INTRODUZIONE
Kaj Munk e il Teatro di Vocazione
Il vero amore è onnipotente.
Non c’è sacrificio che non ami fare, non c’è
legge che non ami obbedire, non c’è obbligo che
non ami infrangere. Nessuna catena può trattenerlo. Ma esso può trattenere ogni catena.
Perciò è onnipotente. E sperimentare questo
amore è l’unica felicità della vita.
(Amore, Atto II)
Accade non di rado ad autori che nel loro tempo avevano conosciuto un successo trasversale di critica e di pubblico di non riuscire
a imprimere il lascito della propria opera alle generazioni successive e
di essere presto confinati nei manuali di storia della letteratura. Allo
stesso modo può accadere che un singolo capolavoro immortale rischi
di eclissare il profilo del suo stesso autore e il resto della sua produzione. Curiosamente l’eredità teatrale di Kaj Munk è andata incontro
a entrambi i destini. Considerato dai suoi contemporanei l’Ibsen del
XX secolo, dopo esser diventato uno degli autori del teatro nordico più
letto e rappresentato degli anni Trenta, la sua fama si è col tempo ridotta alla sola menzione del suo più fortunato dramma La Parola (Ordet), reso celebre dalla trasposizione cinematografica di Carl Theodor
Dreyer vincitrice del Leone d’Oro a Venezia nel 1955. Un’opera dalla
straordinaria intensità narrativa, nata come risposta credente alla scettica Oltre le forze (Øver Ævne) di Bjørnstjerne Bjørnson, in cui Munk,
attraverso la descrizione della vita di una famiglia di possidenti dello
Jutland, tentava di esplorare, di fronte allo sgomento di una morte improvvisa, l’esperienza contemporanea della Fede. L’autore si interrogava circa la possibilità che un miracolo potesse ancora accadere tra gli
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uomini del XX secolo, diventati ormai incapaci di credere, sperare e
pregare per esso. Un’opera intessuta di rimandi e citazioni al pensiero kierkgaardiano, tanto presente da diventare presto agli occhi della
critica lo spunto di maggior interesse dell’intero dramma. Il saggio di
Igor Tavilla Ordet di Carl Theodor Dreyer. Il miraggio kierkegaardiano1
è un esempio lampante di come il copione originale di Munk sia stato
schiacciato dalle titaniche figure di Kierkegaard e Dreyer che hanno
facilmente monopolizzato le attenzioni di critici e studiosi.
Ad oggi è difficile, soprattutto fuori dai confini danesi, radunare una
corposa bibliografia critica dedicata al nostro autore e per questo al lettore italiano diventa imprescindibile riferirsi alla recente monografia
a firma di Franco Perrelli intitolata Kaj Munk e i suoi doppi2. Come
anche Perrelli scrive circa la diffusione in lingua italiana delle opere del
Nostro3, fatta eccezione per il già citato La Parola, tradotto dallo stesso
Perrelli e pubblicato col titolo Il Verbo4, ad oggi l’unico altro testo munkiano disponibile in italiano è l’atto unico Prima di Canne (presente
anche nel nostro indice). Per comporre questa antologia teatrale si è
avuta quindi un’ampia scelta di materiale mai tradotto prima, cercando
di selezionare quei testi che potessero restituire anche al lettore neofita
il percorso intellettuale, religioso e politico di Munk a partire dalle opere più lunghe e strutturate come Un Idealista, fino agli atti unici, i più
tardi, risalenti al biennio 1942-’43. Non volendo ripetere, né in questa
introduzione né nelle brevi note che anticipano i singoli testi, il lavoro
ben più approfondito e documentato di Perrelli, ci limiteremo a fornire
al lettore, nelle righe che seguono, una chiave interpretativa per i temi
ricorrenti nell’opera munkiana, alla ricerca di quelle tensioni interne
che hanno accompagnato la sua scrittura drammaturgica lungo tutto
l’arco della sua produzione.
Approcciandosi all’opera di Kaj Munk occorre tenere a mente che
egli, prima di essere un intellettuale e uno scrittore, fu anzitutto un mi1
Tavilla, Igor. Ordet di Carl Theodor Dreyer: il miraggio kierkegaardiano, Pisa, ETS,
2007.
2
Perrelli, Franco. Kaj Munk e i suoi doppi, Bari, Edizioni di Pagina, 2020.
3
Cfr. Ivi, p. 150.
4
Munk, Kaj e Perrelli, Franco. Il Verbo, Imola, CUE Press, 2020.
8
nistro del culto della Chiesa di Danimarca. L’esplorazione della sfera
religiosa, nella sua dimensione esistenziale e pubblica, emerge come la
prospettiva privilegiata attraverso la quale illuminare il pretesto narrativo e i moventi di ogni dramma, la costruzione dei personaggi che lo
abitano, così come la loro connotazione psicologica e i loro conflitti
interiori. L’esperienza religiosa viene inquadrata in tutta la sua intrinseca problematicità, in una costante e sofferta dialettica tra dubbio e
Fede. La fatica del credere viene portata in scena attraverso il pensiero
abissale di Dio col dichiarato intento di portarla all’eccesso, al punto
di rottura a cui inevitabilmente l’esperienza del sacro conduce, perché
questa mostri come l’assurdo si insinui nella concretezza della vita. Il
Cristianesimo, vuole suggerirci Munk, porta necessariamente con sé
un messaggio sovvertitore dei precari equilibri che l’individuo si costruisce. O come presenza o come assenza, il problema di Dio genera
sempre un’inquietudine di cui i personaggi sono investiti. Non si può
fuggire da essa e non si può derubricarne la portata, l’agnosticismo è
una soluzione che Munk semplicemente non contempla.
Perrelli definisce, con una intuizione certamente corretta, quello di
Munk un teatro dell’inquietudine5, eppure l’inquietudine non costituisce essa stessa l’elemento drammatico, perché lo svolgimento narrativo
non può accontentarsi di portare lo spettatore a contatto col proprio
senso di inadeguatezza nei confronti di una Fede che lo supera e lo sfida, provocandolo nell’assurdo. Il teatro non inizia dall’inquietudine
circa il pensiero di Dio, che potrebbe costituirne al massimo un presupposto, ma dall’azione (Dåd6) che quella stessa inquietudine necessariamente genera. Il Cristianesimo, pur nella sua abissalità, non può
difatti accontentarsi di lasciar orbitare l’individuo attorno al nucleo
del suo paradosso, come lungo il bordo di un buco nero; al contrario
pretende da esso una risposta, sia essa l’accoglienza o il diniego, sia essa
la sequela o il rifiuto. Dio non obbliga una risposta positiva, impone
nondimeno che una risposta ci sia e questa dialettica si declina, con
5
Perrelli, Franco. Kaj Munk e i suoi doppi, p.16
6
Per approfondire la categoria di atto/azione nella prospettiva teologica di Munk si
rimanda all’introduzione al volume Munk, Kaj. Lungo i Fiumi di Babilonia: Sermo
ni di Guerra (1940-1944), Roma, Lastaria, 2024, edito all’interno di questa stessa
collana.
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la medesima intensità, sia nel dramma biblico dove collocarla è quasi banale, come nella trilogia dedicata agli uomini dello Jutland, fino
addirittura ai drammi storici e quelli che potremmo definire “politici”.
Certamente Munk in quanto credente propone un esito affermativo
della Fede, ma questo non implica che sia accolta esplicitamente dai
suoi eroi. Nella maggior parte dei casi, infatti, sceglie come protagonisti degli atei impenitenti, spesso destinati a fallire la chiamata di Dio.
Non sono cavalieri della Fede e non sono personaggi pensati a tavolino per essere figure edificanti. Il problema di Dio ha intralciato il loro
cammino, e seppur schierandosi negativamente di fronte ad esso, hanno comunque dato esito a quell’evento che religiosamente potremmo
anche chiamare vocazione. Il teatro, secondo Munk, non è funzionale
alla riprova della verità della Fede – come sarebbe nelle intenzioni di
un’opera apologetica – ma arretra alle radici del problema di Dio e alla
scelta dell’individuo. Scavando alle fondamenta narrative di ogni dramma arriviamo a individuare una dialettica sempre presente: vocazione e
scelta. Questa costituisce l’intima essenza della matrice religiosa su cui
l’autore impianta l’azione drammatica ed è per questo che, andando oltre la dimensione dell’inquietudine, si potrebbe ancor meglio definire
quello di Munk un teatro di vocazione.
Come già detto, il nostro autore non dimostra simpatia nei confronti dei santini tipici di un certo teatro devozionale, e non fa mai della vocazione una forza positiva il cui assenso è totale, immediato e vincente.
A Munk sembra interessare prima di tutto il farsi largo di Dio nell’attualità della storia e la declinazione, sovente distorta, della vocazione
nell’interiorità nell’individuo. Lo vediamo nell’antieroe per eccellenza
Erode, protagonista de Un Idealista. Munk già dall’esergo propone una
interpretazione tra l’ironico e il cinico del personaggio quando citando
Kierkegaard scrive: “La purezza del cuore è volere una cosa sola”. La
vocazione di Erode è il potere, ogni azione che egli intraprende nella
sua lunga biografia – che il Nostro articola nei dieci atti del dramma – è
funzionale a questa chiamata, e in virtù di essa, egli sa di dover compiere sempre una nefandezza peggiore della precedente per assicurare
la stabilità della corona sulla sua testa. Lungo il dipanarsi dell’azione,
Erode si mostra bugiardo, traditore, violento e assassino arrivando persino a uccidere con le proprie mani l’unica donna che lo ami davvero,
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perché ella è l’unica alternativa all’orrore della sua vita e quindi l’unica
reale minaccia alla realizzazione della sua vocazione. Qualcosa deve esser andato storto se il feroce Erode ci viene proposto come emblema di
un puro di cuore. Eppure lo spettatore, al netto dell’orrore, prova pena
per quest’uomo, per la sua crociata contro il Cielo, che terminerà quando, esanime e moribondo, volontariamente consegnerà la sua tunica e
il suo scettro a Gesù bambino tra le braccia di sua madre. La corona,
che egli ha faticosamente guadagnato con la menzogna e l’assassinio,
sarà lui stesso a consegnarla a Gesù, l’unico re che non ha bisogno della
spada per acquistarsi un regno. Ad Erode è stata proposta una vocazione tutta umana ed egli l’ha scelta; l’incontro col Dio incarnato non lo
cambierà. Anzi, lo farà sprofondare nell’angoscia, ma la vocazione che
viene dal cielo non scalzerà la sua.
Simile è ciò che accade a Ejnar Kargo, protagonista di Amore. Pastore di una piccola comunità contadina dello Jutland, è un uomo senza
Fede che ha scelto il sacerdozio per assicurarsi una vita tranquilla e la
sicurezza di uno stipendio. La Fede, che personalmente non possiede,
egli comunque la trasmette ai suoi parrocchiani. Ciò lo ha convinto
di avere una missione da compiere tra quella povera gente e per il loro
conforto non si risparmia fino alla malattia, rinunciando alla donna che
ama e che non può sposare. Se il destino dei profeti biblici era quello di
non essere creduti e di fallire nella loro predicazione, il pastore Kargo,
invece, viene creduto e la sua predicazione vivifica la sua congregazione,
eppure questo non basterà a convertire il suo cuore. Erode combatterà
contro la vocazione di Dio; Kargo sarà in grado di accoglierla solamente nella finzione.
A partire dagli anni ’40, l’occupazione tedesca e gli scenari di guerra
entreranno prepotentemente nel teatro di Munk e la vena politica del
nostro autore esploderà in un due drammi fondamentali della sua produzione: Niels Ebbesen ed Egli Siede al Crogiolo. Anche i loro rispettivi
protagonisti attraversano il tema della vocazione: da una parte abbiamo
l’eroe medievale, incitato a prendere le armi per scacciare l’occupante
straniero; dall’altra il timido professore universitario chiamato a prendere le difese, lui solo, dell’intero popolo ebraico di fronte al silenzio
complice della Germania e del mondo. Il tema politico e la condanna
dell’atteggiamento di neutralità del popolo danese, che Munk interpre11
ta come connivenza nei confronti del Nazismo, non va a soppiantare la
matrice religiosa anche di queste opere. I sermoni da Munk pronunciati nell’esercizio del suo ministero in quegli anni sono illuminanti
circa lo stretto rapporto che l’autore individuerà tra Cristianesimo e
impegno politico. Lungi dall’essere un interventista o un cultore della
lotta armata, nondimeno Munk riconosce la necessità di schierarsi e di
prendere posizione di fronte al crimine nazista. Niels Ebbesen viene
presentato per tutto il dramma come un temporeggiatore, un conciliatore, un refrattario all’azione di polso; alla fine risponderà alla chiamata del suo popolo e imbraccerà la spada. Mensch, a suo modo, compirà
un’azione ancora più rivoluzionaria: dopo aver ritrovato l’unica vera
immagine di Gesù Cristo, la infrangerà a terra pur di non consegnarla
nelle mani di Hitler.
Gli atti unici, raccolti nella seconda parte di questo volume, furono pensati per accompagnare la messa in scena dell’opera principale in
cartellone e per essere rappresentati in massimo quindici minuti. Occupano l’ultima fase della produzione di Munk in cui egli raggiunge un
climax di sintesi e di intensità narrativa, malgrado incorrere, alle volte,
nell’ingenuità di un’azione che pare risolversi troppo frettolosamente. Anche per gli atti unici la selezione proposta esplora i temi della
resistenza e della scelta cristiana. Così la bagatella di due ragazzi e una
scaramuccia amorosa in L’Amore (I) si fa metafora della Danimarca occupata e del bisogno viscerale, istintivo e forse anche adolescenziale di
un richiamo alla liberazione danese; mentre Prima di Canne, col suo
appello disperato ai nemici a deporre le armi e porre fine alle ostilità da
parte del generale Fabio Massimo, vuole rivolgersi evidentemente alle
truppe occupanti. Sotto questa prospettiva il confronto tra Niels Ebbesen e Prima di Canne risulta piuttosto curioso. Se il primo è incentrato
attorno all’idea dell’intervento e della difesa della Patria, nel secondo
l’invito è al contrario alla diserzione, al rifiuto del conflitto. Il comandante punico giudicherà folle il generale romano che si è spinto fin nel
suo accampamento per proporgli una tregua impossibile e lo rimanderà indietro nella consapevolezza dell’inevitabile disfatta dei romani,
firmando così anche la condanna della sua Cartagine a una futura distruzione. Prima di Canne è uno dei rari casi in cui il soggetto non è né
contemporaneo né di derivazione biblica, anzi i protagonisti sono due
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pagani in un’epoca non cristiana. L’universalità del messaggio dell’eroe
romano travalica, arrivando a forzare le classiche coordinate munkiane,
il concetto di pace di ispirazione cristiana. Essere una delle principiali
voci del dissenso del suo Paese aveva dato a Munk la consapevolezza
di essere ascoltato e letto anche dalle forze di polizia naziste. Prima di
Canne fu l’ultima grande provocazione di un autore che, consapevole
del boicottaggio che le sue opere subivano sistematicamente, obbligò i
suoi nemici a leggere, anche solo per procedere alla censura, il suo impossibile appello alla pace.
L’indice del nostro volume segue l’ordine cronologico di composizione dei copioni proposti, con l’unica eccezione dell’atto unico I
Signori Giudici. Di poco antecedente a Prima di Canne, esso è certamente uno dei migliori risultati nella forma dell’atto unico. Si è voluto inserirlo in chiusura perché idealmente raduna e sintetizza temi e
suggestioni che il lettore avrà occasione di incontrare nelle opere precedenti. Se non si avesse modo di approfondire il teatro e il pensiero
munkiano, più ancora che La Parola, questa breve azione contiene una
sintesi meravigliosa di tutti gli argomenti, le istanze, i caratteri che hanno accompagnato Munk fin dai suoi esordi letterari. La collocazione
dell’azione è famigliare, svolgendosi interamente attorno alla tavola
del sommo sacerdote Caifa a seguito del processo a Gesù. Munk aveva
inaugurato la sua carriera di drammaturgo proprio con la rivisitazione
dello stesso soggetto col Pilato del 1918, in cui il personaggio di Caifa
veniva inserito in un contesto più canonico, ritratto nel ruolo di giudice e sacerdote.
Ne I Signori Giudici il focus si sposta sull’intimità dell’individuo.
L’incontro con Gesù, un imputato come tanti, lascia un’ombra di inquietudine in Caifa, incomprensibile agli occhi della moglie Ester e
segno di mollezza per il suocero Anna, che teme di scorgere dietro la
resistenza del sacerdote alla firma della condanna a morte un atto di insubordinazione nei suoi confronti. La sola presenza del Galileo e il suo
silenzio interrogano Caifa, quasi nei termini di una teologia negativa.
Non è il miracoloso a colpire la fantasia del sacerdote, ma la profondità abissale del silenzio e della solitudine del Cristo. Caifa non vorrebbe apporre la propria firma sulla richiesta della condanna a morte, ma
questo gli costerebbe la carica e l’amore di sua moglie. Ella lo invita a
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lasciare da parte i propri scrupoli e “scrivere quello che devi scrivere”. Il
sacerdote si lascerà persuadere dalla gelosia e dalla paura di perdere tutto. Non cambierà la storia e non darà il suo assenso a quella vocazione
che si è presentata in carne ed ossa davanti al suo scranno.
Nel centinaio di battute circa in cui si articola la scena, confluiscono
tutti i già citati spunti della poetica munkiana: il problema della Fede;
l’evento di Dio che si palesa nella quotidianità dell’individuo; i poteri
terreni di fronte al messaggio rivoluzionario del Cristo; il desco famigliare, che spesso Munk mette in scena come luogo privilegiato dove affiorano le corde più profonde della psicologia dei personaggi; fino alla
responsabilità individuale e collettiva di fronte alla vocazione cristiana.
L’inquietudine di Caifa si scontra con l’incapacità dei suoi comprimari
di intuirne la profondità e verrà giudicata incomprensibile, addirittura
bambinesca. Tutto sembrerà risolversi in leggerezza, con una firma su
un documento legale, uguale a tante altre, ma di cui lo spettatore conosce il reale significato.
I Signori Giudici veniva composto in un momento di particolare attenzione delle autorità nei confronti delle opere di Munk. Le maglie
della censura si chiudevano sempre più strette sulle sue opere e da più
voci a Munk sarà giunta la medesima raccomandazione che egli mette
in bocca ad Ester: “scrivere quel che devi scrivere”. Come il suo Caifa,
anche il Nostro si sarà misurato con lo scrupolo di non mettere a repentaglio la sua carica, non di giudice ma di pastore nella tranquilla e lontana Vedersø. Gli sarebbe piuttosto convenuto limitarsi ad amministrare
i sacramenti e commentare il Vangelo del giorno, senza immischiarsi in
questioni di guerra che non lo riguardavano affatto. Egli era in fondo
un padre di famiglia, marito di una moglie che amava, e tanti altri colleghi pastori e intellettuali attorno a lui avevano scelto di perseguire una
condotta di più basso profilo, quando di non aperta collaborazione con
l’esercito invasore.
Non distinguendo mai la sua attività drammaturgica dalla sua parabola esistenziale, Munk scelse invece di restare al proprio posto, sul
pulpito di Vedersø, finché la rappresaglia nazista non lo raggiunse. Il
suo personale contributo alla Resistenza egli lo diede come intellettuale, come pastore e ancora prima come cristiano. Come ebbe modo di
scrivere in diversi luoghi dei suoi Sermoni, il Cristianesimo è un’esigen14
za che viene dall’alto7 a cui Munk decise di aderire totalmente, con una
risposta affermativa che fu impossibile a molti dei suoi personaggi.
Nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 1944 cinque sicari nazisti fecero
irruzione nella sua canonica e lo prelevarono. Lo uccisero quella stessa
notte con un colpo di pistola alla nuca e abbandonarono il suo corpo
sul ciglio di una strada di campagna, a più di ottanta chilometri dalla
sua Vedersø. Restando fino alla fine fedele alla sua vocazione, nel martirio realizzò quella testimonianza del Cristianesimo che fu protagonista
indiscussa del suo teatro.
Roma, 4 gennaio 2024
LXXX anniversario del martirio del pastore Kaj Harald Leininger
Petersen Munk presso Hørbylunde Bakke in Silkeborg.
7
Cfr. Munk, Kaj. Lungo i fiumi di Babilonia, 2024, p. 12
15
Un Ideal i st a
Alcune impressioni dalla vita di un re
(1923-24)
19
La purezza del cuore è volere una cosa sola.
(S. Kierkegaard)
A Oscar Geismar
No t a i n t ro duttiva
Un Idealista, il dramma più esteso della intera opera di Munk, fu
composto inizialmente mentre l’autore era ancora studente a Copenaghen e concluso mentre già si trovava a Vedersø agli inizi del suo ministero pastorale. Folgorato dalla lettura de Storia del Popolo Israelita
(1893) di Frants Buhl, Munk si stupì che i grandi autori del passato
non avessero messo mano al racconto di una figura tanto imponente,
complessa e sfaccettata come quella di Erode il Grande. Decise di impegnarsi egli stesso nella costruzione di un grande affresco corale dove
tra la moltitudine di personaggi e intrecci la figura di Erode potesse
spiccare in tutta la sua genialità. L’immagine del genio è centrale in
molti luoghi della produzione di Munk che spesso l’associa alla figura
del tiranno o del dittatore. Ne abbiamo un esplicito esempio in Prima
di Canne in cui Fabio Massimo apostrofa in questo senso Annibale e in
Egli Siede al Crogiolo dove, per bocca del fanatico Dorn, lo stesso viene
detto di Hitler. La genialità si esprime in quell’insieme di caratteristiche eccezionali che permettono al tiranno di compiere imprese grandi,
distinguersi dalla massa e radunare sotto di sé un intero popolo, condannandolo però ad immense tragedie. Erode non risparmia il proprio
genio al fine di manipolare a suo piacimento i sentimenti e i desideri dei
suoi interlocutori e questo ne amplifica la spietatezza; egli è in grado di
sacrificare ogni bene pur di perseguire il proprio delirante ideale.
Il dramma debuttò l’8 febbraio 1928 presso il Teatro Reale e fu un
clamoroso insuccesso. La messa in scena venne interrotta dopo solo
sette repliche. La riduzione che era stata operata, anche se dalla stessa
mano di Munk, aveva mutilato il testo di gran parte delle sottotrame e
degli intrecci che contornano la storia principale, rendendo piatti molti
dei personaggi e l’intera rappresentazione decisamente noiosa. Le recensioni spietate toccarono nel vivo l’autore che nelle sue lettere si diceva consapevole di aver prodotto un capolavoro. Occorsero dieci anni
prima che una nuova messa in scena, per la regia di Svend Methling,
riuscisse a fare giustizia del testo originale.
23
I dieci atti che compongono il dramma seguono il lungo regno di
Erode fino alla sua morte, in un crescendo di orrore e violenza paralleli
allo sprofondare del protagonista in una follia dai sempre lucidi obiettivi. È l’epigrafe kierkegaardiana a presentarci questo antieroe nella caratterizzazione che lo accompagnerà dalla prima all’ultima battuta. La
purezza del cuore è volere una cosa sola, scrive il filosofo sottintendendo
però che l’unica tensione che l’uomo debba proporsi sia quella verso il
bene. È amaramente ironica la deformazione che di questo proposito
fa Erode che come suo unico desiderio sceglierà invece la corona, votandosi alla difesa di un potere che può mantenersi in mano sua solo
con l’aiuto della menzogna, della manipolazione e dell’omicidio. È un
idealista rovesciato, destinato a perseguire in ogni situazione la peggiore delle alternative. Egli infatti vuole scavare tra sé e il mondo un solco
profondo che nessuno sia in grado di saltare. Né l’aristocratica regina
Alessandra, che disprezza l’ascendenza di Erode – maledetta da Dio –
e mira a recuperare quel trono di cui si sente spodestata; né la sorella
Salomè invidiosa e maligna disseminatrice di discordie e neppure Mariamne, sua sposa, donna bellissima e buona, l’unica che lo ami di un
amore sincero. Non saranno poi lo scontro con Marco Antonio, Cleopatra, Ottaviano o col brigante Akrab a minare la saldezza del suo potere. L’unico vero ostacolo alla solitudine del suo trono rimarrà l’amore
di Mariamne che Erode vivrà come un frutto avvelenato dalla gelosia,
ma in cui riconosce anche l’unica vera tentazione e distrazione dalla
sua perversa vocazione. Monterà contro di lei un’accusa di adulterio, a
cui lui per primo sa di non credere, e si prodigherà perché la sentenza di
morte venga eseguita. Cosicché alla paura nei confronti del tiranno, la
corte possa aggiungervi anche il disgusto.
Un Idealista non è affatto un dramma politico. Non sono le ragioni
di Stato a motivare intimamente il re. La lotta che Erode fa propria lo
precede di almeno mille anni. Egli schiaccia Israele, il preferito di Dio,
perché il Signore aveva disprezzato la sua ascendenza, aveva esiliato la
sua stirpe e l’aveva privata della sua legittima eredità. La Scrittura testimoniava infatti che mentre ancora erano nel grembo della loro madre, Dio aveva amato Giacobbe e odiato Esaù8. Erode l’edomita, il più
grande dei figli di Esaù, non crede in quel Dio che accende di orgoglio
8
Cfr. Mal 1,1-5.
24
i giudei, verso il quale è uno spergiuro e di cui manipola la Legge a suo
piacimento pur di legittimare la sua crudeltà; eppure lo combatte strenuamente. Erode lotta contro il proprio esilio dal cuore di Dio, alla
riconquista di quella primogenitura sottratta a Esaù con l’inganno9,
nella tragica consapevolezza che questa non sarà mai veramente sua,
per quanto si affatichi a trattenerla. Anche un solo istante potrebbe bastare per perdere tutto ed è quello che amaramente si compirà nella
punizione finale che Dio riserva a Erode. Dopo una intera vita volta a
difendere la propria regalità e il proprio titolo, egli bacerà la mano al re
che gli succederà e gli consegnerà spontaneamente lo scettro senza che
questi neppure glielo chieda. Erode ha fondato il suo regno sul sangue
e sull’assassinio e neanche i padroni del mondo sono riusciti a strapparglielo; sarà un bambino indifeso in braccio a sua madre a ricevere l’eredità insanguinata del tiranno, a ispirargli l’unica preghiera che Erode
mai pregherà. Una preghiera blasfema, ma invocata in ginocchio, all’unico nemico che il re non riuscì mai ad ingannare e da cui, nell’ultimo
istante, verrà beffato: il Dio di Giacobbe.
9
Cfr. Gn 25,29-34.
25
Amo re
(1926)
163
No t a i n t ro duttiva
All’interno della produzione drammatica di Kaj Munk, Amore è il
dramma che contiene in sé un’impronta autobiografica più evidente.
Lo stesso autore la definiva la sua opera più intima. Composta nel 1926,
ma rappresentata per la prima volta solo nel 1935, trae spunto da un’infatuazione che Munk ebbe nei confronti della figlia di un commerciante, tema che riproporrà successivamente anche in Gli uomini e il mare
(Havet og Menneskene) del 1929. Assieme a La Parola (Ordet) e al già
citato Gli uomini e il mare compone la Trilogia dello Jutland, copioni
ambientati nelle campagne del Vestjylland ossia sulla costa occidentale
della Danimarca. Del dramma esistono due versioni che differiscono
unicamente per la scena della preghiera al crocifisso dell’ultimo atto e
della lirica Annabella di Niels Møller in appendice. Si è preferito fare
riferimento al testo curato dall’Università di Aalborg, che è andato a
colmare le lacune e le omissioni che comparivano invece nella versione
a stampa della prima edizione della Mindeudgave, edizione completa
delle opere di Munk edita tra il 1948-’49.
La rappresentazione della scarna, rude ma sincera umanità del popolo dello Jutland è da Munk raccontata attraverso gli occhi di un curato di campagna totalmente votato alla sua missione pastorale, ma che
vive nel suo cuore il tormento per l’assenza della Fede e per una vita di
menzogna. Dopo essere rimasto prematuramente orfano e in difficoltà
economiche, Ejnar Kargo sceglie la professione del pastore alla ricerca
di una occupazione che gli garantisca una vita tranquilla e solitaria. Da
una grande città, egli sceglierà di rifugiarsi in una piccola parrocchia
di campagna scoprendo, con sua enorme sorpresa, il grande aiuto che
la predicazione e il conforto religioso significano nella vita di quella
povera gente.
Trasformerà in altruismo la menzogna del proprio ruolo e in silenzio
sarà costretto a vivere l’amore con Ingeborg, moglie del presidente del
consiglio parrocchiale. Quando cercherà di salvare la giovane Rebekka
dal matrimonio imposto dal padre, fanatico pietista, il suo segreto ver165
rà scoperto e dovrà confrontarsi con le autorità religiose e con Anton,
marito della sua amata. Kargo ama ed è riamato, eppure il suo resta un
amore impossibile, una macchia sul suo ruolo di pastore e uno scandalo
per la sua amata, perciò sarà pronto a rinunciarvi. Solo nella soluzione
del dramma a Kargo sarà concesso in una visione – o in un sogno – di
riunirsi all’amata Ingeborg e di congiungersi con lei in un matrimonio
mistico celebrato da Dio stesso.
Amore permette a Munk di esplorare il tema del dubbio e della Fede
sotto la doppia lente dell’esperienza esistenziale singola, della dimensione pubblica e di quella della Chiesa istituita. Le due figure del prevosto e del vescovo incarnano due diversi atteggiamenti interni alla Chiesa nazionale e svelano lo sguardo critico dell’autore nei confronti di
una degenerazione del ministero pastorale, inteso sempre più nella sua
funzione burocratica e piegato a rispondere anzitutto a una esigenza di
presentabilità sociale piuttosto che di autenticità nella testimonianza
della Fede (critica che ritornerà anche nei Sermoni e si farà particolarmente violenta di fronte al silenzio generale del clero rispetto agli orrori
della guerra93). È però certamente l’intreccio amoroso quello che cattura l’attenzione dello spettatore, perché è intorno a quello che il dramma
dell’assenza di Dio emerge come la frattura più profonda nell’animo
del protagonista. Kargo, seppur ateo, agisce per conto di Dio, attraverso il suo ministero egli prova invano a supplirne l’angosciante assenza e
non potrà sottrarsene anche se questo vorrà dire rinunciare a Ingeborg.
Eppure il finale dell’opera è tutt’altro che disperato.
Dato l’enorme interesse che Ingmar Bergman ebbe nei confronti di
Munk, non è difficile riconoscere in Tomas Ericsson, protagonista di
Luci d’Inverno, una citazione al personaggio di Ejnar Kargo. Anche
nel capolavoro di Bergman la trama ruota attorno al problema dell’assenza di Dio, vera protagonista del film. Anche in questo caso il protagonista è un pastore che ha perduto la Fede, eppure non è in grado di
ammetterlo a sé stesso e vive il suo ruolo in una meccanicità svuotata di
ogni significato. L’ateo Bergman pone accanto al suo pastore una donna rude, sgarbata ma innamorata, che tenta in tutti i modi di rendere
Ericsson consapevole di quell’assenza abissale perché egli si abbandoni
a vivere l’unico amore possibile, ossia quello terreno con una donna.
93
Cfr. Munk, Kaj. Lungo i fiumi di Babilonia, 2024, p. 348.
166
Munk, seppur abitato da una Fede combattuta e controversa, non
può risolvere nell’amore umano il dramma di un Cielo vuoto, al contrario rilegge questo amore come via privilegiata verso un Dio che altrimenti Kargo non riuscirebbe a incontrare altrove.
A margine della rottura del fidanzamento con Regine Olsen, Søren
Kierkegaard aveva scritto nel Diario: “Ho sperato che Dio mi restituisse Regine come ha restituito Isacco ad Abramo”. Munk in Amore tenta
di risolvere la delusione kierkegaardiana concedendo al suo Ejnar, al
momento della morte, di ricevere un’ultima volta la visita di Ingeborg
e così la promessa di poter ricongiungersi con lei in Paradiso. Ecco che
Amore, che si presenta come il dramma dell’incredulità e che per tutto il suo svolgimento ci pone di fronte alla menzogna come unica via
possibile di esperienza del Cristianesimo, nel suo scioglimento mette
in scena un ribaltamento paradossale. Non occorre, come ne La Parola, che Dio intervenga col miracolo per riportare in vita Kargo o sovvertirne l’incredulità, ciò che deve essere guarita non è la morte, ma
l’ingiustizia di un amore che non ha avuto occasione di compiersi. La
promessa – ricevuta in visione, in sogno o in allucinazione – che questo
amore possa realizzarsi in Cielo è l’Isacco restituito a atteso dal filosofo,
il Dono come cifra essenziale del Dio cristiano, il quale non schiude le
porte del Paradiso sotto ricatto di una ortodossa professione di Fede,
ma che gratuitamente si muove verso l’uomo, colmando l’infinita distanza con una creatura che non è in grado di raggiungerlo con le proprie forze.
167
E gl i S i ede al Crogiolo
(1938)
227
Egli si siederà, come chi affina e purifica l’argento,
e purificherà i figli di Levi,
li raffinerà come si fa dell’oro e dell’argento;
ed essi offriranno all’Eterno offerte con giustizia.
(Mal 3,3)
Perciò molto volentieri mi vanterò piuttosto delle mie debolezze,
affinché la potenza di Cristo riposi su me.
(2Cor 12,9b)
No t a i n t ro duttiva
Durante il Novecento il rapporto tra Cristianesimo e totalitarismi
è stato complesso e sfaccettato, sicuramente non univoco. Le dittature che hanno inaugurato il secolo breve e quelle che si sono succedute
a seguito della Seconda Guerra Mondiale, infatti, hanno dovuto necessariamente confrontarsi con una società cristiana diffusa, che quasi
mai si è dimostrata compatta quando occorreva decidere da che parte
schierarsi di fronte alle istanze del dittatore di turno. Non fu solamente
sulla base confessionale che si divise il popolo cristiano, anzi spesso tra
gli appartenenti della stessa confessione si contrapponevano accesi sostenitori e irriducibili avversari. Anche all’interno dell’opposizione al
nazismo il popolo cristiano (cattolico, ortodosso o luterano) non trovò
quasi mai una linea comune che lo raccogliesse in un programma di
resistenza unico. Accadde così che, se alcuni si offrirono al martirio nei
campi di concentramento, altri scelsero di imbracciare la lotta armata
come il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer, spesso associato alla figura di Munk, che partecipò attivamente alla pianificazione di un attentato ai danni di Hitler e fu di seguito giustiziato il 9 aprile 1945.
Il Nostro, celebrato come uno degli eroi della Resistenza, fu all’avvento del nazionalsocialismo tedesco uno degli entusiasti sostenitori
della figura dell’uomo forte augurandosi presto che anche il popolo
danese potesse riunirsi ed esprimere una guida capace di raccogliere i
valori dispersi della nazione. Fu l’emergere della persecuzione ebraica a
destare Munk dal suo sogno nazionalista. Nel silenzio pressoché generale della cultura del suo tempo che, come in altri luoghi della vecchia
Europa non si era lasciata troppo sconvolgere dal venire alla luce di un
ribollente sentimento antisemita, egli volle esprimersi chiaramente in
difesa dei suoi concittadini di stirpe ebraica. I passaggi più intensi della
sua difesa del popolo giudaico li ritroviamo negli articoli che con sempre maggiore frequenza condannavano i crimini nazisti e l’assordante
silenzio dell’opinione pubblica danese; nei Sermoni con cui si rivolgeva
direttamente alla sua congregazione e nel dramma proposto nelle pagi231
ne che seguono e che divenne presto un manifesto di ribellione contro
la scellerata ideologia nazista.
Composto in viaggio tra Parigi e Berlino tra il 20 e il 23 gennaio del
1938, la sua pubblicazione fu rapida quanto la sua scrittura. Rifiutato
dal Teatro Reale, fu messo in scena per la prima volta nell’aprile dello
stesso anno a Oslo, stampato in volume, fu recitato da Munk di fronte
all’Associazione studentesca132 (Studenterforeningen) in Copenaghen.
Quando finalmente ne fu permessa la rappresentazione in Danimarca
ebbe nell’arco di pochi anni centinaia di repliche, fin quando non se ne
ordinò la censura e il libretto del copione dovette iniziare a circolare
clandestinamente.
Tutta l’azione, tranne l’atto finale, si svolge nello studio del professor
Ernst Mensch, illustre archeologo di fama mondiale che, assieme alla
sua assistente la sig.na Schmidt, scoprono, in un frammento di argilla appena tornato alla luce in uno scavo mediorientale, un autentico
ritratto di Gesù Cristo. Mensch deciderà di donare la sua scoperta nelle mani del Führer durante il conferimento del Premio della Nazione
Tedesca. Il professore, uomo schivo, totalmente immerso nello studio
e nelle sue carte, e sincero estimatore di Hitler fin dalla prima ora, scoprirà però che la sua assistente, di cui è segretamente innamorato, è in
realtà una cantante ebrea costretta a cambiare identità e rifarsi una vita
per sfuggire alla rappresaglia nazista. Mensch deciderà di tornare sui
suoi passi, riconsiderare il sostegno (benché solo passivo) al regime che
ha perseguitato la sua amata e spento il suo canto, e quando si troverà
di fronte al Führer, pur di non consegnare l’immagine di Cristo nelle
sue mani, preferirà infrangere la tavoletta a terra e seguire la sua amata
all’esilio.
Due sono i personaggi attraverso i quali Munk racconta gli orrori e le
meschinità del nazismo. Il primo è il professor Dorn, parodisticamente
descritto come la maschera del meschino arrivista, il fanatico nazista
che gode nel rovinare la vita del bibliotecario ebreo; il secondo è proprio il mite e stralunato professor Mensch che, dal canto suo, non incarna valori più positivi. Egli rappresenta l’ignavia, l’accondiscendenza
132
Associazione degli studenti dell’Università di Copenaghen fondata nel 1820. Essa
fu sempre un luogo di scambio e confronto aperto e senza censure, tanto da guadagnarsi il nome di Verdens Frieste Talerstol ossia la Cattedra più libera del mondo.
232
e la connivenza silenziosa col regime, che il professore giustifica a sé
stesso pensandosi come un uomo totalmente votato allo studio, che
non ha tempo da dedicare alla politica.
Non a caso Mensch è un nome parlante, egli è l’uomo comune chiamato a prendere posizione di fronte alla propria paura e all’attualità
della storia. È un altro dei doppi attraverso i quali Munk, oltre che a
rappresentare una larga parte della società del suo tempo, ritratta la
propria fascinazione per i totalitarismi e l’ideale dell’uomo forte.
Eppure, come l’autore ebbe a dire, il vero protagonista del copione
è l’icona stessa del Cristo, una immagine che, come ci viene più volte
ribadito, raffigura un Gesù ebreo. Ciò causa lo scandalo del professor
Dorn, impegnato nell’acrobatica dimostrazione dell’appartenenza del
Cristo alla razza ariana. Dorn ha bisogno che anche il Figlio di Dio
possa vantare nelle sue vene un puro sangue ariano, perché egli possa
affermare senza vergogna che Hitler e Gesù Cristo siano fatti della stessa pasta, uomini di umili origini destinati a prendere il mondo in mano.
Consegnare nelle mani del Führer l’immagine di Gesù significa
compiere il destino glorioso del nazismo, incastonare il Cristianesimo
come il più ambito trofeo nel suo edificio retorico e ideologico. Mensch si sottrarrà a tutto ciò, facendosi portatore della profonda libertà
del Cristianesimo, che non accetta di esser strumentalizzato come giustificazione dell’odio e della deportazione e che resta sempre dalla parte
dell’ultimo e della vittima. Nonostante venti secoli di Cristianesimo,
oggi Gesù è ancora nell’ultimo, nel deportato, nel perseguitato e in tutto il popolo ebraico; contro di lui si alza ancora il grido di duemila anni
fa: “Crucifige”.
L’azione si scioglie in un’atmosfera irreale. In un brusio indistinto la
folla si diraderà, Hitler uscirà di scena, resteranno soli Mensch e Sara
che riusciranno per la prima volta a chiamarsi col loro vero nome e a
scambiarsi una promessa di matrimonio dagli echi biblici, speranza di
riconciliazione tra il popolo ebraico, quello tedesco e tutti i popoli.
233
Ni el s E bbese n
Un’opera in cinque atti
(1940-42)
287
Ai nostri giovani del 9 aprile.
A Hans Brix
Con mano delicata, con mano autorevole,
hai toccato la trama del linguaggio
dallo spirito lontano della ballata popolare
e guarda, sui prati della Danimarca
l’abbiamo vista giovane e libera,
e i nostri cuori dovevano battere
caldi come mai prima.
Ma lo scaldo, destato dal tuo gesto,
saltò su e scrisse sul muro quella scritta,
come un colpo sulla corda.
No t a i n t ro duttiva
Niels Ebbesen è uno dei drammi fondamentali della produzione
munkiana, vero e proprio manifesto della Resistenza partigiana danese.
Pensato e composto all’indomani del 9 aprile 1940, inizio dell’occupazione tedesca, fu terminato dopo due anni di scritture e riscritture, per
essere rappresentato in occasione dell’anniversario dell’ingresso delle
truppe nel Paese. Dato l’ordine di confisca delle copie cartacee, il testo
tuttavia continuò a circolare clandestinamente con tirature da bestseller, distribuito sottobanco dai librai, come da qualche anno accadeva
sistematicamente alle opere del nostro autore. Fu rappresentato per la
prima volta nel 1943 in Svezia e non ebbe occasione di essere messo in
scena in patria se non dopo la Liberazione.
Il dramma di ambientazione medievale conferma la passione di
Munk per la storia nazionale danese e la celebrazione dei suoi eroi. A differenza del giovanile Cristoforo (Kristoffer) (1918) o del più maturo Ancora un giorno (Atterdag) (1940), nella composizione di Niels Ebbesen
il messaggio patriottico assume un’urgenza di tutt’altro rilievo. Munk è
solito guardare con nostalgia alla Danimarca del passato come al luogo
in cui l’identità nazionale, radicata nei valori cristiani, dialoga con un
presente travolto dal relativismo dei costumi e dall’appiattimento della
propria coscienza di popolo. In questo caso non è il paragone tra ieri
e oggi a sostenere la tesi del dramma, bensì il riferimento all’attualità
del conflitto mondiale è tanto presente da far passare l’ambientazione
medievale in secondo piano. Ciò che Munk mette in scena è per lui un
fatto di cronaca ossia la posizione, che l’autore giudica drammatica, di
resa senza condizioni che un popolo troppo prudente sta concedendo
a quell’invasore che risale la penisola dall’Holstein.
È il 1340, Niels Ebbesen è un proprietario ben voluto dai suoi contadini, amante della natura e un lavoratore instancabile della terra. Il conte Gerhard dell’Holstein per la seconda volta inizia la sua campagna di
conquista, avanzando lungo il Paese all’insegna della distruzione e del
saccheggio. Niels Bugge chiede l’aiuto del nostro eroe per combattere il
291
Conte ma egli rifiuta, rifuggendo l’idea di imbracciare le armi perché affrontare una guerra vorrebbe dire aggiungere altra devastazione a quella
che già imperversa per il Paese. Temendo comunque una rivolta, il Conte
manderà i suoi emissari a mettere sotto sorveglianza la fattoria di Niels e,
ancora una volta, l’eroe farà un passo indietro privando i suoi uomini e i
suoi contadini delle armi per difendersi. Quando verrà a conoscenza che,
malgrado il Conte sia moribondo, i suoi uomini continuano una selvaggia opera di conquista, Niels deciderà di porre fine alla razzia, vendicando il suo popolo e imbracciando la spada con tutti i suoi.
Malgrado la sua drammatica attualità, la crudezza e vividezza delle
scene in cui la guerra è mostrata o raccontata, questo non è il più cupo
dei drammi munkiani. Al contrario sembra essere attraversato da una
vena di leggerezza e di amara ironia. Il capocomico in scena è Padre
Lorents, prete cattolico che incarna la figura del matto, gioviale canterino con una passione smodata per il bere e per le donne. Questa è,
probabilmente, nell’immaginario luterano di Munk, la raffigurazione
del prete medievale corrotto, avido e pavido, eppure, malgrado la sua
pantomima lo forzi a essere sempre il più ridicolo in scena, in lui si consuma un dolore profondissimo. Lorents ha conosciuto personalmente
il Conte e ha visto con i propri occhi la devastazione causata dalla sua
brama di potere. Sprofondato nel nichilismo e nell’alcolismo a causa
del trauma e dell’orrore della guerra, privo di ogni valore, egli guarda
alla sua sopravvivenza strisciando all’ombra del potente. Dietro la risata
disperata di Padre Lorents c’è l’implorazione di una salvezza e la richiesta di un liberatore. Il suo richiamo permetterà a Niels di abbandonare
ogni titubanza e prudenza e perseguire un’azione concreta, in nome
della libertà.
Gertrud, la moglie di Niels, ricalca un ruolo simile a quello di Padre Lorents, privato però della sua ironia. È descritta come una Lady
Macbeth al contrario. Rude e decisa, sollecita la risposta del marito,
lo richiama più volte allo scontro, ma il suo movente non è la sete di
potere, né la brama o l’avidità della conquista, come accade all’eroina
shakespeariana. Porta nel suo grembo il futuro della Danimarca, minacciato ancor prima di venire al mondo. Teme di essere sradicata da
casa propria, di non poterla consegnare alla sua discendenza e di dare
alla luce suo figlio come schiava nella sua terra. Anche alla sua preghiera
Niels non potrà sottrarsi a lungo.
292
La vittoria dell’eroe sull’antagonista viene costruita come quella
di Michele su Lucifero, quindi come quella del Bene sul Male. Nella
sua vecchiaia macilenta il Conte Gerhard rievoca il serpente antico174,
sconfitto all’alba di un nuovo giorno. La liberazione della Danimarca
medievale si fa non solo esortazione alla Resistenza trasportata all’attualità della guerra che si sta consumando, ma anche immagine della
vittoria definitiva di Cristo sul male. La dimensione religiosa e quella
patriottica ancora una volta si congiungono in una visione per cui la
seconda non può fare a meno della prima.
La sensibilità odierna non può non guardare con sospetto l’accostamento tanto veemente tra Dio e Patria, che nell’esperienza storica italiana fu uno dei cardini della propaganda fascista, nondimeno bisogna
riconoscere a Munk che la sua idea di Cristianesimo fu sempre aliena
dalla collaborazione con il potere oppressivo, come già in Egli Siede al
Crogiolo.
Munk concepisce la Fede cristiana come una scuola di ribellione. La
coscienza credente non può permettersi di accettare che il Cristianesimo diventi un’arma a disposizione del potente. Esso è piuttosto il sasso
nella fionda del giovane Davide, pronto a scagliarsi contro il gigante
Golia.
174
Ap 12,9.
293
L’Amo re ( I )
(1942)
347
348
No t a i n t ro duttiva
Intorno agli anni ’40 Munk inizia a produrre una serie di brevi atti
unici pensati per essere rappresentati in quindici minuti. Scritti per
fungere da introduzione o da accompagnamento alla rappresentazione
principale, Munk li utilizza come un esercizio di stile attraverso il quale esplorare in un contesto circoscritto, una singola scena, e attraverso
un’azione per lo più statica, la contrapposizione tra due opposte visioni
del mondo.
Ne I Signori Giudici e Prima di Canne, la contrapposizione Caifa/
Anna e Fabio Massimo/Annibale è evidente e anche per lo spettatore è
facile decifrare le intenzioni dell’autore; meno immediata invece la tesi
di fondo nel dittico de L’Amore (I) e (II).
La coppia di atti esplora il tema della visione moderna del matrimonio, anzi meglio il divario tra la sua visione tradizionale e le rivendicazioni progressiste, espresse in larga parte dal nascente movimento
femminista. Un tema, quello del matrimonio, particolarmente caro sia
al drammaturgo che al pastore, da sempre impegnato nella difesa di una
visione sacramentale e conservatrice dell’istituzione famigliare. Eppure
non possiamo non notare come la caratterizzazione delle protagoniste
femminili sia l’invenzione più riuscita dei due copioni, e la vena femminista domini entrambe le scene. La giovane Aagot e la sposa Betty
sono infatti presentate come donne forti, decise e volitive con un forte
desiderio di autorealizzazione; mentre le controparti maschili Bent e
Preben ci appaiono figure più insicure, deboli e addirittura ingenue,
tormentate dalla paura di non valere abbastanza per le loro amate. Il
rovesciamento della situazione iniziale permetterà alle due coppie di
trovare un’intesa possibile, a Bent e Preben di affidarsi totalmente alle
proprie compagne e a quest’ultime di indirizzare il proprio futuro fondando la propria felicità sull’amore e, nel secondo caso, su un ritrovato
legame matrimoniale.
L’Amore (I), originariamente intitolato Sulla Spiaggia (Paa Stranden), ad una prima lettura sembra raccontare una innocua scaramuccia
tra amanti. Il triangolo amoroso è dei più classici: Bent è un giovane
ragazzo immaturo e timido, che stenta a confessare il proprio amore
alla coetanea Aagot, più matura e intraprendente. Il loro pomeriggio
estivo sulla spiaggia viene interrotto dall’arrivo di Kvarts, ragazzo in
uniforme con cui Aagot ha, probabilmente, una relazione. Bent e Kvarts si scontreranno a motivo della ragazza, che porrà fine alla loro baruffa scegliendo il primo e scacciando il secondo, pur ribadendo la sua
volontà di restare sola.
Già a partire dal ’39, le opere di Munk furono pesantemente sottoposte a controllo e censura. A drammi dal contesto esplicitamente
politico fu vietata la messa in scena e, come abbiamo già avuto modo di
vedere, molti copioni potevano circolare solo in edizioni clandestine.
Con L’Amore (I) Munk tenta ancora una volta di portare sulle scene il
tema della Resistenza attraverso la metafora di un amore giovanile. Il
sottotesto politico non passò comunque del tutto inosservato agli occhi della censura, che impose all’autore di cambiare nome al personaggio di Kvarts, il giovane in uniforme e stivali. Il nome troppo tedesco fu
rimpiazzato con Larsen, più neutro e danese. Anche la sua bella uniforme fu cambiata in una divisa da guardiaboschi, in modo da eliminare
ogni riferimento militare. Nonostante la censura, il sottotesto politico
rimane evidente: Bent simboleggia l’anima di tutti i danesi indecisi e
titubanti che, di fronte al rozzo e violento Kvarts (l’esercito invasore),
non potranno sottrarsi a prendere le difese dell’amata Aagot (la Danimarca).
Sarà Aagot a risolvere la disputa tra i due. Pur ribadendo il suo desiderio di restare nubile, ella abbraccerà Bent, non perché questi sia riuscito a sopraffare il nerboruto Kvarts, ma perché è lei stessa a compiere
la sua scelta tra i due pretendenti. Non sarà quindi tutto merito dei danesi, sembra suggerire Munk, se la Danimarca un giorno sarà libera, ma
sarà la Patria stessa a non voltare le spalle ai suoi figli che si leveranno
per difendere la sua libertà.
350
L’Amo re ( II )
(1942)
361
No t a i n t ro duttiva
Munk fu costretto a stendere velocemente il testo de L’Amore (II)
in sostituzione di un altro atto unico, Il Prete e lo Studente (Præsten og
Studenten), ispirato a un episodio autobiografico, che non poté essere
rappresentato vista l’indisponibilità di uno degli attori ingaggiati.
Nel dramma precedente il tema del matrimonio veniva raccontato
come una possibilità immaginata, un desiderio che il giovane Bent faticava anche solo a esprimere. Al centro dell’azione solo una goffa proposta di matrimonio, peraltro rifiutata. Qui, invece, Munk entra nel
vivo di una vita matrimoniale. Betty è una sposa ancora giovane, con
un forte desiderio di libertà e di avventura. Pianifica un lungo viaggio
in Italia col marito Preben, ma i suoi piani vengono scombinati dalla
scoperta di una gravidanza. La notizia la sconvolge, pensa che il marito
l’abbia ingannata, pur conoscendo bene la sua indisponibilità ad avere
figli. Cerca allora la complicità degli zii per pianificare un aborto, ma
trova il loro secco rifiuto. Decide quindi di lasciare Preben e attende
il suo ritorno a casa per rompere ufficialmente la loro unione. Questi
però, non sapendo nulla della gravidanza, appena di fronte a Betty le
confessa che, a causa di un investimento avventato, ha perso tutti i loro
averi e il posto di lavoro. Sorprendentemente la donna ritornerà sui
propri passi e si riconcilierà col marito, scegliendo di tenere il bambino
e di iniziare, da madre e da moglie, una nuova e povera vita famigliare.
Il testo è una evidente risposta a Casa di Bambola (Et dukkehjem) di
Henrik Ibsen. Come Munk aveva già fatto con Oltre le Forze di Bjørnstjerne Bjørnson ne La Parola, anche in questo caso la tesi principale
dell’opera di partenza viene ribaltata, nell’ottica di restaurare agli occhi
dello spettatore la sacralità del matrimonio che la modernità sembra
disconoscere e rifiutare. La solidità e la ricchezza del legame famigliare verranno riconosciute dai due protagonisti nel momento in cui le
comodità e gli agi della vita borghese verranno meno. Nel dramma di
Ibsen il fallimento economico funge da punto di rottura di tutte le fratture – fino a quel momento sotterranee – del matrimonio tra Nora e
363
Torvald; il debito accumulato rende inevitabile per la coppia confrontarsi sul fallimento della loro unione. Betty invece, quando si renderà
conto di aver perso tutto, scoprirà in suo marito, e nel figlio che aspettano, una ricchezza che non era mai stata in grado di immaginare. Le
aspirazioni, la libertà, i viaggi e tutte le prospettive di una vita agiata
perderanno il loro presunto valore nel momento in cui il denaro verrà
meno.
Tra gli atti unici presenti in questo volume, questo è sicuramente il
più debole, la soluzione della trama è sbrigativa e poco credibile, e il
ribaltamento dei sentimenti di Betty troppo repentino. Nel poco spazio a disposizione Munk non poteva certo replicare la complessità di
un dramma come quello di Ibsen, preferendo quindi mostrare la presa
di consapevolezza di Betty quasi fosse il risultato di un teorema geometrico. Il fallimento economico e umano di Preben neanche per un
momento spinge Betty a prendere le distanze dal marito. Al contrario,
suscita immediato il bisogno di consolare, indicare al marito disperato
la speranza della nuova vita che sta iniziando, umile ma fondata dall’amore.
Munk lascia sotto traccia tutte le tensioni sociali e culturali messe
in scena da Ibsen, nonché la divisiva critica ai ruoli di genere che, nel
secolo precedente, aveva acceso un grande dibattito attorno a Casa di
Bambola. Per la nostra sensibilità contemporanea, l’accorato invito
all’amore e alla fedeltà come panacea di ogni dissapore famigliare appare poco centrato. Pur restando uno dei pochi casi di tutta la produzione munkiana in cui l’esperienza cristiana viene sottintesa o forse è
del tutto assente, l’opera resta pervasa da una forte impressione moralistica e conservatrice. Nonostante ciò, la caratterizzazione psicologica
che Munk riesce a tratteggiare in poche battute è riuscita ed efficacissima, malgrado l’ingombrante tesi rischi di sovrastare i personaggi che
dovrebbero incarnarla.
364
Pri ma di Can ne
(1943)
379
No t a i n t ro duttiva
Composto nel 1943, Prima di Canne fu l’ultima opera di Munk ad
essere stampata mentre l’autore era ancora in vita. L’azione si svolge
nel 216 a.C. durante la seconda guerra punica, all’interno dell’accampamento cartaginese, la notte prima della battaglia di Canne. Fabio
Massimo, ex generale dell’esercito romano, ottiene udienza col comandante nemico Annibale. Chiede che l’esercito cartaginese rinunci
a combattere, cessi immediatamente le ostilità e accetti di fondare sul
commercio una nuova e duratura pace tra romani e cartaginesi. Annibale è prima stupito dal discorso di Fabio Massimo, teme questi stia
tramando un sotterfugio, poi conclude che la resa che il vecchio generale sta contrattando altro non sia che la conferma della debolezza del
suo nemico. Quel che Annibale non riesce a comprendere è che Fabio
Massimo non si è presentato da lui come un soldato o come un uomo di
Stato, non lo è più. È cosciente della disfatta a cui i romani l’indomani
andranno incontro, ma sa anche che lo stesso destino attende Cartagine. Il suo è l’appello di un uomo che ha visto tanta vita e tanta distruzione da non poterne più, che sa bene che Canne non sarà l’ultimo atto
della guerra, ma solo un’ulteriore pagina insanguinata nella storia di
entrambi i popoli. Annibale non potrà persuadersi delle intenzioni del
suo antico nemico e a questi non resterà che congratularsi amaramente
col generale punico per la sua vittoria dell’indomani.
Prima di Canne è una delle indiscusse vette del teatro munkiano
per l’intensità con cui l’autore riesce, pur nella completa staticità di
un’azione composta di un unico ininterrotto dialogo, a costruire una
profonda tensione tra i due protagonisti e le rispettive e opposte visioni
del mondo. Annibale non conosce altro che non la guerra, essa è il suo
destino; è nato e cresciuto su un campo di battaglia ed è stato allevato
all’odio verso la potenza romana. Fabio Massimo, come il nemico punico, ha vissuto tutta la sua esistenza in una lunga campagna di guerra;
sa che l’ineluttabile destino di Roma è conquistare una vittoria che si
paga a caro prezzo, ma vuole immaginare un futuro diverso per i suoi
381
nipoti, possibile solo se chi ha le armi in mano decida per primo di deporle. Durante l’epoca monarchica, i romani avevano giurato al tempio
di Giano che non avrebbero imbracciato le armi per primi, ma, se costretti, le avrebbero deposte solo per secondi. Questa è la maledizione
di ogni esercito, dice Fabio Massimo, il funereo destino che accomuna
Roma e Cartagine e oggi, suggerisce tra le righe Munk, la Germania, la
Danimarca e tutte le Nazioni che sono scese armate sui campi di battaglia.
Dal carattere evidentemente ed esplicitamente politico, Munk si
impegna qui a capovolgere il suo paradigma. Nel Niels Ebbesen l’eroe
protagonista, descritto come prudente e pacifico, è continuamente
chiamato alla ribellione e la sua parabola si compie nel momento in cui
accetta di imbracciare le armi e scontrarsi contro il nemico. Anche in
questo caso l’eroe, colui che la storia ha chiamato il Temporeggiatore, è
un uomo dall’indole prudente e pacifica, ma l’ostinazione di Annibale non lo farà tornare indietro sul suo proposito e non lo convincerà
alla necessità dello scontro. Al contrario gli confermerà il drammatico
sospetto della sua inevitabilità. Munk, parlando ai propri compatrioti,
ha spesso invocato il valore della Resistenza, ora, invece, rivolgendosi
per la prima volta ai suoi più affezionati lettori, il comitato di censura
nazista, propone l’assurdo invito alla diserzione. Parlando per bocca di
Fabio Massimo, l’autore sembra ammonire l’occupante tedesco, avvertendolo che la sua sarà una vittoria di Pirro e il prologo di una tragica
disfatta. Annibale/Hitler è certamente un uomo eccezionale, un genio
addirittura, si spingerà a dire Fabio Massimo/Munk, capace di radunare sotto la sua volontà un intero popolo e proprio in forza di questa
condannarlo alle più grandi disgrazie.
Una lettura superficiale di Prima di Canne potrebbe portarci a immaginare che Munk avanzi un ingenuo tentativo di risolvere la realpolitik del secondo conflitto mondiale con una chiamata ai buoni sentimenti, facendo ricorso ad immagini romantiche e suggestive come
quella dei bambini che giocano per le strade di Roma, di Cartagine,
di Berlino e di Copenaghen… Ma la provocazione di Munk va ben oltre il sentimentalismo, spingendo i propugnatori della guerra di fronte all’evidente tragedia che li riguarda tutti, vincitori per primi. Munk
sceglierà, per quest’opera rivolta a un interlocutore per lui inedito, una
ambientazione altrettanto inedita rispetto ai suoi stilemi. Non un’o-
pera contemporanea, né medievale o di ispirazione biblica e nulla che
possa essere ricondotto ad un esempio di morale cristiana. Munk, come
Fabio Massimo, cerca di intrufolarsi nel campo nemico, ossia nella coscienza del soldato tedesco, prescindendo da qualsiasi riferimento religioso e forte di una morale universale, pur sapendo bene che il suo
invito alla diserzione non verrà ascoltato da nessuno.
Munk si congederà dalla censura, che tanto attentamente lo leggeva,
con un’amara quanto profetica battuta: Condoglianze per la tua vittoria!
383
I S i gn o ri Gi ud ici
(1942)
395
No t a i n t ro duttiva
I Signori Giudici è il primo copione composto da Munk nella forma dell’atto unico. Segna per l’autore un doppio ritorno: alla tematica
biblica, abbandonata teatralmente da quasi un decennio dal Re Saul
(Kong Saul) del 1933; e alla figura di Caifa e Anna già portati in scena
in Pilato (Pilatus), opera giovanile del 1918.
Il sommo sacerdote Caifa, di ritorno dal tribunale del Sinedrio, trova in casa ad attenderlo Ester, sua moglie, con cui dovrà recarsi ad una
serata di gala al palazzo del re. Il processo a un artigiano galileo che pretende di essere il Messia ha inquietato profondamente il sacerdote di un
turbamento che Ester non riesce a comprendere. Nel frattempo Anna,
padre di Ester e predecessore di Caifa nella carica di sommo sacerdote,
fa pressione su quest’ultimo affinché firmi per trasmettere al procuratore romano la richiesta di condanna a morte del Galileo. Caifa non
sembra persuaso perché nella solitudine e nel silenzio di quell’uomo
pare aver incontrato qualcosa che mai prima d’ora aveva conosciuto.
Anna dovrà allora ricorrere alle arti femminili di Ester per pungere le
insicurezze di Caifa e fiaccarlo con la gelosia. Il sacerdote, vinto dalla
paura di perdere la sua carica e con quella l’amore di sua moglie, firmerà
la condanna.
Il Caifa presentato ne I Signori Giudici si allontana dalla descrizione fatta in Pilato, più vicina all’immagine tramandata dalla narrazione
evangelica, ossia un uomo monolitico, inflessibile, forse anche subdolo
e crudele. Immerso nel suo contesto intimo e famigliare, spogliate le vesti del sacerdote, al centro di questa azione è l’indistricabile dubbio che
l’incontro faccia a faccia col Cristo ha depositato nel suo cuore. Prima
di tale incontro, aveva fatto sua la massima di Seneca secondo cui la
religione è vera per gli ignoranti, falsa per i saggi e utile per i politici. A
scuoterlo dal suo cinismo non sarà un evento miracoloso, ma l’abissale
silenzio dell’artigiano galileo. Nel dialogo con Anna, Caifa arriverà a
sbirciare idealmente nel segreto del Cristo, immaginandolo immerso
nel mistero di Dio e nelle profondità della sua anima, come all’interno
397
del proprio Santo dei Santi. Anna, invece, non sarà in grado di scorgere
in Gesù nient’altro che un pericoloso sobillatore del popolo. Caifa toccherà con mano l’intuizione di Dio, ma questo non basterà a colmare
la superficialità dei suoi sentimenti, la sua materialità, l’ambizione e la
gelosia nei confronti di una donna opportunista. Caifa è l’emblema di
un Cristianesimo che fallisce, che non è in grado di attecchire nel cuore
di tutti.
Il tema portante del dramma del ’18 era l’esitazione di Pilato, la difficoltà di prendere posizione di fronte a Cristo e la responsabilità di poter cambiare la storia in virtù della propria scelta. A Caifa, dato il poco
tempo che l’atto breve gli concede, non sarà permesso di esitare e sarà
obbligato a rispondere senza indugi alla pressante richiesta di Anna ed
Ester.
Søren Kierkegaard nell’ultima sezione de La Malattia per la Morte
afferma che ogni soggetto non può sottrarsi all’esigenza di esprimersi
sulla persona di Gesù Cristo. Questo concetto trova particolare consonanza con quel che nell’introduzione generale abbiamo voluto chiamare il teatro di vocazione di Munk. Nella figura di Caifa si sommano tutte
le istanze e le dimensioni tipiche del teatro munkiano. Egli è un marito,
un padre di famiglia, un membro del clero, un uomo delle istituzioni.
Il rapporto col Cristo, seppure segnato dal silenzio, non si gioca quindi
su un piano strettamente individuale, in quanto a questo si vanno a
sommare il contesto famigliare, quello religioso e anche politico. Caifa
non può svincolare la propria individualità dal suo ruolo, la sua scelta
dovrà essere integrale, e se è vero che il Cristianesimo si dà sempre come
un dovere, questa non potrà restare confinata nel suo solo foro interno.
Il cristiano deve mettere tutto in gioco in nome della Fede, anche se
tutto ciò che lo circonda sembra volerlo dissuadere dalla sua vocazione.
L’incontro fugace col Cristo ha messo nel cuore del sacerdote un seme
di eternità, ma basterà una firma per dimenticare tutto, per lasciarlo
sprofondare di nuovo nella tranquillità della vita famigliare e all’interno del proprio piccolo mondo borghese. Saranno infine il frastuono
e il baccano di una festa di corte a coprire definitivamente l’abissale
silenzio di Gesù.
398
INDICE
Introduzione | Kaj Munk e il Teatro di Vocazione
7
Drammi
17
Un Idealista | Alcune impressioni dalla vita di un re (1923-24)
19
Nota introduttiva
ATTO I
ATTO II
ATTO III
ATTO IV
ATTO V
23
27
45
57
81
ATTO VI
ATTO VII
ATTO VIII
ATTO IX
ATTO X
IL PALAZZO REALE DI GERUSALEMME
IL PALAZZO DI CLEOPATRA
IL PALAZZO REALE DI GERUSALEMME
IL PALAZZO REALE DI GERUSALEMME
UNA TENDA NELL’ACCAMPAMENTO
DI OTTAVIANO
TENDA NELL’ACCAMPAMENTO DI OTTAVIANO
IL PALAZZO REALE DI GERUSALEMME
SALA DEL TRONO A GERUSALEMME
IL NUOVO PALAZZO REALE,
APPENA COSTRUITO, A GERUSALEMME
IL PALAZZO REALE DI GERUSALEMME
Amore (1926)
Nota introduttiva
ATTO I
ATTO II
ATTO III
ATTO IV
ATTO V
ATTO VI
121
143
163
IN CANONICA
LA SALA STUDIO DELLA CANONICA
LA SALA STUDIO DELLA CANONICA
NELLA CANONICA
ANDREAS SULLA SPIAGGIA
LA CAMERA DA LETTO DELLA CANONICA
Egli Siede al Crogiolo (1938)
Nota introduttiva
ATTO I
ATTO II
ATTO III
ATTO IV
ATTO V
91
99
101
109
165
169
181
189
201
209
215
227
231
235
253
261
271
283
Niels Ebbesen - Un’opera in cinque atti (1940-42)
287
Nota introduttiva
ATTO I
ATTO II
ATTO III
ATTO IV
ATTO V
291
295
309
319
335
341
Atti Unici
345
L’Amore (I) (1942)
347
Nota introduttiva
Testo
L’Amore (II) (1942)
Nota introduttiva
Testo
Prima di Canne (1943)
Nota introduttiva
Testo
I Signori Giudici (1942)
Nota introduttiva
Testo
349
353
361
363
367
379
381
385
395
397
401