RIFL (2024) SFL: 111-126
DOI: 10.4396/SFL202301
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Leggere e comprendere il mondo come prassi: Ludwig Wittgenstein
e il Dizionario per le scuole elementari
Grazia Basile
Università di Salerno
[email protected]
Abstract Ludwig Wittgenstein is known to have worked as a primary school teacher in
three villages in Lower Austria from 1920 to 1926. His time as a teacher profoundly
influenced what is commonly referred to as the “second phase” of his philosophical
thinking. This period is characterized by a self-critique of the “serious errors” in his
earlier work, the Tractatus Logico-Philosophicus (1921), and a shift toward focusing on
everyday language rather than pursuing an idealized language. Notably, the incipit of his
later work, the Philosophical Investigations (1953), delves into the genetic problem of
learning, the concrete conditions of language use, and the forms of life that define a
language. These themes were undoubtedly influenced by Wittgenstein’s experiences as a
teacher and remained central to his philosophical development. Wittgenstein’s
Wörterbuch für Volksschulen, published in 1926, was initially aimed at improving the
spelling skills of his students. However, it also served as a sort of “philosophical
crucible” in which key concepts of his later philosophy began to take shape. The
Wörterbuch für Volksschulen adopts a pragmatic approach, emphasizing the social and
historical context over purely syntactic or semantic concerns. It incorporates elements
such as the importance of anchoring teaching in the children’s real-world experiences
considering their linguistic and cultural backgrounds, and recognizing the role of
language in specific domains of experience. These foundational ideas laid the
groundwork for Wittgenstein’s later concept of language games, as he observed that
«language games are the forms of language with which a child begins to make use of
words» (Wittgenstein, trad. it. 1983: 17).
Keywords: Language Games, Forms of Life, Use, Teaching/Learning, Praxis
Received 26 03 2024; accepted 24 06 2024.
Sto forse facendo psicologia
infantile? – Sto mettendo in
connessione
il
concetto
dell’insegnare con il concetto di
significato (Wittgenstein , trad.
it. 2007: 90).
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0. Introduzione
Quando si guarda allo sviluppo della filosofia di Ludwig Wittgenstein spesso si fa
ricorso a un’immagine stereotipata per cui ci sarebbe una prima fase (legata a una lettura
neoempiristica del Tractatus logico-philosophicus 1921, trad. it. 1989) volta a una
teorizzazione del linguaggio ideale, specchio del mondo e della sua struttura e una
seconda fase che trova la sua espressione più compiuta nelle Ricerche filosofiche (trad. it.
1974) nella quale il filosofo austriaco, dopo aver abbandonato il mito del linguaggio
unico, parla non di linguaggio ma di linguaggi e li intende come giochi, radicati nell’uso
quotidiano e nei comportamenti che ad essi si associano.
Se nel Tractatus, le parole e gli enunciati hanno un senso in quanto costituiscono dei
riflessi verbali («mirror images» ̶ De Mauro 1967: 38) di entità ed eventi esistenti (o che
potrebbero esistere) nel mondo, e dunque il linguaggio deve avere qualcosa in comune
con il mondo per poterne parlare con aspirazione di sensatezza, nelle Ricerche filosofiche
così come nel Libro blu e Libro marrone (trad. it. 1983) Wittgenstein si allontana
definitivamente dalle posizioni del Tractatus e ̶ facendo riferimento ai processi
psicologici e al ruolo delle interazioni sociali e verbali messi in evidenza dagli approcci di
diverse scienze sociali/umane del XX secolo ̶ approda a una concezione del linguaggio
del tutto differente, in cui quest’ultimo è indissolubilmente legato alle sue condizioni
d’uso, alle forme di vita di cui fa parte. Tale appello alla dimensione dell’uso (Gebrauch),
scombina, per dir così, l’illusoria immagine indivisa del logicismo in una vasta e aperta
gamma di giochi linguistici (Sprachspiele) che sono indissolubilmente intrecciati alle
attività o forme di vita umane e si collegano gli uni agli altri per qualche tratto e per una
varietà di regole che ne consentono il funzionamento in contesti sociali specifici. Il suo
lavoro mette insomma fine a modi di pensare e di porre problemi che avevano
dominato la filosofia analitica del primo dopoguerra (e poi anche il mondo anglofono
negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento), ponendosi non come un terminus ad
quem ma come un possibile terminus a quo (cfr. Janik, Toulmin , trad. it. 1975: 264).
Sulla lettura delle “due fasi” di Wittgenstein hanno sicuramente inciso sia un lungo
periodo di cosiddetto “vuoto editoriale” tra il 1921 (anno di pubblicazione del Tractatus)
e il 1953 (anno della pubblicazione postuma delle Ricerche filosofiche), sia i lunghi tempi di
pubblicazione degli scritti inediti di Wittgenstein. Il materiale di scritti che è stato
pubblicato negli ultimi decenni1 ci consente di adottare una lettura diversa, di maggiore
continuità, in cui la cosiddetta “seconda fase” di Wittgenstein2 può considerarsi come
una ridiscussione e un’evoluzione di alcune tematiche importanti già presenti nel
Tractatus. E a tale scopo un ruolo di rilievo ̶ a nostro avviso ̶ è svolto dall’unica altra
opera (oltre al Tractatus) che Wittgenstein ha pubblicato nella sua vita, ossia il Wörterbuch
für Volksschulen (1926, trad. it. Dizionario per le scuole elementari, 2021) che si colloca in
modo fecondo e originale all’interno di tale supposto “vuoto editoriale”.
Dopo la guerra Wittgenstein ̶ se ci limitiamo a giudicare dai mestieri che svolse ̶
sembrò allontanarsi dalla filosofia: lavorò infatti come giardiniere, come portiere
Cfr. le versioni digitali delle opere di Wittgenstein, in particolare i Wittgenstein Archives at the University of
Bergen (WAB) curati da Alois Pichler a partire dal 2009; dal 2020 il sito è curato da Joseph Wang presso il
Research Institute Brenner-Archiv di Innsbruck (https://wab.uib.no/).
2 Tra le concezioni del Tractatus e quelle delle Ricerche filosofiche Danièle Moyal-Sharrock individua un “terzo
Wittgenstein”, che emerge in particolare in Della certezza (, trad. it. 1978) e negli scritti ad esso
contemporanei (cfr. Moyal-Sharrock 2016). Sull’ipotesi di un “Wittgenstein in Transition” cfr. pure Glock
(2001).
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d’albergo e poi trascorse sei anni facendo il maestro elementare in tre piccoli villaggi di
montagna nella Bassa Austria. Le domande che dobbiamo porci ̶ anche a partire dai
molti particolari e aneddoti raccolti da William Warren Bartley III nei villaggi in cui
Wittgenstein aveva insegnato ̶ sono in sostanza due: Wittgenstein smise davvero di fare
filosofia per un periodo? Si può operare una cesura netta tra la prima e la seconda fase del suo pensiero?
L’immagine di Wittgenstein che viene fuori è quella di un uomo che non aveva affatto
abbandonato la filosofia, ma che, al contrario, aveva cercato di mettere in pratica la
lezione etica contenuta nel Tractatus. Come riferisce il suo amico architetto Paul
Engelmann ̶ insieme a cui lavorò alla costruzione di una casa a Vienna per sua sorella
Margarete Stonborough ̶ il nucleo del Tractatus era profondamente etico3, impregnato
di «un totalitarismo etico in tutte le questioni, [di] una univoca e dolorosa preservazione
della purezza delle richieste intransigenti dell’etica, nella coscienza tormentosa del
proprio permanente fallimento nel commisurarsi ad esse» (Engelmann, trad. it. 1970:
81). Partito dall’esigenza di «conciliare la fisica di Hertz e Boltzmann con l’etica di
Kierkegaard e Tolstoj nell’ambito di un’unica esposizione coerente» (Janik, Toulmin,
trad. it. 1975: 169) ̶ dunque convinto che il compito del Tractatus fosse tanto logico
quanto etico ̶ Wittgenstein giunge ad assegnare all’etica la stessa funzione
trascendentale che aveva assegnato alla logica: «L’etica è trascendentale» (Wittgenstein,
trad. it. 2021: 169).
Inoltre, come suggerisce Engelmann, il punto di vista espresso da Wittgenstein nel
Tractatus può essere sintetizzato dicendo «le proposizioni etiche non esistono; esiste
invece l’azione etica» (Engelmann, trad. it. 1970: 81): l’etica, dunque, non si può
insegnare tramite ragionamenti, ma solo dando esempi di comportamento morale.
Come per Tolstoj i cui racconti lo avevano profondamente colpito e ispirato4, anche per
Wittgenstein il significato della vita non era un problema accademico, ma andava risolto
solo nel modus vivendi, come egli dimostrò più volte nella sua vita e in particolare nel
periodo di insegnamento nelle scuole elementari.
1. L’insegnamento nella scuola elementare e la formazione del “secondo
Wittgenstein”
Tra i fattori che tradizionalmente si ritiene abbiano contribuito alla formazione della fase
del pensiero di Wittgenstein comunemente nota come “secondo Wittgenstein” troviamo
generalmente menzionati: la lettura dei Principles of Psychology (1890) di William James (e
quindi il contatto con la teoria pragmatista della conoscenza e della verità); il contatto
con la filosofia anglosassone, in particolare con il cosiddetto “realismo del senso
comune” di George E. Moore; l’interesse per i fondamenti della matematica e della
Cfr. Wittgenstein’s Vienna di Allan Janik e Stephen Toulmin, secondo i quali il Tractatus già agli occhi della
sua famiglia e dei suoi amici era ben più di un semplice libro sull’etica, «era uno strumento etico, che
mostrava la natura dell’etica [corsivo nel testo]» (Janik, Toulmin, trad. it. 1975: 20).
4 Come racconta Engelmann, le opere di Tolstoj che Wittgenstein apprezzava in maniera particolare erano
Il Vangelo in breve e i Racconti popolari (cfr. Engelmann, trad. it. 1970: 52), al punto che fra i suoi commilitoni
al fronte egli era noto come “l’uomo del Vangelo” perché non lo si vedeva mai senza Il Vangelo in breve
(cfr. Janik, Toulmin, trad. it. 1975: 203).
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logica5; le conversazioni con Schlick e Waismann nel 1928 e quelle con Ramsey e Sraffa
a Cambridge nel 19296.
Tuttavia, tra il completamento del Tractatus e il ritorno nel 1929 a Cambridge (dove nel
1939 successe a Moore come professore di filosofia) vanno considerati ̶ come hanno
suggerito prima Engelmann e poi Bartley III – i cosiddetti “anni misteriosi” (mystery years
– cfr. Bartley III 1974: 315). In particolare, la raccolta di particolari e aneddoti messa a
punto da Bartely III ha contribuito a rendere più “accessibili” gli anni del mistero e a
sfatare la leggenda per cui ci troveremmo di fronte a un Wittgenstein venuto fuori non
si sa bene come, magari dal non aver capito che non era in grado di fornire la “forma
logica” di un tipico gesto napoletano fatto dall’economista italiano Piero Sraffa o
dall’ascolto di una conferenza tenuta dal matematico olandese Luitzen E. J. Brower nel
1928. Sarebbe come raccontare la gravitazione universale di Newton facendo
riferimento alla storia della caduta della mela dall’albero (cfr. Antiseri 2021: 61).
Se ricostruiamo quegli anni in maniera analitica emerge non solo una nuova
problematica pedagogica legata ai principi della riforma della scuola di Otto Glöckel e
all’influenza di Karl Bühler (v. infra, § 1.1.), ma anche la centralità del contatto
quotidiano con i bambini delle scuole elementari in cui insegnò dal 1920 al 1926.
L’esperienza di Wittgenstein come maestro elementare ̶ per quanto “infruttuosa”
sembri esser stata per lui (cfr. Engelmann, trad. it. 1970: 85) ̶ non solo va rivalutata, ma
va vista come uno snodo teorico cruciale per la sua evoluzione da autore del Tractatus ad
autore delle Ricerche filosofiche. Sia nel Libro blu e Libro marrone che nelle Ricerche filosofiche e
nelle Osservazioni filosofiche il maestro elementare viene infatti sempre più in primo piano e
su temi molto importanti (cfr. Antiseri 1974: 34).
Insomma, l’esperienza dell’insegnamento nella scuola elementare contribuisce
fortemente alla messa a punto di concetti cardine della sua filosofia, tutti legati alla sua
attenzione per il linguaggio ordinario: si tratta della nozione di uso (nel senso di un uso
socialmente regolato e coordinato ̶ cfr. De Mauro 19753: 207), della teoria dei giochi di
lingua e della concezione del linguaggio come forma di vita, che prevedono l’idea di un
linguaggio radicato in un contesto caratterizzato dalla concretezza dei bisogni, dei
pensieri, delle attività, dei sentimenti ecc. degli esseri umani (cfr. ibidem). E nel progetto
che sta alla base il Dizionario per le scuole elementari possiamo intravedere, in filigrana 7 ,
l’emergere in nuce di tali fondamentali questioni. Come aveva ben intuito Engelmann, il
ritorno ufficiale alla filosofia nel 1929 probabilmente non sarebbe avvenuto nei termini
in cui avvenne se Wittgenstein non avesse fatto il maestro elementare8.
5 Le Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik (1956, trad. it. 1971) e le Philosophische Untersuchungen
(trad. it. 1974) furono di fatto pensate e composte come sezioni di un’unica opera (cfr. Trinchero 1974:
XV).
6 In particolare, l’influenza di Sraffa su Wittgenstein è stata osservata in primo luogo da De Mauro (1980:
65-67) e, più recentemente, da Morra (2106), De Iaco (2020) e Mazzeo (2021).
7 A questo proposito cfr. quanto afferma Antonia Soulez: «Le plaidoyer en faveur de l’usage que contient
en filigrane sa préface, n’est pas sans annoncer la perspective philosophique de la “grammaire” du
philosophe du début des années 1930» (Soulez 2009: 191).
8 «Mi sembra che il tentativo, che egli fece molto più tardi, di esprimere in una nuova forma i risultati
filosofici del Tractatus integrati da nuove intuizioni sia una testimonianza dell’influenza di quel periodo»
(Engelmann, trad. it. 1970: 86).
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1.1. La riforma della scuola in Austria: Glöckel e Bühler
Sull’esperienza di Wittgenstein come maestro hanno dunque inciso sia il programma di
riforma della scuola di Glöckel (ministro dell’istruzione della Prima Repubblica austriaca
̶ 1919-1938) che le idee filosofiche e psicologiche di Bühler che di tale riforma fu
l’ispiratore intellettuale. Si tratta di un programma di riforma oggi quasi del tutto
dimenticato anche in Austria che però in quegli anni ebbe un influsso considerevole e
non solo in Austria, al punto che Robert Dottrens dell’Istituto Jean-Jacques Rousseau di
Ginevra non esitò a definire Vienna “la Mecca della pedagogia” (cfr. Dottrens 1930:
IX).
Nella Germania e nell’Austria dell’anteguerra l’istruzione era perlopiù sotto il controllo
della Chiesa cattolica romana ed era disciplinata entro schemi molto rigidi e autoritari9.
Era un approccio basato su una psicologia dell’educazione improntata
all’associazionismo, in particolare quello riconducibile alle concezioni di Johann F.
Herbart per il quale la mente umana era una sorta di magazzino passivo e lo scopo
dell’istruzione era quello di dare ai bambini e ai ragazzi «the right direction to their
thoughts and impulses» e, al contempo, «to incline these toward the morally good and
true. Children are thus in a measure passive» (Herbart 1901: 60). Era un’impostazione
ideologica che ben si adattava alle finalità sociali conservatrici degli educatori asburgici
per i quali l’insegnamento consisteva nel riempire, per mezzo di esercizi mnemonici, le
teste degli studenti di quelle associazioni di idee che avrebbero dovuto essere
predominanti nelle loro vite.
Caduto l’Impero austro-ungarico dopo la Prima guerra mondiale, dal 1919 fino
all’Anschluss (l’unificazione con la Germania nazista nel 1938) in Austria fu proclamata la
Prima Repubblica e avviato un progetto di riforma dello Stato che coinvolse anche
l’istruzione. Contro il sistema scolastico prebellico e l’impostazione che lo sosteneva si
scatenò un feroce attacco da parte di Glöckel e dei suoi seguaci riformatori che
portarono avanti un progetto teorico ed educativo anti-herbartiano e anti-associazionista
che diede vita (tra il 1920 e il 1926) a uno dei sistemi scolastici più progressisti in
Europa. Contro la Drillschule (la “scuola dell’addestramento”, dove Drill ha una
connotazione militare) e la Lernschule (la “scuola dell’apprendimento”, di stampo
mnemonico) (cfr. Antiseri 2021: 74) fu sostenuto un orientamento pedagogico chiamato
Arbeitsschule (“scuola del lavoro”), in cui era prevista una partecipazione attiva del
bambino alla vita scolastica sulla base del principio metodologico del learning by doing. La
locuzione usata era sich etwas erarbeiten in cui il sostantivo Arbeit si riferiva alla
partecipazione attiva alle lezioni al fine di sviluppare appieno le proprie capacità,
l’elaborazione autonoma dei contenuti appresi e la capacità – diremmo oggi ̶ di problem
solving, dunque in un’ottica completamente diversa da quella precedente basata sul
passivo apprendimento mnestico e sul mero immagazzinamento di nozioni.
L’obiettivo delle scuole inferiori era quello di rendere «thoroughly pious, good, tractable, and industrious
men of the laboring classes of the people» (Strack 1872: 327; trad. ingl. in Gulik 1948: 546); a livello
metodologico nello statuto delle scuole elementari stabilito dall’Imperatore nel 1805 era sancito che «the
method of instruction must endeavor first and foremost to train the memory; then, however, according to
the pressure of circumstances, the intellect and the heart» (ibidem). A livello letterario cfr., a questo
proposito, Die Verwirrungen des Zöglings Törleß di Robert Musil e Unterm Rad di Hermann Hesse, due
romanzi usciti nel 1906, che sono una testimonianza di quanto i sistemi scolastici dell’epoca fossero di
natura repressiva e controproducente per i ragazzi.
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Nel progetto dei riformatori scolastici per lo più socialisti (social-democratici) la riforma
della scuola doveva servire, insomma, a formare dei cittadini che nella nuova democrazia
si ponessero come soggetti attivi e partecipativi. L’ostacolo più grosso fu però costituito
dalle divisioni sociali e dall’arretratezza della società semifeudale dell’epoca che ̶ fatta
eccezione per città industriali come Vienna e Graz (dove i socialdemocratici erano
politicamente dominanti) ̶ manifestò ostilità verso quel progetto, percepito come un
programma di dissenso e di rivoluzione piuttosto che come un programma di riforma
pedagogica (cfr. Bartley III, trad. it. 1974: 112). Alla fine degli anni Venti del Novecento
nelle campagne contadine si scatenò un’aspra reazione contro Glöckel e la sua riforma
che fu dapprima confinata a Vienna e in seguito ̶ dopo l’avvento della dittatura di
Engelbert Dollfuss nel 1934 ̶ fu abolita del tutto. Molti dei suoi leader, tra cui Glöckel,
furono arrestati e le due principali riviste (a cui Wittgenstein era abbonato) sui cui
trovavano espressione le idee dei riformatori ̶ Die Quelle e Schulreform ̶ cessarono le
loro pubblicazioni.
A livello metodologico, la riforma della scuola di Glöckel portò a nuovi esperimenti
genericamente denominati di attività autonoma (Selbsttätigkeit) per stimolare i ragazzi a
capire il più possibile da soli le regole (con un opportuno aiuto da parte degli insegnanti)
attraverso l’uso di liste di parole ed è molto probabile che il Dizionario per le scuole
elementari di Wittgenstein, pubblicato come testo scolastico ufficiale nel 1926, fosse in
parte destinato a questo scopo (cfr. Bartley III 1974: 311), anche se ̶ come abbiamo
preannunciato nel § 1 e come vedremo più diffusamente nel § 2 ̶ in esso sono
contenuti molti spunti anticipatori per lo sviluppo della sua filosofia successiva.
Il principale ispiratore intellettuale della riforma fu Karl Bühler, professore di filosofia
all’università di Vienna e presso l’Istituto Pedagogico di Vienna che, insieme alla moglie
Charlotte (una psicologa dell’infanzia), era stato convinto da Glöckel e dai suoi colleghi
a trasferirsi a Vienna. La sua opera Die geistige Entwicklung des Kindes (1918) influenzò il
movimento di riforma della scuola e diventò libro di testo di pedagogia nei nuovi centri
istituiti per il tirocinio degli insegnanti. Bühler attrasse studiosi di grande valore come
Paul Lazarsfeld, Egon Brunswik, Else Frenkel-Brunswik, Konrad Lorenz, Lotte SchenkDanziger, Albert Wellek e Edward Tolman e, tra coloro che si formarono come maestri
all’Istituto di formazione per insegnanti (uno dei primi Lehrerbildungsanstalten sotto la
direzione generale di Glöckel), possiamo ricordare non solo Wittgenstein, ma anche
Karl Popper e Edgar Zinsel.
La psicologia bühleriana dell’infanzia ̶ definibile come una versione critica della
psicologia gestaltista, più vicina al pensiero di Jean Piaget che a quello degli psicologi più
rappresentativi della scuola della Gestalt, quali Wertheimer, Koffka, Köhler e Lewin (cfr.
Bartely III, trad. it. 1974: 159) ̶ proponeva una teoria del bambino come essere sociale
attivo, dotato di una mente che non è affatto un contenitore vuoto da riempire con delle
informazioni. Alla base della ristrutturazione della psicologia operata da Bühler vi era la
decisa affermazione della primarietà e dell’attività del soggetto pensante che si
concretizza nella «complessiva acquisizione per apprendimento della capacità
comunicativa» (ivi: 108).
Sebbene il nome di Wittgenstein non compaia in nessun elenco degli studenti di Bühler,
ci sono degli elementi che avvalorano l’ipotesi di una conoscenza fra i due studiosi e di
un’influenza di Bühler su Wittgenstein, come, ad esempio, la presenza dei coniugi
Bühler al noto incontro tra Wittgenstein e Moritz Schlick come ospiti di Margarete
Stonborough, la sorella di Wittgenstein, e inoltre fu il nipote di Wittgenstein, Thomas
Stonborough (che si era laureato a Vienna con Bühler) a suggerire di invitare anche
Bühler e sua moglie. Sebbene Wittgenstein qualche volta avesse definito Bühler come
un ciarlatano (cfr. ivi: 162), non c’è dubbio che ci siano state delle sorprendenti
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“somiglianze di famiglia” tra alcune idee di Bühler e quelle del secondo Wittgenstein,
anzitutto la comune opposizione ai modi di pensare tipici dell’atomismo logico e
psicologico e la comune condivisione del contestualismo o configurazionismo.
1.2. Wittgenstein maestro elementare
Una volta preso il diploma di maestro Wittgenstein a partire dal settembre del 1920 fino
al 1926 ̶ dunque nel periodo in cui la scuola austriaca fu investita alla riforma di
Glöckel ̶ insegnò a bambini di 10-11 anni nelle scuole elementari di tre piccoli paesi
della Bassa Austria, Trattenbach, Puchberg e Otterthal10. I motivi di tale decisione sono
strettamente legati a ragioni familiari, in particolare alla lunga tradizione di impegno nei
servizi sociali da parte della famiglia Wittgenstein11. Ludwig Wittgenstein al ritorno dal
campo di concentramento di Cassino12, decise di fare il maestro almeno in parte come
Arbeitstherapie (cfr. Bartley III 1974: 316) e senza farsi influenzare dal movimento di
riforma della scuola, i cui slogan erano spesso giudicati da lui irritanti. Nei mesi che
corrono dal ritorno da Cassino alla sua presa di servizio a Trattenbach Wittgenstein ̶
come scrive egli stesso a Engelmann in una lettera del 21.06.1920 ̶ si trovò nella
situazione di chi «non sa nuotare cade in acqua e si dibatte con mani e piedi e si rende
conto che non riesce a tenersi a galla [corsivo nel testo]» (Engelmann, trad. it. 1970: 19).
Furono anni assai intensi, segnati da stati d’animo molto alterni, in cui Wittgenstein fu
pienamente assorbito dalla sua attività di insegnamento13: come ricorda Engelmann, egli
si dedicava con cura alla preparazione del suo lavoro e agli interessi dei suoi alunni ma
non fu facile per lui ̶ nonostante avesse stretto qualche amicizia ̶ vivere tra i contadini
di quei villaggi (cfr. ivi: 117). Wittgenstein entrò in contatto strettissimo con i suoi allievi,
si adoperò affinché essi potessero arrivare a ragionare da soli, non combatté né
disprezzò il loro dialetto, anzi partì proprio dai loro usi dialettali per insegnare loro il
tedesco: quando un ragazzo faceva fatica a esprimersi in tedesco Wittgenstein gli diceva
Wie sagst Du zu Hause? (“come dici a casa? come dici nel tuo dialetto?”), mostrando
quanto fosse attento al mondo di partenza dei suoi allievi per portarli verso nuove
esperienze formative14.
Furono anni, insomma, in cui Wittgenstein maturò alcuni temi molto importanti che
costituirono il “concime”, per dir così, per i suoi scritti filosofici successivi: si tratta
dell’importanza dell’acquisizione e dell’uso della lingua, della consapevolezza dei
problemi pedagogici e della centralità della dimensione pragmatica dell’insegnamento in
relazione alla questione del significato. Per quanto l’esperienza dell’insegnamento ̶
come abbiamo già detto nel § 1 ̶ sembra sia stata per lui infruttuosa, essa esercitò
un’indubbia influenza «sul suo sviluppo, da autore del Tractatus a autore delle Ricerche,
anche se probabilmente egli stesso non l’avrebbe ammessa» (ivi: 85).
A Otterthal fu istituito un processo legale contro Wittgenstein perché aveva dato un ceffone a un
ragazzo. Nonostante alla fine fosse stato assolto, Wittgenstein si rifiutò di continuare con l’insegnamento
scolastico e nell’aprile del 1926 rassegnò le sue dimissioni.
11 Ricordiamo la donazione di 100.000 corone fatta nel 1914 da Ludwig Wittgenstein a Ludwig von Ficher
per aiutare poeti e scrittori, tra i quali rammentiamo Rainer Maria Rilke e Georg Trakl. La sorella
Margarete Stonborough fu nominata dal presidente americano Herbert Hoover rappresentante per
l’Austria della American Food Relief Commission, un ruolo che la mise in contatto con i socialisti e altri leader
politici, tra cui Otto Glöckel, mentre Mining, la sorella maggiore, aprì una day-school a Grinzing per i
ragazzi bisognosi di Vienna e spesso offrì il suo aiuto agli scolari del fratello Ludwig.
12 A Cassino Wittgenstein conobbe, tra gli altri, Ludwig Hänsel, uno scrittore austriaco molto interessato
alla pedagogia che ebbe su di lui una grande influenza.
13 Sull’esperienza di Wittgenstein come maestro elementare cfr. il fondamentale Wünsche (1985).
14 Wittgenstein ottenne dei risultati notevoli, portando ragazzi di 10-11 anni a livelli molto al di sopra degli
standard ordinari della scuola elementare, in particolare nello studio della matematica e dell’algebra
superiore (cfr. Bartley III, trad. it. 1974: 134).
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2. Dal mondo dell’infanzia come “oggetto filosofico” al Dizionario per le scuole
elementari
A partire da quegli anni l’infanzia assume un carattere fondativo nel pensiero di
Wittgenstein, e non è un caso che l’incipit delle Ricerche filosofiche parta dal problema
genetico dell’apprendimento, a cominciare dalla citazione e dal commento critico di un
celebre passo di Agostino, tratto da Le confessioni15, per prendere le distanze dalla sua
precedente teoria di stampo referenzialista espressa nel Tractatus: il modo di pensare di
Agostino non sarebbe altro che il paradigma del suo «vecchio modo di pensare» e dei
«gravi errori» da lui stesso commessi nel passato (cfr. Wittgenstein, trad. it. 1974: 4) che
lo avrebbero portato a concepire un funzionamento del linguaggio in maniera primitiva
e semplificata, proprio come accadeva ̶ così pensava Wittgenstein ̶ nella concezione di
Agostino16.
Secondo Wittgenstein, Agostino di fatto descrive l’apprendimento del linguaggio umano
«come se il bambino giungesse in una terra straniera e non comprendesse la lingua del
paese; vale a dire: come se possedesse una lingua, ma non questa» (ivi: 26-27). E così
dovevano sentirsi gli allievi dialettofoni di Wittgenstein, come se si trovassero di fronte a
una lingua straniera.
L’infanzia, e dunque il momento dell’acquisizione di una lingua, sono di fondamentale
importanza per comprendere in che modo ̶ a partire da abilità e giochi linguistici
preesistenti17 ̶ la nostra facoltà di linguaggio “si incontra”, per dir così, con le lingue
storico-naturali intese come cultural artifacts che variano attraverso le diverse culture e a
seconda dei modi in cui i bisogni comunicativi dei parlanti si evolvono nel tempo (cfr.
Tomasello 1995: 152). Il nuovo “oggetto filosofico” costituito dal mondo dell’infanzia
pone a Wittgenstein dei nuovi interrogativi: ad esempio nella citazione di Wittgenstein
riportata in esergo il filosofo viennese si chiede se ciò che sta facendo sia psicologia
infantile, a conferma del fatto che ̶ come sostiene Bartley III ̶ sia Zettel che il Libro blu
e Libro marrone e le Ricerche filosofiche possono essere letti come il tentativo di sviluppare i
lineamenti di una psicologia infantile del linguaggio (cfr. Bartley III, trad. it. 1974: 162).
Al paradigma incarnato da Agostino per cui «le parole del linguaggio denominano
oggetti» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 9) e gli oggetti sarebbero il significato delle parole
(criticato perché proprio di «una rappresentazione primitiva del modo e della maniera in
cui funziona il linguaggio» ̶ ivi: 10), Wittgenstein oppone una nuova prospettiva che ha
il suo fondamento proprio nell’infanzia:
La nebbia si dissipa quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi
del suo impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa dello scopo e
del funzionamento delle parole. Tali forme primitive del linguaggio impiega il
«Mi si imprimeva nella memoria il suono con cui [gli adulti] indicavano qualche cosa e i movimenti del
corpo corrispondenti a quel suono: vedevo e capivo che così essi chiamavano una cosa quando volevano
indicarla. E che questo fosse il loro scopo appariva dal movimento del corpo, come da un linguaggio
connaturale a tutti, che risulta dal volto, dal variar dello sguardo, dal gesticolare, dal tono della voce […].
Così venivo a poco a poco collegando le parole ripetute in varie espressioni e spesso udite con le cose da
esse significate, e la bocca già si piegava a manifestare con esse i miei desideri» (Agostino 19347: 61).
16 Sulla non facile interpretazione dell’incipit delle Ricerche filosofiche a partire dal ben noto passo delle
Confessioni di Agostino cfr. Perissinotto (2002). Cfr. pure Basile (2006).
17 È ciò che ha ben intuito Wittgenstein quando si chiede che cosa bisogna saper fare prima di chiedere il
nome di qualcosa: «Per essere in grado di chiedere il nome di una cosa si deve già sapere (o saper fare)
qualcosa. Ma che cosa si deve sapere?» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 25); «Chiede sensatamente un nome
solo colui che sa già fare qualcosa con esso» (ivi: 26). «[…] molte cose devono essere già pronte nel
linguaggio, perché il puro denominare abbia un senso» (ivi: 122).
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bambino quando impara a parlare. In questo caso l’insegnamento del linguaggio
non è spiegazione, ma addestramento (ivi: 11).
Non impariamo a parlare perché qualcun altro ci insegna come fare, ma il processo di
acquisizione di una lingua si verifica in maniera del tutto naturale a partire dalle
situazioni di interazione sociale in cui ciascun essere umano fin dalla nascita è coinvolto
(cfr. Basile 2012: 18). La parola che Wittgenstein usa a tal proposito è il sostantivo
Abrichtung (“addestramento”), derivato dal verbo abrichten (“addestrare”) e collegato al
sostantivo Richtung (“direzione”), per cui l’addestramento è legato alla direzione da
prendere (cfr. Mazzeo 2013: 103) e la scelta della giusta direzione non dipende da un
processo mentale interiore e isolato ma da una pratica pubblica e condivisa. Abrichtung e
abrichten sono inoltre termini che rimandano alle pratiche di ammaestramento degli
animali: per sviluppare una capacità così squisitamente umana come il linguaggio verbale
il bambino deve essere “addestrato/ammaestrato”, proprio a sottolineare che
l’insegnamento linguistico non passa per spiegazioni esplicite e non richiede da parte di
chi apprende un faticoso processo di interpretazione, ma implica la ripetizione
intelligente di alcuni comportamenti all’interno di un contesto condiviso di azioni e di
reazioni18. È su questo sfondo che trova origine la nozione di gioco linguistico, per cui ̶
come dice Wittgenstein nel Libro blu (che raccoglie le pagine dettate ai suoi alunni a
Cambridge nel 1933-1934) ̶ i giochi linguistici sono «le forme di linguaggio con le quali
un bambino comincia ad usare le parole» (Wittgenstein, trad. it. 1983: 26).
In questo contesto teorico Wittgenstein pubblica il Dizionario per le scuole elementari (d’ora
in avanti, per brevità, semplicemente Dizionario)19, scritto con il fine pratico di «sopperire
ad una pressante necessità dell’attuale insegnamento dell’ortografia» (Wittgenstein, trad.
it. 2021: 105) e per risvegliare una «coscienza ortografica» (ivi: 107), essendo l’ortografia
un’espressione tangibile del possesso della lingua dello stato nazionale (cfr. Mazzeo
2016: 63). I dizionari generalisti in uso a quell’epoca erano da lui giudicati scarsamente
adatti all’insegnamento dell’ortografia e della grammatica, pieni di esempi letterari e
lontani dalla vita e dall’uso linguistico dei bambini. E i bambini che Wittgenstein aveva
di fronte erano bambini dialettofoni, ragion per cui egli ̶ come anticipato poc’anzi ̶
anziché sferrare una campagna contro l’uso del dialetto, partì dai concreti usi linguistici
dei suoi studenti per guidarli nell’apprendimento del tedesco parlato in Austria. Ad
esempio, coloro che usavano il dialetto facevano spesso confusione tra le costruzioni al
dativo e quelle all’accusativo e, per rendere familiare la differenza tra i due casi,
Wittgenstein introdusse degli esempi molto semplici e facilmente comprensibili dove la
distinzione tra il dativo e l’accusativo dei pronomi di terza persona è chiara anche in
A questo proposito Wittgenstein è molto esplicito: «Come faccio a spiegare a qualcuno il significato di
“regolare”, “omogeneo”, “eguale”? ̶ A uno che parli, poniamo, soltanto il francese spiegherò queste
parole mediante le corrispondenti parole francesi. Se però costui non possiede ancora questi concetti, gli
insegnerò a usare le parole mediante esempi e con l’esercizio. ̶ E nel far ciò non gli comunico nulla di meno
di quanto sappia io stesso. Nel corso di questo addestramento gli mostrerò lunghezze eguali, figure eguali,
colori eguali: e lui dovrà a sua volta individuarli e riprodurli, e così via. Lo avvierò, per esempio, a
proseguire “in modo eguale” un motivo ornamentale, quando riceve un certo ordine. ̶ E anche a
continuare progressioni; per esempio a proseguire, ‘. ..., così: ... ...’. .... Gli faccio vedere come si fa, e lui fa
come faccio io; e influisco su di lui con espressioni di consenso, di rifiuto, di aspettazione, di
incoraggiamento. Lo lascio fare, oppure lo trattengo; e così via. Immagina di essere testimone di un
addestramento del genere. Nessuna parola sarebbe definita mediante sé stessa, non si cadrebbe in nessun
circolo logico [corsivo nel testo]» (ivi: 110-111). Si tratta di un chiaro esempio di addestramento, in cui
l’insegnante ricorre a pratiche che hanno lo scopo di mostrare i contesti in cui determinate parole possono
essere opportunamente usate, come possibili strumenti, e quali regole ne governano l’uso.
19 Cfr. Beth Savickey che definisce il Dizionario di Wittgenstein uno strumento innovativo e non
convenzionale (cfr. Savickey 1999: 58).
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dialetto: è il caso, ad esempio, della forma accusativa ihn (“lo” in italiano) che in dialetto
austriaco è n o m, come nel caso di I hob m g’sehn che corrisponde al tedesco standard Ich
habe ihn gesehen (“io l’ho visto”) (cfr. Wittgenstein, trad. it. 2021: 169). Il principio
teorico-metodologico che muoveva Wittgenstein era che non si può insegnare una
lingua ignorando la base di partenza dei discenti; bisogna invece radicarsi nella vita dei
ragazzi, nei loro giochi linguistici e da lì partire verso altri aspetti della vita e nuovi
problemi da risolvere, insomma verso nuovi giochi di lingua.
Le circa 2.500 parole che egli dettò ai suoi ragazzi e poi selezionò nel suo Dizionario
sono, in gran parte, «parole semplici ed importanti della vita quotidiana» (ivi: 106),
insomma quelle che i bambini usavano (o avrebbero usato) nella vita di tutti i giorni.
Tale scelta rivela il suo ancoraggio al mondo reale (in questo caso la realtà quotidiana dei
bambini) e la sua decisione, non solo didattica ma anche teorica, di dedicarsi allo studio
del linguaggio ordinario: «Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro
al loro impiego quotidiano [corsivo nel testo]» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 67), dirà poi
nelle Ricerche filosofiche.
Nella selezione delle parole da inserire nel Dizionario Wittgenstein seguì dei criteri
metodologici ben precisi ̶ maturati nel corso della sua esperienza didattica ̶ riportati
nell’Introduzione al Dizionario (cfr. Wittgenstein, trad. it. 2021: 105-109); ne riportiamo
alcuni: nessuna parola era da ritenersi troppo semplice (einfach) per non essere accolta,
come nel caso di wo (che spesso veniva scritto con l’h) o di was (scritta con ss); le parole
composte registrate nel Dizionario erano quelle che i bambini difficilmente
riconoscevano come tali oppure quelle in cui la radice della parola non era facile da
riconoscere; le parole straniere accolte erano quelle più comunemente usate; erano state
poi registrate molte espressioni dialettali nella misura in cui erano diffuse nel linguaggio
colto (ad esempio, Heferl, Packel, Lacke ecc.). A livello tipografico Wittgenstein usò il
grassetto per evidenziare quelle parti di parole che per uno scolaro presentavano delle
difficoltà ortografiche. I vocaboli di solito erano ordinati alfabeticamente, in molti casi
però quelli semanticamente affini erano raggruppati insieme (cfr. ivi: 107-109). Tra gli
ambiti esperienziali a cui si riferiscono le parole raccolte nel Dizionario sono da segnalare,
ad esempio, la casa, la cucina, gli animali domestici, il lavoro nei campi, la scuola, i
mestieri, i giorni della settimana, la vita militare ecc. (cfr. Antiseri 2021: 41).
Da notare infine l’uso di alcuni diacritici al fine di stimolare negli allievi una riflessione di
tipo metalinguistico sulle parole e le loro connessioni, come ad esempio il segno “=” per
indicare parole sinonimiche (ad esempio das Gleise = Geleise “il binario”) ma anche
relazioni di appartenenza (oggi parliamo di iponimia/iperonimia: ad esempio der Roggen
= Korn “la segale = frumento”) e esemplificazioni (ad esempio die Klinge = Messerklinge
“la lama = lama di coltello”) e il segno “:” a indicare l’appartenenza (ad esempio, der
Mumps : Krankheit “gli orecchioni : malattia”) e per spiegare il significato di alcune parole
ad esempio das Mündel : Kind unter Vormundschaft “il pupillo: bambino sotto tutela”) (cfr.
Wittgenstein, trad. it. 2021: 110).
Il Dizionario doveva servire come punto di riferimento agile e semplice affinché i ragazzi
potessero in ogni momento prendere coscienza della grafia di una parola e «imprimersi
nella mente in maniera duratura la parola ricercata» (ivi: 105). L’intento di Wittgenstein
era, insomma, di fare in modo che i suoi ragazzi arrivassero a pensare da soli (in linea
con il principio di auto-attività proprio della riforma della scuola di Glöckel) attraverso
momenti di confronto e di correzione reciproca fra di loro (cfr. ivi: 105-106), laddove
però il ruolo preminente era il momento in cui lo studente correggeva autonomamente il
proprio lavoro in modo da sentirsene pienamente responsabile.
3. Centralità filosofica dell’insegnamento/apprendimento di una lingua. Per un
bilancio conclusivo
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Volendo tentare un bilancio, possiamo dire che l’impianto teorico e metodologico del
Dizionario di Wittgenstein costituisce una sorta di “fucina filosofica” per lo sviluppo di
importanti tematiche ̶ le nozioni di significato, uso, gioco linguistico, forma di vita,
prassi, tutte legate al processo di insegnamento/apprendimento di una lingua ̶ che sono
centrali per comprendere in maniera più feconda la portata teorica del cosiddetto
“secondo Wittgenstein” e per colmare alcune lacune di ricostruzione storiografica e
filosofica.
Partiamo proprio dalla coppia terminologica insegnamento/apprendimento20: nel processo di
Abrichtung (“addestramento”) la giusta direzione da prendere ̶ come abbiamo già visto
nel § 2 ̶ non dipende da un’attività mentale interiore e isolata ma dalla condivisione di
pratiche pubbliche e comuni in cui vigono delle regole. E le regole per Wittgenstein ̶
come è noto ̶ «sono abitudini (usi, istituzioni) [corsivo nel testo]» (Wittgenstein, trad. it.
1974: 107) che si formano per mezzo dell’addestramento (termine che richiama la
dimensione animale – cfr. § 2)21 costituito da azioni imitate e ripetute, così come da
ordini e istruzioni. In ogni caso seguiamo una prassi22 e ci impegniamo in un agire che è
pubblico.
Il caso dell’insegnamento/apprendimento scolastico è un tipo particolare di
addestramento che Wittgenstein nel Libro marrone definisce addestramento generale (cfr.
Wittgenstein, trad. it. 1983: 129), in cui sono previsti tre elementi: il discente, l’ambito di
apprendimento e colui che guida tale apprendimento incitando e correggendo l’allievo.
In questo processo triadico il discente apprende qualcosa da altri e viene messo in
condizione di saper continuare da solo:
[…] supponiamo che, dopo alcuni sforzi da parte dell’insegnante, egli continui la
successione in modo corretto; cioè, come facciamo noi. Dunque ora possiamo
dire: è padrone del sistema. ̶ Ma fin dove deve continuare la successione, perché
possiamo dirlo con ragione? È chiaro: qui non puoi indicare alcun limite
(Wittgenstein, trad. it. 1974: 79).
Il fatto che il discente sia in grado di continuare la successione (o un altro compito) ci dà
la misura dell’efficacia del processo di insegnamento e apprendimento, della
trasmissibilità della lingua, e, di conseguenza, della cultura (cfr. Cavell 1979: 122).
L’insegnamento inoltre ̶ come afferma Wittgenstein nella citazione riportata in esergo ̶
è saldamente intrecciato al concetto di significato: dopo essersi domandato se stesse
facendo psicologia infantile, Wittgenstein risponde che in realtà sta mettendo in
connessione il concetto dell’insegnare con il concetto di significato (cfr. Wittgenstein
1967, trad. it. 2007: 90), così che il problema filosofico del significato risulta
inestricabilmente connesso con la pratica dell’insegnamento. Il significato non è più
legato all’idea che il linguaggio e le proposizioni hanno il ruolo di mediatori
indispensabili per la conoscenza (cfr. De Mauro 2002: 41 ̶ «i significati dei segni
semplici (delle parole) devono esserci spiegati affinché noi li comprendiamo» ̶
A questo proposito nell’Unione Sovietica degli anni Trenta del Novecento Lev S. Vygotskij utilizza il
termine obučenie per riferirsi al rapporto di natura circolare tra insegnante e allievo. Si tratta di un termine
enantiosemico che si riferisce al processo bilaterale di insegnamento/apprendimento che prevede
necessariamente, come suoi momenti costitutivi, due poli, quello messo in atto dal docente (prepodavanie
“insegnamento”) e quello messo in atto dal discente (učenie “apprendimento”) (cfr. Vygotskij, trad. it.
1990: 272).
21 «Seguire una regola è analogo a: obbedire a un comando. Si viene addestrati a obbedire a un comando e
si reagisce ad esso in una maniera determinata» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 109).
22 «[…] “seguire la regola” è una prassi» (ibidem).
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Wittgenstein, trad. it. 2021: 47). A partire dalle Lectures tenute a Cambridge all’inizio
degli anni Trenta del Novecento o ancora nel Libro blu Wittgenstein mette in discussione
l’idea che il significato di una parola sia un qualcosa correlato al segno 23 ; infatti, la
domanda «Che cos’è il significato [“meaning”] d’una parola?» (Wittgenstein, trad. it. 1983:
5) è fuorviante perché ci spinge a intendere il significato come un qualcosa a cui una
parola può essere riferita, ragion per cui dobbiamo cambiare prospettiva e tener conto
invece del come essa viene interpretata in un reale contesto d’uso. Lo sguardo deve quindi
essere diverso, dobbiamo porci ̶ dice Wittgenstein ̶ «una domanda preliminare. Che
cos’è una spiegazione del significato d’una parola? In che cosa consiste? Quale aspetto
ha?», così come il domandarci «“Come misuriamo una lunghezza?” ci aiuta a
comprendere il problema: “Che cos’è la lunghezza?”» (ibidem). La domanda sul
significato delle parole va quindi intesa nel senso che bisogna badare al modo in cui esse
vengono spiegate: «[…] per comprendere il significato di “significato”, tu devi
comprendere anche il significato di “spiegazione del significato”. In altri termini:
“Domandiamoci che cosa sia la spiegazione del significato; infatti, ciò che sia spiegato
da essa sarà il significato”» (ibidem).
A partire dal Libro marrone (in cui sono raccolti gli scritti dettati da Wittgenstein ai suoi
allievi nel 1934-1935) che costituisce, per dir così, lo studio preparatorio delle Ricerche
filosofiche, Wittgenstein va ancora avanti, abbandonando l’idea del significato come
spiegazione fino ad abbracciare quella che si affermerà come la sua concezione
definitiva degli anni successivi, secondo la quale gli esseri umani apprendono il
linguaggio non mediante spiegazioni, esplicitazioni verbali ma attraverso
l’addestramento all’uso di esso, analogamente a quanto accade quando cerchiamo di
insegnare agli animali certi esercizi che vengono impartiti mediante ricompense e
punizioni. E in questa evoluzione del suo pensiero hanno sicuramente inciso gli anni di
insegnamento nelle scuole elementari24.
I tempi sono ormai maturi per l’elaborazione della nozione di significato come uso che
verrà poi sviluppata nella dottrina dei giochi linguistici: la vita di un segno è nel suo uso
concreto25, il significato di un’espressione è il suo ruolo nel gioco linguistico, nella forma
di vita umana che circonda l’utilizzo del linguaggio «entro tutta la prassi del linguaggio»
(ivi: 135)26 , così che, come afferma Wittgenstein alla fine del Libro blu, «il significato
dell’espressione dipende interamente da come noi la usiamo» (ivi: 99-100); dobbiamo
evitare «d’immaginare il significato come un nesso occulto istituito dalla mente tra una
parola e una cosa, e che questo nesso contenga tutto l’uso d’una parola così come il seme
può dirsi contenere l’albero» (ivi: 100).
La nozione di significato può quindi esser colta pienamente solo se ci si dispone sul
terreno dell’apprendimento dei giochi linguistici e della loro sanzione intersoggettiva,
facendo riferimento alle forme di vita, ai sentimenti, credenze, atteggiamenti, reazioni
ecc. che caratterizzano il nostro milieu humain (come dirà Émile Benveniste – cfr. 1974:
23 «L’errore che possiamo fare potrebbe esprimersi così: noi cerchiamo l’uso d’un segno, ma lo cerchiamo
come se esso fosse un oggetto coesistente con il segno [corsivo nel testo]» (Wittgenstein, trad. it. 1983: 11).
24 Da ricordare anche l’influenza esercitata su Wittgenstein dall’architetto Adolf Loos che, da sostenitore
dell’idea di un’architettura funzionale, aveva equiparato il significato all’uso: «Se volete capire il significato,
ad esempio, del sistema di pompaggio dell’acqua in una casa, guardate l’uso per cui questo sistema viene
impiegato. Il significato è l’uso [corsivi nel testo]» (cit. in Janik, Toulmin, trad. it. 1975: 255).
25 «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? ̶ O
l’uso è il suo respiro?» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 168).
26 Si osservi che la parola praxis (nel senso di “pratica”) compare a lemma nel Dizionario come parola della
quale imparare l’ortografia (cfr. Wittgenstein, trad. it. 2021, trad. it. 2021: 213). La nozione di prassi in
Wittgenstein si consolida negli anni 1934-1936, probabilmente per influenza del pensiero di Antonio
Gramsci che era amico di Piero Sraffa, il quale a sua volta era amico di Wittgenstein, così che potremmo
dire: «Gramsci e Wittgenstein si sono intellettualmente frequentati tramite Sraffa» (Lo Piparo 2014: 37).
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217), considerando le regole che caratterizzano tali usi e il nostro modo di porci di
fronte ad essi. E i giochi linguistici, ad esempio «il comandare, l’interrogare, il
raccontare, il chiacchierare, fanno parte della nostra storia naturale come il camminare, il
mangiare, il bere, il giocare» (Wittgenstein, trad. it. 1974: 23), si inscrivono ̶ per
l’appunto ̶ all’interno della storia fisiologica e naturale dell’interazione dell’essere umano
col suo ambiente.
Il Dizionario costituisce insomma non solo il prodotto concreto dell’attività di
Wittgenstein come insegnante ma un documento importante sia per la filosofia che per
la pedagogia e la metodologia didattica, testimoniando l’originalità del modo in cui egli si
è posto di fronte al problema teorico-pratico dell’apprendimento, che da quel momento
in poi è divenuto uno dei perni fondamentali su cui ha ruotato tutta la filosofia del
secondo Wittgenstein e le nozioni filosofiche che ne sono scaturite.
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