napoli, in altre città del regno e
perfino in Sicilia. Ritornati in patria, i viceré la
arricchirono, è vero, a scapito di Napoli, anche
di capolavori dell'arte italiana.
Sotto Ferdinando il Cattolico furono eretti la
chiesa e la tomba di Sannazaro, la magnifica
cappella di San Giacomo della Marca e diversi
palazzi. Ma il degno rappresentante di Carlo V,
il viceré Pietro di Toledo, purificò l'aria di
Napoli, ampliò la città, e le diede l'aspetto di una
grande capitale. Costruì il palazzo oggi detto
Vecchio, e costruì la bella via alla quale diede il
suo nome; riunì i tribunali e le prigioni del
castello Capuano; sistemò e accrebbe l'arsenale,
in modo che si potessero costruire sedici galee
alla volta; infine, completò la pavimentazione
376
delle strade, distrusse gran parte dei portici che
le ostruivano e le rendevano buie, e ordinò la
costruzione di numerose fontane monumentali.
Lo stesso viceré estese la sua munificenza al
resto del regno. Costruì un palazzo a Pozzuoli,
ricostruì il castello di Bacoli, i viali di Crotone,
la torre del porto di Martinsicuro, sui confini del
regno verso gli Stati del Papa; fondò anche un
ospedale e la chiesa di San Giacomo, protettore
degli spagnoli, nella quale Giovanni di Nola,
che aveva avuto tante occasioni di esercitare le
sue doti, fece erigere al suo Patrono una
magnifica tomba decorata con statue e
bassorilievi.
Fu sempre sotto Carlo V che il viceré
Mendoza fece costruire il ponte della
Maddalena, sul fiume Sebeto, nel 1551; e l'anno
successivo il Duca d'Alba circondò la città di
Bari di nuovi viali. Don Garcia di Toledo, viceré
di Sicilia sotto Filippo II, seguì l'esempio datogli
dal padre a Napoli, ed abbellì Palermo. Gli altri
viceré, come il duca d'Alcalà e il marchese di
Mondejar, fecero eseguire, verso la fine dello
377
stesso secolo, fontane, ponti, acquedotti, strade
ed altre opere di utilità o di lusso.
Vedremo quale parte ebbero gli artisti
napoletani in questa moltitudine di opere. Lo
scalpello e la squadra passarono dalle mani di
Agnolo Fiore a quelle del suo allievo Giovanni
Merliano, più conosciuto con il nome di Nola,
paese dove nacque nel 1478. Si ritiene che, su
consiglio di Andrea di Salona, Merliano partì
per Roma. Lì studiò i capolavori antichi di
Michelangelo, Palladio e Raffaello. Giunto,
anche secondo Vasari, all'avanguardia degli
statuari e degli architetti, degno, in una parola,
di realizzare le vaste idee del viceré, si dedicò
all'apertura di via Toledo, alla costruzione dei
cortili, e di numerose chiese e palazzi. Decorò la
bella fontana del molo con figure che
rappresentavano quattro grandi fiumi, e di cui
non resta che il ricordo nell'espressione dei
quattro del molo. Un altro capolavoro del Nola,
la tomba del suo protettore, doveva essere
trasportato in Spagna; ma, essendo morto in
Italia il viceré, Don Garcia, suo figlio, non volle
privare Napoli di un monumento così bello. Dei
bassorilievi ripercorrono le grandi gesta di Don
378
Pietro; tra le altre, la vittoria riportata sul
Barbarossa quando questo farabutto voleva
impadronirsi di Pozzuoli. Le figure della
Prudenza, Giustizia, Temperanza e Fortezza
occupano i quattro angoli della tomba, sulla
quale vediamo le statue di Don Pietro e della
moglie, inginocchiati e rivolti verso l’altare
maggiore. Questa composizione è estremamente
semplice, e gli ornamenti che la arricchiscono
sono di ottimo gusto: le figure hanno flessibilità,
grazia e anche grandezza: forse ci sarebbe
voluto un disegno più dotto e corretto; ma lo
stile è puro e le pose molto piacevoli. Questa
tomba fu ammirata da Salvator Rosa, che
disegnò tutti i bassorilievi; e da Luca Giordano,
che raccomandò soprattutto la figura della
Temperanza, sebbene fosse solo abbozzata.
Girolamo da Santacroce fu emulo di Nola
nella scultura e nell'architettura. Giunse alle arti
nel suo settimo lustro, in tutta la forza del suo
talento; e Nola, suo maestro e rivale, piangendo
la sua morte disse di lui che la scultura aveva
appena perduto un nuovo Michelangelo. Le
lacrime di questo rispettabile vecchio ricordano
quelle versate da Sofocle per la sorte di
379
Euripide. I modi gentili di Santacroce, la
bellezza dei suoi lineamenti, la sua modestia, i
suoi rari talenti, lo stile delicato ed espressivo
delle sue opere, infine, la sua morte prematura,
lo hanno reso paragonabile al divino Raffaello.
Lo stesso Vasari ammette che avesse superato
tutti gli artisti del suo paese; e che se fosse
vissuto si sarebbe innalzato al di sopra di tutti
quelli del suo secolo; Tuttavia, Michelangelo
esisteva ancora. Avendo già parlato della tomba
di Sannazaro, non entreremo nel dettaglio delle
altre opere di Santacroce, che suggellerà la sua
fama con la statua colossale di Carlo Quinto,
tornato vittorioso dalla spedizione di Tunisi.
Quest'opera, che avrebbe fatto epoca, rimase
appena abbozzata.
Non sappiamo se Santacroce abbia lasciato
degli studenti; ma un gran numero di essi
uscirono dalla scuola di Merliano; tra gli altri,
Annibale Caccavello, e Domenico D'Auria,
amato allievo del suo maestro, che ritoccò le sue
opere per accrescerne la fama. Si deve al
D'Auria una fontana situata nell'arsenale, che fu
poi trasportata, e per ordine del duca di Medina,
da cui prese il nome, in piazza del Castel Nuovo.
380
Fu il Fanzago, di cui abbiamo parlato prima, il
responsabile di questa operazione, e che guastò
questa fontana sovraccaricandola di una
quantità di ornamenti di cattivo gusto.
Passiamo ai pittori. Andrea Sabatini,
salernitano, nato intorno al 1480, studiò con i
migliori maestri napoletani; ma, avendo visto un
quadro del Perugino, riconobbe l'inadeguatezza
dei suoi primi studi, e partì per Roma. Lì rimase
ancora più incantato dalle opere di Raffaello,
che aveva appena terminato la Scuola di Atene;
e mostrò tanta buona volontà e disposizione, che
questo grande artista gli commissionò parecchie
opere, su suoi disegni, al Vaticano, nella Torre
di Borgia e alla Pace. Si dice che l'allievo
dipingesse con tanta franchezza e cogliesse così
bene il tocco del suo maestro che quest'ultimo
non ebbe quasi nulla da fare per rendere queste
opere degne di lui. Quindi amò moltissimo
Sabatini, che lo lasciò solo per andare a Salerno
a chiudere gli occhi a suo padre. La morte di
Raffaello distolse Sabatino dal suo soggiorno a
Roma. Rimase perciò in patria, e ivi mantenne
con belle opere la fama di uno dei migliori
381
allievi della scuola romana, di cui propagò i
buoni principi.
Egli stesso formò alcuni allievi, tra gli altri
Filippo Criscuolo, il quale andò a Roma per
perfezionarsi alla fonte del buon gusto, e lì
studiò le opere di Raffaello con tanta
applicazione, che fu chiamato il napoletano
studioso; e il fratello Angelo Criscuolo, più noto
nella storia dell'arte del disegno, non solo perché
la coltivò con successo, ma soprattutto perché
raccolse interessanti note sugli artisti
dimenticati da Vasari e Borghini. Era un notaio
professionista; e, dopo essersi permesso di
criticare le opere del fratello, questi rispose con
umorismo che avrebbe dovuto essere solo
intenditore di contratti e non di quadri. Per
ripicca divenne un pittore. Lavorò per diversi
anni sotto Marco da Siena, e riuscì a imitare
abbastanza bene le opere del suo maestro perché
suo fratello le fraintendesse. Da allora in poi si
parlò solo del notaio-pittore, che addirittura
firmò alcuni dei suoi quadri.
Questo Marco da Siena è rivendicato dai
napoletani anche per aver lavorato molti anni a
382
Napoli, dove ottenne il diritto di borghesia, e
anche perché Vasari lo citò parlando di Daniele
da Volterra. Marco da Siena e il suo allievo
gettarono le basi della storia pittorica
napoletana, continuata con Massimo Stanzione
e Paolo de Matteis, e infine riunita in un'opera
di De Dominici. Se ne potrebbero trarre nozioni
molto estese sul periodo più celebre della scuola
napoletana; ma preferiamo rinviarvi i nostri
lettori. Non è una storia completa quella che
stiamo tracciando; dopo esserci soffermati su
fatti poco conosciuti, sorvoliamo leggermente
su quelli che riguardano gli artisti, e limitiamoci
a semplici considerazioni sul progresso dell'arte,
che da questo periodo fortunato in poi non ha
fatto altro che declinare. Seguì l'impulso delle
altre scuole d'Italia, le cui vicende appartengono
alla storia generale delle arti in Europa.
Nel corso del XVII secolo i pittori del Regno
di Napoli potevano affiancarsi a quelli di altri
paesi; e basta nominare Fabrizio Santafede,
Stanzione, Mattia Preti, detto il Calabrese, il
Cavalier d'Arpino, Andrea Vaccaro, Aniello
Falcone, Salvator Rosa e Luca Giordano, per
383
dare un'idea dell'altezza a cui si elevò questa
scuola di pittura,
Quelli della scultura e dell’architettura non
produssero altrettanti uomini di così gran
merito. Il cavalier Bernini, impropriamente
chiamato il Michelangelo del suo secolo, perché
nessuno somiglia meno di lui all'autore del
Mosè e del Giudizio Universale, estese
l'influenza perniciosa del suo manierismo sui
monumenti di queste due arti in tutta Italia, e
anche nel resto d'Europa. Fanzago, Andrea
Falcone, suo allievo, e molti altri scultori meno
conosciuti, riempirono Napoli dei loro bozzetti
pretenziosi. Lorenzo Vaccaro è quello che si è
discostato meno dai buoni principi. La sua opera
migliore, la colossale statua equestre di Filippo
V, eretta nel 1705 sulla piazza del Gesù Nuovo,
non esiste più; quando i tedeschi entrarono a
Napoli, fu distrutta dal popolo. Qualche tempo
prima il popolo aveva mostrato più moderazione
e rispetto per le opere di un famoso pittore,
Fabrizio Santafede. Nella rivoluzione del 1649,
avendo i sediziosi marciarono verso la casa di
Nicola Balsamo in via del Monte Oliveto, uno
di loro esclamò: Qui ci sono quadri di Santafede;
384
la loro furia si calmò immediatamente;
passarono oltre e lasciarono la casa intatta.
I palermitani ebbero anche alcuni scultori ai
quali si deve l'invenzione di una sorta di
mosaico in pietre naturali, incastonate nello
stucco, con il quale fu rivestita nel 1626 la
cupola della ricca cappella di Santa Rosalia, a
Palermo. Un altro siciliano, Gaetano Giulio
Zumbo, esperto di scultura e di anatomia,
presentò, verso la fine dello stesso secolo,
all'Accademia delle Scienze di Parigi, una testa
di cera sulla quale erano rappresentate le vene,
le arterie, i nervi, le ghiandole, i muscoli,
colorata naturalmente. Lo stesso artista aveva
già realizzato una Natività e una Deposizione
dalla croce, modellate in cera colorata, che
furono portate anche a Parigi. Una signora
palermitana, di nome Anna Fortino, aveva lo
stesso talento.
Dobbiamo rammaricarci di aver potuto
tracciare solo un lieve abbozzo del quadro e del
progresso delle arti napoletane a partire dal
Rinascimento. Abbiamo tuttavia visto questi
figli di genio dapprima rigettare le fasce di
385
ignoranza in cui erano soffocati, camminare con
passi incerti, diventare più saldi con lo studio e
l'esperienza, sviluppare tutte le loro forze, e
infine, a passi da gigante, percorrere la carriera
più brillante. Trasportati da movimenti
sregolati, oltrepassano la meta dopo averla
raggiunta, gettandosi nel vago dell'incertezza e
nella ricerca di un fantasma ideale tanto lontano
dalla verità quanto dal buon gusto.
Queste passioni ardenti, che, pur nelle loro
deviazioni, dapprima producevano capolavori,
poi ci sono sembrate calmarsi, e quasi
all'improvviso sono divenute inadeguate; le
idee, sempre più vaghe e incoerenti, si
avvicinavano a quelle dell'infanzia, avevano la
loro debolezza, senza ritrovarne la loro
franchezza e ingenuità.
Il quadro delle arti nel Settecento ci offre
questi vecchi fanciulli che fanno un sonaglio
dello scettro dell'arte, e coprono la povertà delle
idee con gli orpelli della falsa ricchezza.
Intraprendono grandi monumenti senza poterli
portare a termine; fanno piani grandiosi e
irrealizzabili; oppure si perdono in una folla di
386
invenzioni puerili, che mirano molto più al
divertimento che all'utilità. Le scuole di
architettura, scultura e pittura, seguono da
lontano lo splendore effimero che circonda i
nomi di Pietro da Cortona e del Bernini. La
moltitudine si precipita verso queste meteore
luminose e sprofonda sempre più nel pantano
della routine e del cattivo gusto. Gli occhi,
stanchi di questa ingannevole chiarezza, non
cercano più di elevarsi verso le immortali
produzioni dell'epoca medicea, e ancor meno
verso gli albori di questo bel secolo. Lo stesso
Raffaello è poco conosciuto; le sue
composizioni sublimi vengono disdegnate,
perché il tempo le ha spogliate della freschezza
del colore; le opere dei suoi predecessori,
Masaccio e Ghiberti, sono disprezzate, e
confuse sotto il nome di pitture o sculture
gotiche: la sapienza delle pose, la semplicità dei
drappeggi, la severità dei lineamenti, in una
parola la nobile austerità di queste opere in cui
Michelangelo e Raffaello non ebbero vergogna
di porre motivi felici, non ispirano più altro che
disprezzo o pietà.
387
Infatti, in questo secolo la cui fine somiglia
così poco all'inizio, la saggezza si confonde con
la freddezza, l'ingenuità con la stupidità; per
compiacere ci vuole meno genio che pretese
intellettuali, e più facilità che scienza. Forme
tormentate, movimenti forzati o pose teatrali;
panneggi svolazzanti, le cui pieghe imitano
carta stropicciata, figure smorzate, coperte da
illuminazioni a ventaglio: questi i tratti
principali dei dipinti di Conca, Giaquinto, De
Mura, successori di Solimena, la cui morte fu,
per così dire, quella dell'arte nel regno di Napoli.
A parte il colore, la scultura presentava gli
stessi difetti; si trascurava la nobile semplicità, e
si rincorreva la difficoltà, non per arrivare alla
perfezione dell'imitazione ma per adottare un
genere la cui apparenza ingannevole seduceva
gli occhi, suscitava immediato stupore e
sorprendeva lo spettatore ignorante in una
stupida ammirazione. Uno scultore fece una
figura di marmo mediante una rete della
medesima materia; questa grande abilità dovette
piacere, perché sembrava sorprendente; ma in
fondo era proprio un infantilismo, simile a
quello dei tornitori che estraggono l'avorio
388
facendo rotolare una palla in un poligono aperto.
Chiamiamo questa statua il Disinganno,
espressione che possiamo rendere solo per
disillusione. Si tratta di un uomo avvolto in un
sacco formato da una rete di corde annodate, da
cui vuole uscire con l'aiuto dell'intelletto (il
genio dell’intelligenza). Il filato è lavorato a
giorno e, in alcune parti, assolutamente staccato
dalla figura. L'autore, Francesco Queirolo (1), si
compiacque che l'antichità non gli avesse fornito
______________________________________
(1) Il cavaliere Francesco Queirolo, nato a Genova e
allievo del Busconi di Roma, era stato chiamato a
Napoli dal principe di San Severo (noto per una serie
di segreti che sono dettagliati nelle opere di Lalande,
del Signorelli, e nella Descrizione di Napoli del
Galanti) per ornare la chiesa di Santa Maria della Pietà,
fondata nel 1608 da Alessandro di Sangro, patriarca di
Alessandria. Quivi vediamo parecchie tombe di questa
famiglia eseguite dal Fanzago, da Antonio Corradini,
veneziano, scultore dell'imperatore Carlo VI, poi di
Maria Teresa, e autore della statua velata della
Pudicizia; e dal cavalier Queirolo, Francesco
Celebrano e Gius. Sammartino. Questi due ultimi
ancora viventi nel 1786.
389
un simile esempio; e i suoi incantati
contemporanei collocarono quest'opera tra i
capolavori.
Un altro scultore, che non diremo statuario,
rappresentò la Pudicizia, di cui tutto il corpo e
anche il volto sono coperti da un velo; è
addirittura, secondo i dilettanti, così trasparente
che si crede di poter vedere tutte le forme della
figura attraverso. Questa idea tanto decantata di
aver messo un velo sul volto della Pudicizia è
delicata e poetica; ma dubitiamo che sia stata
adottata dagli statuari dell'antichità. Se avessero
dovuto rappresentare l'espressione gradevole e
modesta della verginità, avrebbero voluto
superare la difficoltà del soggetto, e creare un
capolavoro di sentimento molto più che d'arte.
Scoprendo il volto, questo specchio dell'anima,
avrebbero potuto imprimere sui lineamenti della
giovane vergine la timidezza, il modesto
imbarazzo e la calma dell'innocenza.
L'antico pittore, che nascondeva alla vista
l'espressione dolorosa del padre di Ifigenia, lo
fece meno, crediamo, per evitare una difficoltà,
quanto per colpire più fortemente l'imma390
ginazione dello spettatore. L'artista, capace di
inventare ed eseguire una simile composizione,
avrebbe anche espresso tutti i sentimenti che
dovevano essere raffigurati sulle fattezze dello
sfortunato Agamennone. La statua della
Pudicizia dimostra quindi più spirito che talento;
e il velo che la avvolge rivela l'insufficienza del
suo autore, il cavaliere Antonio Corradini,
morto a Napoli nel 1752 (1). Lasciò un modello
in terracotta, presentando un Cristo velato come
la figura della Pudicizia, che aveva fatto la sua
fama. Sammartino, scultore napoletano, si ripropose di farla di marmo; cosa che fece in tre mesi.
Da questo fatto, citato con compiacenza dai
napoletani, possiamo giudicare di non aver
esagerato lo stato di decadenza in cui versavano
allora le arti. Infatti, analogamente ai poeti che
erano più interessati alla disposizione e
all'armonia delle parole che alla forza e alla
___________________________________________
(1) Inoltre, questa statua della Pudicizia esprime
l'opposto di questo sentimento; e la posa, gli accessori
e l'espressione, indicherebbero piuttosto civetteria e
perfino sfacciataggine. Fu incisa nella Storia della
Scultura, del Cicognara, 3° vol., tav. VIII.
391
sequenza delle idee, gli artisti abbandonarono il
vero sentimento dell'imitazione per perseguire
la ricerca, l'affettazione e la sottigliezza. Il genio
strisciava carico di ceppi vergognosi, e i prodotti
delle arti non erano altro che falso splendore,
tagliati con cura e montati con gusto, ma che in
realtà non avevano altro valore se non quello
dell'adeguatezza alla moda e alla voga del
momento.
L'architettura deve aver risentito dell'influenza
di questo gusto degenerato. Le sue piante e i suoi
prospetti offrivano forme bizzarre, aggetti
moltiplicati, cornicioni e frontoni spezzati,
interrotti, ribaltati, miscele di cerchi e di
triangoli; colonne a vite, ovali, quadrate;
cartelli, festoni, e perfino panneggi e ghirlande
di fiori colossali: tutto il merito di questi
ornamenti scultorei consisteva in una sapiente
rimozione, e nell'evidenza delle forme più
contorte.
Era in isolati monumenti decorativi, come
fontane, obelischi, porte, archi di trionfo, che
facevano sfoggio gli oggetti più disparati e il
peggior gusto. Citeremo quelli che a Napoli si
392
chiamano guglie (aghi); come quella di San
Gennaro, dove si vedono un mucchio di figure
di tutte le proporzioni e ornamenti bizzarri. I pali
dell'abbondanza, dove sono sospesi oggetti di
ogni genere per tentare la golosità e l'avidità dei
lazzaroni, che si aggrappano gli uni agli altri per
cercare di raggiungerli, sembrano aver dato la
prima idea di questi aghi (1), che suscitano
ancora l'ammirazione di alcuni viaggiatori.
Tuttavia, tra tutte le arti del disegno, è senza
dubbio l'architettura quella che è degenerata
meno. I monumenti offrivano un aspetto più
soddisfacente; sia che si debba attribuirlo alla
natura dei materiali, all'uso dei tetti piani, o
anche al clima, che impone di distanziare le
aperture e di restringerle, per ottenere più
freschezza; o allo scarso bisogno che abbiamo
di questi enormi corpi di camini che adornano
tutti i nostri edifici; o infine al gusto dominante
degli italiani per ciò che è vasto, e che presenta
______________________________________
(1) A Napoli ce ne sono diversi, uno brutto come l'altro.
I più famosi sono quelli di San Gennaro, di San
Domenico e della Concezione.
393
un’idea di magnificenza. Potremmo citare il
palazzo di Capo di Monte, iniziato nel 1738,
sotto la direzione di Angelo Carasale, e
continuato dall'ingegnere Medrano; la Reggia di
Caserta, costruita da Luigi Vanvitelli (l); il
Teatro San Carlo, eseguito nel 1739, nell'arco di
nove mesi, da Gio. Ant. Medrano e Carasale; il
Palazzo di Portici, di Antonio Canevari; e il Real
Albergo dei Poveri, del cavaliere Fuga (2).
Sebbene questi edifici non siano esenti da
difetti, quanto al gusto della decorazione, che si
riflette nell'epoca in cui furono costruiti, tuttavia
la loro massa è di grande effetto, soprattutto se
li vediamo da lontano. Quindi, gli ornamenti e i
piccoli dettagli scompaiono o sconvolgono
meno l'occhio; vediamo solo la disposizione,
l'insieme delle linee e la proporzione generale.
______________________________________
(1) - La descrizione di questo bel palazzo fu stampata
nel 1756, sotto il titolo di Dichiarazione dei disegni del
Real Palazzo di Caserta.
(2) - Potremmo ancora citare Marco Ciaffredo,
architetto napoletano, morto nel 1785, e che ha lasciato
un libro di architettura.
394
Infine, quasi tutti questi monumenti sono
raccomandabili soprattutto per una qualità che si
trova solo in Italia, l'euritmia (1) di Vitruvio, che
conferisce a ciascuno di essi un carattere
specifico, che è quasi sempre grandioso.
___________________________________________
(1) Architetti e traduttori non sono d'accordo sul vero
significato di questa parola, che crediamo equivalga
grosso modo in italiano a quello di garbo, che noi
francesi diciamo galbe, per esprimere il contorno
esterno di un oggetto, soprattutto quello la cui
proporzione è piacevole. Diciamo: il garbo di una
figura, di un albero, di un vaso; ed è senza dubbio così
che Francesco Milizia dice che in un edificio c'è
euritmia, quando possiamo scoprirne tutte le parti
contemporaneamente. L'euritmia può anche, in senso
più generale, esprimere l'idea che attribuiamo alla
parola ritmo, che si applica alla poesia, alla musica, per
numero, cadenza, misura, proporzione del movimento.
Non potremmo usarlo anche nel linguaggio delle arti
del disegno; e particolarmente nell'architettura che è
composta di linee, di spaziature regolari, e di
ripetizione o di ritorno degli stessi oggetti, poiché la
musica tratta degli stessi suoni, e la poesia, delle stesse
rime; cioè della stessa misura nelle parole come nelle
note?
395
LETTERA XXVII.
Descrizione di Portici e di Pompei.
Napoli.
Non posso lasciare la grande Grecia senza dare
un'occhiata al gabinetto di Portici, che contiene
la più completa collezione di oggetti antichi di
ogni tipo, rinvenuti nel cuore della terra; non
dispersi e mutilati, ma per lo più interi, e nella
situazione, nel luogo stesso in cui furono
sorpresi dal formidabile flagello che li aveva
fatti scomparire con le città di Ercolano, Pompei
e Stabia.
Portici è un luogo di piacere del Re di Napoli,
che spesso vi abita con i suoi ministri. Questo
palazzo, dal magnifico aspetto dal lato del mare,
è circondato da splendidi giardini piantati sul
crinale del Vesuvio. Fu costruito nel 1738 per
ordine di Carlo di Borbone, sovrano noto per il
suo gusto per le arti liberali, e soprattutto per
quelle arti industriali che forse danno meno
gloria, ma che contribuiscono molto di più alla
prosperità di un paese. Includiamo tra queste le
396
manifatture di arazzi, di tavole di pietra dura, di
un tipo di mosaico e delle porcellane,
paragonabili a quelle di Sevres; stabilimenti che
incrementarono i rapporti commerciali e il
benessere di un gran numero di artisti
napoletani.
Ma il maggior beneficio del re Carlo, quello
che sarà generalmente apprezzato, e che attira
una gran folla di stranieri, è la fondazione del
Museo di Portici, dove vediamo raccolti i
documenti materiali più certi della storia delle
arti, degli usi e dei costumi antichi. Il dettaglio
sarebbe infinito; e, benché avvertiti, non siamo
meno sorpresi dal numero di statue in bronzo e
marmo di tutte le proporzioni, dipinti, vasi d'oro,
d'argento e di terracotta, ancora più preziosi, che
formano questa enorme collezione. Ad ogni
passo veniamo fermati da oggetti disparati,
anche se tutti interessanti, che danno materiale
per riflessioni, per confronti e per motivi di
studio. Qui vediamo mobili dalle forme eleganti,
come tavoli, sedie curule, treppiedi, lampade e
candelabri; lì strumenti di agricoltura, di
chirurgia, di musica e utensili da cucina; inoltre,
armi offensive e difensive, gioielli usati per la
397
toilette delle donne; pietre incise, cammei e altre
pietre preziose tagliate e montate su anelli, spille
e braccialetti; altrove troviamo colori per
dipingere, uova, grano, noci e perfino
leguminose di cui è riconoscibile la forma; e
perfino dell’olio e del vino disseccati. Infine vi
è mostrata un'intera biblioteca che fu la delizia
di qualche erudito del secolo di Augusto, e che
è la disperazione degli eruditi d'oggi, perché tutti
questi rotoli di papiro sono ridotti in carbone, o
marciti dall'umidità. Gli ultimi si riducono in
polvere al tatto, e gli altri devono la loro
conservazione solo allo stato di calcinazione in
cui si trovano. Una mano abile e operosa può
addirittura svilupparli e metterli in condizione di
essere letti e trascritti. Il famoso padre Antonio
Piaggio, inventore del procedimento, ne
sviluppò però solo un piccolo numero;
deploriamo giustamente la lentezza delle sue
operazioni e soprattutto la scomparsa di gran
parte di questi preziosi manoscritti.
Qualunque sia il piacere che mi ha dato la vista
di tanta ricchezza accumulata, avrei preferito
vedere questi oggetti proprio nel luogo in cui
sono stati ritrovati. Oggi, classificati fredda398
mente e, per così dire, in ordine di materiali,
sugli scaffali di un mobiletto, mi sono sembrati
spogliati di quella sorta di vernice di antichità
che tanto accresce il prestigio, e che il
meticoloso lavoro dei commentatori fa
scomparire. In questo momento non ho voglia di
parlare; non ho bisogno di ragionamenti, ma di
emozioni, e le cercherò proprio sul luogo di una
grande catastrofe; rimuoverò le ceneri
raffreddate da tanto tempo; li vedrò riscaldarsi,
per così dire, ai raggi del sole di cui erano così
avidi, rinascere e produrre ai miei occhi tutta una
generazione estinta da tanto tempo; in una
parola, trasportiamoci a Pompei, ricostruiamo
col pensiero questa antica città nella sua
originaria integrità, e popoliamola con i suoi
antichi abitanti.
Il suolo e la polvere dell'Italia non sono infatti
che il detrimento degli oggetti d'arte che un
tempo ne vedevano la superficie; e le viscere
della terra ne contengono ancora la maggior
parte. Questi superbi monumenti che la potenza
di Roma, aiutata dal genio della Grecia, innalzò
al cielo; questi lunghi colonnati di marmo;
queste gallerie decorate con dipinti; tutto questo
399
lusso delle arti messo insieme, che le ricchezze
di tutto il mondo a malapena potevano pagare,
ha lasciato solo un ricordo semicancellato; e,
simili a delle ossa sbiancate sparse sul terreno di
un campo di battaglia, la fantasia ha bisogno di
stimoli per riconoscerle, in mezzo a questi resti
del colosso romano. Scavando un po' in
profondità scopriamo, è vero, nuove
testimonianze della magnificenza degli antichi;
tuttavia tutti questi monumenti rotti, mutilati,
sconnessi, dopo aver esercitato la paziente
sagacia degli antiquari, spesso non possono
essere riportati al loro stato originale. Ma
immaginiamo la gioia di coloro che per primi
sollevarono il velo di morte che copriva
un'intera stirpe scesa viva nel sepolcro, senza
perdere nulla di queste forme che il tempo aveva
nascosto ai molteplici attacchi dei devastatori
della bella e infelice Ausonia.
Scrittori ingegnosi hanno evocato le ombre di
alcuni illustri romani, e le hanno trasportate sul
suolo dell'antica loro patria, di cui appena si
riconoscevano i resti, mutilati dai barbari, o
mascherati dai restauratori. Una città che, dalla
sua origine, non ha cessato di esistere, sebbene
400
abbia cambiato più volte volto nell'arco di
duemila anni, deve tuttavia conservare i segni
certi del gusto successivo dei suoi abitanti. Le
sue costruzioni portano ancora l'impronta dei
vari popoli che le hanno erette. Riconosciamo
innanzitutto lo stile maschio e severo e il
carattere di solidità che veniva dato agli edifici
più piccoli, sotto il governo dei primi re e della
repubblica. Roma divenne poi, sotto Augusto,
quella città marmorea ricca di tutte le arti della
Grecia. Gli altri imperatori la resero più ricca,
senza farla più bella. Infine il gusto degenerato
del Medioevo, proponendo la commistione tra
lo stile antico e la fantasia sregolata degli
orientali, diede vita a quel tipo bastardo di
costruzioni con cui i Goti, i Longobardi e i
Normanni ricoprirono di volta in volta l'Italia.
Tuttavia arrivò la rinascita; la Roma moderna
risorse dalle rovine. Ma ben presto, ai
monumenti di gusto severo e grandioso seguì,
con sfrenato amore per l'ornamento e la novità,
l'architettura borromina.
Una città, piena di una così grande confusione
di monumenti di tutte le epoche, non ha più
alcun carattere. Non è né antica né moderna;
401
somiglia solo a un museo, dove l'osservatore
può seguire il progresso dell'arte di secolo in
secolo, attraverso i campioni esposti; ma, dove
un romano del tempo di Augusto riconoscerebbe
così poco la sua patria, nello stato in cui si trova,
noi non possiamo, malgrado le nostre ricerche,
scoprirne il piano e l'insieme della sua antica
magnificenza.
Non è lo stesso per una città sepolta da venti
secoli nelle viscere della terra. Pornpei è
sfuggita alle vicissitudini del tempo e degli
uomini; le nazioni sono passate e hanno stirato
il suo suolo, l'hanno calpestato senza lasciare
tracce profonde. I suoi monumenti sono rimasti
intatti e inalterati; vi troviamo, nei più piccoli
dettagli, la memoria di antiche usanze; e se uno
dei suoi antichi abitanti sfuggisse alla legge
comune che impone che quando lasciamo le
nostre spoglie mortali beviamo dalle acque del
Lete; se un pompeiano sognasse di essere sulla
terra con la capacità di ricordare i tempi passati,
potrebbe gridare, avvicinandosi alla sua città
natale: Ave, patria mia! Ti rivedo come ti
lasciai, quando una terribile catastrofe mi
costrinse ad allontanarmi dalle tue mura. Ecco il
402
sacro recinto che contiene la tomba dei miei
padri; spesso ho versato profumi e lacrime su
queste urne che contengono ancora le loro
ceneri! Ecco queste panchine di marmo, poste
alle porte della città, dove attendevo l'arrivo del
viaggiatore per offrirgli asilo, ed esercitare nei
suoi confronti le leggi dell'ospitalità. Ecco
questo teatro che risuonava degli applausi dati
alle opere drammatiche di Terenzio ed Euripide,
mentre il Vesuvio iniziava a esercitare la sua
furia; fu a questo tempio che la folla spaventata
si recò, ma troppo tardi, per implorare la
clemenza divina.
Il cittadino di Pompei, giunto finalmente alla
propria casa, si sarebbe prostrato nuovamente
davanti alla propria abitazione; avrebbe
riconosciuto le sue case, e percorrerebbe
sospirando le segrete vie dei suoi appartamenti
solitari. Una sorgente mormorava un tempo in
questo stagno; le viti ombreggiavano questo
portico; ecco la stanza predisposta per il bagno;
lì, su questo pavimento a mosaico, era eretto il
triclinio attorno al quale i suoi amici, incoronati
di mirto, e appoggiati su ricchi cuscini, facevano
403
passare la coppa colma di un profumato vino
greco...
Potremmo estendere questa finzione e
accompagnare il contemporaneo di Plinio di
strada in strada, di luogo in luogo; farlo salire
sulle mura della città, e fargli guardare i campi
della Campania, dove avrebbe cercato invano
delle ville famose che non esistono più.
Abbandoniamo però il ruolo di declamatore o di
romanziere, e riprendiamo quello di storico.
Fu nel primo secolo della nostra era, sotto il
regno di Tito, che avvenne l'eruzione del
vulcano, che distrusse diverse città, scosse e
ricopri di cenere e terrore tutta l'Italia. Ercolano,
Stabia e Pompei sepolte, devono al flagello che
sembrava averle cancellate per sempre, la loro
conservazione miracolosa, e la loro attuale
fama. Ercolano e Pompei erano vicine; ma la
storia dell'ultima di queste città è meno
interessante e più oscura. Di lei si sa poco altro,
se non che fu fondata dagli Opici, che vi
abitarono gli Etruschi e che fu successivamente
dominata dai Pelasgi, dai Sanniti e dai Romani.
Era una città marittima, situata a cinque miglia
404
dal cratere del Vesuvio, e alla foce del Sarno. Il
suo porto era comune alle città di Nola, Nocera
e Acerra; ma l'eruzione del vulcano cambiò il
suo sito, o meglio quello del fiume, che ora
scorre a più di una lega dal suo antico letto. Le
lave e le ceneri riempirono il porto e crearono
una nuova riva che spinse lontano le acque del
mare.
Pompei era già stata danneggiata dal
terremoto dell'anno 63, e fu interamente sepolta
dall'eruzione del 79, la prima di cui la storia fa
menzione, e la più fatale di tutte, per il gran
numero di città che distrusse, per la moltitudine
di persone che ne furono vittime e, infine, per la
morte da Plinio. Ercolano, molto più vicina al
vulcano, fu ricoperta da un materiale duro e
compatto, che costrinse a scavare con infinita
difficoltà e a punta di martello, per liberare i
monumenti. Questa materia, nel suo stato di
fluidità incandescente, essendo penetrata nei più
piccoli vuoti, li aveva riempiti come se vi fosse
stato versato piombo fuso; mentre Pompei era
scomparsa sotto uno strato di ceneri e scorie
senza adesione tra loro. Fu facile rimuoverle,
poiché sormontavano gli edifici solo di qualche
405
palmo. Questa pioggia di sassi e di materiali
fiammeggianti si estendeva fino al Castello a
Mare, l'antica Stabia, e copriva il terreno per un
raggio di trenta miglia; ma con intensità
decrescente con la distanza. A Pompei caddero
pietre pesanti fino a otto libbre; e a Stabia solo
di un'oncia,
Nel 1689, mentre venivano scavati dei terreni
nelle vicinanze del Vesuvio, a quasi un miglio
dal mare, furono trovate alcune antiche
iscrizioni che menzionavano la città di Pompei,
che non si supponeva fosse esistita in questo
sito. Quindi non fu dato alcun seguito a questa
scoperta.
Tuttavia, il principe d'Elbeuf, della casa di
Lorena, generale al servizio dell'imperatore
Carlo VI, trovandosi a Napoli nel 1713, fece
costruire a Portici una casa di delizie, già molto
gradevole, ma a quel tempo quasi deserta.
Avendo bisogno di frammenti di marmo per
realizzare decorazioni in stucco, apprese che un
abitante del villaggio ne aveva trovati una
grande quantità mentre scavava un pozzo. Il
principe acquistò questa terra. I suoi operai,
406
dopo aver forato una volta, per curiosità vi
entrarono e trovarono frammenti di bellissimi
marmi e persino statue. Informato di questa
preziosa scoperta, il principe continuò le
ricerche, che gli fornirono una tale quantità di
oggetti degni di nota, che il governo napoletano
ne divenne geloso, e diede ordine di cessare gli
scavi, per riprenderli esso stesso subito dopo.
Furono infine scoperti, settanta piedi sottoterra,
non solo oggetti sparsi, ma un'intera città, quella
di Ercolano, con i suoi templi, i suoi teatri, le sue
case private, piene di statue di marmo e di
bronzo, di dipinti, di mobili; infine, di tutto ciò
che una catastrofe imprevista e improvvisa
aveva costretto ad abbandonare.
Sembrava impossibile restaurare Ercolano, e
Stabia, scoperta poco dopo alla luce del giorno,
perché il terreno che le ricopre supporta ora i
comuni di Portici e Castello a Mare; ma avendo
trovato per una fortunata coincidenza il vero sito
di Pompei, sotto un terreno poco adatto alla
coltivazione, fu facile acquisirlo, e venne
concepita l'idea di liberare quest'ultima città
dall'involucro superficiale che la nascondeva
alla vista. È a questo pensiero audace che
407
dobbiamo la conservazione di un gran numero
di edifici che prima si vedevano appena e subito
scomparvero per sempre. Da allora, gli amici
delle arti e dell'antichità sono accorsi a visitare
questi luoghi, divenuti per loro la meta di una
sorta di pellegrinaggio obbligato.
Fin dall'inizio, queste importanti scoperte
occuparono il mondo accademico. Le molteplici
relazioni hanno alimentato a lungo la curiosità
del pubblico senza soddisfarla del tutto; perché
il governo, eccessivamente geloso di questi
tesori, li lasciava appena vedere, e impediva
accuratamente che qualcuno potesse disegnarli
e misurarli. Si riservò il diritto di darne la
conoscenza esatta mediante l'incisione (1).
______________________________________
(1) L'Accademia di Napoli ha pubblicato solo due
volumi su questa città: uno contiene i dipinti dell'antica
villa, l'altro i mosaici. Giovanni Battista Piranesi ha
fornito alcuni fogli staccati su Pompei; essi non sono
così altrettanto esatti quanto ben incisi. I suoi figli li
portarono su una scala più ampia; ma gli errori sono
diventati ancora di più scioccanti. Nella sua opera
intitolata Prospetto Istorico e Fisico degli Scavi
408
Il primo scavo, effettuato nel 1755, scoprì, per
una coincidenza tanto fortunata quanto
singolare, il percorso che conduceva alla porta
della città. (Fig. 16). Presenta tre aperture:
______________________________________
di Ercolano e Pompei, Dancora ha compiuto ricerche
erudite. Anche Delalande e Cochin hanno parlato di
queste città. Gli inglesi, al tempo del signor Hamilton,
e sotto il ministero di Acton, volevano ottenere disegni
esatti di Pompei ed Ercolano, senza riuscirci. Il signor
abate Romanelli ha pubblicato un Itinerario di Pompei,
che non ha niente di nuovo. Il signor Nicolasi ha scritto
una dissertazione dove ripete tutto quello che aveva
detto Dancora. Inoltre tutte queste opere non hanno
altro che una piccola pianta generale, redatta
visivamente. Infine, l'opera dell'Abate di Saint-Non è
la più soddisfacente, anche se non molto esatta; finché,
il signor F. Mazois non ottenne il permesso di
disegnare e misurare le rovine di Pompei. Bellissimo
questo lavoro, frutto di duro lavoro. diligente dal 1809
al 1812, pubblicato con grande successo. Il signor
Frédéric de Clarac, testimone dei rapporti fatti nel
1813, li riportò in diversi articoli del Giornale Francese
stampato a Napoli; e questi articoli riuniti, con
aggiunte, e accompagnati da quindici tavole, formano
un opuscolo stampato in un piccolo numero di copie e
molto interessante.
409
Figura 16
410
quella centrale, per il passaggio delle vetture, le
altre due, molto più strette, per i pedoni. La
strada, pavimentata con larghe pietre laviche
tagliate irregolarmente, e fiancheggiata da
marciapiedi, prosegue nell'interno della città,
che deve attraversare, non in linea diretta, ma
formando numerose deviazioni e interessando
varie piazzette. Si può osservare a questo
proposito che gli antichi mostrano, molto meno
di noi, una perfetta simmetria nelle piante delle
città e dei loro edifici. Il risultato è meno
monotono e forse più piacevole.
Infatti queste strade lunghe, larghe e
regolarmente costruite; queste piazze circondate
da facciate sullo stesso disegno; questi lunghi
viali, queste aperture a perdita d'occhio, offrono,
se si vuole, un'idea di grandezza, di
magnificenza, e anche qualche vantaggio di
pulizia e di salubrità: ma, in generale, questi
oggetti molto regolari sono anche molto
monotoni. Le strade disposte in linea retta e
nelle quali, in certe ore del giorno, non c'è riparo
dai raggi cocenti del sole che vi penetra senza
ostacolo, sono molto meno convenienti di quelle
411
che corrono lungo una linea un po' sinuosa o
spigolosa.
Gli antichi prestavano poca attenzione alla
simmetria, che spesso sacrificavano alla
pittoresca bellezza dei punti di vista. Si spiegano
così le singolari irregolarità delle costruzioni
che ci appaiono strane, perché abbiamo perduto
l'aspetto sotto il quale dovremmo considerarle.
Potrei citare un gran numero di esempi a
sostegno di questa osservazione. il più notevole
è l'aggregazione dei tre templi di Eretteo,
Minerva Poliade e Pandroseion, nella cittadella
di Atene.
Torniamo a Pompei. Prima di entrare in città
vediamo, secondo l'uso degli antichi, tombe a
destra e a sinistra del sentiero; accanto, a breve
distanza, una casa di campagna con cortile
decorato da colonne che formano un peristilio:
sopra il piano terra si eleva un edificio in pietra,
al di sotto del quale troviamo dei sotterranei che
servono da cantine, sale da pranzo, o rifugi per
ripararsi dal grande caldo.
In genere le case degli antichi non avevano,
come da noi, una moltitudine di piani
412
sovrapposti, che salgono fino alle nuvole; non si
conoscevano queste lunghe file di appartamenti
e queste gallerie dove il lusso mostra le sue
ricchezze e la sua oziosità. Le piccole stanze,
senza comunicazione tra loro, e spesso
ricevendo luce solo dalla porta, terminavano
tutte sotto un portico, di cui conservano la
somiglianza i chiostri dei nostri conventi, e che
circondava un piccolo cortile, rinfrescato da una
vasca dove scorreva un getto d'acqua. Il piano
superiore lasciava entrare la luce attraverso rare
e strette finestre; quelle forate sul muro
ricordavano i nostri giorni di sofferenza, poste,
come le finestre delle case turche, a sei piedi di
altezza, e chiuse con fogli di talco o tavole di
alabastro; c'erano anche piccoli vetri smerigliati.
La disposizione delle finestre impediva di
vedere chiunque passasse all'esterno; ma anche
chi era in casa era al riparo da sguardi indiscreti.
L'ossatura, raramente utilizzata in edilizia, era
sostituita da volte; e, solitamente, i tetti
terminavano in terrazze. I mosaici presero il
posto della pavimentazione; le pareti interne, e
anche le facciate, erano ricoperte di pitture
applicate su uno stucco molto bello.
413
Visitando Pompei rimasi colpito dalla
somiglianza delle sue costruzioni con quelle il
cui uso è continuato nel Levante, e in particolare
tra i greci moderni. Si riconoscono lì queste
piattaforme basse, che regnano intorno agli
appartamenti, e sulle quali senza dubbio ci si
siede, come in Turchia, su materassi, cuscini,
tappeti o stuoie. Questi sedili, che non si alzano
che di un piede da terra, confermerebbero
sufficientemente quanto ho affermato altrove,
cioè che gli antichi dovevano accovacciarsi sui
talloni, o sedersi con le gambe incrociate, come
gli orientali; e che solo le persone distinte nelle
funzioni e nelle cerimonie pubbliche
occupavano i posti più alti. La forma stessa delle
tribune dei teatri supporta questa affermazione.
Troviamo ancora nel Levante l'uso di tavoli
rotondi o tripodi ricoperti da vassoi realizzati
con avorio e legni pregiati. I pavimenti in
marmo, i mosaici, i dipinti alle pareti, l'uso di
piscine nei cortili, anche all'interno degli
appartamenti, le finestre nascoste, le stanze che
prendono aria solo dalla porta che si apre su
loggiati coperti sorretti da pilastri o colonne; i
bagni di vapore degli Orientali, le loro tombe
414
dipinte, dorate e scolpite, le loro camere
sepolcrali situate alle porte delle città, ai lati
delle strade, e circondate da viali; la stessa
disposizione dei negozi; i marciapiedi rialzati
accanto alle case e ai lati delle strade; tutto
questo nel Levante è modellato su antiche
usanze. Era tale la somiglianza con ciò che
avevo già visto, che nulla mi stupiva in queste
rovine, che mi sembravano quelle di una città
turca, astratta dallo stile dell'architettura dei
monumenti pubblici; e se fosse stato abitato
dagli Orientali, avrei creduto che fosse stato
costruito da loro. È infatti dai musulmani che
avremo un'idea abbastanza precisa degli usi dei
romani; proprio come impareremo dal materiale
delle arti di questi ultimi nel Museo di Portici.
Tuttavia, una cosa mi colpì come una sorpresa
tra gli edifici di Pompei, e cioè la straordinaria
piccolezza delle loro proporzioni. Le case, le
strade, le piazze di questo paese sembrano
essere state abitate da un popolo di pigmei.
La strada pubblica e la strada principale sono
larghe solo dodici piedi, e le altre strade solo
otto o dieci; anche le porte laterali della città
415
sono larghe solo quattro piedi; l'ingresso di
diverse tombe e di un triclinio per i pasti funebri
è alto solo da tre piedi e mezzo a quattro piedi e
mezzo; alcune stanze misurano solo sei piedi
quadrati. Le mura della città sono alte da quattro
a cinque tese; e le scale che conducono ai
bastioni non possono contenere che due persone
alla volta.
Il contrasto è sorprendente con le altre
antichità della grande Grecia, e specialmente
della Sicilia, dove vediamo templi colossali le
cui colonne sono così enormi che un uomo può
stare comodamente in una di esse, e che non
hanno meno di diciotto pollici di apertura.
Come abbinare le proporzioni di questa città
in miniatura con i racconti degli storici, che,
dando importanza alle cose più piccole,
sembravano aumentare le opere e anche la
statura degli uomini del loro tempo?
Se i pompeiani non fossero citati nella storia
come un popolo libero che combatté diverse
guerre con i suoi potenti vicini, crederemmo che
la loro città fu costruita da uno di questi grandi
proprietari la cui enorme ricchezza superava
416
quella di molti dei nostri principi sovrani, il
quale, avendo ai suoi ordini parecchie migliaia
di schiavi, avrebbe fatto costruire per loro una
città per racchiuderli tutti, e farvi esercitare i
loro commerci o la loro arte, il cui prodotto
sarebbe appartenuto al maestro. Infatti le case,
tutte sullo stesso piano, essendo anguste, ma
comode per una piccola famiglia, ed essendo i
loro templi, come gli altri loro edifici,
proporzionati alla piccolezza delle abitazioni,
tutto potrebbe facilmente spiegarsi per mezzo di
questa singolare assunzione.
Del resto nella stessa Roma, nonostante la sua
immensa estensione, i semplici cittadini
occupavano poco spazio; le case private
dovevano essere anguste come quelle di
Pompei, se si considera che metà della città era
riempita dagli immensi palazzi degli imperatori,
che formavano di per sé piccole città, da circhi,
teatri e una prodigiosa quantità di templi,
cappelle, terme e giardini. È vero che il popolo
romano che trascorreva la giornata all'aria
aperta, o in locali pubblici, aveva bisogno solo
di un angusto ritiro in cui trascorrere la notte.
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Comunque sia, l'immaginazione, questa
divinità potente, sa bene come ingrandire tutti
gli oggetti: ti mette davanti agli occhi il suo
prisma, ti spezza il compasso e il metro, e tu
dimentichi ciò di cui il freddo calcolo ti aveva
fatto per accorgere. Queste case si trasformano
in palazzi, queste mura acquistano l'altezza di
quelle di Babilonia; queste strade diventano
strade trionfali e tutte queste tombe contengono
le ceneri di grandi uomini. Le nostre idee si
innalzano alla vista di queste meraviglie, e la
mente perduta supera la misura della vista.
È infatti uno spettacolo singolare vedere allo
scoperto questa città che risale ad un'epoca così
lontana, e ritrovarvi la traccia di antichi costumi
di cui gli autori non potevano che darci un'idea
confusa e incompleta. Gli edifici, appena
danneggiati nella parte superiore, al momento
della scoperta erano perfettamente conservati; le
statue, i mosaici, perfino i quadri avevano
ancora tutta la loro freschezza, i mobili, gli
utensili, gli oggetti più piccoli, rimasero nel
luogo che occupavano sedici secoli prima; il
pane, il grano, la frutta, anche se secchi o legger-
418
mente carbonizzati, erano ancora riconoscibili;
infine trovammo anche i corpi di diversi abitanti
vestiti come il loro ultimo giorno, e negli
atteggiamenti in cui la morte li aveva sorpresi,
alcuni che cercavano di fuggire con i loro
gioielli più preziosi, altri nascosti in luoghi
oscuri, sorpresi a tavola, oppure soffocati nel
bagno.
La descrizione che si sarebbe potuta fare di
Pompei sarebbe stata quella di una città
esistente, e non mancava altro che riportare in
vita i suoi abitanti. Perché non abbiamo la
capacità di evocarli e costringerli a venire a
ripopolare la loro patria! Li vedremmo agire,
riprendere le loro abitudini, raccontandoci il
segreto della loro morale, dei loro costumi, della
loro operosità, e soprattutto dei procedimenti
delle loro arti. Non potendo accontentarci in
questo senso, potremmo almeno sostituire le
statue, i quadri, i mobili rimossi, e restaurare i
tetti degli edifici; servirebbero da asilo per pochi
attenti e fedeli custodi, che avrebbero il compito
di assicurare la conservazione e il mantenimento
di questo ricco giacimento.
419
In tal modo questi monumenti che hanno tanto
sofferto inizierebbero una nuova esistenza, che
continuerebbe nei secoli a venire. Questo
spettacolo, unico al mondo, attirerebbe
costantemente folle di appassionati da tutte le
nazioni; e una semplice passeggiata per le vie di
questa città sarebbe più istruttiva che leggere
tutte le voluminose dissertazioni degli antiquari.
Ma perché ciò avvenga è necessario completare
lo sgombero dei muri di cinta dalle terre che li
mettono al livello della campagna: diventerebbero allora una barriera sufficiente contro
l'avidità degli spogliatori. Ripristinare anche le
porte della città, ponendovi delle guardie per
impedire l'ingresso dei profani, e che si
aprirebbero solo su richiesta dell'artista, o del
viaggiatore erudito. Questa antica città, ora
sacra, può diventare un museo dove saranno
conservate anche le più piccole vestigia della
sua passata grandezza. Queste rovine deserte
sono già state troppo mutilate. Là siano deposte
anche le ceneri dei loro abitanti; e che, per una
felice illusione, il viaggiatore, circondato dagli
oggetti che occupano il loro posto, e nella
situazione in cui si trovavano prima, possa
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credersi per un momento contemporaneo di
Plinio e suddito di Tito.
FINE DEL TOMO PRIMO.
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