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Abitare la lettera. Kafka, Felice e l’essenza dell’inter-scrittura
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 00:43 In Cultura,Letture | No
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diEnrico Palma
Le lettere kafkiane, in generale, costituiscono una
testimonianza certamente fondamentale per ricostruire il
carattere, la vita, le passioni e i desideri dell’uomo e del
genio letterario tra i maggiori del XX secolo. E tuttavia
non sono soltanto questo. Anzi, si può affermare che non
possono esserlo. Uno dei tratti che emergono con
maggiore evidenza dalla considerazione anche
superficiale delle lettere è il modo in cui Kafka curava le
sue relazioni. Nelle lettere agli amici si legge quanto
contassero per lui il reciproco affido e la mutua
rassicurazione esistenziale che le persone care
costituiscono nella vita di un uomo:
«Solo in quanto tendono tutte le forze e si aiutano amorevolmente
a vicenda, gli uomini si mantengono a una passabile altezza sopra un abisso infernale al quale tendono.
Tra di loro sono legati da funi, ed è già un guaio quando le funi si allentano intorno a uno e lui scende più
in basso degli altri nel vuoto, ed è atroce quando le funi gli si spezzano intorno ed egli precipita. Per
questo bisogna aggrapparsi agli altri» [1].
Ma probabilmente è nelle lettere agli amori più importanti di Kafka che dall’idea della
relazione, dell’esistenzialità come modo d’essere della vita, traspare l’effettiva densità
filosofica e concettuale della scrittura epistolare kafkiana. Relazioni, specie quelle con Felice
e Milena, strutturate unicamente attraverso la scrittura.
La lettera come modo della scrittura, e quindi come modo esistenziale, diventa l’essenza
stessa della relazione, diviene anzi la condizione di possibilità della Beziehung, dell’esserecon di due persone legate da un affetto reciproco, da un interesse comune, laddove il
benessere dell’uno non può sussistere senza quello dell’altro. In questo senso, il poderoso
sforzo kafkiano di erigere una relazione amorosa attraverso il solo potere della scrittura può
essere inteso come un’immane chimera, sia della ragione che del sentimento. Il trovarsi
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nello stesso spaziotempo in cui effettivamente l’amore si compie nella condivisione
incarnata, in cui ogni declinazione del sé, specie corporeo, si realizza, è come se
nell’esperienza amorosa kafkiana venisse totalmente perduto.
Potrebbe trattarsi a tutti gli effetti di una perversione esistenziale, un capovolgimento delle
condizioni sufficienti a che una relazione viva e perduri, cambiare appunto il verso della
relazione astraendola nella parola, nello spirituale, in cui a rendere la vita più sopportabile è
l’idea del conforto che la notizia della parola dell’altro reca con sé, il fatto che la quotidianità
possa scorrere meglio con una compagnia diversa dalla nostra, sorretti nell’accordo che
l’esistenza individuale può avere con quella di qualcun altro.
Alla luce di ciò, infatti, si evince la profonda fiducia che Kafka nutriva per la scrittura. Forse
molto di più che con la sua opera letteraria, con le lettere alle sue amanti capiamo quanto
Kafka fosse uno scrittore, quanta importanza rivestisse per lui l’elaborazione scritta dei propri
pensieri, in questo caso da inoltrare all’altro nel battito cordiale di invio e risposta della lettera
che parte e di quella che arriva, di speranza e di attesa, di lettura e di affido. Leggendo le
lettere – di numero assai elevato, anche più di una al giorno – si ha quasi l’impressione che
Kafka intenzionalmente volesse rimanere in questo stato di lontananza, in modo da
consentire la scrittura, la comunicazione esistenziale preparata e permessa attraverso la
parola.
Dalla lettura delle missive si apprende anche la normalità della relazione: Kafka scrive a
Felice delle sue angosce, dei suoi malanni, delle sue paure, ma anche delle sue gioie,
soprattutto di quelle derivate dal contatto continuo che può avere con lei. Ma le lettere
kafkiane celano al proprio interno un finissimo nucleo teoretico, che tracima dalle pagine con
alcune smaglianti considerazioni, potremmo dire meta-letterarie, sulla necessità e sulla
generalità di sé in quanto scrittore e soprattutto della scrittura in generale. Come già
supposto, molto di più che nella letteratura in senso stretto la scrittura si mostra come la
dimora dell’umano, il suo surplus, una sopraelevazione di senso che esternalizzandosi
consente alla vita di condensarsi e di ritornare a sé finalmente significata.
Tutto l’epistolario è l’esempio massimo della messa in pratica di tale movimento:
un’esistenza che acquista il suo senso scrivendosi all’altro e allo stesso tempo serbando
traccia ragionata di sé. Lo spessore filosofico di Kafka sta allora nell’aver espresso tale idea
nell’atto stesso di questo esercizio, motivo per cui bisogna considerare la sua opera e la sua
indole come autenticamente teoretiche.
Per una ricostruzione puntuale e precisa della relazione epistolare in questione, rimane
ancora insuperato il saggio di Canetti del 1968, che utilizza le lettere come sottofondo
ermeneutico per comprendere anche l’opera letteraria, per quanto arbitrario e discutibile
possa ovviamente apparire questo gesto interpretativo. Ciò nonostante, Canetti coglie una
delle principali direttrici di fondo del carteggio, che è quella che in questo testo cercheremo
di discutere e di approfondire, ancora una volta la scrittura: «Giacché la lotta che Kafka
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conduce per conquistarsi la forza che gli deriva dalle lettere quotidiane di Felice ha un
preciso significato, la loro non è una futile corrispondenza fine a se stessa, e non è neanche
una semplice gratificazione: è qualcosa che serve alla sua scrittura» [2]. Scopo della
presente riflessione è tentare allora di riconoscere e articolare questa identità.
È molto ironico che una delle prime cose che Kafka mette in chiaro con Felice sia proprio la
modalità del rapporto che avrebbero avuto, la sua tecnica, la scansione temporale con cui
avrebbe inviato le lettere: «Devo soltanto confessare una cosa, per quanto suoni male e oltre
a ciò male si adatti a quanto ho scritto: io non sono puntuale nello scriver lettere» [3]. Forse
per prudenza e cautela in questa fase iniziale così delicata, mente, dicendo di non cadere in
preoccupazioni o ansie spropositate se la lettera che egli aspetta tarda per ragioni ignote ad
arrivare. In realtà, come il prosieguo del carteggio (nonché dell’intero epistolario) sta a
testimoniare, accade tutto il contrario: la scansione delle lettere sarà fittissima, la puntualità
delle sue missive mai messa in discussione, la costanza della sua scrittura inscalfibile. Il
tempo autentico, il tempo non meglio dedicato, è infatti quello della scrittura delle lettere a
Felice. Non è quindi per circostanza che Kafka scrive: «Due settimane fa alle dieci del
mattino ho ricevuto la Sua prima lettera e pochi minuti dopo ero seduto e Le scrissi quattro
pagine di un formato enorme. Non mi rammarico, perché non avrei potuto passare quel
tempo con più grande piacere» (ivi: 5).
Espressa in tal modo, questa premessa suona come una
docile carineria rivolta a Felice, ma alla luce della quantità
esorbitante di lettere non può che trattarsi, benché proprio
all’inizio del carteggio e dunque della loro relazione, come
una constatazione di fatto. Il tempo è pieno, la Vollendung
esistenziale è raggiunta solo se avviene la scrittura di una
lettera, soltanto a condizione che la vita si trasformi in
parola, in quell’esercizio così apparentemente lontano
dalla vita che è la solitudine, l’appartarsi, il silenzioso
riserbo in cui ci si chiude, ci si rinserra, per dare tempo al
tempo interiore che altrimenti si agiterebbe senza forma,
per assegnargli destinatario e compimento.
La scrittura di sé può essere diaristica (cosa che anche
Kafka fece, anche in questo caso, con esiti non comuni),
Felice Bauer e Franz Kafka
letteraria (quindi creativa, genesi di strutture irreali,
persino illogiche e paradossali, in cui la vita può
comunque crearsi una speranza d’interpretazione) ed epistolare, rivolta all’alterità nella
continua apertura determinata dal sentimento amoroso. Il tempo, e dunque anche la vita,
acquistano un senso, quella tacita e inspiegabile sensazione di pace soddisfacente, quando
si scrive, ovvero quando la temporalità dell’esistenza si imposta nel trascorrersi
sincronicamente insieme all’altro, inserita in un flusso che iniziando dal sé si ferma, filtrata e
trasformata nella parola scritta, viene inviata, e poi, avvenuta la ricezione, fa ritorno.
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Anche da un punto di vista strutturale, la dinamica che Kafka impiega attraverso la sua
prassi quotidiana di appropriazione esistenziale definisce lo schema della relazione, la
significazione tanto a sé che all’altro tramite la parola: aprirsi e scambiare segni, nella forma
così particolare della scrittura epistolare, che in questo caso si può provare a definire come
inter-scrittura.
In una lettera appena successiva, Kafka rivela a Felice quella che poi in altri momenti
avrebbe definito la prima, e più importante, delle sue due nature, quella in cui si riconosceva
di più e che per lui aveva la preponderanza, la natura di scrittore. L’essenza, la vocazione,
persino la sopravvivenza di Kafka era la scrittura, letteraria o no che fosse. Tutta la sua
esistenza, come racconta a Felice, è strutturata in considerazione della scrittura. «La mia
vita consiste ed è consistita, in fondo, da sempre, in tentativi di scrivere, per lo più mal
riusciti. Ma se non scrivevo mi trovavo già a terra, degno di essere spazzato fuori» (ivi: 25). I
dubbi sull’effettiva qualità della sua scrittura tormentano Kafka, nonostante la sua produzione
fu sempre segnata da una certa fatalità, l’incapacità cioè di sottrarsi al suo compito. E però,
a prescindere da quelli che in seguito saranno riconosciute come vette letterarie di
inarrivabile genialità, l’elemento che va sottolineato è la naturale tendenza di Kafka a essere
un vero scrittore, l’ammissione della propria natura. L’inclinazione di Kafka verso la scrittura
è destinale al suo carattere, ne rivela la più profonda identità, lo pone nell’apertura di sé.
L’uomo Kafka, questa esistenza appropriata che ritrova pienamente se stessa solo quando
scrive frammenti di diario, racconti o romanzi, è integralmente Schreibung.
Eppure, in modo sorprendente, in ripetute
occasioni Kafka ritiene di scrivere malamente,
che i suoi tentativi siano monchi e maldestri,
privi di un’effettiva riuscita. La sua ultima
velleità, chiedendo a Brod di distruggere ogni
cosa che lo riguardasse, può essere, oltre a
una reale attestazione di nichilismo, la
conferma di questa sfiducia di fondo non tanto
nella scrittura come configurazione del
continuare a vivere ma nei suoi esiti. La
scrittura gli ha consentito di scampare alla
tentazione della morte e al dominio del non sulla vita, ma che questa sia stata una buona
scrittura in senso artistico Kafka dubita. Il busillis sta proprio in ciò. Tuttavia, il Kafka che si
rivolge a Felice non può fare a meno di individuare la propria giustificazione a vivere nella
scrittura, senza la quale stramazzerebbe al suolo e semplicemente niente di lui sarebbe; il
Kafka che scrive a Felice, come unitario costrutto esistenziale, è una vita allargata, espansa,
che in quanto tale la scrittura deve includere e affrontare. E ciò è espresso con la massima
chiarezza:
«Ora ho allargato la mia vita aggiungendovi il pensiero di Lei e non c’è forse quarto d’ora del tempo in cui
sono desto che non abbia pensato a Lei, e numerosi quarti d’ora nei quali non faccio altro. Ma persino
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questo è collegato col mio scrivere. Soltanto il moto ondoso dello scrivere mi determina e in un periodo di
fiacchezza nello scrivere non avrei certamente trovato il coraggio di rivolgermi a Lei» (ivi: 26).
Ancora Canetti precisa questo punto:
«Lui, così chiuso a parole, doveva potersi espandere davanti a lei per iscritto; doveva potersi lamentare di
tutto senza alcun ritegno; mai doveva sentirsi costretto a tacere qualcosa che avrebbe potuto disturbare
l’attività letteraria; doveva poter riferire nei particolari il significato, i progressi e le esitazioni di tale attività»
[4].
La vita di Kafka, per meglio dire quindi la sua scrittura – poiché il basamento della vita stessa
per Kafka, come si evince da queste lettere, è scrivere –, accoglie in sé l’evento che Felice
rappresenta, e per poterlo gestire e condurre alla pienezza egli deve curarsene attraverso la
scrittura, la quale viene in questa circostanza figurata come un «moto ondoso», qualcosa di
cangiante ma regolare, scandito dall’inoltro e dall’attesa di una risposta, nel pensiero che
annoda e tesse continuamente una fune che si tende o si rilassa a seconda dello stato
emozionale di entrambi. Che Felice conti moltissimo per Kafka è attestato dal fatto che la
giovane donna rientra a tutti gli effetti nella sua scrittura, talché se scrive di lei è perché essa
è ormai parte integrante della sua esistenza. Felice esiste ed è interessante, nel senso del
suo trovarsi nello Zwischen del rapporto tra Kafka e il mondo e tra Kafka e la sua stessa vita,
nella misura in cui egli ne fa appunto scrittura.
Felice, e l’amore che prova per lei, è inglobata nella scrittura in quanto modalità di vita di
Kafka; Felice, in poche parole, è diventata un fenomeno di scrittura all’interno della
Schreibungsform, della forma di vita scritturale che Kafka è. E questo non ha a che fare
semplicemente con la biografia di Kafka, letteralmente con la scrittura della sua vita in
questo caso privata, sentimentale, ma con il concetto stesso di una vita autentica che
diviene tale soltanto se dedicata alla scrittura, se compiuta nella forma della scrittura.
L’esperienza epistolare di Franz con Felice è una delle applicazioni, delle diramazioni più
chiare e più nette di questo ideale profondamente filosofico del compimento esistenziale
tramite la parola scritta.
L’uomo Kafka non può vivere altra relazione all’infuori di questa modalità, e quando questa
condizione non sussiste più, cessa di conseguenza anche la relazione, cosa che va molto
oltre l’ombra paterna, la presunta interdizione inconscia al matrimonio o i dubbi sulla propria
condotta di essere umano (e nella fattispecie di fidanzato). Anche Felice doveva diventare
scrittura, ma non la persona Felice, perché questo non era possibile, bensì la loro relazione,
il loro essere insieme. È quello che Kafka descrive nella conclusione di questa lettera, che
dice moltissimo del concetto a cui aveva votato la sua relazione così come in generale la sua
intera esistenza.
«Esiste in verità un incantesimo mediante il quale due persone, senza vedersi, senza parlarsi, possono
apprendere la maggior parte del loro reciproco passato, direi quasi di botto, senza doversi comunicare
ogni cosa, ma è quasi un mezzo di alta magia (senza che ne abbia l’aspetto) al quale ci si accosta,
trovandovi sempre il proprio tornaconto, ma con ancora maggiore certezza il proprio castigo. Perciò non lo
dico, fino a che Lei non lo indovini. È brevissimo come tutte le formule magiche» (ivi: 29).
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Quale può mai essere questo incantesimo? Una dichiarazione d’amore improvvisa, un bacio
mandato dalla distanza, un indovinello senza nessuna soluzione precisa? Potrebbe essere
ancora una volta la scrittura, la fiducia che l’uno ripone nell’altra nell’atto di raccontarsi a
vicenda nella sincerità del sentimento, nella semplice volontà di iniziare e mantenere un
legame, in questo caso epistolare, che come dirà Kafka nelle lettere successive è frutto tanto
di salvezza quanto di condanna, una lunga tortura a cui ci si presta rispetto alla quale la
scrittura stessa è un doloroso surrogato, anche confrontata con la naturalità della relazione
che riposa nella presenza. Kafka è ben consapevole di questo limite, lo confessa a Felice
come farà anche in futuro con Milena, ma nonostante ciò vi si sacrifica, immola la vita per la
scrittura, per la traccia, per la sublimazione dell’esistenza benché dell’esistenza stessa
qualcosa tralasci.
Kafka coincide con la scrittura, è la rilevanza della sua vita, e il fatto che abbia una
consistenza dipende dalla riuscita o meno della sua attività di scrittore: «Nell’unico luogo
dove posso stare non dovrei forse impegnarmi con tutto ciò che possiedo? Se non lo facessi
sarei davvero un pazzo inguaribile! Può darsi che il mio scrivere non sia niente, ma allora è
certissimo e fuori di dubbio che io non sono assolutamente nulla» (ivi: 37-38). Questa
affermazione di Kafka va intesa almeno in maniera duplice: dal punto di vista del valore della
scrittura letteraria, della virtù che Kafka è in grado di produrre attraverso la sua arte, se abbia
insomma rilevanza estetica; e dal punto di vista, come si diceva, dell’uomo Kafka,
dell’essente Kafka, il quale non può essere altrimenti se non scrivendo. La scrittura è un
luogo, una dimora, una Heimat, la sola dimensione, afferma Kafka, in cui si può degnamente
essere, in cui, anzi, si può semplicemente essere.
La scrittura è il luogo della consistenza ontologica, dell’esser-così. Per Kafka non c’è scelta,
o si scrive o non si è. E le lettere mostrano ancora una volta come questa possibilità,
finanche estrema se vogliamo, sia l’unica per cui anche la vita quotidiana, anche amorosa,
possa acquistare un senso, possa dirsi realmente tale. All’infuori della scrittura c’è
dispersione, dentro la scrittura si vive, anche in quella realistica e non paradossale così
tipica di ciò che ormai costituisce una categoria estetica, il kafkiano. L’essere, per Kafka, è la
scrittura. Oltre, il nulla. Il nichilismo di Kafka non è nella letteratura, esso comincia quando
della letteratura smette di fidarsi, in corrispondenza della preghiera finale a Brod di ridurre
tutto in cenere.
La distanza consente la scrittura, libera anzi la parola in quanto parlare, scatenando dal
silenzio. In una lettera in cui Kafka dice di aver letto almeno 20 volte la missiva precedente di
Felice, che lo aveva parecchio sconcertato, nel tentativo di comprenderla e di replicare con
giustezza, afferma limpidamente il carattere di apertura che offre la scrittura epistolare, la
Öffnung esistenziale di cui discutiamo. La facoltà di parlare, ciò che per così dire scioglie la
lingua e permette l’espressione di sé all’altro, altrimenti la comunicazione in generale dello
spirituale individuale, è tale solo nella scrittura, nella distanza epistolare. «Ma non vedo
alcun aiuto e mi sento impotente. Se fossimo insieme, starei zitto, ma siccome siamo lontani,
devo scrivere, altrimenti morirei dalla tristezza» (ivi: 43).
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La scrittura diventa un palliativo alla tristezza e al
depotenziamento esistenziale, alla privazione di energia vitale,
che il pensiero grafico rivolto all’altro in qualche modo, con
quel carattere magico di cui parlava Kafka, rilancia, fa reggere
alla vita. Se si fosse insieme, presenti in contatto, non si
parlerebbe, la parola di fatto non sarebbe; essa fa la sua
comparsa nella distanza, e questo perché, laddove il contatto
può consentire di raggiungere l’altro, si eclissa, e nella
lontananza si fa freccia e fune, sforzo di arpionare l’altro e
slancio che conduce esternamente il sé. La parola è
transitività assoluta, forma e contenuto del flusso, medium
vitale, trasmissione tanto del dolore quanto della gioia, per
sorreggere la prima e prolungare la seconda. La scrittura, in
questo senso, facendosi nel silenzio lo elude per redimere
l’essere dal nulla incombente dell’assenza di parola.
Silenzio che, nella forma dell’assenza di lettere anche per pochi giorni, per Kafka è
insostenibile, tanto è potente la catena che lo lega a Felice e alle sue notizie, come lo è in
linea di principio il bisogno dell’innamorato di ricevere anche il benché minimo segno da colui
o colei che egli ama. «Cara, che cosa ti ho fatto che mi torturi così? Oggi di nuovo niente
lettere, né con la prima distribuzione, né con la seconda. Come mi fai soffrire! Mentre una
tua parola scritta mi potrebbe fare felice!» (ivi: 71).
Quello che accade è allora la soddisfazione di un’esigenza di contatto, il messaggio che
diviene importante non per via del suo contenuto ma della sua forma, essendo infatti lo
strumento con il quale si può sperare nel completamento della finitudine intrinseca
all’esistenza. Completamento che, nel caso di Franz e Felice, può compiersi solo con il
favore delle poste, che altro non è se non la metafora del contatto stesso reso possibile dalla
scrittura e dai mezzi di comunicazione, trasmissione, trasporto che ne consentono
l’esistenza: «Carissima, se la posta non ci avvicina prestissimo non ci troveremo mai
insieme» (ivi: 101). L’essenza dell’essere insieme, del con-essere istantaneo, è il momento
in cui ciascuno legge la parola dell’altro, in cui la parola del primo tocca il pensiero e il cuore
del suo amante, un incontro pieno e autentico che solo la scrittura epistolare può consentire,
al punto che, nel modo in cui l’impostazione kafkiana suggerisce, è ragionevole ipotizzare
che non può esistere piena consistenza individuale e relazionale che non sia scrittura. Come
già affermato, è nella parola che l’esistenza si fa scrittura.
Ciò nondimeno, come succederà nel futuro carteggio con Milena, Kafka non mancherà di
mostrare dei cedimenti rispetto a questa salda convinzione della trasformazione e
trasmissione del sé all’altro nella scrittura epistolare. In un modo in cui non ce lo si
aspetterebbe, Kafka sembra siglare il fallimento dell’esperimento che fin lì stava conducendo
con Felice. Scrivere lettere non sarebbe altro che qualcosa di fittizio, perverso, persino falso
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e aleatorio, con il quale invece che sgravare l’esistenza dal suo fardello e favorire il
sentimento amoroso la si appesantisce e la si ostacola ancora di più. Lo si legge in una
lettera non terminata del 18 novembre 1912:
«Ascolta, dunque, soltanto angoscia e apprensione mi fanno fare questi preamboli. L’impegno di scrivere
due volte al giorno, come ho cominciato a fare in questi ultimi giorni, è una dolce follia, nient’altro. (Ora c’è
stata la prima distribuzione, nessuna lettera tua, per amor del cielo, sei forse ancora ammalata?) Così non
si può continuare. Con queste lettere frequenti ci flagelliamo a vicenda. Esse non creano una presenza,
bensì un ibrido tra presenza e lontananza, insopportabile» (ivi: 106).
La scrittura epistolare arreca più danni di quelli che dovrebbe risolvere, questo sembra
essere il punto di Kafka. Avevano optato entrambi per una scrittura ancora più fitta, ma
l’esito è dei più negativi. Possiamo supporre che Kafka si sentisse inghiottito in un vortice, il
cui carattere distruttivo è dato dal ritmo divenuto estenuante di lettere da inviare e da
aspettare, che accusasse insomma il lato logorante di una relazione strutturata nella
distanza in cui a emergere come fattore snervante è proprio l’assenza fisica dell’altro, la
mancanza della sua presenza e del trovarsi insieme. Può trattarsi allora, in queste
condizioni, di un’esistenza realmente autentica, se per essere tale bisogna parlare di un
sacrificio di una sua componente ineliminabile, come il godersi vicendevole in presenza l’uno
con l’altra, in favore della scrittura? Kafka è categorico in questo, parla in definitiva di una
condanna all’astrazione dalla carnalità, dalla presenza, che va a tutto detrimento della vita
stessa.
Questo ibrido, questo ossimoro, di presenza distante che nella lontananza invia e capta l’eco
dell’altro, per Kafka è insopportabile. La scrittura sembra fallire. Kafka non desidera
desistere dallo scrivere lettere, perché «il desiderio di scrivere e leggere ce l’ho ogni
momento che Dio mi concede» (ivi: 107), ma dallo scriverle con la frequenza a cui entrambi
erano giunti, una scansione per cui la vera vita si compiva nella redazione stessa delle
lettere, del pensiero costante di cosa scrivere e di cosa rispondere. Non si conosce la replica
di Felice ma l’intensità della scrittura tra i due non venne meno. Scrivere, se possibile
scrivere bene, rimane per Kafka l’unica possibilità per essere felici, o per meglio dire per
«non sentire il fresco pungolo dell’infelicità» (ivi: 111).
Scrivere nella forma della relazione epistolare è quindi una sistematica dell’apertura in cui
viene permesso all’altro di abitare la propria dimora, «significa aprirsi fino all’eccesso» (ivi:
233), ma allo stesso tempo rinchiudersi nella più profonda solitudine e dall’isolamento
emergere con parole, con la lettera da inoltrare all’altro. Qualche anno più tardi, Proust
avrebbe detto che i libri sono i figli del silenzio, che nocivi alla letteratura sono la
conversazione e la mondanità, le quali uccidono l’ispirazione e viziano il tempo. Kafka è dello
stesso avviso, benché a suo parere la scrittura sia anche una lotta ingaggiata contro i propri
demoni, per vincerli nella luce della parola. La fiducia che Kafka riponeva nella lingua e nella
scrittura era pressoché assoluta: se c’è un difetto, esso non è né nel linguaggio né nei suoi
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presunti limiti; se qualcosa non giunge a chiarezza, questa è colpa della propria facoltà
espressiva, il difetto giace nella mancata conoscenza di sé, nello «spettacolo stupendo e
terribile» (ivi: 297) che corrisponde allo scenario dell’intimità più profonda.
Eppure, nonostante le rimostranze espresse da Kafka, la necessità della scrittura rimane
immutata. La lagnanza di Kafka stavolta è volta a privare Felice della sua presenza, deleteria
per il benessere della giovane, nonostante l’amore che prova per lui.
«Dovrei dispensarti dallo scrivere lettere? Cara, sarebbe poco. Liberarti invece di me, questo sarebbe un
buon risultato. Ma vedi, io non posso rinunciare alle lettere. Sono tutto pervaso dal bisogno di aver notizie
tue. Soltanto le lettere mi danno la capacità delle manifestazioni di vita, anche delle più secondarie. Per
poter muovere bene il mignolo mi occorre una tua lettera» (ivi: 347).
A tal punto la presenza epistolare di Felice è fondamentale
per Kafka. Con una metafora assai toccante, niente del suo
corpo potrebbe muoversi, nulla potrebbe richiamarlo alla vita
se non intervenisse una parola di Felice, quel messaggero di
pace che è la lettera, il fremito di aprirla, il piacere di leggerla
e la soddisfazione lenitiva di chi sa che quelle parole sono
dirette a lui e a lui soltanto. Queste poche righe kafkiane
esprimono tutta la potenza salvifica contenuta non nell’altro,
perché l’altro da solo non è in grado di salvare, ma della
relazione, il legame io-tu che nella dialettica delle missive e
dello scambio reciproco consegnano il sé alla patria ritrovata
che egli è divenuto. Il sé si scopre come tale soltanto nella
relazione con l’altro, nell’identità rivelata dalla differenza. La
lettera quindi è notizia, ma è soprattutto evento, che è anche
avvento dell’altro nella singolarità circoscritta del sé,
un’affluenza comune, un’endiadi. Questa univocità raddoppiata è quindi la scrittura
epistolare, in cui l’altro si rivela e si rende altro da sé.
Scrivendo si mostra la vera natura di Kafka, il suo «vero lato buono». Tant’è che afferma:
«Se c’è qualcosa di buono in me, è proprio questo. Se non lo avessi, se non avessi nella testa questo
mondo che vuol essere liberato, non avrei mai concepito il pensiero di volere te. Ciò che dici ora della mia
smania di scrivere non conta gran che. Se dovessimo stare insieme capiresti subito che non amando,
volutamente o contro voglia, questa mia capacità non avresti nulla a cui tenerti stretta. Saresti, Felice,
terribilmente sola, non ti accorgeresti di quanto ti amo, e difficilmente potrei mostrarti quanto ti amo, anche
se allora ti apparterrei più che mai, oggi come sempre» (ivi: 411-412).
Ancora una volta, Kafka ribadisce come sarebbe impossibile per lui amare senza avvalersi
delle lettere che scrive, senza riconoscersi come scrittore che crea e libera situazioni, mondi,
dimensioni. Kafka si riferisce alla propria scrittura creativa, alla sua opera letteraria, ma è
chiaro che Felice ne fa parte, è anche lei una delle sue manifestazioni. Se non potesse
scriverle, la sua relazione cesserebbe. La necessità di Kafka verso la scrittura diviene quindi
la prerogativa ontologica per la sussistenza del suo rapporto con Felice, al punto da
dichiarare che la rivelazione del suo amore sarebbe impossibile senza l’ausilio della scrittura.
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Anche quando ama, Kafka è uno scrittore, e la sua paura è che questa sua condizione
possa risultare nociva a Felice. E forse, a giudicare dalle risposte di Kafka, Felice comincia a
rendersi conto dell’insostenibilità da parte sua della propria relazione tanto con il Kafka uomo
che con il Kafka artista, cose che del resto sono assolutamente coincidenti. Nella sinusoide
che disegna gli alti e bassi della relazione, Kafka dice, a proposito delle lettere di Felice, che
«le voglio, le devo avere, mi recano la vita» (ivi: 439).
Non c’è quindi altro compromesso possibile. Con una delle frasi più celebri dell’opera
kafkiana, lo scrittore rivendica totalmente la sua identità: «Io non ho un interesse letterario,
ma sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro» (ivi: 453). Come una mano
che traccia una linea d’inchiostro su un foglio senza fine, Kafka ammette il suo essere, ne
specifica anzi la consistenza del ci, un ci che è interamente scrittura, litote della realtà,
parodia dell’esistente, messa in discussione di qualunque senso possibile, creando con la
sua arte situazioni estetiche in cui il senso si rivela, alla fine, come assolutamente
indisponibile. Senso che però appare brillantemente, almeno per quanto concerne la
condotta esistenziale, nelle pagine da lui lasciate, che con fedeltà e amore sia Brod che
Felice hanno risparmiato dalla distruzione.
Nelle lettere scambiate con Felice agisce quindi una poderosa filosofia dell’esistenza
compiuta attraverso la scrittura. La Durchsichtigkeit, la trasparenza della vita poteva
raggiungersi solo nella scrittura epistolare. In una delle ultime lettere, quando la relazione
era giunta alla sofferenza finale immediatamente precedente al crollo, Kafka dice:
«Speri davvero, Felice, che il nostro incontro ci dia la chiarezza? Che esso sia assolutamente necessario
lo credo anch’io, ma che debba portarci la chiarezza… non c’è chiarezza dove ci sono io. Non ricordi che
dopo ogni incontro eri sempre più incerta di prima? che soltanto nelle lettere eravamo in chiaro, al di là di
ogni dubbio, in quelle lettere che contenevano la parte migliore di me stesso» (ivi: 481).
La parte migliore, questo ha fatto la scrittura con Kafka. Con una superba formula, Benjamin
intercetta ed esprime la sua dynamis esistenziale: Kafka è stato un maestro dell’Umkehr, il
ritorno, che è «la direzione dello studio, che trasforma la vita in scrittura» [5]. Egli ha fatto
propriamente questo, ha trasformato la sua vita in scrittura e l’ha resa testimonianza
ontologica di vita autentica, in cui si dà prova della possibilità della salvezza esistenziale e
dell’irrealtà su cui pende il peccato della vita in generale. Il carteggio termina con una pace
impossibile e curiosamente con la parola «ceneri» (ivi: 809). Le stesse che sono state evitate
se la scrittura di Kafka fosse stata data alle fiamme. E le stesse che costituiscono queste
lettere. Ferme, immobili, silenziose, ma in cui qualcosa ancora brucia, la fiamma della vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] F. Kafka, Lettere, a cura di F. Masini, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1988: 21-22.
[2] E. Canetti, Der andere Prozeß. Kafkas Briefe an Felice [1968], in Prozesse. Über Franz Kafka, hrsg.
von S. Lüdemann und K. Wachinger, Carl Hanser Verlag, München 2019; L’altro processo. Le lettere di
Kafka a Felice, in Processi. Su Franz Kafka, trad. di R. Colorni, Adelphi, Milano 2024: 197-301, qui: 206.
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[3] F. Kafka, Lettere a Felice, raccolte e edite da E. Heller e J. Born, a cura di E. Pocar, Mondadori, «I
Meridiani», Milano 1995: 1. D’ora in avanti, i riferimenti a questo volume saranno indicati tra parentesi nel
testo.
[4] E. Canetti, L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, cit.: 207.
[5] W. Benjamin, Franz Kafka. Zur zehnten Widerkehr seines Todestages [1934], in Gesammelte
Schriften. Band II, Frankfurt a.M. 1991: 409-437; Franz Kafka, In occasione del decimo anniversario della
sua morte, in Franz Kafka, a cura di F. Cappa, trad. di I. Amaduzzi, Feltrinelli, Milano 2024: 67-104, qui:
103.
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Enrico Palma è dottore di ricerca di ricerca in Scienze dell’interpretazione, con una tesi dal titolo De
Scriptura. Dolore e salvezza in Proust. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni in numerose riviste di
filosofia, estetica, ermeneutica, critica letteraria e fotografia. Nel 2022 ha curato il volume L’anima della
collana del «Corriere della Sera» Greco. Lingua, storia e cultura di una grande civiltà a cura dei Proff. M.
Centanni e P. B. Cipolla. Collabora con Il Pensiero Storico ed è fondatore e co-direttore de Il Pequod.
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