Paesaggi
Antonio Chiocchi
LUCE SEPOLTA
IL BRULICANTE DESERTO DELLA PAROLA
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Biella ottobre 2024
Antonio Chiocchi
LUCE SEPOLTA
IL BRULICANTE DESERTO DELLA PAROLA
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1. Il transito inaggirabile
Che la città sia come una spugna che, quasi con indifferenza, assorbe il dolore è un fatto persino scontato. Nel
caso di Napoli, lo è in una maniera particolare. Osserva Raffaele La Capria che Napoli è una carta moschicida e che a
finirci appiccicati sopra si perde il senso della sua realtà ve1
ra, totalmente risucchiati nella cronaca nera o grigia . Occorre, quindi, prendere le distanze dalla “carta moschicida”
e tirare fuori Napoli dal racconto dentro cui si è ed è stata
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nascosta . Ciò ci dice che il racconto deve sempre partire da
lontano e saper guardare lontano. L'immediatezza scontata
del quotidiano è l'immediatezza scontata e banale, da cui il
racconto deve affrancarsi, per sgorgare dal cuore nascosto
del dolore e dal dolore nascosto del cuore. Il racconto, cioè,
deve farsi raccontare dal dolore e dal cuore.
In questo modo, si inverte il senso della navigazione
dantesca: non si viaggia tra i gironi infernali, ma si vede all'opera l'inferno dai gironi della nostra vita. Ciò che acquisisce pregnanza di senso non è il lanciarsi verso la scoperta
dell'inferno, ma lasciare che esso si scopra e ci scopra. Lungo questa china, il senso del raccontare equivale alla presa
di parola della distanza dal banale quotidiano e dal quotidiano banalizzato. Che è un modo per dire che non siamo impegnati a raccontare dell'inferno o dall'inferno; ma dobbiamo aprirci al raccontare dell'inferno. Per questo, è necessario aprirci al suo spietato mostrarsi per quello che è, con
tutto l'enorme carico delle sue colpe e della nostra colpevolezza. Per farla breve, dobbiamo aprirci a quella città del
dolore che non vediamo e al nostro stesso dolore che rimuoviamo e cancelliamo.
Lasciare che l'inferno si apra e ci apra è una scommessa
contro di esso: consentendo ai suoi miasmi di scorrere, si
può sperare di uscirne e ritrovare gli occhi, scansando i tempi e i luoghi che tengono a battesimo il loro accecamento.
Occorre riconoscere di essere talmente intimi all'inferno da
rischiare di rimanerne definitivamente contaminati. È, questo, il contagio che ci asserve e rende impossibile la salvezza. Il contagio che ci avvelena il sangue è l'inferno che
abbiamo dentro e intorno a noi. Napoli reca questo morbo
dentro di sé e noi non riusciamo a scorgerlo nella sua ef-
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fettiva portata, se non caricaturizzandolo, perché ci nascondiamo l'inferno che abbiamo dentro e intorno a noi. Non solo
nascondiamo l'inferno a noi; ma pure noi ci nascondiamo all’inferno.
Ciò rende meglio comprensibile come il tentativo estremo
di attraversamento dell'inferno napoletano tratteggiato dal
realismo visionario della grande Anna Maria Ortese abbia
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sollevato tante aspre critiche . È scioccante scoprire che la
propria vita scorra ben dentro l'inferno. Ma quando si è veramente ciechi: quando si vede quell'inferno o quando lo si
ignora? Quando si è innocenti: quando si è ciechi o quando
si è vedenti? Ecco la metafora della vita di Eugenia: inno4
cente nella sua cecità e infelice nel riacquisto della vista . Gli
occhiali, nel restituirla alla realtà bruta di Napoli, la conducono verso lo schianto. È come se, per la prima volta, si
vedesse in quell'inferno. Come se, per la prima volta, vedesse quell'inferno. Come se, attraverso gli occhiali, nascesse a quell'inferno e in quell'inferno. L'ombra che copriva l'
immondizia dei vicoli e della città è, di colpo, dissolta dall'irruzione di una luce maleodorante e terrifica, colpendo a
tradimento l'ingenuità e l'innocenza di Eugenia. L'umidità
della casa del vicolo l'aveva accecata; gli occhiali le restituìscono la vista. Ma l'orizzonte mefitico dell'inferno napoletano l'attanaglia proprio nel momento in cui ella spera di
rinascere alla luce. Napoli colpisce Eugenia due volte: prima,
privandola della realtà; dopo, rubandole il sogno che di
quella realtà aveva costruito, per uscire fuori dalla vita priva
di gioia a cui inconsciamente credeva di essere destinata.
Bene, noi tutti siamo come Eugenia: accecati e storditi da
Napoli. La nostra infelicità estrema nasce proprio alla vista
del dolore che macera la città e ne martirizza il cuore. Così,
quando apriamo gli occhi o mettiamo gli occhiali, la sofferenza si fa ancora più grande e precipitiamo in una disperazione definitiva, da cui è espulsa l'ultima scintilla di speranza
che ancora ci scaldava il petto. Ma ora: fino a che punto la
scrittura estrema della Ortese è lo svelato segno della sua
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nevrosi ? Da che punto, invece, quella scrittura ci parla delle nevrosi della città e dei suoi abitanti, strappando le maschere alle rappresentazioni oggettive o idilliache o caricaturali che di Napoli e dei napoletani sono sfornate a getto
continuo? Insomma, da che punto in poi Eugenia parla di noi
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a noi?
Se appena appena aguzziamo la vista, ci rendiamo presto conto che quella di Anna Maria Ortese non è la scrittura
del nulla destinale che affliggerebbe Napoli; bensì lo scavo
accorato nelle offese arrecate a Napoli. Quella scrittura è
anche indicazione del cammino che si para innanzi a noi e ci
obbliga a ripartire esattamente dallo schianto di Eugenia.
Guardare, grazie agli occhiali, gli orrori che contaminano il
cuore di Napoli significa restituire la città alla propria vita,
risalendo dal gorgo infernale dei suoi miasmi. Il cammino
qui prende inizio nel punto esatto dove si consuma lo
schianto di Eugenia. Occorre lasciarsi alle spalle quello
schianto. Il che significa mettersi in viaggio nel cuore di
Napoli, facendosi strada tra i suoi orrori, per rintracciare le
lingue di luce sepolte dalla massa oscura della città.
Il viaggio che ci chiama e verso cui la nostra responsabilità si trova impegnata ― quale che sia la nostra consapevolezza ― è quello della rottura della vita inessenziale
a cui il gorgo infernale ci condanna. Una vita fatta di gesti e
pensieri vuoti e svuotati, ripetuti fino all'ossessione e che,
riproducendosi all'infinito, costruiscono la scena del ripiegamento nella paralisi dell'io. Qui, diversamente da quello
che accade a Vladimiro ed Estragone, non si è in attesa di
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Godot . Qui l'attesa circonda col suo vuoto e svuota non solo e non tanto il ricordo e la memoria di sé: qui è l'attesa
dell'attesa ad essere tranciata. Si vive senza aspettare più,
imbalsamati e ammutoliti dall'inferno quotidiano. La vita inessenziale è la vita orfana dell'attesa. La luce di Napoli si trova
sepolta sotto questa inessenzialità brulicante che si spaccia
per il cuore di Napoli.
Il brulichio dell'inferno sgorga da qui. Da qui nascono
linguaggi crudeli e lingue aliene che scimmiottano quanto
del cuore di Napoli sopravvive come caricatura nello spettacolo della quotidianità. I miasmi dell'inferno napoletano
partoriscono parole mimetiche che progressivamente si
fanno più dure e (appunto) inessenziali. Per questo, la camorra ha potuto rappresentarsi come incarnazione antropologica perfetta dell'inferno napoletano. Essa si pone come
la soluzione e la prospettiva storica dell'eclisse dell'attesa.
Vale a dire: come il sovrano dell'inferno perpetuo.
Proprio a questo incrocio possiamo cogliere una frattura
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decisiva: tra sovrano e sovranità dell'inferno si dà una sostanziale differenza. Il sovrano svuota l'attesa, ma la
sovranità è impregnata di attesa. L'inferno è solo l'altra
faccia di Napoli; così come la sua luce sepolta. L'attesa ha il
volto bifronte dell'inferno e della luce. La sovranità dell'inferno proprio nel seppellirla rende la luce ancora possibile e
visibile. Il sovrano dell'inferno, invece, vuole cancellare Napoli, rendendola il brulicante deserto del nulla. Ma il sovrano
dell'inferno si sbaglia: in un senso assai profondo, l'inferno è
una traccia della luce. Esso è luce capovolta. È nel risvolto
dell'inferno di Napoli che, allora, dobbiamo rintracciare la
luce di Napoli. È questo il viaggio che impegna la nostra responsabilità, se vogliamo continuare il cammino di Eugenia.
Qualcosa qui accade sia indipendentemente da noi, sia perché noi la facciamo accadere. L'inessenzialità dei gesti e dei
linguaggi mimetici cede il passo al cammino: nessun ragazzino irrompe sulla scena, per dire che Godot non verrà o
verrà il giorno dopo. Godot è già lì: impalpabile, eppure
consistente come un evento granitico. L'attesa è qui situata
nell'orizzonte della scelta: dall'inferno verso la luce, aprendo
la scelta del cammino.
L'orizzonte beckettiano viene qui attraversato, poiché ciò
che attrae il cammino è la luce sepolta. La sovranità dell'
attesa, allora, si staglia tra inferno e luce. Ed è la sovranità
dell'attesa a restituirci a una posizione centrale: l'attesa
dell'attesa. Ciò non rende abitabile l'inferno, ma lo fa diventare transitabile. Per essere ancora più precisi: l'inferno è un
transito inaggirabile della vita. L'inferno rende ciechi, per
poterci spingere verso la luce che altri e noi abbiamo sepolto: per situarci fuori dai nostri fallimenti, quanto più si
incancreniscono. Lo scacco nasce esattamente nel mancato
raccoglimento di questo segno e questo messaggio dell'inferno. Di ciò ci aveva già mirabilmente parlato Anna Maria Ortese.
Napoli è uno di quei luoghi del mondo da dove è possibile
vedere meglio e più in profondità il mondo, perché ne mette
in scena i detriti e gli slanci. Ciò le consente di scrivere il
rifiuto del mondo a farsi teatro dell'oscurità: cioè, rappresentazione scarnificata del nulla. Napoli non è mai uno spazio vuoto che la scrittura deve riempire o rappresentare.
L'inferno napoletano è, anzi, la scrittura che occupa lo spa-
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zio e il tempo. La scrittura contaminante che urge decontaminare, sovvertendone le strategie mimetiche. E questa
sovversione prende sempre avvio, riconducendosi e riconducendoci al dolore che strazia il cuore della città. Sta qui il
volgersi della pura impossibilità nella più pura delle possibilità: l'apertura di un altro luogo e di un altro tempo, nell'inferno dei tempi e dei luoghi. Dal giaciglio della città immobilizzata siamo sospinti verso la città che trasuda movimenti e suoni vitali: nel silenzio del nulla costruiamo il
transito al silenzio dell'infinitamente possibile.
Dal cratere della propria morte, Napoli riprende all'infinito
a giocare con la propria vita. Essa è, insieme, morte parlata
e vita parlante. Sovente ― e drammaticamente ― le due
determinazioni sono scisse, anziché essere messe in dialogo. Su questo piano inclinato, la parola Napoli ha finito per
avere significato e senso, prima di essere pronunciata e
scritta, consentendo al silenzio della morte di ricoprire per intero i silenzi della vita. È potuto, così, capitare che la città
sia stata e sia parlata dalla morte, stentando ad essere un
parlante vitale. Per la città, essere parlata dalla morte significa non dire mai più nulla, essendo stato stabilito che di
essa tutto è già stato detto. Lo strazio del cuore si
accompagna qui alla perdita delle parole e delle voci. Stretta
in questo nodo scorsoio, Napoli ha smesso di essere occhio
e voce del mondo. Solo tagliando il nodo si può risentire
Napoli parlare con la voce del suo cuore.
2. La terra inventata
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L'inferno di Napoli ha radici remote . La sua cifra contemporanea germina negli anni Cinquanta ed ha l'effetto
devastante della desertificazione umana che culmina nella
cementificazione della città. “Le mani sulla città” sono più di
un paradigma corrotto di governo urbano. Incarnano, piuttosto, un dispositivo di predazione: alla peste del 1884 e ai
due conflitti mondiali ha fatto seguito il saccheggio quotidiano della città. In questo doloroso passaggio storico, sono
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state strozzate la vita buona e la “bella giornata” . E qui ha
preso inizio un processo sistematico di annichilimento della
città che ha avuto come successive stazioni di transito il
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terremoto del 1980 e la ricostruzione postsismica.
L'assalto armato sferrato dalle “organizzazioni combattenti”, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, contribuisce a spostare questa linea temporale di aggressione
alla città direttamente su una prospettiva di guerra unilaterale. Costituisce, questo, un feroce e dispotico tentativo di
accecamento del tempo: un arretramento rispetto all'orizzonte dei lazzari di Masaniello e dei giacobini del 1799. Le
strategie combattenti intendono fare del potere delle armi
una leva di comando per la rigenerazione della città. Ma
Napoli, così, sprofonda; anziché liberarsi o essere liberata.
La sua luce sepolta viene sommersa in abissi di dolore.
All'apertura del XXI secolo, i rifiuti intossicano Napoli e
fanno compiere un ulteriore salto di qualità all'inferno contemporaneo nel quale la città è stata fatta precipitare. Che
in questa lunga transizione Napoli e la Campania abbiano
avuto anche coalizioni di governo di sinistra e centrosinistra
aggiunge rammarico al dolore; ma costringe anche a severe
interrogazioni sulle origini dei mancati cambiamenti e delle
promesse non mantenute. Napoli, ancor prima che dei suoi
poeti, rimane priva delle sue speranze e delle promesse che
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le erano state fatte . I poeti mancano dove viene meno la
speranza. Dove la terra si fa deserta, il poeta dovrebbe ancora più saldamente ancorarsi al suolo e alle sue linee di
orizzonte e non, invece, essere tentato dalla fuga nell'astrazione, nella rabbia o nella fredda rappresentazione della realtà. È, questo, il rimprovero che Anna Maria Ortese
muove ai suoi amici intellettuali napoletani.
Con una formula ancora più severa della sua, possiamo
dire: in quel frangente si consuma non già il silenzio della
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ragione, bensì lo scacco definitivo della poesia . Se non
parla di fronte al dolore e da dentro il dolore, la poesia
muore: tradisce se stessa e il mondo. Il potere può tradire:
anzi, il tradimento è la sua essenza; la poesia no. Dobbiamo
qui dire: a mettersi fuori dalla storia sono stati la poesia e
gli intellettuali napoletani; non già Napoli. Anche quando è
ricacciata dietro e dentro il magma, Napoli non è mai fuori
dalla storia; ma la subisce. Le manchevolezze serpeggiano
non nel suo cuore, ma nel sangue dei suoi abitanti migliori
che non sanno trovare le vie giuste della ribellione e della
libertà. E di ciò incolpano la città; non sé stessi. La de-
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sertificazione di Napoli non è colpa della città, ma dei suoi figli. E, tra questi, soprattutto di alcuni dei suoi figli ritenuti
migliori, i quali non ne hanno saputo far parlare la vita e il
cuore.
Napoli raccontata: questa, la soglia non superata che resta da varcare. Napoli che parla: questo, il luogo altero e il
tempo vivo che occorre cercare, per far brillare la luce sepolta. Un passaggio del genere lo tenta Luigi Incoronato,
pur senza afferrarlo del tutto. Esistono a Napoli luoghi di
transito tra un inferno e l'altro, dove vivono i diseredati della
città. Percorrendoli, si dà voce all'inferno. Non è la storia dei
diseredati che va intercettata dal racconto; ma è la vita dei
diseredati che mette in forma il racconto. Il poeta e/o il narratore è elemento interno di questo inferno: non lo spettatore disinteressato o sofferente. La poesia è una componente del naufragio: spettatrice anche del suo proprio naufragare, non solo di quello altrui. Non è la potenza del linguaggio del racconto che trasforma e rigenera i diseredati.
No, è la lingua viva della luce sepolta che trasfigura e conferisce vita nuova alla narrazione, facendo del narratore un
diseredato che trova la libertà nella libertà di tutti gli altri
diseredati. La catarsi tragica, prima ancora che scoperta
nella sua inanità scenica, è superata e distanziata. Qui sono
prese le distanze dalla carta moschicida dell'inferno napoletano.
Si è qui nella profondità del male che imperturbabile divora da secoli Napoli, ma per uscirne; non già per arretrare
o soccombere al suo cospetto. La vita individuale a Napoli è,
sì, paragonabile ad un binario morto, ad un treno che cam12
mina senza passeggeri, ad un giro a vuoto . Ma Napoli è
anche punto di riavvio del viaggio. La sua storia ricomincia,
se si ha il coraggio, la forza e la lucidità di ripartire da quel
binario morto. Ciò accade nel punto in cui tutto il girare a
vuoto della città ritrova il senso del suo vuoto e comincia a
costruire i suoi pieni frastagliati e variegati. Il viaggio dei
diseredati diventa qui il viaggio della città del dolore verso la
città della libertà.
Dal cuore della guerra strisciante mossa a Napoli, la poesia deve imparare a farsi parola ed evento della pace e dei
suoi conflitti. Sprigionatasi dalla guerra, deve fronteggiarla,
per farne arretrare le linee di penetrazione. E lo può soltan-
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to facendo risplendere la luce sepolta della città, ripercorrendone palmo a palmo i conflitti latenti. Il silenzio dei poeti
e la loro fuga ― non solo a Napoli ― nascono nel porre e nel
porsi della letteratura all'esterno o al di sopra della vita vera. La letteratura soccombe laddove tenta di descrivere la
vita, per celebrarla, maledirla o prenderne commiato. Così,
si separa dai suoi drammi, anziché parteciparvi. La celebrazione del male assoluto o del bene assoluto, nella migliore
delle ipotesi, dà forma ad estetiche maledette o etiche illanguidite, incapaci di dare parola e volto ai sentimenti, alle
passioni, alle emozioni, alla giustizia, alle ingiustizie e al dolore, con tutto il carico delle loro contraddizioni e dei loro
conflitti. L'inferno dei viventi e la luce nascosta della città
costituiscono l'orizzonte umano entro cui la poesia e la letteratura debbono gettarsi a capofitto. Come ci racconta Italo
Calvino, nel punto in cui Marco Polo dà la seguente risposta
al Gran Kan, nell'ultimo dialogo tra i due:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce
n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi
ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a
molti: accetta- re l’inferno e diventarne parte fino al
punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed
esige attenzione e apprendimento continui: cercare e
sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno,
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non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio .
L'inferno napoletano e ciò che in esso non è inferno costituiscono il modo con cui Napoli appartiene al mondo, senza appartenere a niente altro, nemmeno a se stessa. Essa
appartiene all'inferno, al mondo, e alla luce planetaria da esso capovolta. Napoli è un crocevia del mondo ed è come
crocevia che resta e ridiventa Napoli. L'occhio del mondo è
puntato sempre su Napoli, allo stesso modo con cui Napoli
è una feritoia da cui i napoletani guardano e partecipano al
mondo. La sovranità dell'inferno è propriamente questo,
soprattutto al tempo della globalizzazione.
La sovranità si impregna di attesa dentro e oltre l'inferno,
là dove si è in cammino verso la luce sepolta. I luoghi di
transito da una parte all'altra della città dei diseredati, a ben
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guardare, sono i passaggi entro cui i diseredati napoletani
abbracciano i diseredati del mondo, condividendone i destini, i palpiti, le sofferenze e le speranze. Napoli ridiventa
mondo ed è del mondo e ora chiede la parola e la luce. La
città vivente e parlante vive e parla del mondo, definitivamente oltre la parola morta che l'imprigionava. Napoli e
il Sud non esistono come mondi a parte; sono mondi del
mondo: viventi parlanti del vivente umano e sociale, alle cui
verità sofferenti si mescolano.
Dire la verità significa restituire al vivente umano e sociale le sue parole, affinché in esse possa rifluire senza
op-pressioni e condizionamenti la libertà. Le verità della
vita non sono un'astrazione o princìpi etici di seconda
natura, ma lo scorrere della libertà della vita. La vita ci
racconta le sue verità, soprattutto quando non siamo
disposti ad ascol- tarle: quando le celiamo o ci sono
celate. La verità viene pervertita, fino a diventare una
celia che si burla della vita. Le menzogne che ci vengono
raccontate e che ci raccontia-mo noi stessi non sono altro
che il dileggio dentro cui viene imposto e ci imponiamo un
mesto copione che capovolge, offusca e manipola la
verità. Niente come questo copione è menzognero e
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devasta il significato e il senso di nomi e co-se . Lingue
morte ambiscono a sostituire i parlanti viventi. Ed è il
potere, soprattutto, che brama di farsi lingua parlata della
morte, poiché così, in maniera esemplare, può tentare di
spacciare come verità le sue menzogne. La verità del
potere è sempre menzogna allo stato puro. Potremmo
anche dire, come ci ha insegnato Kafka: il potere è la
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menzogna che si fa ordine universale necessario .
Dire la verità, allora, è qualcosa di più complesso del
chiamare e chiarire le cose con il loro nome; ma lasciare
cheesse trasformino i loro nomi e i loro significati, nel corpo a corpo che le contrappone a tutte le forme di potere.
È gridare la giustizia dai luoghi dell'ingiustizia: esporsi per
amore del mondo e non per amor proprio o coerenza
etica. Qui si vive nei palpiti della città parlante e Napoli
cessa di essere una sagoma reificata, senza per questo
coincidere con le rappresentazioni che di essa vengono
fornite. Quello che Napoli è veramente nessuno lo sa, se
non gli scossoni che la pongono di fronte alla sua libertà e
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alla libertà del mondo. Dire la verità significa prendere
casa dentro questi scossoni: essere, cioè, impastati dalle
parole e dalle lingue viventi di Napoli. Significa schierarsi
contro quella dissipazione della vita che viene inseminata
e disseminata con metodo dalle menzogne del potere. In
un paesaggio di rovine torna, così, a brillare la speranza
della luce.
L'alternativa di Louis-Ferdinand Céline: mentire o morire,
si mostra qui nella sua intima fragilità, perché la verità del
mondo non è la menzogna; la menzogna, più esattamente,
è la verità del potere.
Dire la verità è smentire le verità menzognere del potere.
Il poeta, primo tra tutti, porta la responsabilità di questa
verità, scavando tra le menzogne, le rovine e i detriti. La
casa della verità sta tra le rovine ed è lì che il poeta deve
abitare: all'orizzonte, tra tenebre e luce. La verità e la luce
del mondo sono snaturate e offuscate dalle menzogne del
potere, in tutte le loro forme e ben oltre le sfere della politica. Il poeta deve decidere qui da che parte stare: se dalla
parte del mondo o dalla parte del potere17.
Tra il mentire ed il morire si distende la terra di nes suno
della verità. Ognuno deve decidere di abitare questa terra,
lasciandosi da essa generare e rigenerandola in un afflato
che è sia individuale che cosmico. La terra della verità non
esiste: se non la fecondiamo, rimane un elemento sterile; se
non ci lasciamo fecondare da essa, rimaniamo sostanza
inerte e spuria. La terra della verità va inventata, strappan18
do il più della vita che è al più della vita che ancora non è .
La ribellione contro il presente è invenzione del presente. La
verità può nascere soltanto dall'abbraccio tra ribellione e
invenzione. Il ribelle, in sé, è una figura scissa e unilaterale, testimone del crepuscolo del tempo e dell'evacuazione dello spazio. Chiuso in sé ed estraneo all'invenzione
del tempo, nel migliore dei casi, è un sedativo per le coscienze. L'entusiasmo della ribellione deve sposarsi con
l'energia dell'invenzione: può essere rovesciato solo quel
tempo dell'ingiustizia e della miseria da dentro il quale viene
inventato il tempo della giustizia e della libertà. La ribellione
inventiva compie il transito che conduce dal presente morto
al presente vivente.
Questo passaggio non è guidato da certezze; piuttosto,
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riformula tutte le domande di partenza, per ricreare il campo aperto delle esplorazioni del possibile. Sempre, dall'inizio
alla fine, la forza ribellione e la forza invenzione operano
l'una nell'altra e congiuntamente sul reale e sull'immaginario. Dal loro connubio zampilla la carica vitale che spinge
ad amare il mondo; che convince a ribellarsi contro di esso,
per inventarlo in piena fedeltà ai suoi aneliti più arcani e
puri. La ribellione contro il corpo del tempo e del mondo non
si gioca nei sotterranei della rabbia e delle affabulazioni
ideologiche.
L'energia vitale che Tommaso, Landrò e i loro sconclusionati compagni di avventura cercano, sprofondando nel
corpo di Napoli, non è reperibile in un mondo rovesciato,
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ricacciato nei sotterranei del tempo . Napoli, come mondo
appartenente al mondo, non ha un corpo separato dal mondo, dove andare a reperire una specie di pietra filosofale, in
grado di sanare e riscattare la corruzione della trivialità della
materia e della città. E, difatti, Tommaso e gi altri non
troveranno alcuna verità negli abissi della città; ma, anzi,
tradiranno apertamente le utopie giovanili, in ossequio agli
interessi utilitaristici professati da 'O Tolomeo, un imprenditore camorrista, cinico e senza scrupoli. Il mondo di sotto
è infetto esattamente come il mondo di sopra. L'uno è
l'infezione dell'altro: si dannano vicendevolmente, in un eccesso crescente di oscenità e falsità.
Il ribelle di sotto deve incontrarsi col ribelle di sopra: la
ribellione, cioè, deve sprigionarsi sotto e sopra. Quando
sembra che non vi sia più alcuna battaglia da condurre, perché tutte sarebbero già state perse, non può che trionfare la
menzogna e, con essa, la morte. Andrea, il figlio infedele dei
Negromonte, smarrisce la sua purezza proprio nel mulinello
di questa menzogna che non lascia scampo. Si toglie la vita,
poiché ritiene ormai avvenuto il trionfo di Eternapoli: città
della falsità ed emblema di una ritualità scenica che, ormai,
ha contraffatto il mondo. Eppure, proprio lui, si era lasciato
andare a questo urlo liberatorio:
E come si fa a rinnegare il male?... Non lo so, ma da
qualche parte ci deve essere, il bene! ... O dobbiamo
sempre permettere a questi assassini di esistere co-
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me se tutti fossimo come loro? .
Si deve ricominciare. Da qualche parte? No, proprio qui.
Il cammino verso il bene parte da qui, perché solo da qui ci
si può inoltrare verso l'altrove. La terra inventata si distende
tra qui e l’altrove. Il viaggio che reinventa il presente inventa il futuro. Dire no ai giorni osceni di un presente non
basta più. Nel cuore del no occorre conficcare le spine del
sì: i potenti e il potere vincono veramente solo quando noi li
riteniamo imbattibili. È li che la loro potenza raggiunge lo
zenit. Lì possono permettersi il lusso di corrompere e comprare la vita, rendendo sempre più cieco lo sguardo del
mondo. Lì loro diventano onnipotenti; lì noi diventiamo uno
zero assoluto. È, questo,il naufragio assolutamente da
evitare.
3. Antropofagia metropolitana
Proviamo a tuffarci negli interni napoletani della città del
dolore: la clausura spaziale è qui tutt'uno con la desertificazione umana. Lo spazio urbano segregato è spazio umano
imprigionato. L'emarginazione è qui sia in funzione del
controllo che dell'immunizzazione: la città del potere segrega per controllare e controlla per segregare, reiterando
all'infinito l'intangibilità dei suoi meccanismi di comando. È,
così, che il potere genera e cosparge dolore e menzogna, da
cui trae la sua linfa mortuaria. Immunizza se stesso contro il
vivente e la vita, generando e spalmando morte intorno a
sé. La vita del potere non è solo vita menzognera; ancora di
più, è pianificazione della morte della vita.
Su questa linea di orizzonte non si può dimenticare il
teatro di Annibale Ruccello che è una discesa a precipizio nel
deserto dell’antropofagia metropolitana e di ciò l'autore è
perfettamente consapevole. Reperiamo qui un’assonanza
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con il teatro di Enzo Moscato . Il linguaggio e le parole tornano al centro della scena, poiché intorno alle loro
menzogne si dipanano le storie grottesche e, insieme, profondamente innervate nella vita quotidiana, tanto da non
essere più intraviste: perdute come sono allo sguardo e al
cuore.
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Ruccello, per parte sua, reinventa il linguaggio che in lui,
si fa storia mutevole e dolorosa, uscendo definitivamente
dai codici della rappresentazione. Sta qui il punto di svolta
non soltanto nei confronti della classicità del teatro eduardiano, ma anche del teatro europeo del dolore, del malessere e della malattia del vivere (Artaud, Genet, Beckett,
Pinter). Nel contempo, qui si determina una linea di frattura
con lo stesso paradigma di Raffaele Viviani: in Ruccello
(come in Santanelli, Moscato e Montesano), il teatro e, più
in generale, lo spazio letterario non sono lo specchio della
vita, ma il volto oscurato e la parola tacitata della vita: il
non visto e il non ascoltato del parlante e del dolore viventi.
Il magma ribollente della vita è ora la scena e nella scena
dissemina tutti i suoi tentacoli: tutte le convenzioni, a
partire da quelle linguistiche, saltano e vengono messe al
bando.
In Ruccello, la proliferazione tentacolare del magma è ora
il racconto che capovolge la convenzione e, finalmente, rimette a fuoco i luoghi degli orrori. Jennifer viene uccisa da
un serial killer nel quartiere entro cui sono stati segregati i
travestiti (Le cinque rose di Jennifer). Sdoppiamento e simbiosi della personalità finiscono col girare intorno ad una
sordida e onnipotente brama di possesso che inevitabilmente sfocia nell'uccisione dell'oggetto d'amore che è fatto
a pezzi per una cena cannibalesca, al fine di interiorizzare e
perpetuare all'infinito una sorta di dominio biologico sull'altro (Anna Cappelli). Né vale come salvezza il rifugio in un
tempo irrimediabilmente passato: la decaduta baronessa
borbonica Clotilde Lucanegro si finge inferma, dichiarandosi
perennemente in fin di vita, pur di celare il nulla di una esistenza circondata da menzogne, messe progressivamente a
nudo dalle trame di un falso nipote, fino all'esplosione finale
di tutte le finzioni morali e linguistiche (Ferdinando). Pazzia
e alienazione si confondono addirittura nell'amore materno,
riuscendo solo così a dare ragione del sopravvivente amore
per la vita (Mamma). Il delirio colpisce a tradimento e all'improvviso tranquille madri: Adriana, davanti al televisore,
è afferrata da un'allucinazione che la rende estranea a sé e
alla vita, fino a brandire un coltello contro i suoi figli, uccidendoli (Notturno di donna con ospiti).
Forse, la rappresentazione migliore di questa allucina-
15
zione metropolitana che viene da lontano la offre Enzo
Moscato in Lingua, carne, soffio, lavoro non a caso espli23
citamente ispirato al teatro di Antonin Artaud . Primo contrassegno identificativo dell'opera: Napoli abbrancata dalla
peste. Secondo contrassegno: la scena dell'azione è un ring,
formato da quattro leggii tenuti insieme da corde. Terzo
contrassegno: il ring è il luogo dove si aggira la “ronda degli
infetti”, uomini, ermafroditi bifronti e bambini fasciati di
bianco, bendati e imbavagliati. L'epidemia squarcia la falsità
delle rappresentazioni di superficie che di Napoli sono fornite. Gli appestati tacciono. Nondimeno, attraverso il loro
silenzio, parla il corpo straziato della città. La non-parola si
fa parola, attraverso la sofferenza muta dei corpi. I corpi,
resi fantasmi umani, ritornano di soppiatto sulla scena e
lasciano che la loro sofferenza si dica da sola. Il dolore è la
scena; la scena è il dolore. Lo straneamento visionario del
reale dice della realtà più del realismo. Diventa qui inequivocabile che il mondo cosiddetto vero è, in realtà, quello finto. È quello dell'invenzione, in realtà, il mondo vero.
Qui Moscato porta a compimento il suo tributo ad Artaud;
nel contempo, si sposta verso i territori inesplorati dell'allucinazione metropolitana. Non è la Napoli mummificata che
qui si offre allo sguardo; ma la Napoli che urla persino attraverso isilenzi.
L'angoscia che impregna il quotidiano non è più sepolta
nelle convenzioni sociali e linguistiche: salta in aria, una
volta per tutte, il discorso della e sulla napoletanità. La plebe irrompe, di nuovo, sulla scena. Ma, questa volta, non è
più riducibile ai lazzari e alle truppe sanfediste assoldate dal
cardinale Ruffo. Chiedono parola e parlano le figure dell'allucinazione metropolitana, i soggetti schizoidi della non vita
che popolano l'inferno metropolitano, nel loro essere risucchiati verso il niente della disperazione parlante. Anche
quando è muto, questo inferno parla. Sta qui l'intuizione più
grande del nuovo teatro napoletano (Ruccello, Moscato,
Santanelli). Proprio il viaggio attraverso la disperazione che
parla apre un varco verso la luce sepolta.
Ma nel sangue della la città scorre anche un tacito
25
tumulto e un sonorissimo silenzio . Al vizio della fogna
Napoli è stata condannata. Sovente contro la fogna il popolo
napoletano si è sollevato in rivolta; altre, ha indolentemente
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agevolato il suo mefitico straripare in super-ficie. L'inferno
metropolitano napoletano, però, è un'entità diversa dal vizio
della fogna: è un viluppo di sedimenti alienanti che
stratificano forme di impazzimento estraneanti. Qui lo
sradicamento
diventa
radicamento
dell'angoscia
e
dell'allucinazione. È un universo post-beckettiano quello che
si offre al nostro sguardo.
Non è il linguaggio a raccontare quest'esistenzialità allucinata. Nella sua crudezza ed essenzialità quasi metafisica,
è la vita che dal centro della sua allucinazione racconta la
sua disperazione. I personaggi prendono di nuovo la parola:
danno carne e sangue al dolore. Qui il silenzio e la parola
costituiscono insieme il vivente sofferente in rivolta. Il linguaggio diventa, così, il linguaggio della rivolta. Il teatro
riesce ad essere voce e linguaggio, perché si rifiuta definitivamente di risolversi in una rappresentazione del mondo.
Qui sono infranti tutti i tabù della città, perché il cammino
tra rovine e luce sepolta spezza e passa oltre i totem che
hanno avvelenato, falsificato e paralizzato Napoli.
Napoli mette in chiaro una certezza. Trasformandola in
una sorta di assioma: non è più possibile ricercare la salvezza, rifugiandosi nella poesia. Gli oltraggi metropolitani
non danno scampo alcuno: si può solo solcarli con i propri
passi, per aprire passaggi che si affacciano sulla luce. L'inferno metropolitano è popolato da nuove forme antropomorfe, a metà strada tra fantasmi e avanzi umani intrappolati in angosce allucinanti. Sono, questi, i gironi dove vi26
vono e soffrono gli animali metropolitani . La poesia non
può salvarli; ma può essere salvata da essi, se non teme di
rimanere affogata nelle loro demenze e alimentandosi alla
linfa delle loro follie. Il carattere insano della materia umana
e sociale è ciò che la vita degli animali metropolitani mette
in scena in maniera estrema. L'azione disgregatrice della vita emerge in primo piano senza infingimenti: tutto appare
corroso e guasto.
La disgregazione si espone, però, per essere interrogata
con animo disincantato e occhi innamorati. Le forze della
disgregazione racchiudono nel loro grembo quelle della rinascita: nella loro energia distruttiva va anche individuata
la forza invenzione che tende alla costruzione di un presente
altero a quello imperante. La pura materialità delle cose
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umane e sociali è l'ultima astuzia del potere che occorre
smascherare. Una pura materialità non può mai esistere:
l'ordine del discorso che ne sostiene il trionfo è la neolingua
dell'inganno. La vita, gli umani e il sociale sono assai di più
che una pura materialità energetica. La vita degli animali
metropolitani esprime il pianto dei sentimenti, triturati ed
essiccati e, tuttavia, riaffioranti nelle forme dell’allucinazione
e della follia. Gli animali metropolitani sono i dannati dell'aldiquà; ma la loro dannazione ci parla ancora della vita e
del dolore. Napoli è un paesaggio estremo di questa antropofagia metropolitana. Percorrendola e disegnandone la topografia, siamo ben consapevoli di transitare per un crocevia tipico dell'inferno metropolitano.
Di questa antropofagia il teatro di Manlio Santanelli offre
una vivida e sofferta mappa itinerante che ci mostra come i
soggetti si isolano e sono isolati dal mondo, per poi sca27
gliarsi lentamente e inesorabilmente l'uno contro l'altro . I
luoghi e i tempi dell'inferno metropolitano diventano bunker
della coscienza (Uscita di emergenza), fortificati dallo straneamento, dal malessere e dal progressivo straripare nella
melma di rancorose pulsioni distruttive e autodistruttive
(L'aberrazione delle stelle fisse, Regina madre, Disturbi di
memoria, Un eccesso di zelo e Tu musica assassina). Il deserto metropolitano si offre o come vuoto glaciale degliaffetti (Virginia e sua zia), o come messa in letargo della vita (La
donna del banco di pegni). Nel teatro di Santanelli, l'antropofagia metropolitana viene incapsulata in un senso di
angoscia cosmica che intreccia tutti gli orrori e misteri della
paura e della minaccia, fino a farli diventare metafisica esistenziale rovesciata che deturpa il sotto e le superfici della
vita. Il teatro diventa la macchina da presa perennemente
puntata sulle verità deliranti di questa esistenzialità alla deriva (Le tre verità di Cesira). Santanelli ci dice che la metafisica rovesciata dell'antropofagia metropolitana è un fondo senza fondo, dentro il cui viluppo inestricabile non si finisce mai di precipitare. Sotto e in superficie si liberano sempre strati di orrore e di disperazione inediti e più intensi. Ed
è proprio questa la sorpresa che più non sorprende.
L'immersione negli strati di orrore e disperazione risorgenti e insorgenti riporta, di continuo, verso il buco nero
degli inizi dell'inizio. Conduce, cioè, verso la riformulazione e
18
la rivisitazione continue dei luoghi e dei tempi delle origini:
in un certo senso, gli inizi sono qui riscritti e, insieme, riscoperti, per essere riabitati con tormento. La scrittura e la
parola compiono questo miracolo; che è anche un viaggio
terribile sul limite che costeggia vita e morte. Se le parole,
come diceva Blanchot, hanno il potere di fare scomparire
le cose, le fanno riapparire proprio come entità scompar28
se . Nelle parole scomparse riaffiorano i viventi e il vivente
scomparsi. Lo scomparso e l'assente ritrovano, così, la loro
presenza nella parola e nella scrittura. Ma parola e scrittura,
a loro volta, nascondono viventi e vivente. Esse diventano
qui presenza dell'assenza che si capovolge in assenza della
presenza: nel buco nero degli inizi, l'orrore e la disperazione ritornano a campeggiare. L'erosione delle parole e
della scrittura, in questo rovesciamento, non testimonia più
lo sfilacciamento usurante della vita che, pur continuando a
parlare in realtà è muta. Le parole si cristal lizzano: hanno il
ghiaccio in gola. Ed è esattamente questo ghiaccio la sorpresa che più non sorprende. Le parole si spengono e
spengono la luce, affinché la luce sia cercata non da altre
parole, ma nutrendosi di vita più ricca. Nel profluvio della
distruzione senza fine delle parole a mezzo delle parole, la
vita diventa il calco della menzogna veritiera. Il gioco della
vita menzognera si sublima in quello della verità menzognera: palcoscenico perfetto per gli sbranamenti quo tidiani
nell'inferno metropolitano.
29
Lo diceva Gottfried Benn: chi parla non è morto . A
patto, però, di spezzare il cappio delle parole morte, per
tuffarsi nel viaggio che conduce dalla vita alle parole vive.
Inizia qui il viaggio nella vita delle parole: qui ci tuffiamo
nella vita che dà vita alle parole e nelle parole che danno
vita alla vita. Solo così chi parla non è morto e non è parlato
dalle menzogne della vita. È il passo al di là e al di qua della
parola e della vita a segnare l'esperienza di rinnovamento
che ci fa balzare fuori dall'antropofagia metropolitana, dopo
averci fatto sprofondare dentro le sue viscere. In un certo
senso, qui si prolunga e, al tempo stesso, viene capovolta la
prospettiva di senso e la direzione di marcia che ci sono
30
state indicate da Blanchot . Dopo l'inabissamento nei luoghi dell'orrore (“passaggio al disordine”), si tenta la risalita
per portare in superficie la luce nascosta. L'al di fuori dalle
19
verità menzognere e dalle menzogne veritiere si offre qui
come possibilità. È qui che il sopra e il sotto tornano ad
essere passaggi unificanti di una dimensione che fa sobbal31
zare la luce proprio dal disastro e dalla sua scrittura .
È vero:
Scrivere non é destinato a lasciar tracce, ma a cancellare, per mezzo di esse, tutte le tracce, a scomparire nello spazio frammentario della scrittura in
modo più definitivo che nella tomba, o anche a distruggere, distruggere invisibilmente, senza il fras32
tuono della distruzione .
Ma, questa, è soltanto una delle dimensioni della scrittura
e del frammento medesimo. Ne esistono altre. Quelle che
nella cancellazione di tutte le tracce sanno intravederne e
seguirne altre; quelle che allo scomparire nello spazio del
frammento fanno seguire la fuoriuscita dalla tomba; quelle
che alla distruzione invisibile preferiscono l'aperta sommossa dell'invenzione; quelle che nel frastuono della distruzione
incuneano la passione della trasformazione. Ed è in queste
dimensioni che in un movimento ambivalente il non ancora
schizza fuori sia dall'ora e sia dall'altrove: proprio nel non
ancora, l'ora e l'altrove si ricongiungono e cominciano il loro
cammino di redenzione dall'orrore e dalla disperazione. Qui
l'attesa si fa gravida di attesa: nell'attesa, il nuovo irrompe
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dal passato e dal futuro; così come il vecchio . L'altrove
che esclude l'essere qui e ora e l'essere qui e ora che esclude l'altrove che non possono mai fluire nel non ancora: restano confinati o nei luoghi senza luogo di un immaginario
scarnificato; oppure imprigionati nella disperazione.
Nessuna terra può essere qui inventata e nessuna visione
può accostarsi al cuore e alla luce della salvezza. In questo
circuito chiuso, l'itinerranza della parola e del viaggio è
estirpata: si esercita solo come finzione o strategia mimetica. Il presente è ucciso e, con esso, liquidate sono tutte le
dimensioni attive del tempo. Solo nel presente che vive
come attesa dell'attesa, ribellione e invenzione procedono
strettamente avvinte.
Solo l'abbraccio di ribellione e invenzione strappa il non
ancora alla stretta mortale dell'antropofagia metropolitana e
20
del niente che calcifica la vita degli umani, rendendo
inabitabili le loro dimore.
L'attesa senza attesa è l'assenza totale alla stato puro. È
tempo senza tempo, fissità vuota dell'eternità. È il vuoto che
si spaccia per pieno; o meglio: il pieno del vuoto. In questa
dimensione, gli umani subiscono il potere assoluto, totalmente deprivati di diritti e poteri. La fine non ha bisogno di
sopraggiungere: è già lì, eternizzata nell'attimo. Il reciproco
e assoluto estranearsi e dilaniarsi degli umani è il linguaggio
con cui questa fine catastrofica viene ogni giorno scritta e
descritta minutamente. L'ogni giorno equivale a tutto il
tempo, poiché ha risucchiato dentro di sé l'eternità. L'antropofagia nasce e si sviluppa in questa costellazione dell'essere in cattività e della cattività del tempo. Essa non ha più
bisogno di riprodursi: sta già lì e non le rimane che duplicare e replicare all'infinito in attimi sempre eguali. Niente parla
più, se non il deserto e la violenza della parola. Per questo,
nell'inferno metropolitano esistere non è più flusso della vita, ma un modo di morire. Ed è qui che i modi di morire
capovolgono la loro semantica e il loro senso: si contrabbandano come vita. L'antropofagia riproduce, diffonde, giustifica e legittima se stessa. Contaminati non sono solo gli
spazi urbani: il veleno ha intossicato il linguaggio e l'etica.
Le discariche proliferano dove il linguaggio è, ormai, un virus e le parole menzogne violente. Anzi, le discariche delle
parole sono ben più ammorbanti di quelle che sotterrano
rifiuti tossici.
4. Uscire dai giorni capovolti
Di fronte alla putrefazione dello spazio urbano e umano di
Napoli, Anna Maria Ortese parla di «dimostrazione, in termini
clinici e giuridici, della caduta di una razza»34. Nello spazio
tumefatto di questi gironi del dolore:
Gli uomini che vi vengono incontro non possono farvi nessun male: larve di una vita in cui esistettero il vento e il sole,
di questi beni non serbano quasi ricordo. Strisciano o si
arrampicano o vacillano, ecco il loro modo di muoversi. Parlano molto poco, non sono più napoletani, né nessuna altra
35
cosa .
21
In questi antri umani, rivela la scrittrice, perfettamente
normale e conforme è la completa disabitudine alla luce: la
luce è qui una straniera36. L'itinerranza della luce segna i
passaggi dell'umanità napoletana, nel suo contraddittorio
movimento verso la libertà. Che la luce sia una straniera
comprova la presenza profonda dell'Altro nel cuore malato
della città. Che la luce sia patita come irruzione di un nomadismo altero dimostra quanto il volto e il corpo della città
siano stati deturpati e sconvolti. L'anormalità della presenza
della luce dice, infine, della sua straordinarietà. Qui la secessione dell'umanità da se stessa e le ferite dell'umanità
dilaniata scalano l'abisso delle separazioni e delle offese e si
denudano davanti allo sguardo che ha occhi per vedere e
cuore per sentire e patire. Nella risalita da questo abisso, un
napoletano ridiventa napoletano, congedandosi dalla condizione di straniero a se stesso, entro cui era stato segregato.
Non più straniera a se stessa, l'umanità napoletana recipera la luce che reca sepolta dentro di sé e che aveva sotterrato nel cuore malato della città. Può, così, riaprire il
viaggio di scoperta dell'Altro che le è prossimo e intimo. Può
qui far suo un nuovo modo di abitare e vivere la città, rendendola vivente e solcandone il dolore vivente.
Nasce qui la sfida alla contemporaneità malata della città: una sfida che parte dal suo cuore antico. Qui la contemporaneità non è un puro riflesso oggettivo del tempo, ma
una ricostruzione e una invenzione critica. È la contemporaneità del possibile e del non ancora; non già l'esistente dei
mali e degli orrori della città. Tra la contemporaneità vivente
e la contemporaneità esistente di Napoli si dipana una irriducibile differenza. Ed è questa differenza a dislocare i
campi della ricerca e dell'itinerranza, situandoli tra ombra e
luce. Non per conquistare l'eccesso di luce, ma per lasciare
sempre aperto un varco tra tenebre e luce. Il residuo della
luce della salvezza abita il residuo dell'ombra e da lì prende
avvio il suo viaggio. La follia abita sia la luce che l'ombra ed
è un bene prezioso, se sa divincolarsi dalla dannazione entro
cui luce e ombra vengono ricacciate, non appena si taglia il
nodo che le stringe e, insieme, le distingue37. La follia della
luce e la follia dell'ombra, ognuna in sé e ognuna a suo modo, mettono in scena il sempre eguale, l'immutabile spossa-
22
tezza e dannazione dell'essere dell'umanità. Ognuna in sé e
ognuna a suo modo, espone fino all'estremo la tirannia del
potere sull'Altro: per il possesso dell'Altro, tutte le infinite
forme di espressione del potere non indietreggiano nemmeno davanti alla distruzione e all'autodistruzione. Il mito di
Orfeo e di Fedra costituiscono la migliore incarnazione di
38
questa arcaica pulsione di potere della morte . Il paese
dell'ombra apre sempre le sue braccia al paese della luce; il
paese della luce non può mai dissolvere l'ombra. Possesso e
potere non sono altro che l'espressione dell'appropriazione
tirannica dell'ombra da parte della luce e, viceversa, della
luce da parte dell'ombra.
Ogni città è la patria di innumerevoli paesi che ne disegnano la geografia mobile. La geometria della luce è velata
dal mantello dell'ombra; ma sempre luce e ombra si squassano e attraversano. Luci ed ombre segnano anche le
movenze attraverso cui il potere fa penetrare i suoi tentacoli
39
nella carne viva della città. Nel paese della notte , che involontariamente smaschera le menzogne della città, la morte e l'azione funesta del potere sono ravvisabili con maggiore crudezza: la dissoluzione del genere umano è lo scenario
che non abbandona mai l'occhio e il cuore. Il tratto più inquietante è che, nella città, tutti i paesi della notte vivono in
pieno giorno: non vedono il sole, perché la sua luce è stata
loro carpita. I paesi della notte sono, dunque, i paesi dei
giorni capovolti: i giorni che girano al contrario, dentro i
quali l'ingiustizia e il dolore sono regola quotidiana. Nella
città, pullulano città buie e tetre, al di sotto dei confini della
sopravvivenza umana. Il capovolgimento dei giorni si trascina con sé l'anticipazione del dolore: il dolore della notte
viene anticipato nella luce scomparsa del giorno. È l'anticipo
del dolore della notte che rende tutti i giorni sempre eguali.
La notte rimane tale; è il giorno che si fa notte, pur rimanendo giorno. Ma, diversamente dall'esperienza che ne fa
Etty Hillesum, qui l'anticipo del dolore non vale come suo
40
lenimento futuro .
Il domani sarà altrettanto duro, poiché l'oggi lo ha interamente anticipato e, insieme, differito. Il giorno sgrana il rosario dell'eclisse della luce, perché è interamente in gravidato dalla notte. Il dolore di oggi è intero; come intero sarà
quello di domani. Non v'è salvezza o riscatto: esattamente
23
come nei Granili, nei cui miasmi si era sospinta Anna Maria
Ortese. È possibile qui «mantenere intatto un pezzetto della
propria anima», per reggere e risolvere il dolore, così come
41
spera e tenta Etty Hillesum ?
Riformulando la domanda, a stretto contatto con la
materia viva che stiamo trattando, chiediamoci: è possibile
insinuare la luce della speranza nei Granili, cavando fuori un
pezzetto di anima dalle larve viventi che li popolano? Ma
dobbiamo spostare la freccia del tempo dalla «Napoli monarchica e truffaldina» (narrata dalla Ortese) alla contemporaneità dell'antropofagia metropolitana.
Integrare il dolore, per sopravvivervi e arricchirsi: pare,
questa, la lezione che ci viene da Etty Hillesum42. Al confine
supremo del patire, il sentire estremo del dolore lo circumnavighiamo nella sua profondità. Il dolore è una esperienza
limite, a cui non può essere opposta alcuna resistenza riflessiva. Ne usciamo, se vi sprofondiamo dentro con tutta la
massa dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. Il dolore non è un ordine del discorso, ma la negazione del discorso e dei suoi linguaggi. Per questo, solo il linguaggio
poetico sa dirlo e cantarlo. Per questo, la poesia tradisce se
stessa, se si picca di esteriorizzarlo in una poetica o, peggio,
in un'estetica. Il compimento del dolore è la salvezza e nel
compimento del dolore l'anima umana ritrova la sua integrità e la sua bellezza, perché riguarda il male dalla terra
della speranza e dell'innocenza. E qui sia la speranza che
l'innocenza hanno attraversato le stazioni crucis del disincanto e dell'orrore. Il male può contaminare le coscienze e
la ragione, le parole e i linguaggi; ma niente può contro un'
anima che non rinuncia a sé e che non dispera di essere
frutto di sé, quanto più è aggredita e soffocata. Non la
ragione e la riflessione, allora, salvano; ma la poesia e la
bellezza che erompono dall'esperienza del dolore e del male.
Possiamo, certamente, dire che questo è il dono più prezioso che ci viene da Etty Hillesum.
Lo scatto interiore da cui parte il pensiero di Etty Hillesum, per disegnare la sua rotta di navigazione, è di una
semplicità elementare, eppure ardua: la consapevolezza che
il male è profondamente innervato in noi, non soltanto nell'Altro. Ed è solo la nostra anima che può coinvolgerci nella
lotta contro il male che è in noi, ricongiungendola alla lotta
24
contro il male che è seminato dall'Altro.
Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne vedo nessun'altra, che quella
di raccoglierci in noi stessi e strappare via tutto il
nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l'unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi,
43
non altrove .
E dunque: quanto dei Granili è in noi e quanto di noi è
nei Granili? Quanto dell'antropofagia metropolitana è in noi
e quanto di noi è nell'antropofagia napoletana? La parte di
noi che è nei Granili e che è ben invischiata nell'antropofagia
metropolitana è esattamente la parte che noi, prima di altri,
44
abbiamo rubato a noi stessi . Per invertire questo percorso,
non rimane che riapprendere ad ospitare la vita dentro di
sé: la propria e quella dell'Altro. Non v'è altra possibilità di
vita vera; non v'è altro modo per uscire dall'orrore e dagli
sbranamenti della vita quotidiana. Occorre uscire dai giorni
capovolti, partendo dai propri. Far uscire l'oggi e il domani
dal cielo plumbeo che li soffoca, rendendoli simili e inermi.
Ospitare la vita dentro di sé ha il significato di distinguere di nuovo l'oggi e il domani, nel bene e nel male. Se
non agganciamo la consapevolezza che l'oggi e il domani
sono un dono e che proprio nell'oggi e nel domani ci facciamo reciprocamente dono della vita, il meccanismo tetro
dell'inferno del giorno e della notte non smetterà di divorare
gli esseri umani.
Come indicatoci da Michel Foucault, i parlanti fanno uso
45
del discorso, per imporsi gli uni sugli altri . Uscire dai giorni
capovolti, allora, significa uscire dall'ordine del discorso. Per
essere ancora più precisi: il linguaggio deve cessare di avere
funzioni polemologiche e i conflitti, quindi, debbono aprirsi
per riconoscere l'Altro, anziché tendere verso la sua sottomissione. La guerra delle parole e dei linguaggi è ben più
rovinosa della guerra che si afferma attraverso le armi. Le
parole e il linguaggio, anzi, sono armi ben più pericolose
delle più sofisticate e devastanti macchine belliche. La guerra inizia dalle parole e con le parole continua e si allarga.
25
Non dimentichiamolo: la guerra è anche guerra di conquista
della parola: conquista di parole a mezzo di parole, fino alla
messa in piano della distruzione sistematica e certosina della parola altra. La conquista della parola è la premessa ineludibile dell'assassinio della parola altra: per questo, il silenzio del cimitero è l'orizzonte cupo della guerra. Di tutte le
guerre.
Uscire dall'ordine del discorso vuole, quindi, dire uscire
dal discorso della guerra che è trasmigrata dal campo di
battaglia, infiltrandosi nelle relazioni della quotidianità sociale e interumana. È questa infiltrazione che estende i fronti della guerra, riproducendoli su scala implementata. La
guerra nel quotidiano relazionale è una delle basi di produzione ed estensione della guerra che Stati e organizzazioni
armate di vario tipo combattono tra di loro: il suo retroterra
attivo e operoso. La guerra al vivente e tra gli umani viventi
prende inizio nello spazio allucinato e spettacolarizzato della vita quotidiana. Le parole e il linguaggio hanno un'anima
bellicosa: è necessario scavare nel loro tessuto violento, per
decontaminarlo ed estrarne l'anima dialogica.
Possiamo, con questo, dire che la guerra si erge come
principio regolativo della vita umana e della vita politica?
Certamente no. Il principio regolativo è, piuttosto, la menzogna, nella sua doppia faccia di verità menzognera e menzogna veritiera. La guerra è una delle forme degradate e
terminali di questo principio attivo letale. La menzogna è il
collante tra il marciume che è in noi e il marciume che è
negli altri. Uscire dai giorni capovolti, allora, significa capovolgere i princìpi attivi della menzogna. Solo così l'ordine di
conquista della guerra può essere violato. Solo così scaviamo nell'anima dialogica della parola e del linguaggio. Solo
così ci disponiamo ad ospitare la vita in noi. Solo così esperiamo la vita e l'Altro come dono.
Il sottile gioco della menzogna richiama il sottile gioco
46
della verità . Su questa lama di rasoio affilata gira la vita
del mondo. Si tratta di incroci e rimandi continui tra specchi
che talvolta abbacinano lo sguardo e altre confondono la
mente. È vero, come sostiene Nietzsche: niente in questo
nostro mondo è più inconcepibile della verità ed è questo
inconcepibile a rendere la vita umana un perpetuo inganno47. La commistione di vero e falso è inevitabile: la volon-
26
48
tà di verità si scontra con la volontà di menzogna .
Partendo da qui, l'individuo, i movimenti e i popoli si
scontrano con lo Stato, il potere e tutte le forme di costrizione sociale e mistificazione culturale. La posta in gioco
dello scontro è la libertà. Rendere concepibile l'inconcepibile
è, allora, la prova della libertà a cui si è chiamati. Serve,
quindi, balzare fuori dal tiro incrociato delle metafore entro
cui verità e menzogna sono ingabbiate e contrapposte,
sostenendo ognuna la propria verità e l'altrui falsità. Le metafore condensano dentro se stesse nuclei di vita, per occultarli oppure per rendere loro giustizia.
Metafore della verità e metafore della falsità sono, dunque, in perenne conflitto tra di loro. Nel conflitto, si forma
il
movimento
inconcepibile
della
verità,
nel
suo
approssimarsi alla concepibilità. Le metafore della verità
designano sempre l'inconcepibile della vita, in opposizione al
concepibile e concepito della falsità. Si tratta, poi, di dare
respiro e calore a questo inconcepibile. L'inconcepibile verità della metafora aspetta e richiede di essere trasformata in
un concepibile vivente. L'azione cognitiva della semantica e
della metaforologia è, allo scopo, assolutamente insufficiente. Qui si tratta di uscire dall'incantesimo del gioco di
49
specchi delle metanore . Rendere concepibile l'inconcepibile
significa partire dalle metafore della mancanza e dell'assenza: non per attribuire loro senso, ma per cortocircuitarne
il senso. Urge mostrare come sotto lo splendore gelido del
senso si nasconde spesso l'inganno. Il cortocircuito del senso afferma una verità elementare: l'inganno non è il regno
della vita, ma solo la sua degradazione estrema, diventata
regola e principio ordinativo. Per questo, non tanto la verità,
ma la vita è scandalo, laddove riesce a risalire dai flutti della
menzogna. Questo scandalo occorre concepire e rendere
possibile, facendone affiorare la luce nascosta.
È questo scandalo la misura della differenza tra l'umano e
il mondo. Se è vero, come dice Nietzsche, che il mondo non
conosce alcuna legge, l'umanità è alle leggi edificate che deve ribellarsi ed è questa rivolta che genera libertà, conoscenza e verità. Che il mondo della conoscenza non possa
assolutamente coincidere con il mondo non significa che
quest'ultimo non abbia un ordine, un equilibrio; al contrario, un fuoco cosmico immanente lo pervade. Se ci si lascia
27
cullare dal vortice del tempo e dello spazio, ben si comprende come l'origine del mondo sia l'origine da cui anche
gli umani hanno preso origine. La storia fatta e scritta non è
altro che il contraltare di questo momento infondato delle
fondazioni, la progressiva dimenticanza di questa provenienza comune dal fuoco cosmico. Essa si è, così, separata
dalla persistenza e dalle metamorfosi del mondo, traendo
ebbrezza dal furore con cui si è scagliata e si scaglia contro
il mondo. Anche per questo, le verità più elementari e le
più elementari forme di vita vera non possono essere che
scandalose. Uscire dai giorni capovolti significa proprio ritrovare la luce scandalosa della vita.
-
28
Note
1
R. La Capria, Introduzione a Napoli, Milano, Mondadori, 2008.
Ibidem, p. 8.
3
Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Milano, Adelphi, 1994.
4
Id., Un paio di occhiali, in Il mare non bagna Napoli, cit., pp. 15-34.
5
Id., Il «mare» come spaesamento, “Introduzione” a Il mare non bagna
Napoli, cit., pp. 9-11.
6
Cfr. S. Beckett, Aspettando Godot, Torino, Einaudi, 1970.
7
Cfr. A. Chiocchi, Il naufragio che si racconta. La città sulla linea dell’orizzonte, “Società e conflitto”, n. 39/40, 2009.
8
Cfr. R. La Capria, L'armonia perduta, in Napoli, cit., pp. 21-128; Id.,
Ferito a morte, Milano, Mondadori, 2001.
9
Cfr. Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli, cit., pp. 99-172.
10
Cfr. L. Incoronato, Scala a San Potito, Napoli, Pironti, 1999.
11
L. Compagnone, La giovinezza reale e l'irreale maturità, Torino, Einaudi, 1981.
12
«Nella felicità nessuno crede. / Che fare! Vaneggiando dalle risa, /
ubriachi, dalla strada contempliamo / il rovinare delle nostre case! /
Nell’amicizia e nella vita perfidi / scialacquatori di vuote parole, / che
fare! Andiamo spianando il cammino / per i nostri lontani discendenti!
/ Quando le ossa infelici marciranno / sotto un palizzata fra l’ortica, /
qualche storico di epoche future / scriverà un’opera considerevole… /
Così tormenterà quel maledetto / ragazzi che di nulla son colpevoli /
con le date di nascita e di morte / e con mucchi di brutte citazioni… /
Triste destino – vivere una vita / complessa, disagevole, pomposa, /
divenir patrimonio d’un docente, / produrre schiere di critici nuovi… /
Piuttosto seppellirsi in mezzo all’erba, / cadere in un eterno assopimento! / Tacete dunque, libri maledetti! / Io non vi ho scritti, non vi ho
scritti mai!» [A. Blok, Agli amici, in Poesie (Introduzione di Angelo
Maria Ripellino), Milano, Guanda, 1975, p. 203].
13
I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 170.
14
Cfr. G. Montesano, Di questa verità menzognera, Milano, Feltrinelli,
2003. Il titolo del romanzo si ispira apertamente ad alcuni versi di
2
29
Aleksandr Blok, uno degli autori a lui più cari. I versi sono tratti dalla
poesia Sì. Detta così l'ispirazione: «Sì. Detta così l'ispirazione: / la mia
libera fantasia s'appiglia / sempre a quei luoghi dov'è umiliazione, /
dov'è sporcizia e tenebra e indigenza Laggiù, laggiù, con più umiltà, più
in basso, ― / Di là si scorge meglio un altro mondo… / Hai mai visto i
bambini a Parigi / O sul ponte i poveri d’inverno? / Dischiudi gli occhi,
schiudili al più presto / Sul fittissimo orrore della vita, / prima che un
grande nubifragio spazzi / tutto quello che c’è nella tua patria, - / lascia
maturare il giusto sdegno, / prepara al lavoro le braccia… / e se non
puoi, fà sì che in te si accumuli / e divampi il fastidio e la mestizia… /
Ma di questo vivere mendace / cancella l’untuoso rossetto / e, come
talpa timida, nasconditi / sotto terra alla luce ed impietrisci, / tutta la
vita odiando con ferocia / e tenendo in dispregio questo mondo, / e,
anche se tu non veda l’avvenire, / dicendo no alle cose del presente!»
(A. Blok, Poesie, cit., p. 373 ).
15
Cfr. F. Kafka, Il processo, Torino, Einaudi, 2005.
16
L. Montesano cita espressamente Céline: «la verità di questo mondo
è la morte, bisogna scegliere: mentire o morire» (Nel corpo di Napoli,
Milano, Mondadori, 1999, p. 82). Lo scrittore francese condensa la sua
visione cupa della vita nell'opera Viaggio al termine della notte, Milano, TEA, 2002. Seguendo questo orizzonte di ricerca, Montesano osserva: «Tutto quello che vorrei come scrittore è provocare quel cortocircuito tra riso e pianto in cui compare, per un attimo, la faccia della realtà come è: ma solo l’immaginazione può compiere il miracolo di
farci vedere come è per davvero la realtà: inventandola. È uno strano
fenomeno: ma Mahler, Philip K. Dick, Leopardi e Rimbaud ci riescono.
E non è questa l’arte? Accrescere i battiti del polso come una febbre,
dilatare le prospettive, far intravedere un mondo dietro il mondo: e
l’amore delle donne, i piccoli dèi del quotidiano, i gesti che curano l’
angoscia: è questo che deve comparire nei grandi romanzi e in quella
che chiamiamo ancora “arte”. Qualcosa che dia più vita, non meno
vita: che svegli, e faccia sussultare, e ridere di gioia, e non riuscire a
stare fermi, e dimenticarsi di sé e ancora e ancora. Non doveva essere
questo, l’arte? Non era questo che ci avevano promesso le letture dei
diciott’anni? Ha scritto Stendhal “La bellezza è la promessa della
30
felicità”. È sempre vero. Ma per quanto ancora?»
17
Cfr. G. Montesano, Nel corpo di Napoli, Milano, Mondadori, 2010.
18
Idem, Di questa vita menzognera, Milano, Feltrinelli, 2003.
19
Il riferimento è qui ad Annibale Ruccello che è stato un affermato
drammaturgo napoletano di Castellammare di Stabia, morto in un incidente automobilistico sull'autostrada Roma-Napoli. Di e su Ruccello
si veda: a) AA.VV, Ricordando Annibale Ruccello: 1956-1986, Castellammare di Stabia (Na), Eidos, 2000; b) P. Sabbatino (a cura di),
Annibale Ruccello e il teatro nel secondo Novecento, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 2009; c) Teatro, Napoli, Guida Editore, 1993; d)
Ferdinando (Prefazione di Isa Danieli), Napoli, Guida Editore, 1998; e)
Scritti inediti, Roma, Gremese Editore, 2004; f) Teatro, Milano, Ubulibri, 2007. Infine, Per un primo impatto con la cd. “nuova drammaturgia napoletana” di quei tempi, si rinvia a: a) Luciana Libero (a cura
di), Dopo Eduardo. Nuova drammaturgia a Napoli, Napoli, Guida
Edito re, 1988; b ) F. C. Greco (a cura di), Il segno della voce. Attori e
teatro a Napoli negli anni Ottanta, Napoli, Electa Napoli, 1989; d) S. De
Matteis, Lo specchio della vita. Napoli: antropologia della città del
teatro, Bologna, Il Mulino, 1991; e) E. Fiore, Il rito, l'esilio e la peste.
Percorsi del nuovo teatro napoletano: Manlio Santanelli, Annibale
Ruccello, Enzo Moscato, Milano, Ubulibri, 2002. Occorre osservare
che il testo di Fiore ha sollevato qualche perplessità, riguardo alle
cornici interpretative entro cui sono stati incasellati gli autori.
20
Annibale Ruccello, Una drammaturgia sui corpi, “Sipario”, n. 466,
marzo- aprile, 1987.
21
Si veda: a) L'angelico bestiario, Milano, Ubulibri, 1991; b) Compleanno, Palermo, Edizioni della Battaglia, 1994; b) Rasoi, Napoli, Teatri Uniti, 1994; c) Trianon, Napoli, Guida Editore, 1999; c) Quadrilogia
di Sant'Arcangelo, Milano, Ubulibri, 1999; d) Sull'ordine e il disordine
dell'ex macello pubblico, Napoli, Cuen, 2001; e) Occhi gettati e altri
racconti, Milano, Ubulibri, 2003; f) Orfani veleni, Milano, Ubulibri,
2007.
22
«La fogna è il vizio che la città ha nel sangue. / Discendere nella
fogna / è come entrare nella tomba, / ed ogni specie di orride leggende / coprono di orrore / il gigantesco immondezzaio. / Formidabile
31
sentina che porta le tracce / delle Rivoluzioni del Globo, / così come
delle Rivoluzioni degli Uomini, / ed ove si trovano le vestigia / di tutti i
cataclismi: / dalla conchiglia del Diluvio Universale, / al brandello del
lenzuolo funebre di Marat» (E. Moscato, Rasoi, VI, cit.).
23
Quando abbassi gli occhi dal crepuscolo, / non riconosci più / questi
Canili e Porcili e Bestiari, / con il doppio ossimoro in croce sugli
Ingressi: / Tacito Tumulto, Viva Morte, Assordante, / Sonorissimo
Silenzio» (E. Moscato, Rasoi, II, cit.). Si veda anche Maria Rosaria
Luongo, Animale metropolitano, Napoli, Edizioni dell'Istituto Italiano di
Cultura di Napoli, 1993.
24
Di Santanelli cfr.: Uscita di emergenza, Firenze, La casa di Usher,
1983; Regina madre, Firenze,Passigli, 1985; L'aberrazione delle stelle
fisse, Milano, Ricordi, 1987; Ritratti di donne senza cornice (a cura di A.
Scandurra), Valverde (Ct), Il Girasole Edizioni, 1990; Disturbi di
memoria, "Ridotto", n. 1, gennaio 1991; Un eccesso di zelo, "Sipario" n.
539, novembre 1993; Tu musica assassina, "Scena aperta", n. 3,
ottobre 2002; Teatro (Introduzione e cura di Teresa Megale), Roma,
Bulzoni, 2005; Racconti mancini, Napoli, Guida Editore, 2007.
25
Cfr. M. Blanchot, L'infinito intrattenimento, Torino, Einaudi, 1977.
26
È proprio Santanelli a ricordarlo.
27
Di G. Benn rimangono fondamentali: a) Poesie statiche, Torino,
Einaudi, 1981; b) Lo smalto sul nulla, Milano, Adelphi, 1992.
28
Cfr. M. Blanchot, Il passo al di là, Genova, Marietti, 1989.
29
Come è sin troppo agevole arguire, il riferimento critico è M.
Blanchot, La scrittura del disastro, Milano, SE, 1990.
30
M. Blanchot, Il passo al di là, cit., p. 42.
31
Come è ben chiaro, muoviamo in un prospettiva diversa da quella
definita da M. Blanchot, L'attesa, l'oblio, Milano, Guanda, 1978.
32
Anna Maria Ortese, La città involontaria, in Il mare non bagna
Napoli, cit., p. 75. Qui la scrittrice descrive le condizioni di vita subumana del 3° e 4° Granili di Napoli, situati tra il porto e i primi sobborghi della costa orientale. È Antonia Lo Savio, la donna che la scrittrice
va a incontrare ai Granili, a fornirne la migliore descrizione: «... questa
non è una casa, signora, vedete, questo è un luogo di afflitti. Dove
passate, i muri si lamentano» (p. 80).
32
33
Ibidem.
Ibidem, p. 77.
35
Si diverge qui dalla posizione che, sul tema, è stata elaborata da M.
Blanchot, La follia del giorno. La letteratura e il diritto alla morte, Reggio
Emilia, Elitropia, 1982.
36
Per una lettura del mito di Orfeo in questa prospettiva di analisi, cfr.
3 7
M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967; Id., L'infinito
intrattenimento, cit. Per il mito di Fedra, si rinvia egualmente a M.
Blanchot, Passi falsi, Milano, Garzanti, 1976.
38
Questa, la plastica definizione che dei Granili fornisce la Ortese (op.
cit., p. 86).
39
Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 238. Sul
problema del male e del dolore in Etty Hillesum, cfr. Wanda Tommasi, “Il
marciume che è negli altri c'è anche in noi”. Il problema del male in Etty
Hillesum, in F. Rella (a cura di), Il male. Scritture sul male e sul dolore, Bologna, Pendagron, 2001. La Tommasi ha dedicato un'opera di più ampio
respiro alla vita e al pensiero di Etty Hillesum: Etty Hillesum. L'intelligenza
del cuore, Padova, Edizioni Messaggero, 2002.
40
Etty Hillesum, op. cit, p. 161.
41
Cfr. Wanda Tommasi, “Il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi”,
cit., pp., 135 ss.
42
Etty Hillesum, op. cit., pp. 99-100. La Hillesum scrive al tempo del
secondo conflitto mondiale e il male con cui si confronta è il na- zismo;
morì ad Auschwitz, il 30 novembre 1943.
43
«E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli» (Etty
Hillesum, op. cit., p. 126).
44
Foucault, L'ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1977.
45
Cfr. F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in
Opere 1870-1881, Roma, Newton Compton, 1993, pp. 93-101.
46
Sin troppo evidenti sono le assonanze e le dissonanze tra il discorso
che si sta qui svolgendo e le posizioni di Nietzsche (Su verità e menzogna
in senso extramorale) e di H. Blumenberg (Paradigmi per una metaforologia, Bologna, Il Mulino, 1969; Id., Naufragio con spettatore. Paradigma di
una metafora dell'esistenza, Bologna, Il Mulino, 1985). Si diverge, del
pari, dalla posizione che, nella fine ricostruzione critico-ermeneutica del
34
33
saggio giovanile di Nietzsche, viene proposta da Foucault in La verità e le
forme giuridiche, Napoli, La città del sole, 2007.
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