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La Poesia senza il poeta

La poesia senza il poeta Nel corso della guerra di Siena del Cinquecento un autore di modesto livello ma che aveva assistito a molti episodi ne narra uno atroce, di una vecchia del contado senese vilipesa, oltraggiata e furibondamente torturata dai soldati tedeschi e che fino all’ultimo gridava «Lupa, Lupa!» (la lupa è il simbolo di Siena). Il narratore commenta auspicando con cruda ironia che la vecchia sia andata «al paradiso dei lupi». 1 Ecco io ritengo questo episodio, narrato da quello storico “di modesto livello”, altamente poetico, malgrado il commento del narratore sia ancora più crudele degli stessi torturatori della vecchia. E, anzi, quel commento cinico non fa che esaltare la grandezza del grido della donna. Per quale motivo lo ritengo altamente poetico? Per il fatto che la vecchia del contado abbia chiamato Siena “lupa” trasformando una città in un essere vivente, in un animale protettore come lo fu la lupa di Roma per i due gemelli. “Lupa, lupa” il grido reiterato sotto tortura fa risaltare inoltre l’animo della vecchia in quel momento: un animo a modo suo combattivo perché lei invoca non la pietà dei torturatori, bensì l’aiuto della patria la quale, nella sua ultima speranza, si muoverà a compassione e correrà in aiuto proprio perché si sentirà chiamata con quell’appellativo affettuoso e straziante. Se ci pensiamo bene questo invocare soccorso dalla bestia amica lo ritroviamo anche in Paisà di Rossellini, nell’episodio fiorentino, quando un partigiano ferito dice “Oggi va tutto male, Lupo”. E anche questo usare con affetto e disperazione il nome di battaglia del compagno partigiano produce una sensazione altamente poetica. Un emigrato siciliano mi raccontò una volta di un uomo “duro”che non frequentava la chiesa e che venne trovato ferito a morte in un fossato. Chi lo soccorse lo sentiva sussurrare con un filo di voce: “Bedda matri”. Invocava la Madonna, ma non la chiamava Madonna, la chiamava mamma. E anche questo episodio è di alta poesia. Dino Campana nel descrivere la partenza degli emigrati italiani da Genova a Buenos Aires pone l’attenzione su due ragazze infreddolite una delle quali dice ad alta voce: “Leggera, siamo della leggera” e poi rivolta all’amica: “Tu non la rivedi più la lanterna di Genova”. E c’è riso e strazio nella sua voce infreddolita. Sono sicuramente due ragazze toscane, due biondine strinite, poco coperte, infreddolite. Quel “tu” rivolto all’amica vale come un “io” o come un “noi”, è pieno di solidarietà e di autocommiserazione nascosta sotto il tono scherzoso. Ed è in quel “tu” (che sta per “io”) che si nasconde tutta la forza poetica della vicenda. A Firenze, durante la Resistenza, alcuni partigiani armati di mitra sospingevano un fascista grande e grosso lungo una strada secondaria. Il fascista camminava ondeggiando, grande e grosso com’era e anche buffo, in camicia nera. Era sicuramente un mattacchione che non credeva fino in fondo alla scena di cui era protagonista. Arrivati ad una curva che immetteva in uno spiazzo seminascosto dove giacevano ammucchiati corpi di fascisti fucilati, il fascistone a braccia alzate vide quei corpi e agitando le braccia a mo’ di saluto gridò: “Bonaaa...” Allora il partigiano che gli stava dietro col mitra spianato gli appuntò un piede sul fondo schiena e con un calcio lo spinse verso il mucchio dei cadaveri che giacevano lì per terra e mentre lui, perso l’equilibrio, faceva dei passi incerti e traballanti in avanti, gli scaricò sulla 1 Intervista a Paolo Cammarosano a cura di Enrico Artifoni e Paola Guglielmotti Reti Medievali Rivista, 17, 1 (2016). schiena una raffica di mitra. Di tutta questa scena l’elemento poetico risiede esattamente in quel “Bonaaa” pronunciato dal fascistone alla vista della morte. Un addio cameratesco al mondo che doveva siglare il carattere cinico, scherzoso e menefreghista di quel sottoproletario raccattato dal fascismo in una qualche bettola fiorentina. Sempre a Firenze, durante la Resistenza, venne ammazzato un soldato tedesco in via Ghibellina. La via era deserta e nessuno seppe chi aveva sparato. Ad un certo punto scesero dalle case persone a frotte e in meno di un minuto spogliarono completamente il corpo del soldato ucciso che rimase nudo in mezzo alla strada. Ecco, quel corpo nudo è l’elemento poetico della vicenda. Nel mese di novembre di tanti anni fa passeggiavo con mia moglie sulla spiaggia di Marina. Ci venne incontro una sua ex-allieva col fidanzato e dopo averci salutato ci disse: “Ieri c’era un mare caffellatte tutto arrotolato...e un vento che non si stava in piedi.” Io trovai subito la poesia in quel “mare caffellatte tutto arrotolato” soprattutto in caffellatte e arrotolato che trasformavano l’elemento naturale in qualcosa di maneggevole, usando un colore domestico, quotidiano, per esprimere tutta la rabbia del mare che scava dal fondo marino la sabbia e si colora di ocra sporco sollevandola in ondate e spruzzandola al cielo. Arrotolato mi dava poi l’impressione che la ragazza, molto amante del mare, lo trattasse con le sue mani come si fa con un impasto per la torta. Quindi quel mare tempestoso veniva domato dalle mani gentili di una ragazza e questo contrasto conteneva poesia. A Vieste il padre di un mio amico scoprì di avere l’Alzheimer e in un attimo di lucidità si avvolse in una coperta e si buttò sotto il treno che passava non lontano da casa sua. La coperta è l’elemento poetico della vicenda. Non il suicidio, ma l’idea di avvolgersi in un sudario per consegnarsi intatto alla morte. Anche Baudelaire ne “I fiori del male” va in giro per i sobborghi a cercare “occasioni di rima”2 il che significa frammenti di Poesia da far rimare con altri frammenti e non frammenti di Realtà da descrivere poeticamente. Il poeta inciampa sui lastricati e urta su dei versi che a lungo sognava. Quindi quei versi sono qualcosa di concreto su cui si può urtare. La Poesia sta dunque nelle cose, come il lastrico o le persiane dei tuguri. Quasi tutto il Cinema vive di metonimie, rare sono le metafore o le allegorie, quanto poi ai simboli si può dire che si rivelino addirittura deleteri per le riuscita poetica della vicenda narrata. Nel film “La bataille du rail” di René Clément che in Italia passò sotto il titolo di “Operazione Apfelkern” si assiste ad un finale tragico: la fucilazione dei ferrovieri che aderivano alla Resistenza. Mentre il plotone di esecuzione si prepara a sparare e si sentono le urla dei comandi, un ferroviere guarda sul muro dinanzi a sé una formica che arranca, arranca in una improbabile salita e finalmente cade giù dal muro, poi si odono gli spari. Di tutta quella scena l’elemento altamente poetico è rappresentato proprio da quella formica. Anche un orto d’inverno è una realtà altamente poetica, in quanto mostra una strenua resistenza degli ortaggi che ancora combattono contro il freddo. E proprio in questa lotta sta la poesia. 2 Il sole Nel vecchio sobborgo, ove pendono ai tuguri persiane, che coprono indicibili lussurie, quando il sole crudele a colpi raddoppiati batte su città e campi, su tetti e seminati, m’eserciterò solo nella curiosa scherma, di fiutare dovunque occasioni di rima, traballando sui termini come sui lastricati, urtando su dei versi lungamente sognati. (Traduzione mia) Un mio amico mi raccontava di quando venne deportato in un campo di lavoro in Germania e sceso dal treno sentì delle donne che scaricavano il vagone e chiamavano: “Siete toscani? Noi semo de Roma!” E a qualcuna di loro si vedeva colare il sangue delle mestruazioni lungo le gambe mentre lavorava. Quel sangue è l’elemento poetico di quella immagine collettiva. Nel film “Il boom” di De Sica, dove si parla di un uomo costretto per debiti a vendere un occhio, c’è una scena -fra il protagonista e la signora che gli chiede l’occhio- in cui a quel patto quasi diabolico assiste muta una scultura lignea, tutta dorata, raffigurante un angelo quasi a grandezza naturale. Quell’angelo è l’elemento poetico di tutta la scena in quanto fa da testimone muto a quel patto scellerato. E in effetti il regista ne è consapevole e insiste su quella immagine per alcuni secondi. Una mia collega di scuola, a Innsbruck, mi raccontò che suo padre, colonnello in Ungheria dell’esercito k.u.k. , mentre stava guidando uno squadrone in marcia su una strada di campagna, intravvide, accucciata nel fosso della carreggiata, una zingara che stava partorendo. Subito mandò da lei dei soldati assieme all’ufficiale medico, ma la donna, pur nello sforzo del parto, si avventava come una bestia feroce contro chi la voleva aiutare. Ovviamente l’elemento poetico è la zingara stessa che da sola tiene testa ad un intero esercito e per farlo deve trasformarsi in bestia feroce. In effetti non disse una parola, digrignava solo i denti. Anche un pesco fiorito sulla proda di un sentiero può essere “un’espressione poetica” muta come lo era per me quando ancora su gambe incerte salivo su quel sentiero abbastanza ripido per me, fuggendo dalle parole di mio padre che, seduto nell’erba in fondo a quel sentiero, gridava: “Ora ti chiappo! Ora ti chiappo!” e restava tranquillamente seduto, mentre io correvo traballando verso il pesco fiorito. Quel pesco fiorito mi è rimasto in mente per tutta la vita e quando chiedevo a mio padre se si ricordava della scena lui rispondeva scettico: “Eri troppo piccolo, non puoi ricordartene.” Così sono rimasto sempre solo con il mio ricordo. Però quel pesco fiorito c’era davvero! Sì, il pesco c’era, confermava mio padre. E la voce che gridava “ora ti chiappo”? Anche quella c’era. Così io penso che la poesia del pesco fiorito ebbe la capacità di penetrare nella mente di un bimbo che appena camminava e appena parlava. Deduco da tutto ciò che sia avvenuto dopo il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione e del pesco fiorito, perché mio padre era troppo allegro. Ci sono anche dei gesti poetici, come quello dei soldati in marcia che per attraversare un ponte devono “sciogliere il passo” per il timore che il ponte possa crollare. Questo passo sciolto, questa trasformazione del passo di marcia da un martellio a un fruscio, è come la voce di quel corpo militare che ad un tratto si è messo a carezzare con mille suole la schiena del ponte, ed ecco che allora tutto si anima, si umanizza e produce poesia. Nei seguenti versi di Mallarmé Una Noia, stremata dagli auspici maledetti, crede ancora all'addio supremo dei fazzoletti!3 la pointe poetica è rappresentata dai fazzoletti. Il fazzoletto, ancor più del ventaglio (tanto amato da questo poeta), è il testimone più intimo del dolore, perché asciuga le lacrime. Quindi Mallarmé usando la sineddoche del fazzoletto, che sostituisce la persona che lo agita, carica di poesia quel gesto d’addio, come Shakespeare che carica “ Un Ennui, désolé par les cruels espoirs, 3 Croit encore à l'adieu suprême des mouchoirs!” di drammaticità il fazzoletto di Desdemona. Quindi alla vista di un fazzoletto femminile abbandonato da qualche parte si accende nell’aria una fiammella di poesia, una poesia muta, in quanto riassuntiva di tutte le parole che sono state spese nei secoli sul fazzoletto delle damine piagnucolose che popolano i nostri sogni erotici4. Le lucciole di Dante e le lucciole di Pasolini. Nel canto di Ulisse si legge: Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede alla zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara: di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. Dante parte dal villano che guarda la sua valle piena di lucciole, quindi da un riferimento culturale basso per poi scoprire che dentro quelle lucciole si nascondono grandi anime vaganti come quella di Ulisse e Diomede. Fin dall’antichità nell’immaginario popolare si era insinuata l’idea che le lucciole vaganti fossero le anime dei morti (in Giappone dei morti in battaglia). Per questo il poeta riparte dalla campagna, ne raccoglie le credenze, le fa sue. É lui il “villan ch’al poggio si riposa”. E come tutti i grandi poeti, parte dal microcosmo, dal banale, dal quotidiano, come Leopardi, che parte da un ermo colle o da un passero solitario, o Pascoli, che nei Canti di Castelvecchio parla delle formiche che bruciano in un ceppo sul focolare5 per poi allargare la digressione alle costellazioni e all’origine dell’universo. Quindi le lucciole sono anch’esse frammenti di poesia, in sè, grazie all’accumulo culturale che si è formato intorno a loro. Pasolini coglie questo locus poetico delle lucciole per attizzare nella mente del lettore proprio quell’immaginario che le circonda. E lo fa a suo vantaggio. Cioè, mentre riaccende nella mente di chi legge un’immagine poetica possente, dirotta poi l’attenzione sui pesticidi che uccidono le lucciole e quindi rimpiange l’epoca di un’agricoltura arcaica e precapitalistica. Perché allora tira in ballo la morte delle lucciole? Ci sono fenomeni molto più gravi per l’agricoltura, come l’inaridimento dei campi per via dei diserbanti, l’abbassamento della falda freatica, la riduzione della diversità biologica, e via dicendo, tutti cavalli di battaglia dell’ecologia. No, Pasolini ti cattura con la poesia (le lucciole) per portarti poi sulle sue tesi. Perché non ha parlato di maggiolini o di farfalle che muoiono non diversamente dalle lucciole? Perché non sono un frammento poetico, come lo sono le lucciole. Ecco perché. Quindi Pasolini ci manipola e c’inganna, ma ci affabula con le sue lucciole. Un uso conservatore della Poesia. 4 5 Cfr. l’erotica delle lacrime. Ma la secca scorza, all’acqua e al sole rifiorì di muschi e un’altra vita brulicò nel legno che intarmoliva: un popolo infinito che ben sapeva l’ordine e la legge, v’impresse i solchi di città ben fatte. (Il ciocco, Canto primo) “Povera Ernesta, ingenua fosti tu e per il troppo amore ora non ci sei più” Così cantava in giro per le piazze della Toscana il Cantastorie che alle fiere e ai mercati informava la gente degli ultimi fatti di sangue. Ernesta era la sorella di mia nonna, forse era davvero una ragazza ingenua, perché fu messa incinta da un poco di buono che non voleva sposarla, o forse non poteva ... Allora Ernesta uscì fuori dal paese, così in zoccoli com’era, e al passaggio a livello detto della Cappellina si buttò sotto il treno che la trascinò per diverse decine di metri, ma gli zoccoli rimasero lì, dove lei era stata in piedi ad aspettarlo. Gli zoccoli sono l’elemento poetico di tutta quella tragica vicenda. Nel film “Kuhle Wampe” del 1932, sceneggiato da Brecht, un ragazzo si getta dalla finestra, disperato per la miseria e la disoccupazione, ma prima di gettarsi si toglie l’orologio dal polso e lo appoggia sul davanzale. La cinepresa indugia poi sull’immagine in primo piano dell’orologio desolato su quella mensola. Il regista aveva capito la forza poetica di quell’oggetto. Romano Bilenchi quando parla di Colle dice che il fiume Elsa nei secoli era stato sfiancato, cioè “indebolito ai fianchi” dall’uomo, che per mandare avanti cartiere e mulini ad acqua, aveva derivato l’acqua del fiume in diverse gore. Tutto l’elemento poetico di questa immagine sta nel parlare del fiume (con il nome femminile di Elsa) come fosse un corpo dalle cui ferite si trae energia. Una grande madre forse o un’amante da cui si trae la vita. Un tempo si ammirava il paesaggio industriale di Colle, tutto caratterizzato dall’economia dell’acqua, e la gora era il termine poetico a cui si faceva riferimento. Oggi, con la coscienza ambientalista, si vede piuttosto il fiume che è ritornato ad essere pieno di acqua e offre addirittura la possibilità di un parco fluviale. Quindi l’immagine del fiume ferito e sfiancato diventa predominante per chi legge oggi Bilenchi, mentre ai tempi dell’industrialismo era la gora il termine affascinante, anche grazie al carattere tecnico del termine. Terminus technicus produce poesia? Dipende. Dal punto di vista per esempio di chi subisce un’azione perpetrata con strumenti di tortura si può rispondere affermativamente: l’uomo strangolato con la garrota fa più effetto dell’uomo strangolato tout court e tutte le sofferenze del torturato vengono descritte più efficacemente se si ricorre ai termini tecnici, come avviene nei musei della tortura. Il termine tecnico assume valore poetico anche in bocca a chi non è capace di astrarre e generalizzare, cioè alle classi subalterne, come avviene nella descrizione dei lavori di campagna e di fabbrica fatta dai contadini e dagli operai. Le malattie, soprattutto quelle mortali, acquistano nella descrizione un peso maggiore se condite di termini tecnici derivanti dall’analisi medica. C’è anche una locuzione specifica, chiamiamola pure impropriamente tecnica, in bocca al popolo quando descrive il nascituro pronto ad uscire dal ventre materno e dice: “Il bimbo è già impegnato” intendendo che ha già volto la testa verso l’uscita. E anche questa espressione acquista una certa aura poetica per quell’ossimoro per cui il feto acquista consapevolezza e s’impegna ad uscire. Una consapevolezza da grandi attribuita ad un nascituro. Evviva la solitudine, grande propiziatrice di saggezza e di follia! Non sarà forse anch’essa una pianticella poetica, uno di quei ributti di un vecchio tronco che sempre si rigenera e che per ciò stesso produce Poesia? È come l’immagine di un neonato che diventa poetica se reca in sé la fatica del parto, la lotta per la vita che è sempre una conquista solitaria. Dire che l’immagine di un fiore è poetica è dire una immensa banalità, ma quando si leggono le parole di Saffo nella traduzione di Quasimodo: Come il giacinto che i pastori pestano per i monti, e a terra il fiore purpureo sanguina. si pensa che quel fiore che sanguina forse è già tutto Poesia prima ancora che Saffo lo descriva e che Saffo lo descriva proprio perché quel fiore è già poesia nel suo sguardo come nel nostro e, perché no, anche nello sguardo dei pastori. D’altra parte anche la ginestra che Leopardi vedeva prostrarsi sotto il flutto infuocato e poi risorgere sulle ceneri del vulcano era già poesia prima che lui la descrivesse. Al tempo del fascio alcuni fascisti della piccola borghesia colligiana mollarono un ceffone ad un socialista, un invalido della prima guerra mondiale. Il giorno dopo suo fratello Spartaco andò dal solito gruppo di fascisti che stavano giocando a carte al Caffè Garibaldi e tenne questo discorso: “Facile, eh? bastonare un invalido. Ma venite uno per uno contro di me. Si va in Fontibona e ci si misura, a cazzotti, col coltello, con la pistola, come volete.” I fascisti seduti restavano zitti zitti, con le carte in mano, guardando sul tavolo, senza neppure il coraggio di sollevare lo sguardo. Il giorno dopo però un branco agguerrito di fascisti aspettò Spartaco sotto le logge e lo colpi a sangue con i manganelli. E mentre lui si sottraeva e scappava, anche il vecchio notaio Lepri che passava di lì volle aggiungere la sua personale manganellata. Tutti finirono in caserma. Dopo mezz’ora Spartaco ne uscì barcollando con la testa insanguinata e si avvicinò alla fontana che stava allora in mezzo alla piazza. Era stato bastonato anche dai carabinieri. Si abbassò a bere e a lavarsi la testa dal sangue a uno zampillo di quella fontana. Tutti gli avventori del Caffè Garibaldi erano seduti in piazza. Nessuno si mosse ad aiutarlo. L’elemento poetico di questa vicenda sta proprio in quello zampillo di fontana che si prende cura di lui nell’indifferenza e nella paura generale. Si era in piena guerra civile spagnola e gli antifascisti raccoglievano dei fondi da spedire ai miliziani che combattevano contro Franco. Un giorno i carabinieri bussarono alla porta di mio nonno Tiberio e cercarono del figlio, Iorio, perché sapevano che partecipava al soccorso rosso. Iorio era camionista e in quel momento si trovava in viaggio. Allora mio padre, che era il fratello maggiore, venne chiamato in caserma. Lì trovò in una stanza un uomo seduto ad un tavolo con un foglio bianco dinanzi a sé. Era enorme, immobile come un monumento. Si chiamava Leo Franci. I fascisti cercavano di fargli firmare una dichiarazione che avesse rivelato il nome di altri compagni. Leo indossava una maglietta a strisce bianche e blu e i fascisti gli trafiggevano la schiena con la punta dei loro pugnali tenuta a corto fra il pollice e l’indice. E quella punta diventava sempre più lunga, mentre una larga chiazza di sangue si spandeva su quella schiena enorme, immobile. Leo emigrò in Francia per raggiungere poi la Spagna e combattere contro il franchismo e là cadde prigioniero e venne ammazzato in una cella, con un colpo di rivoltella alla tempia. Quel foglio bianco dinanzi a lui assieme a quella schiena insanguinata sono gli elementi poetici della vicenda. A Firenze A Firenze, durante la Resistenza, alcuni partigiani armati di mitra sospingevano un fascista grande e grosso lungo una strada secondaria. Il fascista camminava ondeggiando, grande e grosso com’era e anche buffo, in camicia nera. Era sicuramente un mattacchione che non credeva fino in fondo a quella scena e neppure di esserne il protagonista. Arrivati ad una curva che immetteva in uno spiazzo seminascosto dove giacevano tutti ammucchiati corpi di fascisti fucilati, il fascistone a braccia alzate vide quei corpi e agitando le braccia a mo’ di saluto gridò: “Bonaaa...” Allora il partigiano dietro di lui col mitra spianato gli appuntò un piede sul fondo schiena e con un calcio lo spinse verso il mucchio dei corpi che giacevano per terra e mentre lui, perso l’equilibrio, andava a passi incerti e traballanti in avanti, gli scaricò una raffica di mitra sulla schiena. Di tutta questa scena l’elemento poetico risiede proprio in quel “Bonaaa” detto dal fascistone alla vista della morte. Un addio cameratesco al mondo che doveva siglare il carattere cinico, scherzoso e menefreghista di quel sottoproletario raccattato dal fascio in una qualche bettola fiorentina. Anche un pesco fiorito sulla proda di un sentiero può essere un’espressione poetica muta come lo era per me quando ancora su incerte gambette salivo su quel viottolo, abbastanza ripido, fuggendo dalle parole di mio padre che, seduto nell’erba, nel suo abito marrone in fondo a quel sentiero, gridava: “Ora ti chiappo! Ora ti chiappo!” e restava tranquillamente seduto, mentre io correvo traballando verso il pesco fiorito. Quel pesco mi è rimasto nella mente per tutta la vita e quando chiedevo a mio padre se si ricordava della scena lui rispondeva scettico: “Eri troppo piccolo, non puoi ricordartene.” Così sono rimasto sempre solo col mio ricordo. Però quel pesco fiorito c’era davvero! Sì, il pesco c’era, confermava mio padre. E la voce che gridava: “Ora ti chiappo”? Anche quella c’era. Per ciò io penso che la poesia del pesco fiorito ebbe la capacità di penetrare nella mente di un bimbo che appena camminava e appena parlava. Deduco da tutto ciò che questo accadeva dopo il 25 aprile del 1945, il giorno della liberazione e del pesco fiorito, perché mio padre era troppo allegro. Il ponte accarezzato Ci sono anche dei gesti di poesia, quello dei soldati in marcia che per attraversare un ponte devono “sciogliere il passo” per il timore che il ponte possa crollare. Quel passo di marcia che si trasforma da martellio a fruscio, è come la voce di quel corpo militare che smette di cantare, comincia a chiacchierare e poi si mette a carezzare con mille suole la schiena del ponte, ecco che allora tutto si anima, si umanizza e produce poesia. Nel mese di novembre Nel mese di novembre di tanti anni fa passeggiavo con mia moglie sulla spiaggia di Marina. Ci venne incontro una sua ex-allieva e dopo averci salutato ci disse: “Ieri c’era un mare caffellatte tutto arrotolato... e un vento che non si stava in piedi.” Io trovai subito la poesia in quel “mare caffellatte tutto arrotolato” soprattutto in caffellatte e arrotolato che trasformavano l’elemento naturale in qualcosa di maneggevole, usando un colore domestico, quotidiano, per esprimere tutta la rabbia del mare che scava dal fondo marino la sabbia e si colora di ocra sporco sollevandola in ondate e spruzzandola al cielo. Arrotolato mi dava poi l’impressione che la ragazza, molto amante del mare, lo trattasse con le sue mani come si fa con un impasto per la torta. Quindi quel mare tempestoso veniva domato dalle mani gentili di una ragazza e questo contrasto produceva poesia. Povera Ernesta “Povera Ernesta, ingenua fosti tu e per il troppo amore ora non ci sei più”. Così cantava in giro per le piazze della Toscana il Cantastorie che alle fiere e ai mercati informava la gente degli ultimi fatti di sangue. Ernesta era la sorella di mia nonna, forse era davvero una ragazza ingenua, perché fu messa incinta da un poco di buono che non voleva sposarla, o forse non poteva ... Allora Ernesta uscì fuori dal paese, così in zoccoli com’era, e al passaggio a livello della Cappellina si buttò sotto il treno che la trascinò per diverse decine di metri, ma gli zoccoli rimasero lì, dove lei era stata in piedi ad aspettarlo. Si chiamava Leo Franci I fascisti in caserma dei carabinieri cercavano di fargli firmare una confessione che avesse rivelato il nome di altri compagni. Leo indossava una maglietta a strisce bianche e blu e i fascisti gli trafiggevano la schiena con la punta dei loro pugnali tenuta a corto fra il pollice e l’indice. E quella punta diventava sempre più lunga, mentre una larga chiazza di sangue si spandeva su quella schiena enorme, immobile. Leo emigrò in Francia per raggiungere poi la Spagna e combattere contro il franchismo e là cadde prigioniero e venne ammazzato in una cella, con un colpo di rivoltella alla tempia.