STEFANO TABACCHI
LO STATO DELLA CHIESA
IL MULINO
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del patrimonio boschivo
INDICE
I.
La costruzione di uno Stato territoriale
(1540-1600)
p. 9
1. Papato e Stato della Chiesa, p. 9. 2. Tra
Medioevo ed età moderna p. 11. 3. Dalla crisi
cinquecentesca alla rifondazione, p. 15. 4. Papato e Stato della Chiesa da Paolo IV a Gregorio XIII, p. 20. 5. I territori dello Stato nella
seconda metà del Cinquecento, p. 28. 6. Il sovrano e la macchina di governo, p. 38. 7. Amministrazione e fiscalità, p. 43. 8. Verso la fine
del secolo, da Sisto V a Clemente VIII, p. 49.
II.
Lo Stato della Chiesa e il papato barocco
59
1. Sovrani e nipoti. Uno scambio dispendioso
per la Chiesa e per lo Stato, p. 60. 2. La Curia: una complessa macchina di governo, p. 65.
3. Il mecenatismo pontificio e gli splendori
dell’età barocca, p. 68. 4. L’amministrazione e
le realtà provinciali: un accentramento impossibile?, p. 77. 5. Elementi di integrazione fra
centro e periferia, p. 81. 6. Urbano VIII: apogeo e crisi, p. 87. 7. Aspirazioni irraggiungibili:
le ombre del Seicento, p. 93. 8. Tentativi di riforma a fine Seicento. p. 99.
III. Crisi, riforme e rivoluzione (1700-1815)
111
1. La prima metà del Settecento tra guerre e riforme, p. 114. 2. Roma e la realtà dello Stato,
p. 124. 3. Le riforme da Benedetto XIV a Pio VI,
p. 131. 4. Nella tempesta rivoluzionaria, p. 145.
5
IV. La modernizzazione impossibile (1815-1870)
159
1. La Restaurazione pontificia, p. 160. 2. La risacralizzazione mancata, p. 162 3. Il tramonto
del potere temporale, p. 166.
Indice dei nomi
6
173
parte prima
LA COSTRUZIONE DI UNO STATO TERRITORIALE
(1540-1600)
1. Papato e Stato della Chiesa
Primo a nascere, ultimo a morire e unico a risorgere,
sia pure in una forma diversa, con i Patti lateranensi del
1929, lo Stato della Chiesa è stato, nelle sue varie forme,
un elemento costante e costitutivo della storia d’Europa.
Per l’Italia è stato anche, nell’età moderna e alle soglie
dell’età contemporanea, un oggetto di conflitto ideologico,
all’interno di un più vasto scontro politico e ideale sul rapporto tra il papato e l’Italia stessa.
Nella presente trattazione, esso viene considerato in
una fase specifica della sua storia, quella che va dagli inizi
dell’età moderna alla fine del dominio temporale dei papi.
Ciò non solo perché questa è forse l’unica fase in cui si può
parlare di uno Stato della Chiesa strettamente inteso, e cioè
non semplicemente di un dominium del vescovo di Roma,
ma di una realtà territorialmente ben definita nei suoi confini e inserita nel sistema degli Stati italiani ed europei stabilizzatosi dalla metà del Cinquecento. Al di là di questo
aspetto definitorio, del resto controverso, il periodo considerato riveste particolare importanza per la storia e l’identità italiana perché fu proprio nei secoli centrali dell’età
moderna che l’appartenenza allo Stato della Chiesa plasmò
una vasta area dell’Italia centro-settentrionale sul piano politico, ma ancor più sul piano culturale, paesaggistico e artistico. Ancora oggi il panorama urbano del Lazio, dell’Umbria, delle Marche e della Romagna reca forte l’impronta di
quella esperienza, le cui conseguenze politiche sono invece
state largamente superate nella costruzione del nuovo Stato
unitario e nelle trasformazioni novecentesche, con l’eccezione forse di un robusto municipalismo che rimane uno
dei tratti distintivi di queste regioni.
9
Le origini dello Stato della Chiesa sono state oggetto
di un lungo dibattito tra chi ne riporta le origini alla crisi
della presenza bizantina in Italia e all’epoca carolingia e
chi, forse più fondatamente, insiste sul discrimine rappresentato dalla riforma gregoriana e dal conflitto con l’Impero. Ciò che in ogni caso risulta evidente, e ancora valido
per l’età moderna, è il nesso tra l’idea della libertas Ecclesiae e la creazione di una realtà politica radicata nel Centro dell’Italia e dotata delle prerogative tipiche dei coevi
poteri civili, che peraltro rimasero essi stessi a lungo partecipi di una spiccata dimensione religiosa.
Si è pure a lungo dibattuto sulla natura dello Stato
della Chiesa, per il periodo medievale e ancor più per l’età
moderna, specialmente nella storiografia italiana, che è rimasta a lungo legata a una valutazione politico-ideologica
del ruolo del papato nella storia d’Italia. Lo Stato della
Chiesa era principalmente l’appendice territoriale di un
potere che, almeno sin dal XIII secolo, si rappresentava
come universale o una robusta realtà politica in cui il potere papale si faceva temporale, a tratti assimilandosi agli
altri principati della penisola? Domande che non possono
essere qui affrontate in maniera esauriente, ma che vanno
tenute presente perché costituiscono il quadro di riferimento in cui si colloca un’analisi, in fondo storicamente
più interessante e meno ideologicamente orientata, della
concreta realtà dello Stato della Chiesa.
Il tema del potere dei papi in quanto, insieme, principi territoriali e vertice della Chiesa occidentale ha una
sua lunga declinazione storica. La peculiarità dell’esistenza
di un principato ecclesiastico va per certi versi ridimensionata, poiché si tratta di una forma politica ampiamente
diffusa nell’Europa medievale e moderna. Ciò che contraddistingue lo Stato della Chiesa non è semplicemente il
fatto di essere un principato ecclesiastico, ma il dato che il
suo sovrano, il vescovo di Roma, articolava la sua azione a
livello mondiale.
Alla fine del Seicento, uno dei massimi giuristi pontifici, il cardinale Giovambattista De Luca, cercò di sistematizzare il ruolo del pontefice, distinguendo quattro figure che corrispondevano ad ordinamenti (teoricamente)
separati: capo della Chiesa e vicario di Cristo; patriarca
10
d’Occidente; vescovo di Roma; principe temporale. De
Luca tentava di individuare dei validi criteri di distinzione
fra le diverse «persone» e i rispettivi ambiti di azione,
concludendo che il papa operava come sovrano temporale con uguali poteri degli altri principi, a meno che non
esprimesse la deliberata volontà di coinvolgere nelle sue
disposizioni anche i poteri spirituali. È tuttavia dubbio
che questa analisi, lucida e giuridicamente fondata, ma
relativamente tarda, riesca a spiegare appieno, per il Cinquecento e il primo Seicento, il concreto svolgersi delle
questioni politico-religiose che coinvolgevano il pontefice
e il suo Stato. Occorre d’altra parte guardarsi dal rischio
di proiettare sull’età moderna l’immagine «monarchica»
del pontefice affermatasi dopo il Concilio Vaticano I. Nei
secoli oggetto di questo libro, le pretese universalistiche
del papato si dovettero infatti confrontare con forti Chiese
nazionali, in larga parte governate dai sovrani, e poterono
compiutamente affermarsi solo nella penisola italiana e in
poche altre realtà1.
Per il Medioevo una distinzione che aiuta a chiarire
le vicende dello Stato della Chiesa è quella tra «giurisdizione» e «dominio». In altri termini, almeno fino agli
ultimi secoli del Medioevo i pontefici esercitavano un
potere, che derivava essenzialmente dalla loro funzione
politico-religiosa e dalla eredità dell’Italia non longobarda,
su una vasta area dell’Italia centrale, ma il loro dominio
era assai più ristretto e si riduceva a un gruppo di città,
che essi effettivamente governavano, tra cui, non senza
contrasti, Roma. Anche per l’età moderna è possibile riscontrare, in forma diversa, una certa distinzione tra la
sfera dei poteri rivendicati dal papato in temporalibus in
quanto titolare dell’alto dominio su aree dell’Italia e il dominio diretto dello Stato della Chiesa.
2. Tra Medioevo ed età moderna
Come si è detto, le interpretazioni sulle origini dello
Stato della Chiesa hanno oscillato fra la valorizzazione
della fase «carolingia» (VIII-IX secolo) e l’affermazione
che di un vero e proprio Stato della Chiesa non si possa
11
parlare prima del pontificato di Innocenzo III (XIII secolo), quando furono superate le pretese dell’Impero di
esercitare una qualche forma di potere sui territori pontifici. La plenitudo potestatis affermata dai canonisti duecenteschi contribuì a fondare il dominio papale, pur non
identificandosi con esso2. C’è anzi un evidente scarto fra
l’intransigente affermazione della sovranità della Chiesa affermata sin dal XIII secolo e la reale volontà o capacità di
affermarla in maniera non semplicemente teorica3.
Certo è che solo dall’inizio del XIII secolo il papato
iniziò a dare sostanza alle sue antiche rivendicazioni sul
Lazio, sul Ducato di Spoleto e sulla Marca d’Ancona, ma
il processo si interruppe durante la «cattività avignonese»
(1309-1377) e riprese su basi nuove, ma ancora precarie,
con l’azione di riconquista promossa dal cardinale Egidio
Albornoz e culminata nella promulgazione delle Constitutiones Aegidianae (1357).
Rispetto a questo quadro il Quattrocento segnò una cesura. Come scrisse Guicciardini fu solo dopo la fine della
cattività avignonese che i papi «cominciarono a parere più
tosto principi secolari che pontefici». Per tutto il periodo
precedente c’è uno scarto evidente tra l’ambiziosa concettualizzazione politico-teologica del potere papale (plenitudo
potestatis) e la sua trasposizione in un sistema burocratico
e di governo. Il nuovo ruolo assunto dal governo temporale dei pontefici è legato all’esigenza di tutelare il mandato
petrino, il compito di cioè di governare e tenere unita la
Chiesa nella fedeltà a un solo pastore, dopo il trauma della
«cattività avignonese» e il frazionamento delle istituzioni ecclesiastiche all’interno delle nuove «monarchie nazionali».
Nel Quattrocento, i pontefici risposero a questa esigenza teologico-politica cercando di trasformare la parcellizzata e sconnessa realtà delle «terre della Chiesa» in un
principato rinascimentale, non senza il rischio di perseguire tentazioni dinastiche analoghe a quelle delle grandi
famiglie signorili italiane come gli Sforza o i Medici, che
d’altra parte riuscirono a mantenere per parecchi anni il
papato nelle mani di un loro esponente. Partendo da una
base politico-militare assai più fragile di quella di altri Stati
italiani, i pontefici attuarono tra Quattro e Cinquecento
una politica di espansione nell’Italia centro-settentrionale,
12
inserendosi, con vario successo, nelle contese tra gli Stati
maggiori (Milano, Venezia, Firenze e Napoli) e impadronendosi di numerose città e signorie dell’Italia centrale.
Dopo il sacco di Roma del 1527, questo modello aggressivo entrò in crisi. Il papato abbandonò le tentazioni
di egemonia sulla penisola italiana e puntò piuttosto a
consolidare lo Stato della Chiesa, ormai sostanzialmente
fissato nei suoi confini, cercando di costruire, nel contesto
della Controriforma, un nuovo e più stabile tipo di sovranità, allo stesso tempo spirituale e temporale.
Questa nuova fase della storia dello Stato della Chiesa
del Quattro-Cinquecento è stata fortemente dibattuta per
alcuni decenni. A confrontarsi erano le posizioni di Paolo
Prodi, che aveva enfatizzato il ruolo del papato nel processo europeo di State building in virtù delle possibilità
offerte dalla commistione tra potere temporale e potere
spirituale, e una più tradizionale storiografia che aveva insistito sui limiti del reale controllo esercitato dai pontefici
sui loro territori. Le due prospettive guardavano in realtà
a elementi diversi e non realmente confrontabili. Quella
di Prodi, che si è rivelata assai più produttiva, non puntava infatti tanto a una ricostruzione della realtà politicoamministrativa dello Stato della Chiesa quanto piuttosto
a un’analisi del rapporto tra potere civile e potere ecclesiastico nella Controriforma e delle sue conseguenze sulla
storia d’Europa. Vero è che nel contesto contemporaneo
di crisi della statualità, si tende a vedere queste tematiche
in una prospettiva più sfumata e, conseguentemente, a valutare in maniera più articolata la commistione di poteri
civili e religiosi che caratterizzava la prima età moderna4.
Ciò che rimane di questa discussione per certi versi ormai datata è soprattutto la necessità di considerare questo
dominio territoriale nelle sue specificità, che da un lato lo
riconnettono alla vicenda di altri Stati italiani ed europei,
dall’altro gli conferiscono caratteristiche peculiari. Era del
resto un’intuizione già sviluppata da Machiavelli che, in un
passo del Principe, aveva accostato allo «stato del Soldano»
il principato papale «il quale non si può chiamare né principato ereditario né principato nuovo»5. Cruciale appariva,
in particolare, il problema della discontinuità tra pontificati,
dato il carattere elettivo della monarchia pontificia.
13
La duplice natura del sovrano e la non ereditarietà costituiscono per tutta l’età moderna i principali elementi distintivi dello Stato della Chiesa. Accanto a questi elementi
va considerata la realtà geopoliticamente composita dei territori pontifici, che accorpavano aree segnate da una forte
esperienza comunale e poi signorile e aree dominate da un
tardo feudalesimo politicamente e militarmente robusto.
Come ha sottolineato Sandro Carocci, nel caso dello Stato
della Chiesa la disomogeneità che caratterizzava tutti gli
Stati italiani del Quattrocento era accentuata dalla discontinuità politica tra pontificati diversi e dalla vitalità di particolarismi cittadini e signorili che avevano proliferato nel
periodo del papato avignonese. All’inizio del Quattrocento
il dominio diretto dei pontefici si estendeva solo alle immediate adiacenze di Roma, ad alcune aree del Viterbese e
dell’Umbria, alla costa marchigiana e al suo immediato retroterra. Tutto il centro-nord dello Stato, tra il Po e le Marche centrali era tenuto stabilmente in signoria da potenti
casate nobiliari, mentre l’intero Lazio e vaste zone appenniniche erano dominate da grandi complessi feudali6.
La distinzione fra città e terre direttamente soggette al
papato (immediate subiectae) e aree infeudate o rette da signori locali (mediate subiectae) è un elemento di lungo periodo dello Stato della Chiesa. Come vedremo, nel corso
dell’età moderna il rapporto proporzionale fra i centri
direttamente soggetti alla Santa Sede e le aree che non lo
erano si invertì, con una colossale operazione di recupero
che si concluse nella sua sostanza durante il Cinquecento.
Durante tutto il Quattrocento il papato ottenne importanti successi nel recupero di porzioni di territorio, utilizzando prevalentemente lo strumento del «vicariato apostolico», con cui l’amministrazione di intere città o aree dello
Stato era ceduta a stirpi signorili che riconoscevano l’alto
dominio della Santa Sede.
I pontefici riuscirono inoltre ad incamerare le entrate
fiscali di numerosi centri urbani e ad affermare la presenza
di una rete di ufficiali variamente dipendenti dai cardinali
legati o dai governatori posti a capo delle ampie circoscrizioni che inquadravano il territorio dello Stato.
Nel corso del Quattrocento, insomma, si realizzò un
forte irrobustimento della presenza pontificia nei territori,
14
ma è improprio scorgere in questi processi le origini di
processi di costruzione di apparati e strutture che avvennero nel Cinque-Seicento. Si trattò piuttosto di una politica
del «caso per caso» che scontava anche il fatto che lo Stato
della Chiesa rimaneva, sotto molti aspetti, una camera
di compensazione tra i più coesi Stati confinanti (Napoli,
Milano, Firenze e Venezia), un potere indebolito dalla discontinuità tra i pontificati e da una base territoriale ancora
fragile7. Lo stesso potere pontificio tendeva a presentarsi
come una istanza di pacificazione rispetto ai conflitti locali,
alle signorie territoriali, alle influenze di altri Stati.
Questo quadro, consolidatosi nella seconda metà del
Quattrocento, si modificò profondamente, tra la fine del
secolo e la metà del Cinquecento, in conseguenza delle
«guerre d’Italia»8. Mentre il complesso sistema di pesi e
contrappesi definitosi tra gli Stati italiani si disarticolava
sotto il peso degli interventi delle potenze europee, il papato si mosse, con spregiudicatezza, tra una affannosa
ricerca di una più forte proiezione temporale e la rivendicazione di un ruolo arbitrale spesso smentito nei fatti
dalle commistioni con questa o quella potenza. Diventava
in questo contesto centrale anche il ruolo delle famiglie
dei pontefici, che furono spesso titolari di più o meno effimeri principati e interlocutori privilegiati della Francia e
della Spagna.
3. Dalla crisi cinquecentesca alla rifondazione
La prima metà del Cinquecento fu caratterizzata da
una prima, importante trasformazione del papato e dello
Stato della Chiesa9. I primi decenni del secolo costituirono
un momento di straordinaria esaltazione della monarchia
pontificia, che trovò il suo momento culminante negli anni
di Giulio II (1503-1513)10.
Nel corso di un pontificato denso di conflitti e svolte,
Giulio II portò alle estreme conseguenze l’opzione temporalista che già si era affermata con i suoi predecessori,
accentuandone gli aspetti politico-militari. Il risultato fu
l’affermazione in Italia centrale di un robusto potentato
che aspirava a una funzione di leadership degli altri Stati
15
della penisola. I successi ottenuti, sia pure a caro prezzo,
portarono a un trionfalismo evidente nelle grandi realizzazioni artistiche dell’epoca, dalla progettata tomba del
pontefice alle Sale di Raffaello, che però dovette scontrarsi
con la realtà di una rapida perdita di peso della monarchia
pontificia di fronte al grande conflitto tra Francia e Spagna
e alle crescenti critiche di ampie aree del cristianesimo per
il malcostume che sembrava imperare alla Corte romana.
Significativo è del resto che, con l’italianizzazione del
papato che caratterizzò il Quattro-Cinquecento, si formassero vere e proprie dinastie di pontefici (Della Rovere,
Medici, Borgia ecc.), con un corto circuito tra le ragioni
dinastiche familiari e quelle della continuità dello Stato.
Tra fine Quattrocento e metà Cinquecento, il ruolo politico delle famiglie e dei parenti laici dei pontefici crebbe
in maniera esponenziale. Divenne determinante nel governo dello Stato della Chiesa, ma progressivamente si rivelò controproducente, a causa del divergere tra le finalità
delle famiglie pontificie e le esigenze di continuità e tenuta dello Stato11. Di qui le critiche, ad esempio, di Guicciardini, che nei suoi Ricordi accusava i pontefici di aver
chiuso la strada ai capaci e virtuosi a causa di un «desiderio ambizioso e pestifero» di esaltare le loro famiglie.
D’altra parte, se si sposta il punto di vista dal trionfalismo della Corte pontificia alla concreta realtà geopolitica dello Stato della Chiesa, appare evidente che i domini pontifici continuavano ad essere caratterizzati da una
magmatica evoluzione e da una forte instabilità. Tale instabilità non derivava solo dal rapido succedersi di eventi internazionali (le «guerre d’Italia»), ma anche dai limiti della
costruzione di uno Stato che, per dirla con Machiavelli,
era ancora un «principato nuovo».
I pontefici avevano perseguito una politica aggressiva
ed espansionista, che puntava al recupero o alla conquista
di signorie e centri di potere dell’Emilia e delle Marche,
ma a geometria variabile. Grazie al sostegno della Francia, Alessandro VI aveva potuto eliminare diverse signorie
della Romagna (Manfredi di Imola, Riario-Sforza di Forlì
ecc.), che avevano costituito per circa un cinquantennio un
reticolo di poteri variamente legati al Ducato sforzesco di
Milano. Con la fine del pontificato di Alessandro VI e la
16
caduta della signoria dei Borgia, l’area era però ripiombata
nella frammentazione e nell’instabilità, tanto più che la Repubblica di Venezia si era da tempo installata a Ravenna.
Con Giulio II la politica pontificia fece un salto di qualità e gli eserciti papali dilagarono in Romagna, nel Bolognese e perfino nel Modenese, mettendo a rischio il dominio estense. Il papato, inoltre, si affermò nel «congresso di
Mantova» del 1512 come centro di un coordinamento dei
principali Stati italiani indipendenti che cercavano di mantenere una sempre più precaria autonomia della penisola rispetto alle mire espansionistiche di Francia e Spagna. Già
nel successivo pontificato di Leone X (1513-1521) apparve
però evidente un arretramento di posizioni del papato, aggravato dall’inizio della Riforma protestante. Le grandi speranze che aveva suscitato, e non solo a Roma, l’elezione del
papa Medici svanirono quando divenne evidente che il papato non era in condizione di promuovere un «grande accordo» tra Francia e Spagna né di tutelare la penisola italiana. Chiuso nei suoi interessi dinastici, Leone X finì per
perseguire una politica espansionistica in Emilia, anche al
fine di creare «Stati cuscinetto» per rampolli di casa Medici, e per appoggiare in via strumentale le ambizioni ora di
questo ora di quel sovrano europeo, col non celato obiettivo di ampliare la sfera d’influenza pontificio-fiorentina12.
I nodi vennero al pettine poco dopo, con il pontificato dell’altro papa Medici, Clemente VII (1523-1534).
Nel nuovo contesto apertosi con la Riforma luterana e
l’elezione imperiale di Carlo V, il papato fallì miseramente
nell’azione di difesa della «libertà d’Italia», di cui il principato temporale era un elemento cardine, e si giunse al
trauma del sacco di Roma del 1527.
Al di là dei suoi aspetti simbolici, il sacco del 1527 segnò una cesura nella storia del papato e dello Stato della
Chiesa. Ciò non solo per gli aspetti apocalittici di un
evento che sembrava dare ragione alla sempre più violenta
critica dei luterani e dei riformatori, ma anche perché apparve evidente il collasso del tentativo di affermare la centralità del papato come potenza temporale. Mentre Roma
precipitava da oltre 50.000 a poco più di 30.000 abitanti,
sembrò possibile una ricomposizione del quadro politico
italiano sotto la stretta tutela dell’imperatore Carlo V, che
17
metteva in discussione l’esistenza stessa dello Stato della
Chiesa per come si era venuto definendo tra Quattro e
Cinquecento. Non furono infatti pochi, in quel giro di
anni, gli uomini di cultura e i potentati italiani che invitarono l’imperatore a ristabilire il proprio dominio sui territori «usurpati» dai pontefici e a farsi interprete del rinnovamento della cristianità13.
Se ciò non avvenne, fu per i complessi equilibri della
politica internazionale e perché il papato e il suo dominio
temporale rimanevano un elemento fondante del sistema
politico italiano, in virtù della capacità di legare con vincoli politici, religiosi, culturali e finanziari i ceti dirigenti
dei singoli Stati e di mantenere stabile una vasta area
dell’Italia centro-settentrionale. Allo stesso tempo, però, i
limiti evidenti della politica temporale dei pontefici e della
costruzione statale che la sorreggeva indussero i papi ad
un cambio di rotta, nel nuovo contesto apertosi con la
frattura religiosa.
Protagonista di questa nuova stagione fu Paolo III
(1534-1549), il cui pontificato costituisce, sotto molti punti
di vista, un momento di svolta14.
Come vedremo, a papa Farnese si devono alcune fondamentali innovazioni nell’organizzazione dello Stato della
Chiesa. Ma il suo pontificato fu anche quello in cui lo
Stato della Chiesa consolidò i propri confini territoriali e il
proprio ruolo geopolitico in quella che si avviava a diventare l’Italia «spagnola». Tale consolidamento e l’avvio della
costruzione di un sistema fiscale e amministrativo nuovo
avvennero nel giro di pochi anni, soprattutto dopo il 1540,
e in significativa coincidenza con due grandi eventi che segnarono un passaggio di fase della storia europea: la creazione della congregazione del Santo Uffizio (1542) e l’avvio della prima sessione del Concilio di Trento (1545).
Paolo III era per molti aspetti uomo di un’altra epoca,
legato alla Roma borgiana: la sua carriera doveva molto
al legame amoroso tra la sorella, Giulia Farnese, e il papa
Alessandro VI e la ricostruzione dell’immagine di Roma e
del papato che intraprese era tributaria dei modelli umanistici della sua giovinezza. Nepotista privo di scrupoli, riuscì ad ottenere dall’imperatore Carlo V la creazione, per la
propria famiglia, del Ducato di Parma e Piacenza (1545).
18
Un Ducato «spuntato in un sol giorno come un fungo»,
come affermò rabbiosamente il cardinal Gonzaga, esponente di una famiglia assai più antica e titolata, e per di
più creato con la rinuncia della Santa Sede a due città che
aveva faticosamente conquistato durante le «guerre d’Italia», sottraendole al Ducato di Milano (1513). Il grande
progetto politico di Paolo III fu quello di fondare una
dinastia farnesiana e di assicurare uno Stato alla propria
famiglia. Ragioni familiari e ragioni di Stato si confondevano, perché da un lato si cercava di costruire un efficace
cuscinetto a protezione dello Stato della Chiesa, dall’altro
si modificava il quadro politico italiano inserendovi una
dinastia nuova e non molto titolata.
Ma, dopo gli anni contrastati di Clemente VII, papa
Farnese riuscì ad interpretare lo spirito dei tempi e a ricucire il trauma del sacco, anche attraverso la risacrasalizzazione di Roma, oggetto di numerosi interventi architettonici e urbanistici di taglio «imperiale» più che religioso.
L’avvio della sistemazione del Campidoglio, affidata a
Michelangelo, consentì di recuperare quest’area, relativamente marginale rispetto al tessuto urbanistico allora esistente ma densa di significato storico e politico, «conquistandola» al potere pontificio e ridimensionando il ruolo
del municipio15. Ma il rilancio della dimensione temporale
non si limitò alla capitale e coinvolse tutte le province, con
il rafforzamento delle strutture di governo, la costruzione
di rocche e una robusta presenza militare16. Non a caso,
nel 1546 il bibliotecario papale, Agostino Steuco, un colto
umanista molto attivo nella polemica antiprotestante, scese
in campo a difesa della donazione di Costantino e della
necessità del dominio temporale.
Il pontificato farnesiano, insomma, chiude un’epoca
ricca di crisi e contrasti, in cui la stessa integrità dello
Stato della Chiesa sembrò talora essere messa in discussione. Dopo un cinquantennio di guerre, lo Stato della
Chiesa aveva però raggiunto una sua stabilità territoriale;
soprattutto, era stato in larga parte compiuto il recupero
dei territori concessi in feudo o vicariato. Non fu solo una
conseguenza della stabilizzazione del quadro politico italiano sotto l’ombra degli Asburgo di Spagna. Fu anche il
risultato di un nuovo «patto» tra il papato e i ceti dirigenti
19
locali che portò all’accantonamento delle signorie, autoritarie, instabili e poco efficienti, in favore di una nuova
libertas e iustitia garantita dalla soggezione diretta alla
Santa Sede. Dopo l’irreversibile crisi degli antichi regimi
comunali e signorili, le oligarchie locali accettarono forme
di soggezione assai più stringenti di quelle sperimentate in
passato, compiendo una consapevole scelta in favore della
stabilità e della pace.
Nel periodo della Controriforma, insomma, lo Stato
della Chiesa assunse una configurazione stabile, dal punto
di vista politico e territoriale, definendosi come un’entità
geograficamente ben determinata, imperniata su una capitale che con la Controriforma stava riacquistando la sua
centralità religiosa, politica e culturale, e su un articolato
sistema di poteri locali in forte evoluzione. La necessità
di governare questa complessa realtà nel nuovo quadro
italiano portò, durante tutta la seconda metà del Cinquecento, alla costruzione di una struttura amministrativa, fiscale e di governo in larga parte nuova, che costituì l’ossatura dello Stato della Chiesa durante tutta l’età moderna.
4. Papato e Stato della Chiesa da Paolo IV a Gregorio XIII
Pur nella diversità delle personalità dei pontefici, il
periodo che va dall’elezione di Paolo IV (1555) alla fine
del pontificato di Gregorio XIII (1585) può essere considerato nel suo complesso una fase di progressivo consolidamento delle strutture dello Stato della Chiesa, lungo le
linee che avevano già caratterizzato il papato farnesiano.
Anche in questo caso, le dinamiche interne allo Stato
erano in stretta relazione con un contesto politico-religioso
più ampio, caratterizzato da almeno due grandi fenomeni.
In primo luogo l’affermazione della frattura tra cattolici e protestanti, sancita dalla chiusura, nel 1563, del Concilio di Trento e dalla stabilizzazione della scelta riformata
di una serie di Stati: i principati tedeschi passati alla Riforma, l’Inghilterra, i Paesi del Nord Europa e le Province
Unite olandesi, ribellatesi nel 1566 alla Spagna.
Nel periodo della Controriforma, il papato propose un
nuovo universalismo, che determinò un diverso rapporto
20