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Il signor Smith e l'ornitorinco

2024, Quaderni di Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 32

Abstract

Introduzione a J.Z. Smith, Una questione di classe: Saggi di introduzione alla storia delle religioni (Quaderni di SMSR, 32; Brescia: Morcelliana, 2024): Pre-print copy This long introductory essay (“Mr. Smith and the Platypus”) accompanies the first Italian edition of a collection of essays by American historian of religions Jonathan Z. Smith (1938–2017). A towering figure in the contemporary landscape of religious studies, Smith’s multifaceted and provocative work initiated what is now seen as an epistemological revolution in the field. The introduction offers Italian readers a comprehensive exploration of Smith’s biographical and intellectual profile, alongside an in-depth discussion of the central themes of his critical thought. It focuses in particular on the foundational operations of the “Smithian laboratory” – defining and classifying; comparing; rectifying, redescribing, and translating – examining their theoretical underpinnings and methodological implications.

Jonathan Z. Smith: un profilo biografico e intellettuale

Jonathan Zittell Smith 20 nasce a Brooklyn (New York) il 21 novembre 1938, da una famiglia ebraica di solide convinzioni laiche 21 . Cresciuto a Manhattan, fin da adolescente sviluppa uno spiccato interesse per la filosofia, l'antropologia e la storia naturale: una passione, quest'ultima, che Smith continuerà a coltivare per tutta la vita, e che lo spingerà dapprima a trascorrere un breve periodo di apprendistato presso una fattoria nel nord dello Stato di New York, e in seguito, nel 1956, a iscriversi alla facoltà di Agraria della Cornell University, col fermo proposito di diventare «agrostologo», specializzandosi nello studio delle graminacee (la prima pubblicazione scientifica di Smith sarà, di fatto, un rapporto sulla distribuzione di alcune piante del genere Asclepias, nel quadro di un progetto di ricerca finanziato dal Royal Ontario Museum of Natural Sciences di Toronto). Attorno a quegli stessi anni, Smith si troverà perfino a gestire un piccolo museo di storia naturale a Westport, nel Connecticut, dove allestirà una mostra dall'eloquente titolo di Same, Like, Different: primo segnale di quell'interesse per le problematiche della comparazione e della classificazione che non lo abbandonerà mai, e che diventerà anzi uno dei tratti distintivi della sua riflessione teorica sulla «religione». La passione del giovane Smith per le scienze naturali, tuttavia, non obbediva a impulsi puramente intellettuali. Come avrà modo di ricordare lo studioso: «Il mio interesse per la storia naturale derivava da ragioni al contempo morali e intellettuali. Le prime si fondavano sulla mia precoce adesione all'imperativo categorico di 'non nuocere'. Sia che mi sforzassi di aderire ad esso attraverso scelte politi- 20 Mentre è noto che il cognome Smith, assai diffuso in area anglosassone, veniva comunemente indicato dalle famiglie ebraiche che emigravano in America dal Vecchio Continente in sostituzione di nomi come Schmidt o Schwartz, la provenienza del cognome Zittell non appare altrettanto chiara. Stando a P. Hanks (ed.), Dictionary of American Family Names, 3 voll., Oxford University Press, Oxford 2003, vol. III, p. 666, Zittel (di cui Zittell è sicura variante) deriverebbe da un termine dialettale tedesco indicante «persona pigra, indolente, fannullona». Ma si tratta più probabilmente di un toponimico, dall'antico nome del villaggio polacco di Pasternik (Zittel), al confine tra Sassonia e Bassa Slesia.

21 Lo si deduce, fra l'altro, dalla decisione di iscrivere il piccolo Jonathan a due scuole elementari pubbliche: la Public School 9 in West End Avenue, a Manhattan, dove Smith trascorrerà appena un anno, e l'Hunter College Elementary School sempre a Manhattan, nell'Upper East Side, dove Smith completerà il primo ciclo di istruzione. Cristopher Lehrich, da cui traiamo queste informazioni, definisce quest'ultimo istituto come «progressive and freewheeling in many ways» (C.I. Lehrich, Jonathan Z. Smith on Religion, cit., p. 8).

Il giovane Smith proseguirà gli studi presso l'Horace Mann School for Boys (1950)(1951)(1952)(1953)(1954)(1955)(1956), che aveva allora sede nel quartiere di Greenwich Village; in quegli stessi anni comincerà a frequentare circoli studenteschi di orientamento marxista. che come la dieta vegetariana, l'obiezione di coscienza o l'attivismo non violento, sia che questo si riflettesse nei miei piani di diventare agrostologo -mi sembrava già chiaro, da preadolescente, che le tradizioni religiose occidentali, delle quali avevo allora una conoscenza soltanto superficiale, non fornivano risorse intellettuali adeguate per un'etica del 'non nuocere'. Mi sembravano guardare alla terra come a un mero bene di proprietà dell'uomo, su cui esercitare dominio e sfruttamento» 22 .

In queste parole troviamo una chiave importante per capire come Smith sia giunto a maturare un interesse specifico per l'universo delle religioni, seppur limitato in questa fase embrionale, per sua stessa ammissione, ad alcune grandi tradizioni dell'Asia («dal buddhismo al giainismo a Gandhi») e alle culture dei nativi d'America.

Al di là di questo, sarà sempre lo studioso a segnalare il suo precoce incontro con una serie di letture di tipo filosofico e antropologico che si riveleranno determinanti per la sua formazione accademica. Verso la fine della sua vita, compilando un elenco retrospettivo di influenze, Smith alluderà in particolare al debito maturato fin dagli anni dell'adolescenza nei confronti di cinque grandi scuole di pensiero: (1) il marxismo, e segnatamente il cosiddetto austro-marxismo, associato alla figura di Max Adler;

(2) il neokantismo tedesco, nelle varianti espresse da Heinrich Rickert ed Ernst Cassirer; (3) la morfologia biologica di Goethe, scoperta grazie a Cassirer; (4) il formalismo russo e la scuola ginevrina di linguistica strutturale; (5) ultima, ma non per importanza, la tradizione socioantropologica francese, «da Émile Durkheim a Marcel Mauss, fino a Claude Lévi-Strauss e Louis Dumont» 23 . Ad accomunare la maggior parte di questi autori, osserverà ancora Smith, era in primo luogo «una qualche forma di neokantismo», donde la centralità ripetutamente assegnata alla figura di Cassirer: «Ciò che ho imparato da Cassirer è un'etica della lettura attenta, a livello sia contestuale che critico, ma senza [il principio del] sospetto» 24 . Tra le influenze giovanili non riconducibili al neokantismo, Smith accennerà soltanto al suo legame di lunga data -anche se l'espressione originale è più forte: si parla di long-standing obligationnei riguardi dell'illuminismo scozzese, di tutta quella stagione di pensiero in cui, a partire da autori come Francis Hutcheson, David Hume e Adam Ferguson, si cercò per la prima volta di «inquadrare il progetto illuminista in termini sociologici» 25 . Un tale elenco di influenze è indubbiamente parziale, e perfino forse «interessato»: ma ci consente nondimeno di intuire quali saranno le basi sulle quali poggerà la riflessione successiva di Smith, specialmente quando lo studioso si troverà a confronto con autori che incrocerà in seguito e che lo segneranno egualmente in profondità (restando nel campo della filosofia, si potrebbero e dovrebbero fare almeno i nomi di Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein 26 ).

A questo punto, con un tale bagaglio di letture alle spalle, non stupisce la decisione repentina di Smith, nel 1957, di accantonare i propri piani di diventare agrostologo e di provare piuttosto a iscriversi a una facoltà di filosofia. Opterà per l'Haverford College in Pennsylvania, un piccolo ma rinomato istituto di ispirazione quacchera, fondato dalla Società degli Amici nei primi decenni dell'Ottocento. Qui Smith comincia a interessarsi di mitologia e di letteratura mistica (risalgono a questi anni le prime incursioni nei territori del cristianesimo), approfondisce lo studio di alcuni classici di antropologia e di storia delle religioni e ha inoltre modo di frequentare un ciclo di lezioni tenuto da Paul Ricoeur, a quel tempo Visiting Professor negli Stati Uniti, e impegnato a riflettere su temi legati al mito e al simbolismo religioso 27 . Smith otterrà il baccalaureato (Bachelor of Arts) nel 1960, con un'ambiziosa tesi sulla «fenomenologia del mito» intitolata A Prolegomenon to a General Phenomenology of Myth, dove le prospettive su mito e linguaggio di Cassirer e Heidegger venivano rilette attraverso un confronto con lo strutturalismo di Lévi-Strauss.

Indirizzato dal filosofo Martin Foss, tra i suoi insegnanti a Haverford, Smith proseguirà gli studi presso la prestigiosa Divinity School dell'Università di Yale, dove otterrà un secondo baccalaureato, questa volta in materie teologiche (Bachelor of Divinity, 1962), secondo il requisito che ve-25 J.Z. Smith, Conjectures on Conjunctures and Other Matters, cit., p. 56 n. 99. 26 Il linguaggio tecnico di Smith deve moltissimo a entrambi. Con il primo, in particolare, le convergenze meriterebbero un'accurata indagine. In una frase lasciata tra parentesi, e che non avrà mancato di turbare molti lettori, Smith confessa di aver «letto o riletto Heidegger a ogni estate, per più di quarant'anni» (J.Z. Smith, When the Chips Are Down, cit., p. 7). Sull'altro versante, va notato che un testo filosofico a cui Smith farà riferimento esplicito e costante in svariate occasioni è il capolavoro di Stephen E. Toulmin, allievo di Wittgenstein a Cambridge: Human Understanding, vol. I, The Collective Use and Evolution of Concepts, Princeton University Press, Princeton 1972.

27 Con ricerche che confluiranno in P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, II. Finitude et culpabilité, tomo I, L'homme faillible, e tomo II, La symbolique du mal, Aubier, Paris 1960 (trad. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa, il Mulino, Bologna 1970; Morcelliana, Brescia 2021). niva allora richiesto dal sistema scolastico statunitense a chiunque intendesse accedere a un curriculum di studi religiosi. Smith, nel frattempo, aveva infatti maturato l'idea di dedicarsi al Nuovo Testamento, e sarà di fatto il secondo studente non cristiano a conseguire un diploma in materie bibliche a Yale (il primo fu Samuel Sandmel, altro intellettuale di origine ebraica che si distinguerà per le sue ricerche sul cristianesimo delle origini). Smith rievocherà in seguito alcune difficoltà dovute a questa sua posizione, e in particolare il disagio avvertito nel dover rappresentare, certo non per sua scelta, il punto di vista di un ebreo (o dell'ebraismo in generale!) all'interno di una facoltà teologica cristiana 28 . Ma le cose, negli Stati Uniti, sarebbero cambiate di lì a poco grazie a una storica sentenza della Corte Suprema, Distretto scolastico di Abington contro Schempp (1963), all'interno della quale si riconosceva, per la prima volta in maniera esplicita, che uno «studio comparativo delle religioni o della storia delle religioni, [...] se presentato in maniera obiettiva come parte di un programma di educazione secolare», non poteva considerarsi in contrasto con la neutralità dello Stato nei confronti della religione, non essendo un tale studio ispirato da finalità di propaganda religiosa 29 . La sentenza apriva in tal modo la strada alla possibilità di creare dipartimenti autonomi di Religious Studies anche all'interno delle università statali, inaugurando programmi di studio che non muovessero da presupposti di tipo confessionale 30 .

Gli anni di formazione dottorale a Yale (1962-1969) -dove nel frattempo era stato appunto inaugurato un Department of Religion, con un percorso di specializzazione in storia delle religioni -si riveleranno assolutamente cruciali per Smith. In questo periodo arriveranno anche i primi incarichi di insegnamento, inizialmente presso il Dartmouth College di 28 30 Gli Stati Uniti, su questo versante, arrivarono molto in ritardo rispetto all'Europa, dove i processi di secolarizzazione e i princìpi di separazione fra Stato e Chiesa avevano condotto già alla fine del XIX secolo, pur con formule diverse a seconda dei vari paesi, alla soppressione o trasformazione in senso non confessionale delle facoltà teologiche entro le università di Stato, o alla creazione di cattedre e dipartimenti autonomi consacrati allo studio storico-antropologico delle religioni (con differenti titolature e denominazioni). Esemplare in questo il caso olandese, su cui si veda A.J. Molendijk, The Emergence of the Science of Religion in the Netherlands, Brill, Leiden -Boston 2005.

Hanover, nel New Hampshire (1965)(1966), dove Smith consoliderà alcuni dei più importanti sodalizi accademici della sua vita (con Jacob Neusner e Hans H. Penner) 31 , e successivamente presso l'Università della California a Santa Barbara (1966Barbara ( -1968, dove il 14 febbraio del 1968 incontrerà per la prima volta Eliade, già da tempo nume tutelare della storia delle religioni a Chicago e figura di consolidato prestigio a livello internazionale 32 . Il giorno prima di incontrare Eliade, per una singolare coincidenza, Smith aveva sostenuto un colloquio di lavoro che lo avrebbe portato a ottenere una cattedra proprio a Chicago, dove finirà per insegnare ininterrottamente dal 1968 al 2013, e dove troverà un ambiente congeniale allo sviluppo delle proprie ricerche: molto più informale di Yale (tra colleghi di ogni ordine e grado si evitavano volentieri i titoli onorifici, dandosi del «Mr.» o «Ms.») e soprattutto più aperto allo scambio interdisciplinare 33 .

La circostanza del trasferimento a Chicago è puntualmente rievocata da Smith nelle pagine di When the Chips Are Down, assieme alle impressioni di quel primo fatale incontro con Eliade:

«Trasferirmi a Chicago alla fine degli anni Sessanta significò entrare nell'orbita di Mircea Eliade al culmine della sua influenza. Eliade era stato, per me, un modello di ciò che poteva essere uno storico delle religioni. Sembrava aver letto tutto ed essere in grado di collocare i dati più disparati all'interno di strutture coe- 31 Smith aveva già incontrato Neusner nel 1958: in J.Z. Smith, When the Chips Are Down, cit., p. 35 n. 23, ne parla come di colui che lo avrebbe introdotto agli studi sul giudaismo. Secondo quanto si ricava da A.W. Hughes, Jacob Neusner: An American Jewish Iconoclast, New York University Press, New York 2016, pp. 106-109, l'amicizia fra i due si sarebbe incrinata a metà degli anni Ottanta, a seguito di un futile incidente burocratico che avrebbe indispettito Neusner, e per il quale Smith non aveva alcuna responsabilità. Questo, ad ogni modo, non alterò la profonda stima che entrambi gli studiosi continuarono a dimostrare l'uno nei confronti dell'altro, anche se Hughes riferisce di una lettera in cui Neusner, pochi anni dopo l'incidente di cui si è detto, rimproverò a Smith di non essersi mai impegnato a produrre «una vera monografia». Da parte sua, pare che Smith criticasse Neusner per il fatto di «scrivere troppo e non leggere abbastanza» (ibi, p. 109). Per quanto riguarda la figura di Penner, è interessante rilevare come Smith dichiarasse di aver trovato in un suo articolo del 1970 (H.H. Penner, Is Phenomenology a Method for the Study of Religion?, in «The Bucknell Review» 38 [1970], pp. 29-54) la «parola definitiva» sui limiti dell'approccio fenomenologico negli studi sulla religione.

32 Non rimane traccia di questo incontro nei diari di Eliade, sebbene il nome di Smith ricorra già in un appunto del 21 maggio 1965: cfr. M. Eliade, Giornale, trad. it. di L. Aurigemma, Boringhieri, Torino 1976, p. 380 (or. Fragments d'un journal, Gallimard, Paris 1973; cfr. anche un successivo appunto datato 28 febbraio 1968, ibi, p. 414.

33 Contrariamente a quanto si pensa, Smith non venne assunto dalla Divinity School di Chicago, ma entrò a far parte di una piccola sezione sperimentale del College appena inaugurata dall'ateneo; il successivo trasferimento alla Divinity School (1972)(1973) fu soltanto una parentesi temporanea, dovuta all'interruzione di questo programma.

renti. Quand'ero studente universitario, avevo deciso di leggere praticamente tutte le opere citate da Eliade nelle straordinarie note bibliografiche che compaiono alla fine del suo Trattato di storia delle religioni, prendendo persino lezioni private per imparare le lingue che mi sarebbero servite allo scopo. Queste letture costituirono la mia formazione nel campo. Vidi in Eliade un maestro, il cui potere era tanto più palpabile se penso al fatto che non ci eravamo mai incontrati di persona. Una volta, nel 1965, mentre mi recavo in auto a una conferenza a Notre Dame, feci tappa a Chicago e rimasi seduto in una cabina telefonica per diverse ore cercando, senza successo, di trovare il coraggio di chiamarlo per chiedergli un appuntamento. Dubito di essere mai stato così in ansia come in quella prima notte di viaggio che, due anni e mezzo più tardi, mi avrebbe portato a incontrarlo di persona, nella villa in cui soggiornava fuori da Santa Barbara. Eliade si rivelò ai miei occhi come un gigante gentile, colto e divertente, pieno di curiosità, maestro di exotica e vivace divulgatore di pettegolezzi. Si dimostrò il più generoso tra i miei colleghi anziani, sostenendo sempre il mio lavoro e inserendo me e la mia famiglia nella sua ampia rete di contatti. Considero il mio rapporto con lui come uno dei grandi doni della mia vita e mi mancano molto le nostre conversazioni» 34 .

Sono parole che dobbiamo tenere presenti, se vogliamo inquadrare correttamente le critiche, talora feroci, che Smith non risparmierà in seguito ai lavori e all'approccio generale di Eliade. Ben prima di misurarsi criticamente con Eliade, tuttavia, Smith avrà modo di esercitarsi con un altro «gigante» (in questo caso solo in senso metaforico!) nella storia degli studi storico-religiosi, dedicando la propria tesi di dottorato a un'analisi del metodo comparativo utilizzato da James George Frazer nel suo celebre e monumentale saggio Il ramo d'oro 35 . Anche l'interesse per Frazer risaliva agli anni dell'adolescenza 36 , ma l'occasione di occuparsene arrivò per 34 J.Z. Smith, When the Chips Are Down, cit. p. 13. 35 Smith si concentrò in particolare sulla terza edizione dell'opera: J.G. Frazer, The Golden Bough: A Study in Magic andReligion, Macmillan, London 1906-1915, 12 voll.; si veda anche il fortunatissimo compendio in un solo volume, The Golden Bough: A Study in Magic and Religion. Abridged Edition, Macmillan, London 1922 (trad. it. di L. de Bosis, Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione, Einaudi, Torino 1950; in seguito Boringhieri, Torino 1964; e Bollati Boringhieri, Torino 2012). Sull'importanza di Frazer nella storia culturale del Novecento, ci limitiamo a rinviare all'eccellente volume di F. Dei, James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicanalisi, letteratura, Carocci, Roma 2021, con ampia bibliografia finale (si tratta di una riedizione del precedente La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento, Argo, Lecce 1998); si vedano anche i recenti contributi raccolti in F. Dimpflmeier (ed.), «Il coro disvela una legge segreta». James G. Frazer fra antropologia, studi classici e letteratura, Carocci, Roma 2023. 36 «Avevo letto Frazer prima delle scuole superiori, nell'edizione non abbreviata», dirà lo studioso nel 2010, intervistato dalla rivista Asdiwal: cfr. Jonathan Z. Smith par luimême, in «Asdiwal» 6 (2011), pp. 23-37: 26 (or. Asdiwal -Interview with Jonathan Z. Smith (2010) un curioso incrocio di concause. Pare infatti che Smith avesse già completato, tra il 1963 e il 1964, la prima stesura di una dissertazione incentrata sul Vangelo di Giovanni. Di questo lavoro sappiamo oggi pochissimo: muovendo dagli studi del conterraneo Erwin R. Goodenough sul giudaismo ellenistico, Smith intendeva discutere l'ipotesi, avanzata in quegli anni dalla studiosa britannica Aileen Guilding, di un rapporto fra la struttura del quarto Vangelo canonico e il ciclo triennale di letture bibliche che sarebbe stato in uso nelle sinagoghe palestinesi del tempo 37 . Ma il testo della tesi, battuto a macchina in un'unica copia, venne rubato assieme ad altri oggetti che l'autore aveva lasciato incustoditi nell'abitacolo della propria auto 38 . Anziché provare a riscriverlo da capo, Smith preferì allora cambiare argomento, virando su Frazer e il problema della comparazione. Sarà sempre Smith a precisare le ragioni di una tale scelta: «Tra il 1963 e il 1964, le problematiche della comparazione mi apparivano già come il terreno in cui avrei potuto coniugare un impegno concreto nei confronti di lingue e di storie specifiche con le questioni di tipo filosofico che mi interessavano di più [...]. Avendo a disposizione gli scaffali di una biblioteca di prima classe in cui rovistare [a Yale], avviai un programma sistematico di letture sulla storia della comparazione negli studi antropologici e religiosi, procedendo a una schedatura di fonti moderne e premoderne. Parallelamente, cominciai a pensare a una dissertazione che utilizzasse Il ramo d'oro di Frazer come un 'laboratorio di comparazione'. Il problema era quello giusto, ma, come avrei capito durante la stesura della tesi, la scelta di Frazer sbagliata. Nelle conclusioni del lavoro, scritte circa sei anni dopo, sostenni che il problema non dipendeva dai dati di Frazer, né dalle sue fragili impalcature teoriche in continua evoluzione: il problema era che 'Frazer non aveva un metodo, esplicito o implicito, per condurre le proprie innumerevoli comparazioni'. Frazer non fornisce alcuna risposta alla domanda: 'Come possiamo comparare?'» 39 .

A conti fatti, però, il bilancio smithiano su Frazer risulterà molto più sfumato e complesso; ed è indubbio a chiunque si sia occupato anche solo superficialmente di Smith che per comprenderne le idee sulla compara- 37 A questa produzione scritta, bisogna infine aggiungere ciò che Smith ha definito più volte, con piglio wittgensteiniano, come la parte più importante del proprio lavoro: quella dedicata all'insegnamento e, in subordine, all'intensa attività di conferenziere (si ha traccia di almeno centocinquanta interventi tra seminari, lezioni pubbliche e partecipazioni a convegni). Una prova eloquente del vivacissimo stile orale di Smith si può trovare ora in un volume, uscito postumo per la cura di Willi Braun e Russell T. McCutcheon, che raccoglie interviste concesse dallo studioso tra il 1999 e il 2012, assieme a un testo inedito e alla trascrizione di un seminario del 2013, dove Smith risponde a briglia sciolta alle domande del pubblico su come si debba articolare un corso universitario di introduzione allo studio delle religioni 44 . È in queste pagine che s'incontra un'altra delle più citate affermazioni di Smith, stando alla quale il cuore dell'attività di uno studioso, a livello accademico, non dovrebbe consistere primariamente nella pubblicazione di saggi o monografie, ma nella progettazione e stesura dei propri programmi d'insegnamento: «A mio giudizio, il syllabus è la più importante prova di scrittura in ambito accademico» 45 . Questa enorme importanza assegnata da Smith all'insegnamento si riflette in almeno due modi nella sua produzione saggistica. Il primo ha a che fare con la stessa origine dei suoi saggi: nella stragrande maggioranza dei casi, tutto quello che Smith ha pubblicato deriva da lezioni universitarie o da interventi presentati in convegni o seminari, sovente su invito. Un secondo riflesso si trova nell'ampio respiro teorico e metodologico che contraddistingue lo stile saggistico di Smith: non c'è praticamente suo testo che non prenda avvio da -o non si concluda con -una domanda che coinvolge direttamente lo studio generale della religione o il problema della collocazione degli studi religiosi nel quadro più ampio delle scienze umane e dei percorsi di istruzione superiore. Si è giustamente osservato, da questo punto di vista, che l'intera opera di Smith non si possa davvero comprendere senza tenere conto di quella che è stata identificata come la sua «seconda specializzazione» 46 , cioè il suo continuo riflettere sulla natura e gli scopi delle istituzioni accademiche. La sopravvivenza di un certo modello di università -lontanissimo da qualunque logica aziendale, competitiva o di mera professionalizzazione -rientrò senza dubbio fra le «preoccupazioni persistenti» dello studioso 47 : lo rivela la decisione di concentrare i propri corsi a livello undergraduate 48 , come pure l'impegno profuso nell'elaborazione di programmi di studio 49 , la conseguente assunzione di incarichi di tipo amministrativo (Smith fu vice-decano di college dal 1973 al 1977 e decano generale di facoltà dal 1977 al 1982) 50 , la partecipazione attiva a commissioni regionali e nazionali sull'istruzione pub-blica (come l'American Association of Colleges o il National Endowment for the Humanities) e infine, come si è detto, l'impressionante quantità di conferenze e interventi dedicati a questioni educative generali.

Conteranno moltissimo, nella costruzione dell'immagine pubblica di Smith, anche il suo affilato sense of humour e l'aspetto inconfondibile, complice l'iconico bastone di rododendro (Rhododendron maximum) che lo accompagnerà negli ultimi decenni di vita, e che lo farà assomigliare sempre più a uno stregone da saga fantasy 51 . Inesauribile fonte di aneddoti per studenti e colleghi saranno poi le sue innumerevoli idiosincrasie: oltre a essere un fumatore incallito, Smith detestava di tutto cuore i viaggi e gli spostamenti (all'esplorazione fisica dei territori preferendo, evidentemente, lo studio delle mappe e l'antropologia da tavolino) 52 ed era noto per la snervante irreperibilità al di fuori del campus (pare non rispondesse mai al telefono di casa, e non sorprende sentire che ritenesse l'invenzione del cellulare un «assoluto abominio») 53 . Celebre anche la sua avversione nei confronti del computer: «Io prendo molto sul serio Marx, e penso che [il computer] alieni il lavoratore dal prodotto del proprio lavoro», dichiarerà sardonicamente in un'intervista diventata oggi, per paradosso, uno dei suoi testi più citati in rete 54 . Per comporre i suoi testi preferirà sempre affidarsi a una vecchia macchina da scrivere; e quando questa smetterà di funzionare, tornerà seraficamente a scriverli a mano 55 .

Da tempo alle prese con un male incurabile, Jonathan Z. Smith si spegnerà a Chicago il 30 dicembre 2017, lasciando la moglie Elaine Bergstein e i due figli Siobhan e Jason.

Giochi d'immaginazione: nel laboratorio del signor Smith

Per capire come Smith sia arrivato a sviluppare la propria personalissima metodologia d'indagine, fondandola su un'«etica della lettura» altrettanto peculiare 56 , conviene tornare ancora una volta alle pagine autobiografiche di When the Chips Are Down. Qui troviamo, fra le altre cose, una spassosa rievocazione delle esperienze giovanili di Smith come studente a Yale, e del suo impatto con le pratiche «tribali» di una particolare corporazione accademica. Si comincia col racconto di un fatale malinteso:

«Dopo qualche incertezza, finii per andare a Yale, con l'intenzione iniziale di studiare il Nuovo Testamento. Grazie a Rudolf Bultmann e al suo progetto di demitizzazione 57 , pensavo che mi sarei potuto occupare del problema del mito.

[Segue in nota:] In tutta onestà, si trattò di un mio fraintendimento. Avevo chiesto a uno dei miei professori di Haverford di consigliarmi un posto in cui mi sarei potuto occupare di mitologia. Mi rispose: 'Perché non vai a Yale a studiare il Nuovo Testamento? È la più importante raccolta di miti greci che ci sia rimasta'. Con suo enorme sconforto, presi la battuta alla lettera» 58 . I ricordi proseguono poi con un altro aneddoto, ancora più mordace: «I miei anni a Yale furono tanto complicati quanto divertenti. In qualche maniera, mi sembrava che la possibilità di interagire ogni giorno con tribù di protestanti corrispondesse al lavoro di campo di un antropologo. In pratica, mi trovavo nella classica posizione dell'osservatore partecipante: commettevo i tipici errori che nessun nativo avrebbe mai commesso, ma con un enorme interesse per i discorsi e le pratiche che mi sfilavano davanti. Avevo persino un gruppetto di amici che 56 Questi due passaggi, ironia inclusa, ci regalano un perfetto condensato di tutti gli elementi che concorreranno a formare l'«ethos scientifico» di Smith. In primo luogo, abbiamo il riferimento a una preoccupazione intellettuale di partenza, a un problema teorico che ha a che fare con la riflessività dello studioso, con i suoi schemi di pensiero disciplinari, con le categorie analitiche che fanno parte della sua «cassetta degli attrezzi»: nel caso del primo Smith, questo problema era rappresentato dal mito; più avanti si aggiungeranno le questioni connesse al rito, alle concezioni di spazio sacro, alla nozione di canone o all'idea stessa di «religione». In secondo luogo, troviamo il rimando a un oggetto testuale specifico, la cui interpretazione si offre come un terreno di esplorazione e scoperta: per il giovane Smith, questo è rappresentato dal «Nuovo Testamento» e, congiuntamente, dalla lettura che ne davano le «tribù di protestanti» a Yale. Infine abbiamo la traccia di una tensione cognitiva, che deriva dalla distanza, se non proprio dall'estraneità, che lo studente/studioso avverte tra sé e il proprio terreno d'indagine: è questo senso di distanza a richiedere una serie di operazioni di «traduzione culturale», che Smith paragona sarcasticamente (ma non troppo) a quelle imbastite dagli antropologi nel loro contatto con culture o società «altre». Se questa distanza non fosse avvertita, sembra dire Smith, bisognerebbe in ogni caso crearsela; e per questo occorrerebbe almeno un preliminare sforzo d'immaginazione 60 .

Il punto, allora, non è soltanto riconoscere o rivendicare la differenza che sussiste tra un approccio «teologico» e un approccio storico o antropologico nei confronti della religione (o, come nel caso di specie, nei confronti di testi che appartengono al canone di una specifica tradizione religiosa): come s'intuisce dal secondo passaggio che abbiamo citato, col suo riferimento al teologumeno cristiano dell'«economia della salvezza», la teologia può diventare un oggetto di studio del tutto appropriato per chi voglia occuparsi di religione in prospettiva storica o antropologica -essa non è altro che un «dato», per il quale i teologi servono da «informatori nativi». Ma la lezione che dobbiamo ricavare da questi due passaggi è innanzitutto un'altra. Qui Smith rimanda all'opportunità di abbracciare una precisa postura intellettuale nello studio della religione: uno «sguardo da lontano» (o «dall'esterno»), analogo a quello che qualifica il lavoro degli antropologi sul campo, ben catturato dalla famosa e ambiziosissima definizione lévi-straussiana dell'antropologia come «scienza della cultura vista da fuori» 61 . Il richiamo di Smith, più specificamente, è a quel potente dispositivo ermeneutico che risponde al nome di «straniamento» (o «defamiliarizzazione»), teorizzato nei primi decenni del Novecento dal critico letterario e formalista russo Victor Šklovskij: il quale ci invita a descrivere un oggetto, anche il più banale e familiare, come se lo vedessimo per la prima volta, trasformando «ciò che è familiare in estraneo, per affinare la nostra percezione del familiare» 62 . È in questa luce che diventa perfettamente sensato e legittimo pensare al Nuovo Testamento come a una «raccolta di miti greci»: descrivendolo in questi termini, a prima vista incongrui e spiazzanti, lo si sottrae a una delle sue tante possibili percezioni «familiari», o quantomeno se ne traducono i contenuti in un lingua diversa dall'«originale» (otterremo qualcosa di analogo, volendo fare un altro esempio, se descrivessimo il Corano come «la più autorevole raccolta di testi apocrifi attualmente in circolazione»). Adoperando un'opposizione concettuale che appare oggi problematica ma che è stata al centro di importanti riflessioni di metodo nell'ambito degli studi sociali e antropologici, potremmo dire che questo ci consente di passare da una definizione «emica» (emic) del Nuovo Testamento a una sua possibile definizione «etica» (etic): invece di utilizzare il punto di vista e il linguaggio di un soggetto osservato (come sarebbe accaduto descrivendo il Nuovo Testamento come «testo sacro», «sacra scrittura», «canone dei ventisette scritti che compongono la seconda parte della Bibbia» -tutte definizioni che ri- 61 producono categorie, concettualizzazioni e giudizi di valore appartenenti al linguaggio «emico» o «nativo» di una specifica tradizione religiosa, per la quale il Nuovo Testamento è tutte queste cose), abbiamo privilegiato il punto di vista e il linguaggio di un osservatore esterno (in questo caso di uno storico delle religioni, ossessionato come molti dal problema del mito) 63 . È necessario allora che questa ridescrizione «etica» sia anche formalmente corretta e condivisibile, o migliore di una delle tante reperibili a livello «emico»? In realtà no. Il suo scopo, in questa fase preliminare, è più che altro quello di farci riflettere, di liberarci da un «automatismo percettivo», spingendoci a riconsiderare l'oggetto che abbiamo di fronte in maniera straniante, un po' come accadrebbe se ci trovassimo di fronte, per la prima volta, a un ornitorinco («Ha un becco d'anatra e una coda pelosa, è un animale acquatico e depone le uova: sarà un pesce, un anfibio o un uccello?»). Il procedimento è lo stesso che ritroveremo in molti saggi di Smith, e che lo studioso indicherà costantemente come alla base di tutta la propria attività di studioso e insegnante. Senza questa manovra iniziale di straniamento, in effetti, non si potrebbero nemmeno comprendere tutte le altre operazioni che definiscono il laboratorio teorico e metodologico di Smith. Queste operazioni sono sostanzialmente tre, e si possono identificare attraverso una serie di imperativi: (1) classificare, definire; (2) comparare; (3) rettificare, ridescrivere, tradurre.

Sono tutte operazioni che compaiono in filigrana, ed esattamente in quest'ordine, in quello che resta uno dei testi più seducenti e rappresentativi di Smith da un punto di vista metodologico, e che fornisce probabilmente la migliore porta d'accesso al suo laboratorio: la brevissima introduzione (tre pagine in tutto) alla sua seconda raccolta di saggi, Imagining Religion (che nel nostro volume corrisponde al capitolo quinto). Rileggiamo allora le prime righe di questo testo, fino al punto in cui compare la famigerata sentenza sull'assenza di «dati» per la religione: «Se abbiamo compreso correttamente le testimonianze archeologiche e testuali a nostra disposizione, sembra che l'umanità abbia trascorso tutta la propria storia a immaginare divinità e maniere di interagire con esse. Ma è soltanto da pochi secoli che l'uomo, e più precisamente l'uomo occidentale, ha cominciato a immagi- 63 Sull'opposizione tra «emico» ed «etico» -coniata negli anni Cinquanta del Novecento dall'etnolinguista americano Kenneth L. Pike, per analogia con la distinzione tra studio «fonemico» e «fonetico» dei suoni di una lingua -si vedano i contributi raccolti in T.N. nare la religione. È su quest'atto d'immaginazione riflessiva, di secondo grado, che dovrebbe concentrarsi lo sguardo degli studiosi di religione. In altre parole: nonostante l'impressionante quantità di dati, fenomeni, esperienze ed espressioni umane che possono essere qualificati -in una cultura o in un'altra e per un motivo o per l'altro -come religiosi, non ci sono 'dati' per la religione. La religione è soltanto un prodotto dell'immaginazione degli studiosi: sono gli studiosi a crearla per i loro scopi analitici, attraverso i loro atti immaginativi di comparazione e di generalizzazione» 64 .

Un errore che potremo fare, a questo punto, sarebbe quello di scambiare l'ultima frase di Smith per una definizione di religione. Si tratta invece, più correttamente, di una meta-definizione, nel senso che ciò che intende definire non è la cosa-chiamata-religione, bensì l'operazione che facciamo ogni volta che definiamo qualcosa come «religione»: utilizziamo cioè una categoria «di secondo grado», che ci aiuta a circoscrivere al suo interno -e perciò a classificare -un insieme eterogeneo di «dati, fenomeni, esperienze ed espressioni umane».

Smith, peraltro, non si è mai dimostrato scettico nei confronti della possibilità di pervenire a una qualche definizione -anche minima o operativa -di religione. Amava citare in proposito, come molti colleghi, il caso dello psicologo James H. Leuba, che in un suo saggio del 1912 era stato in grado di riprodurre in appendice oltre cinquanta definizioni diverse di religione 65 : il vero problema, chiosava Smith, non consiste dunque nell'impossibilità di definire la religione, quanto nel fatto che se ne possono dare «almeno cinquanta definizioni diverse, più o meno buone» 66 . Ne abbiamo una prova persino nell'incipit che abbiamo appena letto, laddove si afferma che l'umanità sembra aver trascorso tutta la propria esistenza storicamente documentabile a «immaginare divinità e maniere di interagire con esse» -non è forse questa una definizione implicita di religione? Ma l'obiettivo retorico di Smith diverso da quello che potrebbe apparire a una lettura superficiale. Lo studioso intende infatti richiamare la nostra attenzione su quell'«atto di immaginazione riflessiva, di secondo grado», che ha condotto «l'uomo, e più precisamente l'uomo occidentale», a «immaginare la religione», ossia a rappresentarsi la religione come una sfera autonoma dell'esperienza umana, compiutamente distinguibile da altre sfere (per esempio quelle identificate con gli spazi simbolici della «magia», della «politica», della «scienza», ecc.): qualcosa che è accaduto soltanto a cominciare dall'età moderna, per un articolato concorso di circostanze storiche che hanno fatto sì che il concetto di «religione», elaborato in Europa su basi inevitabilmente etnocentriche, sia riuscito a imporsi come una categoria universale e astorica, applicabile alla comprensione di qualunque società o cultura, anche la più lontana nel tempo e nello spazio 67 .

Che il concetto di «religione» avesse una storia e fosse un prodotto storicamente determinato (come tutti i nostri concetti, del resto), era un punto già chiaro all'epoca in cui Smith scriveva queste frasi. Molto meno chiare, e comunque raramente oggetto d'interrogazione, erano invece le conseguenze di un tale assunto, a livello sia metodologico che teorico. La domanda implicita di Smith è abbastanza chiara: come possiamo studiare qualcosa per cui non esistono «dati» oggettivi (essendo la loro classificazione come «religione» il risultato di un'operazione intellettuale «di secondo grado»), qualcosa cioè che è determinato dagli «atti immaginativi di comparazione e di generalizzazione» degli stessi studiosi? La risposta a questa domanda è contenuta, almeno in parte, nella stessa domanda, dato che coinvolge direttamente l'autoconsapevolezza degli studiosi: come scrive Smith, «chiunque si occupi di religione, e in special modo lo stori- 67 co delle religioni, è chiamato a riflettere in maniera instancabile su di sé: questo processo di autoriflessione critica costituisce anzi la sua prima area di specializzazione, il suo più importante campo di studio» 68 .

Abbiamo già accennato alle conclusioni che si potevano trarre -e si sono tratte -da queste affermazioni di Smith, intendendole come un invito a una dissoluzione ermeneutica dell'oggetto-religione e degli studi storico-religiosi. Il compito che ci attende ora sarà quello di mostrare, al contrario, come le implicazioni concrete di questi enunciati programmatici di Smith puntino in tutt'altra direzione, e rappresentino in primo luogo un richiamo all'esigenza di un maggiore rigore epistemologico. Si sarà notato, infatti, come in queste righe iniziali dell'introduzione a Imagining Religion abbiano già fatto capolino tutte le operazioni-chiave di cui si diceva più sopra, per esempio quando Smith si riferisce a problemi di «definizione», «comparazione» e «generalizzazione».

Nelle prossime pagine, ci concentremo soprattutto sulle prime due operazioni, dedicando più spazio alla prima a motivo della sua maggiore densità teorica. Per trattare i problemi legati alla definizione e alla classificazione, ci affideremo all'illustrazione e al commento di un singolo saggio di Smith, Fences and Neighbors (1980), ripubblicato in apertura a Imagining Religion 69 . Per i problemi della comparazione, la base critica sarà offerta da una ricostruzione delle principali tappe che condussero Smith a elaborare il suo manifesto metodologico sul tema, il volume «quasi monografico» di Drudgery Divine 70 . Ci auguriamo in questo modo di poter mostrare come l'immagine del laboratorio, per quanto oggi abusata, sia indubbiamente quella che si attaglia meglio a una descrizione delle procedure analitiche seguite da Smith, tanto più se concepiamo il laboratorio come uno spazio in cui si conducono esperimenti e si «costruiscono» risultati scientifici 71 . Alcune osservazioni conclusive sul disegno generale del nostro volume, infine, ci permetteranno di chiarire in che senso si possa parlare dei saggi che lo compongono come di altrettanti esercizi di rettificazione, ridescrizione e traduzione. 68

Classificare, definire: «il giudaismo, per esempio»

Per molti versi, potremmo benissimo considerare il saggio Fences and Neighbors: Some Contours of Early Judaism (letteralmente, «Recinzioni e vicini di casa: alcuni contorni del giudaismo antico») 72 come una sorta di lezione numero zero in un ipotetico corso smithiano di «metodo e teoria». La collocazione del saggio all'inizio di una raccolta intitolata Imagining Religion è in questo senso strategica: si comincia in medias res, affrontando immediatamente un problema d'interesse specialistico, com'è più che logico aspettarsi da un autore che si è sempre dimostrato attento agli effetti «perturbativi» e «spaesanti» dell'azione stessa di «introdurre» a un problema o a un terreno d'indagine (implicita in qualunque introduzione è infatti un'azione intrusiva, come accade quando si introduconodeliberatamente o accidentalmente -nuove specie animali o vegetali in un ecosistema che non è il loro).

In Fences and Neighbors, il problema che Smith si propone di affrontare è se vi sia stato o si possa compiere in futuro un «qualche progresso nell'identificazione dei tratti caratterizzanti di ciò che definiamo oggi come giudaismo antico». Con quest'ultima espressione (e con i suoi equivalenti in italiano, come «primo giudaismo» o «giudaismo primitivo»), ci si riferisce tecnicamente a quel vasto ed eterogeneo insieme di forme storico-religiose che presero avvio in ambiente giudaico nel cosiddetto periodo del secondo Tempio, tra VI sec. a.C. e I sec. d.C., allorquando i tratti dell'antica religione di Israele subirono profondi mutamenti sistemici e strutturali, conducendo a una vera e propria «rifondazione» della storia e dell'esperienza religiosa del popolo ebraico 73 come il problema che lo studioso dichiara di voler affrontare non sia meramente storico, ma coinvolga in prima istanza la dimensione riflessiva dell'operazione storiografica: in breve, l'obiettivo non è quello di parlare dei «tratti caratterizzanti» di un determinato sistema religioso (il «giudaismo antico»), come se la sua esistenza fosse cosa riconosciuta o sancita a priori, bensì quello di interrogarsi sulle procedure adoperate a livello accademico per identificare i tratti di ciò che gli studiosi definiscono «oggi» con la particolare etichetta di «giudaismo antico» 74 . Siamo dunque di fronte a un problema di definizione, che implica anche, logicamente, un problema di classificazione. Da qui l'originale proposta, avanzata da Smith, di esaminare il problema alla luce dei dibattiti tassonomici che si possono incontrare in un altro terreno di ricerca a lui familiare (anche se molto meno alla maggior parte dei suoi lettori, per i quali l'operazione avrà un sicuro effetto straniante): quello della classificazione scientifica delle piante, cui è consacrata tutta la prima parte del saggio.

Come esempio di problema tassonomico in botanica, Smith porta il caso dell'apparente somiglianza tra due diversi tipi di noci: una noce comune e una noce pecan. La scelta dell'esempio gli deriva da una suggestiva citazione del poeta francese Francis Ponge, sul valore cognitivo delle differenze 75 ; ma a ciò si aggiunge il fatto, riportato col consueto pizzico d'ironia, che Smith si è accorto di come la voce dedicata al giudaismo («Judaism») all'interno della quindicesima edizione dell'Encyclopaedia trad. it. di B. Santorelli, Paideia, Brescia 2020 (or. From the Maccabees to the Mishnah, Westminster John Knox Press, Louisville 1987; 2014 3 ).

74 E questo a prescindere dal fatto che sarà proprio alla fine di questo periodo che appariranno le prime attestazioni del vocabolo greco ioudaismós, una categoria indigena che sarebbe certamente scorretto e semplicistico identificare come equivalente del nostro «giudaismo», o trattare come prova che il giudaismo antico sarebbe stato il primo sistema religioso a dotarsi di un «nome proprio»: si vedano in proposito le puntuali osservazioni di B. Nongbri, Before Religion, cit., pp. 46 75 «Le analogie sono interessanti, ma lo sono meno delle differenze. L'importante è cogliere, attraverso le analogie, una qualità differenziale. Se io affermo che l'interno di una noce assomiglia a una pralina, questo è interessante. Più interessante, però, è capire quale sia la differenza. Far percepire l'analogia va bene. Ma il vero obiettivo è definire la qualità differenziale di una noce: questo è un vero progresso» (F. Ponge, Le grand recueil, vol. II, Méthodes, Gallimard, Paris 1961, pp. 41-42).

Britannica (1974) preceda immediatamente quella dedicata alle Juglandaceae, la famiglia di piante che include sia il noce comune (Juglans regia) che il pecan (Carya illinoinensis). Noce e pecan, però, pur producendo frutti molto simili, sono due specie di piante del tutto diverse, tanto che i botanici ne escludono risolutamente l'appartenenza a uno stesso genere 76 .

L'esempio del noce e del pecan consente quindi a Smith di imbastire una presentazione rapida ed efficace di alcuni princìpi generali di tassonomia botanica, partendo dal classico metodo di classificazione introdotto nel Settecento dal naturalista svedese Linneo (Carl von Linné) 77 . Alla base del sistema di Linneo, spiega Smith, troviamo l'impiego di unità sistematiche (taxa) organizzate secondo un sistema gerarchico, dove l'ordine procede dal taxon più generico (determinato dalle somiglianze) al taxon più specifico (determinato dalle differenze) 78 . La classificazione linneana dipende interamente da presupposti «monotetici»: vale a dire che, per distinguere un taxon da un altro e arrivare all'identificazione di una specie (l'unità di base di tutto il sistema), si va di volta in volta alla ricerca di una singola caratteristica, di un singolo tratto differenziale. La procedura richiede pertanto la formulazione di una sequenza di domande a risposta binaria, volte a certificare la presenza o l'assenza di tratti sempre più specifici, così da ottenere «una progressiva e ordinata riduzione delle caratteristiche di una specie a un singolo tratto». Nel caso del noce e del pecan, potremmo ad esempio domandarci: «Ha la clorofilla oppure no? Se sì, possiede veri fiori oppure no? 76 Lo si desume già dal loro nome scientifico, che rispecchia la consueta nomenclatura binomia in uso a partire dal Settecento: al nome generico, che identifica il genere di appartenenza della specie (qui, per esempio, Juglans), segue un epiteto specifico, che serve a distinguere la specie dalle altre specie appartenenti allo stesso genere (Juglans regia).

77 Sul contesto storico-intellettuale dell'opera di Linneo, e per un'analisi dei fondamenti teorici alla base del suo metodo di classificazione, si veda lo splendido libro di G. Barsanti Smith precisa in maniera opportuna che questo non sarebbe il procedimento ordinario utilizzato oggi da un botanico per ottenere una classificazione corretta del noce: lo scopo del suo esempio è semplicemente quello di mostrarci i limiti di una classificazione monotetica, utilizzando i criteri e la nomenclatura che avrebbe seguito Linneo. In primo luogo, possiamo allora notare come queste domande non ci aiutino a determinare che cosa distingua una pianta di noce da una qualunque altra pianta, ma soltanto che cosa possa distinguerla a un certo livello tassonomico, sulla base cioè di una precisa sequenza di fattori differenziali (in gergo, una «chiave» tassonomica). Vediamo inoltre come sia una singola qualità differenziale, rilevata e stabilita dall'osservatore, a determinare l'«unicità» della specie, la sua differenza specifica rispetto a un'altra specie: la scelta di questo carattere, tuttavia, risulta spesso arbitraria e -come sanno bene i biologi -può condurre ad ambiguità, incertezze e persino contraddizioni nella classificazione (può accadere ad esempio che a una specie vengano associati nomi diversi nel corso degli anni, poiché il suo nome tradizionale non ne riflette più la classificazione corrente).

Un altro ordine di problemi, molto più complesso, si affaccia nel momento in cui i vari raggruppamenti tassonomici -che nel sistema di Linneo dipendono esclusivamente da osservazioni di tipo morfologico, e riflettono pertanto suddivisioni convenzionali -sono chiamati a rendere conto di relazioni evolutive reali, cioè dei rapporti di discendenza filogenetica tra le specie (seguendo la teoria dell'evoluzione inaugurata da Darwin). A quest'ultimo tipo di classificazione si dà oggi il nome di «cla-distica», dal greco kládos, «ramo», da cui deriva anche il nome delle rappresentazioni grafiche a forma di albero che sono il risultato di questo tipo di classificazioni, chiamate appunto «cladogrammi». Nella classificazione cladistica i presupposti rimangono comunque monotetici, poiché a determinare l'unicità di una specie è sempre e soltanto una singola caratteristica, la quale però viene isolata dall'osservatore in base al principio dell'omologia, ossia identificando un tratto condiviso da più organismi in quanto discendenti da un progenitore comune. E anche questo, ovviamente, non avviene senza ambiguità o incertezze.

Smith, nondimeno, ha buon gioco nel rilevare come a questo primo tipo di classificazione se ne possa oggi affiancare un altro: un metodo rivale sviluppato dai biologi a partire dalla seconda metà del secolo scorso, rielaborando alcune intuizioni del naturalista francese Michel Adanson, che nel Settecento aveva proposto una metodologia alternativa a quella di Linneo. Si tratta della classificazione detta «fenetica» (dalla radice greca phain-, che indica il mostrarsi, il manifestarsi, l'apparire), nella quale gli organismi vengono raggruppati e classificati esclusivamente sulla base delle loro somiglianze e del loro numero di caratteri condivisi senza preoccuparsi né della loro filogenesi, cioè delle loro relazioni sul piano evolutivo, né del peso specifico da conferire ai singoli caratteri. Proprio per questo motivo, la fenetica è denominata anche «tassonomia numerica», e le sue rappresentazioni grafiche escludono del tutto la componente diacronica dall'analisi 80 . Nel caso della fenetica possiamo parlare di presupposti «politetici», dato che la classificazione dipende soltanto dalla quantità complessiva dei caratteri identificati come comuni, senza che un singolo carattere venga considerato più importante di un altro: si segue in esso un principio che ricorda quello delle «somiglianze di famiglia» di cui parlava Wittgenstein, «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda», dove un tratto comune a un determi-nato insieme di elementi (per esempio a due fratelli che appartengono a una famiglia, oppure a due giochi da tavolo, classificati appunto come «giochi») non può escludere la presenza o l'assenza, in quello stesso insieme, di tratti in comune con un altro insieme di elementi (per esempio a due cugini che appartengono alla stessa famiglia dei fratelli summenzionati, oppure a due giochi di carte, diversi da quelli da tavolo ma pur sempre identificati come «giochi»), per cui è necessario considerare più tratti senza privilegiarne previamente nessuno 81 . Per capire come si costruisca una classificazione politetica, basterà supporre di trovarsi di fronte a cinque oggetti (indicati da un numero) accomunati ciascuno da quattro tratti diversi (indicati da lettere): Tra i cinque oggetti non si riscontra alcun tratto che sia comune a tutti. I cinque oggetti formano però una piccola catena di anelli, determinata dalla loro condivisione parziale dei singoli tratti: (1) e (2) condividono i tratti ABC; (2) e (3) condividono i tratti ABE; (3) e (4) condividono i tratti ADE; (4) e (5) condividono i tratti CDE.

Semplificando il discorso, possiamo concluderne che nel primo tipo di tassonomia, quello dell'attuale cladistica (dove la chiave è monotetica), è sempre la «teoria» a guidare la classificazione, mentre nel secondo tipo, quello della fenetica (dove la chiave è politetica), la classificazione scaturisce dalla pura analisi statistica dei «dati». Ma come si collega tutto ciò con lo studio generale della religione e col problema iniziale di Smith, che era quello della classificazione e definizione del giudaismo antico?

Nella seconda parte del suo saggio, Smith comincia con l'osservare come gli stessi problemi teorici e metodologici che possiamo incontrare nella classificazione biologica si pongano anche nello studio della religio- 81 ne. Consideriamo le seguenti domande: Che cosa distingue la «religione» (in quanto entità generica) dagli altri taxa dell'esperienza umana? Che cosa distingue una singola religione (in quanto entità specifica) dalle altre religioni? E quali criteri possiamo adoperare per distinguere taxa subordinati (per es. «varietà») nell'ambito di una singola religione? Per Smithche avrà modo di tornare su questi problemi in maniera più approfondita in altri saggi, alcuni dei quali raccolti in questo volume 82 -non si sono mai date risposte soddisfacenti a tutte queste domande. O meglio, tutte queste domande non erano mai state formulate, fino ad allora, prestando la dovuta attenzione ai fondamenti epistemologici della classificazione e attraverso un confronto serrato coi procedimenti delle scienze biologiche.

I problemi individuati da Smith sono di ordine sia teorico che metodologico. Da un punto di vista metodologico, Smith rileva anzitutto come gli studiosi di religione abbiano sempre dimostrato una spiccata predilezione per le classificazioni di tipo monotetico. Resta difficile, però, immaginare che un singolo «tratto caratterizzante» possa funzionare abbastanza bene a livello tassonomico da consentirci di assegnare a una stessa classe di «religione» elementi tanto diversi quali, poniamo, l'astrologia babilonese, il buddhismo, il capitalismo, la dieta vegana, l'ecologia radicale, il feng shui, il gioco della pelota, Halloween, gli Illuminati di Baviera, il jedismo, il kabuki, ecc. Eppure, argomenterebbe Smith, se partissimo da una delle tante definizioni che sono state offerte finora di religione, potremmo tranquillamente provare a difendere l'inclusione o l'esclusione di ognuno di questi elementi tra i «fatti religiosi» 83 .

Questo ci fa capire come i problemi più gravi, per Smith, risiedano in realtà a livello teorico, perché gli studiosi di religione non si sono limitati a ignorare, in via generale, le difficoltà intrinseche a qualunque tentativo di classificazione di fatti sociali o culturali su basi monotetiche, ma hanno anche piegato le procedure ordinarie di questo tipo di classificazione a presupposti fallaci o di natura apologetica. Nelle parole di Smith: «a un primo livello di analisi, quello della distinzione della religione, [...] gli studiosi sono andati alla ricerca di un unico e definitivo sine qua non, di quel singolo carattere senza il quale la religione non sarebbe la religione, 82 ma una fattispecie (instance) di qualcos'altro» 84 . Negli studi di tipo fenomenologico, per esempio, si è cercato di presentare la religione come un'entità sui generis, come un summum genus (un «genere sommo») non riconducibile e perciò non relazionabile ad altri taxa dell'esperienza umana: ed è proprio per contrapporsi a questa tendenza che Smith escogiterà il bellissimo e intraducibile titolo della sua più importante raccolta di saggi, Relating Religion -dove il verbo to relate, che si può intendere come «comprendere, raccontare, riferire», allude anche al gesto di «mettere in relazione, collegare» 85 . Si è poi rivendicata «una qualche forma speciale di unicità, sia per la religione in generale che per le singole tradizioni religiose, concependo tale unicità come unilaterale e non-reciproca» 86 . Ma nelle procedure di classificazione scientifica, come si è visto nel caso del noce e del pecan, l'unicità è un presupposto del tutto ordinario, che non diventa mai uno «strano fattore di orgoglio»: le caratteristiche che identificano il noce sono quelle che ne rendono «unica» la specie rispetto al pecan; questo tuttavia non esclude che anche il pecan sia «unico» rispetto al noce, e non esclude nemmeno che essi possano apparire simili o diversi, ossia risultino comparabili, per molti altri rispetti.

Immaginiamo dunque di tradurre l'esempio del noce e del pecan nei termini del nostro problema: se dovessimo classificare o definire la «religione» o una singola religione -come appunto il «giudaismo antico» -sulla base di un singolo tratto differenziale, quale sarebbe tale tratto, e soprattutto da che cosa ci permetterebbe di distinguerle? Le cose, in effetti, non migliorano passando a questo secondo livello di analisi, che è poi quello che a Smith è sempre interessato di più: la classificazione delle religioni, oggetto precipuo del saggio che dà anche il titolo alla nostra raccolta, A Matter of Class: Taxonomies of Religion (1996). Anche in questo caso, rileva Smith, le procedure sono rimaste largamente monotetiche, e anche qui i presupposti della classificazione si sono rivelati quasi sempre fallaci o di natura apologetica. Se nel costruire la categoria generica di «religione», il peso maggiore lo ha avuto un preciso modello etnocentrico di religione, per lo più dedotto da una scala di valori fornita dal cristianesimo protestante (insistenza sul concetto di «fede», primato conferito all'«interiorità», svalutazione della dimensione rituale, centralità attribuita a un canone scritturisti-co, ecc.) 87 , gli studiosi, una volta posti di fronte all'esigenza di dover classificare le varie specie di «religione», non hanno fatto altro che applicare quella stessa scala di valori o un'altra a loro conveniente, partendo da un'opposizione di base tra «noi» (religione simile alla «nostra») e «loro» (religione diversa dalla «nostra»).

È a quest'ultima opposizione binaria -premessa logica di ogni etnocentrismo, ma anche fondamento indiscusso per tutte le operazioni ingenue di comparazione culturale -che Smith suggerirà sempre di ricondurre tutte le principali dicotomie elaborate dalla riflessione storico-religiosa di età moderna, fin dai primissimi tentativi di abbozzare una «scienza comparata» delle religioni. Tali tentativi, come appare oggi evidente 88 , si svilupparono in Europa nel solco della polemistica religiosa (tanto a livello interreligioso, sulla scia dei conflitti fra cristianesimo e islam, quanto a livello intrareligioso, sulla scia dei dibattiti interni al cristianesimo), acquistarono nuova forma e vigore grazie al contatto, spesso traumatico e violento, con le civiltà extraeuropee (la Cina e le «Indie», orientali e occidentali, le terre «altre» o «selvagge» descritte da viaggiatori, mercanti, missionari, conquistatori) e finirono poi per incrociarsi con quell'inedita visione prospettica del passato inaugurata nel frattempo dall'umanesimo e dalla filologia (per cui l'«altro», l'«esotico», lo «strano» potevano rivelarsi tali non più soltanto nella dimensione dello spazio, ma anche in quella del tempo). 89 Questo spiega come mai, nelle prime descrizioni «comparative» che si affacciarono tra quindicesimo e sedicesimo secolo, a governare la categorizzazione dei fatti «religiosi» fu il contrasto tra «fede» e «idolatria» o tra «religione vera» e «religione falsa», secondo uno schema che riproduceva il discorso apologetico del cristianesimo antico nei confronti dei culti «pagani» 90 . A un tale schema se ne aggiunse ben presto un altro, ugualmente di derivazione giudaico-cristiana: quello della «rivelazione», che supponeva il progressivo disvelamento, entro le maglie della storia umana e terrena, di una verità trascendente e divina.

Non stupisce allora quanto osservato da Smith in Fences and Neighbors, e più compiutamente nei successivi saggi A Matter of Class e Religion, Religions, Religious: non appena lo studio comparato delle religioni divenne oggetto di insegnamento universitario, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, le grandi classificazioni tipologiche delle religioni non fecero altro che variare su uno di questi due schemi di base, o si presentarono come una combinazione più o meno sofisticata di entrambi -distinguendo di volta in volta tra religioni «naturali» e religioni «etiche» (o «rivelate»), tra religioni «mitiche» (o «cosmiche») e religioni «storiche», tra religioni «mistiche» e religioni «profetiche» (o «fondate»), tra religioni «etniche» (o «nazionali») e religioni «universali», tra religioni «senza libro» e religioni «del Libro», e via via identificando tipi e sottotipi per ciascuna di queste tipologie 91 . In tutte queste classificazioni binarie, i due termini della coppia nascondevano quasi sempre un implicito giudizio di valore, vuoi sotto forma di primato assiologico, vuoi come travestimento di uno schema evolutivo sancito a priori (dipendendo, in entrambi i casi, da una teoria generale sulla «religione» o sulle «origini» della religione): per cui a uno dei due elementi venivano associate valenze negative, all'altro valenze positive; un elemento risultava più «semplice», l'altro più «complesso»; uno era «meno evoluto», l'altro «più evoluto» 92 . Di conseguenza, a prescindere dal valore euristico che tali opposizioni ebbero nel «mostrare» qualcosa agli studiosi sotto un profilo storicocomparativo, era chiaro che su di esse non si sarebbe potuta edificare alcuna classificazione realmente «scientifica». E anche quando gli studiosi proveranno a muovere da criteri di tipo squisitamente geografico, come nell'invenzione della grande categoria delle «religioni mondiali» 93 , o quando prenderanno spunto dalla linguistica comparata elaborando altre «coppie provvidenziali», come quella tra «ariani» e «semiti» (cioè tra religioni «indoeuropee» e religioni «semitiche»), i presupposti e i risultati dell'operazione non si riveleranno di certo meno ambigui e problematici 94 .

A scorrere oggi un tale profluvio di proposte, è difficile non dar ragione alla feroce disanima di Smith. L'impressione è che gli studiosi si siano davvero impegnati a raccogliere la sfida lanciata alla fine dell'Ottocento da Friedrich Max Müller, non per nulla considerato il padre fondatore dello studio comparato delle religioni: Classify and conquer, «Classifica e conquista!» 95 . Ma una tale conquista si è dimostrata essere, alla fine, più un affare di «politica» che di «scienza» (com'era invece negli intendimenti originari di Max Müller, seppur venati essi stessi di sottintesi imperialistici) 96 .

Ugualmente fallimentari, per Smith, appaiono i tentativi di imbastire una tassonomia fenomenologica delle religioni a partire da singoli tratti che definiscano l'«essenza» delle varie tradizioni religiose: per cui le antiche religioni dell'India potrebbero essere definite «religioni dell'infinità e dell'ascesi», il buddhismo, per parte sua, una «religione della pietà e dell'annullamento», la religione greca una «religione dello slancio e della forma», il giudaismo una «religione della volontà e dell'obbedienza», il cristianesimo una «religione dell'amore», e via discorrendo 97 . Nel caso migliore, nota amaramente Smith, caratterizzazioni di questo tipo non rappresentano nulla più che crude semplificazioni: sono troppo astratte e generiche per poter servire a qualcosa da un punto di vista comparativo o tassonomico; nel caso peggiore, esse riproducono meri «slogan», tratti di peso dalla propaganda delle stesse tradizioni che pretendono di descrivere.

E tuttavia l'alternativa, per Smith, non può essere quella di rinunciare a classificare. Pur riconoscendo come la classificazione possa servire e sia servita da strumento di conquista culturale o politica, il suo abbandono equivarrebbe a una «rinuncia al pensiero» 98 . Lo stesso Smith rifletterà a lungo, per esempio, sulla possibilità di una classificazione binaria delle religioni, proponendo di distinguerle in base al loro rapporto con gli spazi e individuando un'opposizione morfologica tra visioni del mondo «locative» e «utopiche», le prime interessate a delimitare e fondare il «mondo», le seconde a oltrepassarne i limiti 99 . Perciò è evidente che egli avrebbe pienamente sottoscritto un'altra affermazione di Max Müller, per cui qualunque forma autentica di scienza «riposa sulla classificazione». Obbedendo ai presupposti linguistici del proprio progetto comparativo, Max Müller chiosava che «è soltanto se non riusciremo a classificare i vari dialetti della fede che saremo costretti ad ammettere l'impossibilità di una scienza della religione» 100 . Come evitare allora che anche questa sua frase si trasformi, da scommessa che era, in involontaria profezia? 97 Si veda l'elenco più ampio discusso rapidamente da Smith La proposta di Smith è duplice, interessando da una parte il «metodo» e dall'altra la «teoria», e diventa oggetto di una preliminare illustrazione pratica nella terza e ultima parte di Fences and Neighbors, dedicata finalmente a sciogliere il quesito iniziale del saggio. Sul piano teorico, tale proposta prevede in primo luogo l'abbandono di qualunque definizione essenzialista di «religione»: sia a livello generico, con riferimento alla categoria di «religione», sia a livello specifico, con riferimento alle singole tradizioni religiose. Smith non lo fa, ma si sarebbe potuto richiamare, per questo punto, a una famosa osservazione metodologica di Darwin: «In breve, dovremo trattare le specie come i naturalisti trattano i generi, quando ammettono che i generi sono solo combinazioni artificiali fatte per comodità. Forse non è una prospettiva allettante, ma almeno ci saremo liberati dalla vana ricerca dell'essenza, non scoperta e non scopribile, del termine specie» 101 .

Questo implica che si cessi di guardare alla «religione» come a una realtà naturale, come a qualcosa che si trova «là fuori»; ma un discorso analogo andrà fatto anche per le singole tradizioni religiose, dal momento che queste non potranno essere ridotte a espressioni di una qualche essenza immutabile, né andranno trattate come oggetti dotati di identità immodificabili e statiche 102 . In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a categorie di «secondo grado», che sono il risultato -implicito o esplicito, «emico» o «etico» -di «atti immaginativi di comparazione e di generalizzazione» 103 .

In linea di principio, nota Smith, non c'è nulla che si opponga all'idea di poter elaborare in futuro più accurate rappresentazioni «filogenetiche» dei rapporti tra varie tradizioni religiose, sul modello dei cladogrammi prodotti dalla sistematica biologica; ma una tale operazione imporrebbe in ogni caso di «rifiutare il presupposto impossibile di [ 106 Non dobbiamo pensare, infatti, a un'analisi che escluda la necessità di interpretare i dati o di riflettere a partire da essi. In questo senso, l'approccio delineato da Smith ha poco o nulla a che vedere con le analisi computazionali di tipo quantitativo e statistico che definiamo oggi come «data-driven». Valgono dunque anche per Smith le stesse cautele che sono state espresse di recente da Franco Moretti in riferimento a un altro ambito di ricerca, quello degli studi sulla letteratura (cfr. F. Moretti, Falso movimento. La svolta quantitativa nello studio della letteratura, nottetempo, Roma 2022, pp. 12-13): «'Data-driven' vuol dire due cose: che un gran quantità di dati può agire come un pungolo potente alla ricerca, il che è vero; e che la ricerca stessa può essere letteralmente guidata dai dati, il che è falso. Gli strumenti con cui si lavora sui dati dipendono sempre da una teoria: se una teoria non c'è, a prenderne il posto saranno, fatalmente, dei luoghi comuni che circolano nell'aria»il che è esattamente l'opposto di quanto auspicato da Smith. procedere pertanto all'identificazione di un campionario sufficientemente ampio di «tratti caratterizzanti», senza badare al peso o all'importanza dei singoli tratti 107 , e proseguire poi con la loro «mappatura» analitica.

Per spiegare cosa significhi e cosa comporti, all'atto pratico, questo «farsi guidare dai dati», Smith ricorre, nella parte finale di Fences and Neighbors, alla descrizione di due micro-esperimenti, definendoli «propedeutici al compito che ancora ci attende di costruire una classificazione politetica del giudaismo antico» 108 . Per prima cosa, lo studioso suggerisce di selezionare un singolo indicatore tassonomico che risulti aver funzionato, nel quadro storico che ci interessa, da «agente di discriminazione interna», cioè da classificatore e da marcatore di identità, analizzandone poi le diverse applicazioni: per questo primo esercizio, Smith propone di concentrarsi sulla pratica della circoncisione maschile. Nel secondo microesperimento la procedura dovrà essere inversa: qui l'analisi dovrà concentrarsi su un gruppo selezionato di fonti -che per Smith saranno alcune iscrizioni funerarie di provenienza ebraica -e procedere a una mappatura di tutti gli indicatori tassonomici presenti in esse; tali indicatori andranno in seguito analizzati e comparati sulla base di altri dati. «In nessuno dei due esercizi», sottolinea Smith, «l'intento dovrà essere monotetico» 109 .

A interessarci è soprattutto il primo di questi micro-esperimenti, dove Smith sceglie di concentrarsi su una pratica che risulta effettivamente aver funzionato, nel quadro storico del giudaismo antico, da indicatore tassonomico e da classificatore etnico-religioso -anche se, rileva accortamente lo studioso, «nel complesso delle Scritture ebraiche, come nel Corano dove non è mai menzionata, la circoncisione appare presupposta (assumed) piuttosto che imposta (enjoined)» 110 . Un testo-chiave per questo può essere individuato nel racconto fondativo di Genesi 17, 1-14, dove la circonci-107 «I biologi», scrive Smith, «ne identificano da cinquanta a cento, e basta il possesso di una qualunque di tali caratteristiche a garantire l'inclusione in un taxon» (J.Z. Smith, Fences and Neighbors, cit., p. 8).

108 Ibi, p. 9. 109 J.Z. Smith, Fences and neighbors, cit., p. 9. 110 Ibi, p. 9. Parliamo qui di «classificatore etnico-religioso» avendo ben chiara la difficoltà, se non proprio l'impossibilità, di distinguere i due piani nel contesto storico di cui si sta occupando Smith: sui rapporti fra religione ed etnicità nelle società e nelle culture del Mediterraneo antico, si vedano i saggi in J. sione dei figli maschi, da eseguirsi all'ottavo giorno dalla nascita, viene qualificata come il «segno del patto» (in ebraico, 'ôt bǝrît) fra il dio di Israele e il suo popolo, per la precisione fra «Dio Onnipotente» ('ēl šadday) da una parte e «Abramo e la sua discendenza» dall'altra 111 . La figura di Abramo funge quindi, nel racconto, da antenato mitico del gruppo, mentre la circoncisione rappresenta il segnale fisico dell'appartenenza a quel gruppo (cfr. anche Gen. 34, 14-17; ed Es. 12, 43-49). È del tutto evidente, lascia intendere Smith, che se ci basassimo soltanto su questo brano potremmo arrivare all'indebita conclusione di aver individuato quel «singolo tratto differenziale» -la circoncisione -che ci permette di classificare un individuo come appartenente alla specie, chiamiamola così, Judaica priora (e magari, risalendo un'ipotetica scala, persino al genere Judaicae, famiglia Abrahamiae, ordine Revelatae, classe Religiones...). Volendo tradurre tutto questo nei termini dell'esempio del noce -operazione che Smith avrebbe certamente apprezzato, considerando l'etimologia del latino Juglans, la stessa da cui derivano «ghianda» e «glande» -, otterremmo la seguente «domanda discriminatoria finale»: È un maschio oppure no? Se è un maschio, è circonciso oppure no? Se è circonciso, allora deve trattarsi di...

Ma le cose, come dovremmo aver intuito, non sono affatto così semplici. Un primo problema, sul quale Smith non si sofferma, è posto ad esempio dalla limitazione di genere: la circoncisione, qualora considerata come criterio distintivo di appartenenza, escluderebbe ipso facto le donne dal taxon «giudaismo» o «Israele» 112 . Da un punto di vista strettamente tassonomico, e scomodando addirittura il buon Darwin, potremmo subito 111 L'idea biblica di «patto» o «alleanza» (in ebraico, bǝrît, termine tradotto in greco come diathékē e in latino come testamentum, da cui deriva il titolo che i cristiani danno alle raccolte canoniche dell'Antico e del Nuovo Testamento) implica un contratto fra due parti vincolato da un giuramento, sul modello degli antichi trattati che regolavano i rapporti fra stati sovrani e vassalli nel Vicino Oriente antico. Il patto con Abramo, specificamente, è un patto di sangue: si fonda sulla discendenza e non appare soggetto a clausole particolari (la circoncisione ne è soltanto il «segno»). In quanto incondizionato, esso rientra in una delle due tipologie fondamentali di patto che troviamo descritte nelle Scritture ebraiche: nell'altra tipologia (ben rappresentata dal caso di Mosè, in Es. 19-20), il patto appare invece condizionato e si basa sull'adesione alle sue clausole.

112 Un problema, questo, che ci si pose anche nell'antichità, e che non mancò di essere utilizzato in chiave polemica dalla propaganda antigiudaica dei cristiani: cfr. S.J.D. condo racconto dell'alleanza di Abramo sono comunemente assegnati dagli studiosi alla cosiddetta «fonte sacerdotale» del Pentateuco -in sé un prodotto che risalirebbe agli inizi del periodo storico oggetto dell'esame di Smith -, e potrebbero di conseguenza essere valutati come spie del bisogno di distinguere la propria pratica da quella di popolazioni limitrofe, caricandola di nuovi significati. Un chiaro esempio di questa dinamica di differenziazione identitaria si trova nell'oracolo di Geremia 9, 25-26, che qualifica una serie di popoli stranieri come «circoncisi eppure incirconcisi», lasciando intendere che la loro circoncisione non abbia alcun valore da un punto di vista ebraico; mentre in Deuteronomio 30, 6, come già in Geremia 4, 4, si richiede a Israele di affiancare alla circoncisione fisica del prepuzio anche una «circoncisione del cuore», cioè, metaforicamente, un'adesione intima e profonda a ciò che gli autori di questi testi ritenevano essere il significato «autentico» della pratica 118 . Sbaglieremmo, tuttavia, a pensare che soluzioni normative di questo genere siano riuscite a imporsi come le uniche valide o percorribili, tanto da permettere di assegnare significati univoci alla circoncisione o da farla ritenere un tratto distintivo e irrinunciabile dell'identità ebraica. Un caso estremo, fra quelli citati da Smith, è rappresentato dalla soluzione (ma potremmo anche dire «dissoluzione») che si affaccerà più avanti negli ambienti del giudaismo ellenistico, in particolare con Filone di Alessandria (I sec. d.C.), nei cui scritti la circoncisione conserva a stento un qualche valore identitario: la sua diffusione presso altri popoli, in primis gli Egiziani, ne certifica più che altro la «ragionevolezza» sotto il profilo igienico 119 . 118 Per una storia dei vari significati assegnati alla circoncisione nel giudaismo antico, si veda S.J.D. 119 Cfr. in particolare Filone, Spec. 1, 2-3. Sembra che in Egitto la pratica fosse rimasta appannaggio soprattutto delle cerchie sacerdotali, presso le quali era considerata un segno di purezza rituale. Filone, altrove, riferisce anche il caso di alcuni ebrei che avrebbero riconosciuto alla circoncisione, così come ad altre pratiche rituali giudaiche, un mero Tutto ciò, beninteso, non impedirà a molti osservatori «pagani» di guardare alla circoncisione come a un costume tipicamente ebraico, accanto ad altre usanze ugualmente caratterizzanti come l'osservanza del riposo sabbatico o l'astensione dalla carne di maiale 120 . In maniera significativa, tutte queste prime immagini stereotipate del giudaismo -talora circonfuse di una fascinazione esotica, ma più spesso venate di derisione o disprezzo -cominceranno a diffondersi in età ellenistica, in concomitanza con quel fatale incontro-scontro fra mondo ebraico e cultura greca che sarà destinato a scatenare fortissime tensioni identitarie all'interno degli stessi ambienti giudaici. Non per nulla è anche questo il momento in cui si registra la maggiore varietà di posizioni «borderline» rispetto al valore differenziale della circoncisione, e non soltanto nei territori della diaspora. Ben prima che il sovrano seleucide Antioco IV Epifàne occupasse la Giudea e si risolvesse ad applicarvi una violenta politica di «ellenizzazione forzata» che culminò nella proibizione, fra le altre cose, della circoncisione (175-167 a.C.), sappiamo di giudei «ellenizzanti» che avevano già deciso da tempo di rifiutare la pratica o di mascherarne chirurgicamente gli effetti (con la tecnica nota come «epispasmo»), ma che nonostante questo, con ogni probabilità, non avevano mai cessato di considerarsi parte di «Israele» 121 . A questa convulsa situazione di crisi reagirà con successo la grande rivolta nazionalista dei Maccabei (166-164 a.C.), i quali però, stando alle stesse fonti che ne esaltarono le gesta, dopo la vittoria si trovarono in qualche caso costretti a reimporre la circoncisione al popolo, cosa che fa supporre che non tutti l'avessero abbandonata malvolentieri 122 .

Ma il caso più emblematico, per i tanti quesiti che solleva sotto il profilo che ci interessa, è probabilmente quello che incontriamo due secoli più avanti con Paolo, l'«apostolo» e seguace di Gesù di Nazareth le cui lettere Smith annovera in maniera più che giustificata tra le fonti da porre al vaglio per una ricostruzione storica del giudaismo antico. Smith definisce Paolo «una figura eminentemente boundary-crossing», con ciò riferendosi all'operazione di travalicamento dei confini etnico-religiosi di Israele messa in atto dall'apostolo nella sua predicazione itinerante del «vangelo» (si pensi al principio-guida paolino di «diventare tutto per tutti, così da salvare in ogni modo qualcuno»: 1 Cor. 9, 22). Questo, ad ogni modo, non impedisce allo studioso di notare come in Paolo si trovi al contempo la più «estrema e insistente» difesa del valore tassonomico della circoncisione 123 . Paolo, in effetti, non si limita nelle sue lettere a fare appello alla circoncisione per certificare le proprie credenziali ebraiche 124 , ma ne fa anche l'espressione metonimica del contrasto da cui dipende la sua stessa autocomprensione di apostolo: ossia l'opposizione fra «Israele» e «le Genti», o fra «Giudei» e «Gentili/Greci», che diventa nei suoi scritti un'opposizione fra «circoncisione» (peritomḗ) e «incirconcisione» (akrobystía, letteralmente «prepuzio») 125 . Paolo proclama in tal senso di provenire «dai circoncisi», ma anche di aver ricevuto l'incarico di predicare il vangelo di Gesù, lui «servo della circoncisione» (Rom. 15, 8), agli «incirconcisi» (cfr. per es. Gal. 2, 7). Da qui deriverebbero, secondo Smith, i tentativi dell'apostolo di elaborare un nuovo taxon, che potesse designare 122 Cfr. in particolare 1 Maccabei 2, 46-47 e la breve analisi che propone Smith di questo passo in Fences and Neighbors, cit., pp. 12-13. 123 Ibi, p. 13. 124 Il passo più indicativo si trova nella Lettera ai Filippesi (3, 5), dove Paolo si autodescrive come «circonciso l'ottavo giorno, israelita, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei e fariseo quanto alla Legge» (cfr. anche 2 Cor. 11, 22; e Rom. 11, 1). 125 Sull'uso paolino di queste e di altre categorie nella classificazione di gruppi etnici e culture, si veda la pioneristica analisi di A. Destro -M. Pesce, Antropologia delle origini cristiane, Laterza, Roma -Bari 1995, pp. 131-146. I due autori rilevano come l'insistenza paolina sulla circoncisione e l'incirconcisione segnali un'attenzione nei confronti «dell'elemento religioso [...] che il termine 'le Genti' lascerebbe indifferenziato». La preferenza di Paolo per il binomio «Giudei» e «Greci» rifletterebbe invece «la dimensione sociologica della presenza ebraica nella diaspora», rimarcando da un lato la provenienza geografica degli ebrei, e dall'altro il fatto che «l'ambito in cui [Paolo] sperimenta la contrapposizione tra Ebrei e non Ebrei è quello ellenistico» (ibi, pp. 134-135). la fisionomia sociale dei gruppi che si andavano componendo attorno alla sua predicazione: giacché, nelle parole di Paolo, «non c'è più giudeo né greco [...] ma voi siete uno nel Messia Gesù» (Gal. 3, 28); e «né la circoncisione né l'incirconcisione sono alcunché, ma [quel che conta è] una nuova creazione» (Gal. 6, 15) 126 .

Queste affermazioni, tuttavia, non si possono comprendere prescindendo dalla loro funzione retorica e ideologica nel quadro della comunicazione epistolare paolina, e senza considerarne i destinatari specifici. Nel caso di questi ultimi versetti, tutti tratti dalla Lettera ai Galati, è importante osservare che Paolo si sta rivolgendo a un uditorio composto esclusivamente da «gentili», e sta prendendo posizione nel contesto di un'accesa polemica con alcuni predicatori rivali (probabilmente appartenenti come lui al movimento di Gesù) attorno alla necessità che questi gentili avrebbero avuto di circoncidersi, cioè di farsi «giudei», per ottenere la «giustificazione» (cioè per essere dichiarati «giusti», e in ultima analisi «salvarsi») agli occhi di Dio. L'apostolo non si sta quindi opponendo alla circoncisione in sé e per sé, ma soltanto alla circoncisione come requisito da imporre a non ebrei che intendano far parte del suo gruppo. Il suo ragionamento, di conseguenza, non implica un'abolizione o un superamento delle distinzioni etniche, ma unicamente una loro sospensione da un punto di vista sociologico (permettendo una composizione mista dei gruppi di seguaci di Gesù) ed escatologico (sostenendo che la «salvezza» dei non ebrei non debba richiedere una loro adesione alla Legge mosaica) 127 .

Come un'ampia serie di studi recenti ha dimostrato in maniera convincente, l'orizzonte dell'«universalismo» paolino rimane fondamentalmente etnocentrico, e non può essere svincolato dalla sua cornice apocalittica: Paolo era convinto che Gesù fosse il Messia, il «Cristo» preannunciato dalle Scritture di Israele, e che questi avesse inaugurato, con la sua morte e risurrezione, i «tempi ultimi» di cui avevano parlato i profeti, quando «tutte le Genti» si sarebbero finalmente unite al popolo ebraico 126 Traduciamo qui e di seguito il termine greco christós -che costituisce una resa letterale dell'ebraico māšîaḥ, «unto» -con l'italiano «messia», per defamiliarizzare il testo di Paolo e sottrarlo a una pre-comprensione in senso cristiano. Nella maggior parte dei casi, Paolo utilizza il vocabolo come un titolo onorifico che qualifica la persona concreta di Gesù (più o meno al modo con cui, al suo tempo, ci si riferiva all'imperatore romano col titolo di «Augusto»): sull'uso paolino del termine nel suo contesto storico e culturale, si veda M.V. Novenson, Christ among the Messiahs: Christ Language in Paul and Messiah Language in Ancient Judaism, Oxford University Press, Oxford 2012. 127 Si spiega così l'ingiunzione che chiude il brano di 1 Corinzi 7, 17-24, dedicato al problema delle differenze etniche e sociali: «Ciascuno, fratelli, rimanga di fronte a Dio nella condizione in cui si trovava quando venne chiamato».

nell'adorare l'unico vero dio (che era ovviamente il dio etnico di Israele) 128 . Non tutti gli ebrei, naturalmente, la pensavano così: al di là del riconoscere o meno in Gesù «il Messia» (o anche solo dell'aspettare l'arrivo di una qualunque figura messianica), non tutti concordavano sulla sorte che sarebbe toccata ai gentili alla fine dei tempi 129 , e mancava persino un accordo sui requisiti da imporre a quanti manifestassero il desiderio di convertirsi al giudaismo o di praticare una forma di culto al dio di Israele che non prevedesse un'adesione totale ai precetti mosaici (come nel caso dei cosiddetti «timorati di Dio») 130 . Paolo, intervenendo in tutti questi dibattiti, dimostra di opporsi alla visione dei propri avversari sulla base di una serie di argomentazioni molto complesse che non si possono riassumere qui, ma che certamente dovevano implicare una di queste due opzioni: o che i gentili non dovessero diventare giudei (perché non ne avevano bisogno: non era quello il «piano» escatologico previsto per loro) 131 ; o che i gentili non potessero diventare giudei (perché l'unica cir- 132 . Nessuno di questi due casi avrebbe contemplato il bisogno di creare un nuovo taxon: questa fu, semmai, un'esigenza avvertita in seguito dai cristiani, nel momento in cui -anche richiamandosi a Paolo -si concepirono come appartenenti a un sistema religioso autonomo e diverso rispetto al giudaismo. A essere in gioco nelle lettere di Paolo, è piuttosto una riconfigurazione apologetica del vecchio taxon «Israele», come si evince da un passo come quello di Romani 9, 6, dove si afferma che «non tutti gli Israeliti sono il vero Israele»: una frase che il cristianesimo successivo interpreterà in chiave antigiudaica, arrogandosi il titolo di «vero Israele», ma che nel ragionamento di Paolo non implicava nulla di tutto questo 133 . Basterà notare come il grande problema discusso ai capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, cioè il rifiuto di molti ebrei di accettare la messianicità di Gesù, riceva in Paolo una soluzione non tassonomica, bensì escatologica: Paolo descrive tale rifiuto come parte di un misterioso piano divino, una concessione straordinaria e temporanea della divinità per consentire l'«innesto» delle Genti «nell'olivo di Israele» -un'operazione che l'apostolo descrive, in maniera significativa, come «contro natura» (parà phýsin: cfr. Rom. 11, 24-25). Ciò che rintracciamo nelle lettere paoline, più che l'esigenza di elaborare un nuovo taxon, è pertanto l'affermazione di nuovi «tratti differenziali» come la «fede» in Gesù, il rito del battesimo o il possesso carismatico dello «spirito» -tutti elementi che, per una classificazione politetica del giudaismo, meriterebbero di trovare posto accan-Ed P. Sanders e James D.G. Dunn (al quale si deve l'espressione): a contraddistinguere questi studi è la messa in questione della tradizionale lettura teologica di Paolo di ispirazione agostiniano-luterana, che scorge nell'idea paolina di «giustificazione per fede» un'opposizione alla visione, che sarebbe «giudaica», della «giustificazione tramite le opere» (con retroproiezione anacronistica dei dibattiti moderni fra cattolici e protestanti).

132 È l'ipotesi avanzata di recente da C. to alla circoncisione, visto che funzionano da «agenti di discriminazione interna» 134 . La discriminazione, per Paolo, coinvolge giudei e gentili, ma agendo in maniera diversa, permettendo di operare distinzioni soltanto all'interno delle due categorie e senza abolirne la fondamentale polarizzazione. Di conseguenza, quanti fra gli ebrei non riconoscono in Gesù il Messia annunciato dalle Scritture rimangono pur sempre «Israele», seppure «con qualcosa di meno»; mentre i non ebrei che hanno fede in Gesù rimangono pur sempre «le Genti», ma questa volta «con qualcosa di più». E quel «qualcosa di meno» o «qualcosa di più» non è altro che la particolare configurazione di giudaismo promossa e difesa dall'apostolo 135 .

In conclusione, questo lungo excursus sulla circoncisione dovrebbe averci fatto cogliere due aspetti importanti della proposta metodologica di Smith. In primo luogo, che per imbastire una definizione del «giudaismo antico», come di qualunque «religione», è del tutto inadeguato affidarsi a criteri di tipo monotetico, a maggior ragione se i tratti differenziali che stiamo usando per la nostra operazione sono desunti da un'immagine normativa di quella stessa religione, cioè da un corpus di testi, dottrine o pratiche considerati «canonici». In secondo luogo, che l'ampio spettro di applicazioni che è in grado di ricevere un singolo tratto differenziale, sia a livello diacronico (nel tempo) che a livello sincronico (nello spazio), come 134 Una definizione precisa di questi tratti richiederebbe molto spazio ed esula dagli scopi di queste pagine: essi andrebbero in ogni caso sottratti a una lettura anacronistica in senso cristiano. Per un tentativo di presentazione sistematica della figura di Paolo che tenga conto del suo pieno inserimento nel giudaismo del I secolo, cfr. ultimamente P. 135 Quando, vent'anni dopo Fences and Neighbors, Smith tornerà a occuparsi della figura di Paolo, ne descriverà l'operato come un esempio di «intrusione entro formazioni religiose native», il cui risultato fu un insieme differenziato e locale di «esperimenti sociali», dove l'interazione e lo scambio fra entrambi gli attori coinvolti nel processo (Paolo da una parte e i suoi destinatari dall'altra) comportò di necessità l'elaborazione di differenti strategie reciproche di «incorporazione» e «resistenza»: cfr. J.Z. Smith, Re: Corinthians, in Relating Religion, cit., pp. 340-361: spec. 347-352. si è visto nel caso della circoncisione, conferma la necessità di affidarsi a criteri di tipo politetico per le nostre operazioni di classificazione.

Si potrà obiettare, per quanto attiene al primo punto, che il caso di Paolo e dei suoi «gentili», come quello del «partito dell'incirconcisione» che si sarebbe affacciato in Giudea in età ellenistica, non costituiscono che «anomalie» da un punto di vista «normativo». Ma è proprio il loro essere anomalie a renderli tassonomicamente rilevanti. In qualche modo, questi casi rappresentano un corrispettivo di quell'«eccezionale normale» sulla cui importanza hanno sempre insistito gli studiosi italiani di microstoria, presentandolo come una chiave di accesso per arrivare alla generalizzazione storica: «perché le anomalie includono necessariamente le norme, mentre non è vero l'inverso» 136 . Passando invece al secondo punto, abbiamo visto che la circoncisione poteva essere una condizione necessaria ma non sufficiente di appartenenza al taxon «Israele»: ed è proprio questo che dovrebbe spingerci, in una prospettiva politetica, a considerarla al contrario come una condizione sufficiente ma non necessaria.

A confermare quest'ultimo punto giunge il secondo dei microesperimenti di Fences and Neighbors, sul quale non servirà soffermarsi altrettanto a lungo. Qui, come anticipavamo, Smith suggerisce di prendere in esame un gruppo ben definito di materiali, rintracciando al loro interno il maggior numero possibile di indicatori tassonomici. A illustrazione del modo in cui si potrebbe procedere, la scelta cade su tre raccolte di iscrizioni funerarie (584 provenienti da Roma, 318 da Bet She'arim in Galilea e 92 dall'Egitto), tutte identificabili a vario titolo come di origine ebraica. Concentrarsi su questo tipo di fonti, sottolinea Smith, presenta almeno tre vantaggi. In primo luogo, queste iscrizioni rappresentano un campione significativo di materiali che appartengono a una stessa tipologia documentaria, ma che al contempo provengono da località diverse e sufficientemente distanti fra loro. In secondo luogo, si tratta di reperti sui quali abbiamo a disposizione una notevole quantità di studi. Infine, più rilevante per i nostri obiettivi è «il fatto che le iscrizioni funerarie sono composte, per loro stessa natura, da etichette. Non identificano soltanto il nome del defunto, ma an-che il modo in cui il defunto o i suoi parenti desideravano che questi fosse ricordato. Si tratta dell'unica grande raccolta di fonti del giudaismo antico che mostra solo di rado un carattere argomentativo o prescrittivo» 137 .

Su un totale di 944 iscrizioni, e limitando l'analisi al solo testo delle epigrafi (senza cioè considerarne gli elementi iconografici), il risultato preliminare ottenuto da Smith è il seguente: 111 iscrizioni identificano il defunto attraverso uno più titoli che alludono a specifici incarichi sinagogali (troviamo in tutto 14 titoli diversi); 26 menzionano la sinagoga di cui il defunto faceva parte; 25 si riferiscono al defunto con l'appellativo di «pio» (in greco o in ebraico); 23 lo identificano come «rabbi»; 11 ne menzionano il lignaggio sacerdotale; 11 si riferiscono genericamente alla divinità; altre 11 si riferiscono alla «Legge»; 9 identificano il defunto come «ebreo», 7 come «giudeo», 1 soltanto come «israelita»; si riscontrano infine varie altre designazioni dotate di un'unica occorrenza. Come osserva immediatamente lo studioso, «se trattassimo questa raccolta epigrafica come un indice di caratteristiche, dovremmo dedurne che le più frequenti erano l'uso del greco e l'indicazione di appartenenza a una sinagoga» 138 . Di per sé, si tratterebbe di un risultato non certo privo di un qualche interesse. «Ma se questi dati», prosegue Smith, «venissero separati per provenienza geografica e analizzati anche solo in relazione a queste due caratteristiche, essi concorrerebbero a formare raggruppamenti (clusters) significativamente diversi». Così facendo, potremmo notare ad esempio che il greco, predominante nelle iscrizioni egiziane, a Bet She'arim è attestato soltanto in un piccolo sottogruppo di epigrafi, le quali rimandano tutte a gruppi familiari specifici; vedremmo che a Roma una buona metà delle iscrizioni contiene riferimenti alla vita sinagogale, ma con significative varianti espressive da una zona all'altra, mentre in Egitto tali riferimenti sono completamente assenti; o ancora, potremmo rilevare che il titolo di «rabbi» è presente soltanto a Bet She'arim, mentre quello di «pio» è attestato ovunque, oppure che i riferimenti al lignaggio sacerdotale non compaiono in Egitto, quando invece a Roma e in Galilea qualificano indifferentemente defunti di sesso maschile o femminile 139 . E si potrebbe continuare ad libitum, aggregando e riaggregando i dati alla luce di ulteriori fattori archeologici, epigrafici, geografici, linguistici e socioeconomici, oppure concentrandosi su un singolo dato o un gruppo di dati e analizzandone il rapporto con altri dati a livello locale o translocale, e comparando infine questi dati con quelli che possiamo ricavare da altre fonti. Bastano allora questi pochi esempi a farci intuire le enormi potenzialità di un'analisi politetica e multiscalare, che non si accontenti di registrare il peso numerico degli indicatori tassonomici che siamo in grado di dedurre da un insieme discreto di fonti, ma ne comprenda anche la diversa funzione a seconda del raggruppamento in cui possono venire inseriti. Grazie a uno spoglio analitico di questo tipo, quella che otterremmo alla fine, per riprendere la metafora «popolazionale» di cui si diceva in precedenza, non sarebbe un'immagine uniforme, «tipica» e «astratta», della classe «giudaismo», ma la contrario un quadro sfaccettato e plurale composto da «popolazioni» diverse di «giudaismi» (al plurale), dove la variazione e la gradazione sono l'unica realtà osservabile 140 .

Tornando adesso alle pagine dell'introduzione di Imagining Religion, ci appariranno più chiari i due corollari che Smith fa seguire al suo ragionamento sull'assenza di «dati» per la religione. Il primo è che «nessun dato possiede un valore intrinseco», e che l'«interesse di un dato deriva dal suo poter servire da esempio per chiarire un problema fondamentale nello studio della religione»: è quanto Smith ha cercato di mostrare nel primo dei micro-esperimenti di Fences and Neighbors, parlando della circoncisione come indicatore tassonomico. Il secondo corollario è che gli studiosi, avendo riconosciuto il carattere artificiale e secondario della categoria «religione», sono chiamati a riflettere sui motivi che li spingono a soffermarsi su un esempio piuttosto che un altro: «Una scelta consapevole e mirata», precisa Smith, «è tanto più difficile e necessaria per lo storico delle religioni, il quale non può assolutamente trascegliere i propri esempi [...] sulla base dei confini sanciti da un canone o da una comunità religiosa» 141 . È il punto che si trova al centro del secondo dei micro-esperimenti di Fen- ces and Neighbors, dove si mostrano l'insufficienza e l'inadeguatezza di qualunque comprensione «normativa» di una religione, vale a dire di una comprensione che si muova entro i limiti «sanciti da un canone o da una comunità», accordando un privilegio a certe fonti piuttosto che ad altre e riproducendo categorie, concettualizzazioni e interessi ideologici che sono propri del discorso interno alla tradizione religiosa studiata.