Papers by Andrea Gigli
Collezione Oskar Reinhardt, Winterthur, Svizzera Come in tutte le dieci tele e i diciassette acqu... more Collezione Oskar Reinhardt, Winterthur, Svizzera Come in tutte le dieci tele e i diciassette acquerelli che Paul Cèzanne le dedicò tra il 1904 e il 1906, la montagna Sainte-Victoire è confinata al terzo superiore del foglio. Collocata idealmente sullo sfondo, incombe invece verso lo spettatore. Non riuscendo a stabilirne le priorità, l'occhio afferra l'immagine nella sua interezza tramite una sequenza di scarti, analoghi a quelli che l'hanno prodotta: ogni pennellata suggerisce un piano connesso agli altri tramite aree bianche, e anche quando si aggrega in nodi più densi, risultato di più modulazioni di colore, non assume funzione denotativa e si propone come pura indicazione di ritmi e direzioni. Tra leggerezza della componente aerea e rigore della struttura si genera una tensione "a rete" che dispone linee e campi di forza, e rimanda ogni punto all'altro garantendone l'equilibrio senza però fissarlo, e senza escluderne possibili ulteriori vibrazioni. Movimenti spesso minimi e ripetitivi percorrono la superficie scomponendo i volumi, rendendo indecidibili i luoghi, e articolando al loro posto un intreccio di sequenze ritmiche. La presenza dell'intero è priva di rigidità, come ogni elemento fosse sempre sul punto di muoversi verso tutti gli altri, a ciò impedito solo dalla trazione che gli altri vi esercitano. A stento percepibili i tratti di matita, limitati a sintetiche annotazioni su fianco e sommità della montagna, i tocchi di colore consentono molteplici esiti di moto da un piano all'altro, con frenate, accelerazioni o rallentamenti. Pur necessari e stabili, i nessi che costruiscono l'immagine sembrano cogliersi nell'attimo della loro emergenza e catturano lo spettatore senza imbrigliarlo, così come il colore non lo irretisce limitandosi a spostarne l'attenzione da un tocco all'altro: lo sguardo scivola da un piano a quello adiacente, la sua velocità aumenta, si spalanca una dimensione interiore ariosa e senza confini. Ai circa quaranta oli e altrettanti acquerelli a noi rimasti in cui Paul Cézanne raffigura la montagna Sainte-Victoire, dovremmo aggiungere un imprecisato numero di studi, schizzi, opere perdute o distrutte: una impressionante serie pittorica, su cui è lecito continuare a interrogarsi. Per rompere la gabbia della visione comune entro cui si affollano forme transitorie, Cézanne tenta ogni volta la superficie del foglio o della tela, soglia dove qualcosa può apparire o meno a seconda che di ogni pennellata di colore, accostata e sovrapposta l'una all'altra con implacabile metodo, venga sperimentata la natura necessaria o aleatoria. Nel primo caso si instaureranno relazioni, nel secondo i piani torneranno a essere irrelati come in ogni apparenza. Questa cruciale linea di confine, cui il pittore si approssima con infinita pazienza, su cui qualcosa può acquistare consistenza se legata da nessi, o svanire se ne è priva, appare analoga al "cerchio dell'apparire" di Emanuele Severino: la cosa sembra affiorare da un di là dove già era, solida e compiuta nella struttura di un essere che se è, è eterno, solo non appare perché giace nella regione infinita popolata da tutto ciò che non percepiamo. E se l'atto del vedere ("il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso", secondo Merleau-Ponty) si sposta entro il campo del veduto, si riconfigurano tutti i rapporti tra le parti di quel campo: non più oggetti "lanciati" accanto ad altri, ma componenti dell'"Essere polimorfo" di Merleau-Ponty, dalla cui unica dimensionalità vengono prelevate tutte le possibili dimensioni, e che "tutte le giustifica senza essere espresso completamente da alcuna". Questa ricerca parte da una perdita. L'anziano Cézanne risalì ogni giorno gli stessi sentieri percorsi da ragazzo insieme agli amici più cari, Emile Zola e Jean Baptiste Baille. Nella pura felicità di quei giorni lontanissimi dell'adolescenza ogni minimo segmento del visibile si disegnava da solo, con
Olio su tela, cm. 225 x 150 Collezione Mattioli Irrompe una figura intera in visione frontale. Lo... more Olio su tela, cm. 225 x 150 Collezione Mattioli Irrompe una figura intera in visione frontale. Lo sguardo tenta di cucirne i margini spezzati. Si appunta sulle dita delle mani, ne registra la dimensione monumentale, devia verso il volto in cerca di un'identità. Non la trova. Campiture in ombra suggeriscono un piano d'appoggio prossimo a chi osserva, e dai tratti di ringhiera si deduce che il luogo dove la figura siede è una terrazza. Ma l'esterno, acceso di colore, vola in pezzi. Spigoli, tetti, superfici si affrontano, s'incastrano, sprigionano energia in forma di raggi luminosi che connettono l'esterno all'interno convergendo sull'intrecciarsi delle enormi mani, al centro della composizione, mentre ai fianchi l'integrità della figura è minacciata da forme fiammeggianti, mobili e ambigue come intrusioni oniriche. Non vi sono spazi vuoti, ma slittamenti di materia a diversa intensità. La scomposizione cubista dei volumi conduce a un esito spiazzante: non la loro ricollocazione in un ordine dettato da un pensiero astratto che ne palesi la logica nascosta, ma il transito di segmenti di materia entro una percezione istantanea che spezzi l'involucro della rappresentazione. Emergono dalla loro latenza, libere da gerarchie, presenze diverse in diversi tempi, frammenti sensoriali che l'azione selettiva della mente tentava di eliminare per fissare la percezione in una staticità fittizia. Benché un principio di mimesi ricavi ancora ogni segmento dall'intaglio di scorci e chiaroscuri, viene però contraddetto per l'immagine in toto. I corpi sono penetrati dallo spazio e lo spazio dai corpi, uniti nel tempo della memoria tramite un paradosso: la tela inquadra un'immagine illusoria che rivela l'illusorietà dello spazio-tempo e della divisione di figura e sfondo. Un disvelarsi che solo una violenta emozione può innescare, un moto della mente e del cuore. Dramma e movimento portano a una soluzione sintetica, non analitica, orchestrando un accordo musicale colto nel suo farsi. L'emozione ha un ruolo costruttivo. Solo un sovvertimento emotivo può conferire un nuovo rigore a questo affioramento permanente della materia e a questo suo incessante affondare nel tempo. Lo sguardo torna sul volto. Più volte ritratta dal figlio, Cecilia Forlani, la madre di Boccioni, non è più individuabile. La compenetrazione dei piani di memoria ha sottratto parte della sua identità, ma il ritratto sembra approdare a un livello transpersonale: spostando la figura in una "zona di confine" tra ricordo e spazio, l'autore trasferisce a chi guarda l'inquietante sensazione di ricordare un ricordo non suo. La tela resta a testimoniarlo, la mimesi cessa di "rappresentare" e ora "presenta". Per Bergson la durata pura, l'unità temporale della materia, non può che restare invisibile. Boccioni, volgendo la sua pittura a spazializzare la durata, ovvero a rendere stati successivi di intuizioni, la investe invece di enorme potere. Smascherare l'arbitrarietà di ogni suddivisione di tempo e moto, attraverso i diversi momenti che la materia configura per ognuno dei suoi stati: il tempo di ieri, di anni, di un attimo fa, si fonde a quello del presente. L'oggetto d'amore, ritratto nel tentativo di sottrarlo al tempo, ritorna dal tempo e lo annulla in chi ama: ma così la dimensione del dolore individuale viene oltrepassata, chi osserva viene attratto nell'orbita di quel movimento e sottratto al suo stesso dolore, nella percezione di una nuova identità con l'oggetto d'amore infinito che custodisce in sé, latente. Una superficie su cui si rapprende pigmento ha evocato uno spessore occulto della coscienza, l'espansione della memoria sui molteplici piani traslati di un tempo indiviso.
Poeticamente abita l'uomo
Andrea Gigli "Le due anime della poesia"
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Biblioteca delle Oblate, Firenze, 12 aprile 2013 Il corpo che scrive. I simboli vuoti di Kafka Sp... more Biblioteca delle Oblate, Firenze, 12 aprile 2013 Il corpo che scrive. I simboli vuoti di Kafka Sperando che il mio intervento possa convenientemente inserirsi in un incontro dedicato alle sue interpretazioni, cercherò di porre l'attenzione su come in Franz Kafka taluni meccanismi narrativi facciano "corpo unico" con i contenuti.
εὐφροσύνη e lutto Bartolo Cattafi, tra i poeti più consapevoli del Novecento italiano, dice di se... more εὐφροσύνη e lutto Bartolo Cattafi, tra i poeti più consapevoli del Novecento italiano, dice di se stesso, con parole spesso citate nelle sue biografie: «Non mi riesce di capire il "mestiere" di poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quella del poeta è per me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia […] è un modo come un altro di essere uomini 1 ».
Book Reviews by Andrea Gigli
Solo per un tenace attaccamento a un pregiudizio ormai datato si persisterebbe, dopo questo saggi... more Solo per un tenace attaccamento a un pregiudizio ormai datato si persisterebbe, dopo questo saggio, nel doppio equivoco di confinare la poesia di Lorenzo Calogero a episodio marginale di epigonismo ermetico e interpretarne l'oscurità dell'ordito come prodotto di disagio psichico. Caterina Verbaro, che fin da Le sillabe arcane (Firenze, Vallecchi,1988) vanta una lunga frequentazione del poeta e raccoglie qui il risultato di sette anni di studi, grazie a una rigorosa analisi del testo ne estrae nella prima delle tre sezioni, «Poesia e sogno», i nodi tematici e stilistici, mentre nella terza, «Il secondo tempo della poesia di Calogero», conduce il lettore dalla svolta degli anni '55-56 (le raccolte Ma questo…, Come in dittici) al vasto diario-laboratorio dei Quaderni di Villa Nuccia, tuttora in gran parte inediti: arduo percorso di un io dissolto in 'dialoghi muti' entro una 'città fantastica', che recupera la dicibilità dei suoi confini in un colloquio finale con la morte. Ma è nella seconda sezione, «Calogero nel Novecento», che l'autrice porta il suo affondo critico decisivo. Incrinando la tradizionale bipartizione del '900 poetico italiano, che fa succedere una linea prosastico-discorsiva al soggettivismo lirico della prima metà del secolo, Calogero è ricondotto a una 'terza via' trasversale, a periodici affioramenti carsici, in cui il senso, come in Rosselli e Zanzotto, si affida alla flessione del significante. Un meccanismo associativo fonico, densa rete di rime, quasi rime, assonanze, allitterazioni, paronomasie, produce nel corpo del testo uno spazio che Amelia Rosselli definì 'panteistico', in cui una sintassi onirica paradossale, che smaterializza l'oggetto nel momento in cui lo incorpora, sostituisce gli elementi del mondo fisico, minacciosi e disgreganti, con un tessuto di relazioni sonore. 'Arabeschi', vide Sinisgalli in questi versi. Linguaggio che non rappresenta l'inconscio -verrebbe così frainteso in senso surrealista -ma riproduce il suo farsi, ne ricalca il movimento. A una semplificante vulgata che ridurrebbe questa scrittura a deriva casuale psicotica, l'autrice oppone una traccia psicoanalitica che la penetra in profondità evidenziandone la natura di consapevole sperimentazione: in questo labirinto di suoni che 'derealizza' gli oggetti, annulla le antitesi, confuta il principio di causalità, vanifica lo spazio e frammenta il tempo, affiora un inedito percorso conoscitivo, una poetica della relazione universale. Verbaro non si sottrae al problema del rapporto tra dolore psichico e scrittura, ma invece che declinarlo come meccanica eziologia di un testo frantumato, lo impugna come strumento per ricostruire il 'sistema' calogeriano: una poetica analogica estranea al logos normativo, che evoca l'accezione magico-sacrale della poesia e, destrutturando il reale, scopre la macchia cieca cognitiva che occulta il magma verbale archetipico. I 'margini del sogno' sono quella zona di confine in cui la parola non denota o definisce, ma connota e costruisce. Lorenzo Calogero appartiene al novero limitato di quegli autori che affrontano l'Ombra della poesia, la sua architettura portante sommersa, rinunciando alla difesa offerta da un linguaggio che organizza i frammenti di realtà come fossero legati da coerenze narrative, e non invece sedimentazioni temporanee e cangianti di un amalgama misterioso di presenze.
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