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Una guerra mai dimenticata: storie di sconfitti

l'impegno", a. XVI, n. 3, agosto 1996

Angela Regis Una guerra mai dimenticata: storie di sconfitti* "l'impegno", a. XVI, n. 3, agosto 1996 I renitenti alla leva Le testimonianze relative al periodo che va dall'inizio del conflitto fino all'8 settembre 1943 raccontano una guerra non voluta, subita, accettata per forza. Tutti i testimoni sono concordi nel dire che non vi era possibilità di scelta: bisognava partire e si partiva. Così tutti, a parte l'unico disertore che ci fu a Boccioleto1, subirono passivamente il loro destino fino al momento dell'armistizio e coloro che conobbero la prigionia, o l'internamento, continuarono a subirlo fino alla fine della guerra. Dopo l'8 settembre 1943 la situazione mutò e molti furono chiamati a scegliere, perché "eventi grandi, eccezionali, catastrofici pongono i popoli e gli uomini davanti a drastiche opzioni e fanno quasi di colpo prendere coscienza di verità che operavano senza essere ben conosciute o la cui piena conoscenza era riservata a pochi iniziati. Il vuoto istituzionale creato dall'8 settembre caratterizza in questo senso il contesto in cui gli italiani furono chiamati a scelte alle quali molti di loro mai pensavano che la vita potesse chiamarli"2. Dopo la dichiarazione di armistizio, quasi tutti i soldati di Boccioleto che si trovavano in territorio italiano, o nelle zone di confine, riuscirono a tornare a casa: circa la metà vi rimase fino alla fine della guerra. In paese la situazione, in un primo momento, si presentava abbastanza tranquilla. Ricorda infatti Riccardo Cucciola, testimone ascoltato nel corso della ricerca: "Sono arrivato qui e sono stato nascosto. Ma allora era ancora tranquillo: non era ancora successa la storia dei partigiani e via dicendo". Le cose cambiarono con la nascita della Repubblica sociale: la paura di essere chiamati a far parte del nuovo esercito repubblicano si trasformò in un problema reale dopo i bandi dei mesi di novembre e di dicembre 1943. "Poi è venuto il bando - mi sembra il mese di novembre - che bisognava presentarsi e chi non si presentava veniva dichiarato renitente di leva" (Eugenio Zali). Gli ex militari del regio esercito, per non tornare di nuovo sotto le armi, decisero di imboscarsi: si nascondevano da soli o in piccoli gruppi, in genere lontano dal paese. Era la prima volta che i soldati di Boccioleto si rifiutavano di subire passivamente il loro destino: fino ad allora avevano sempre accettato, seppure per forza, la guerra. Allo stesso modo, ovvero imboscandosi, si opposero alla Repubblica sociale le nuove leve. Ricorda Mosè Sasselli: "L'avviso c'era di presentarci e consegnarci, però non sono andato via [...]. Io e mio fratello eravamo nascosti: né con uno, né con l'altro. Si lavorava. Io ero lì, prima di arrivare a Piaggiogna: c'era il filo, si faceva scendere la legna. Quando quello di là vedeva i camion della 'Tagliamento', allora si fermava e io andavo a nascondermi sotto il tombino, sotto strada. Passavano i camion e io tornavo di nuovo fuori". Chi era nascosto se ne stava tranquillo, accanto alla propria famiglia, nella speranza di non essere preso. Dice Riccardo Cucciola, che aveva già combattuto nel regio esercito: "Qui non c'era niente, non ci sono stati subbugli, né niente. Calmo. Non era come nei centri grossi. Qui era tutto calmo. Ognuno andava per conto suo. Ne avevamo già viste abbastanza, non stavamo lì a interessarci o a imbrogliarci di partiti o mica partiti". La fase della ribellione passiva durò pochi mesi: nella primavera del 1944 la maggior parte degli imboscati fu costretta a presentarsi al distretto: "Qui a Fervento ci han fatto la spia. Allora ci han preso la famiglia: o presentarsi o bruciavano le case" (Angelo Duetti). "I fascisti sono andati a casa mia, da mia mamma e hanno detto: 'Se suo figlio non si presenta, portiamo via questo qui [il figlio esonerato dal servizio di leva] e bruciamo la casa' " (Severino Bonomi). "Si aveva poi sempre paura di rappresaglie verso il papà e la mamma, altrimenti io non andavo neanche il 23 aprile" (Camillo Sasselli). Al danno si sommò anche la beffa: furono quasi tutti arruolati nell'esercito repubblicano come "volontari". "Volontari per forza!" (Mosè Sasselli). Due fuggirono, tre si rifiutarono di far parte dell'esercito della Rsi e furono deportati in Germania, gli altri accettarono la propria sorte: uno restò in Italia e i restanti partirono per l'addestramento in Germania. "A Vercelli, al distretto, passava uno di quei generali della milizia e fa: 'Questa qui è tutta una bella carne da macello' [...]. Poi a Novara han formato la tradotta, con la fanfara in testa, dalla caserma alla stazione. Alla stazione hanno distribuito delle cartoline già scritte, solo da firmare, che dicevano: 'Io parto per la Germania, per un campo di addestramento. Ritornerò presto. Tanti saluti' " (S. Bonomi). Le scelte Ribellarsi, dopo essere stati arruolati nell'esercito repubblicano, significava fuggire prima della partenza per la Germania e nascondersi. Tornare a casa però era difficile e, comunque, si sarebbero ripresentati gli stessi problemi di prima: qualcuno avrebbe fatto la spia e le famiglie sarebbero state di nuovo in pericolo. Restava un'alternativa: la lotta armata. La maggioranza però scartò questa ipotesi: i "volontari" della Repubblica sociale preferirono accettare la loro sorte. L'accettazione, che aveva contraddistinto le tante partenze della prima fase della guerra, caratterizzò anche le partenze della seconda fase. Eppure la situazione era ben diversa. I soldati del regio esercito sapevano, fin da bambini, che avrebbero dovuto, in caso di bisogno, impugnare le armi: così, volenti o nolenti, avevano combattuto per la loro patria. I soldati dell'esercito repubblicano, invece, dovevano combattere per uno Stato nuovo, formalmente indipendente, ma in realtà in mano ai tedeschi. Oggi i testimoni dichiarano che odiavano i tedeschi, e sicuramente è vero, eppure molti accettarono di combattere per loro. È vero che in autunno tutti si imboscarono, opponendosi alla Rsi, ma si trattò di una ribellione che durò poco, e, soprattutto, di una ribellione passiva, che non implicava alcun rischio. Nel periodo che va dall'autunno del 1943 alla primavera del 1944 nessuno scelse la ribellione attiva, fatta con le armi: i pochi che entrarono nelle file partigiane lo fecero dopo, a partire dall'aprile del 1944 (erano perlopiù militari fuggiti dal proprio corpo). I tanti imboscati scelsero di non scegliere, ovvero di restare al di sopra delle parti: "Noi andavamo su per i monti e non ci siamo più presentati né coi fascisti, né coi partigiani" (Umberto Preti). "Si poteva andare anche nelle file partigiane [...], ma noi abbiamo preferito essere sbandati qui così" (Gabriele Cagna). Nessuno, in quel periodo, scelse la strada del partigianato. "No, no, niente. Me ne sono lavato le mani. Dicevo: 'Ho portato a casa la pelle, non vado ad ammazzarmi in nessun posto' " (Riccardo Cucciola). "No, per fare la brutta vita da una parte, la brutta vita dall'altra... No, no" (C. Sasselli). Puntualizza Claudio Pavone a questo proposito: "L'elusione della scelta viene talvolta presentata come lo stare al di sopra delle parti in lotta"3. Dice infatti Riccardo Cucciola: "Pensavo: 'Io non sono contro nessuno e basta' ". I testimoni non scelsero la lotta armata perché, dicono, volevano restare al di sopra delle parti, ma anche perché "i partigiani di qui han fatto più male che bene" (U. Preti). "I partigiani erano tanti ladri, perché rubavano, in pieno. Portavano via le mucche, portavano via il burro, il formaggio. Portavano via tutto quel che trovavano" (A. Duetti). "Un po', i primi tempi, davano disturbo. Poi prendevano le mucche. Facevano un po' delle birichinate! [...] E allora perdi anche un po' di fiducia" (C. Sasselli). In più: "Erano poco organizzati qui, nella zona di Varallo [...]. Non si può fare la guerra con il bastone!" (M. Sasselli). Dalle testimonianze emergono però delle contraddizioni: le stesse persone che criticano l'operato dei partigiani, sottolineano il fatto di averne aiutati alcuni di passaggio in zona e confondono anche l'imboscamento con la lotta partigiana: "Una sera, venendo da Fervento, ho incontrato un partigiano e l'ho portato a casa a dormire. Però gli ho detto: 'Al mattino presto vai, eh'. Siamo arrivati su a Palancato che era l'una di notte: la mamma gli ha riempito una sacca di foglie e l'ha messo a dormire. Al mattino presto è partito" (C. Sasselli). "Ero come partigiano: facevo un po' il magazziniere per il Renato Moscatelli. Lui nascondeva le armi nel mio alpeggio, sopra Fervento. Quando aveva bisogno, arrivava, prendeva, portava via" (A. Duetti). "Anch'io sono stato nascosto, sono stato nascosto con i partigiani e tutto quanto. Sono andato in un alpe su qui, sopra Boccioleto, e sono stato su tutto l'inverno. A primavera io ero lì, con mia moglie e i bambini piccoli. Un giorno hanno cominciato a sparare colpi su di lì. Erano arrivati tutti questi tedeschi e i georgiani e i fascisti. Sono venuti lì, hanno piazzato le mitragliatrici, poi alle sei di sera sono andati via. Di sopra c'era un altro alpe e c'erano una cinquantina di partigiani. Alla sera i tedeschi sono andati e alla mattina ho accompagnato io quei partigiani, che passassero la montagna. Lì era un passaggio: quando i partigiani passavano da lì, io gli facevo vedere le strade. Ho persino tenuto il foglio dei partigiani, di 'buon servito' [...]. C'era gente che conoscevo: il Chiodo, il Rastelli, il Musati, il Renato Moscatelli" (Amilcare Antonietti). Nelle stesse testimonianze appaiono quindi: dichiarazioni di neutralità, critiche alla lotta partigiana e racconti di atti di solidarietà nei confronti di alcuni partigiani di passaggio in zona. Tutto ciò sembra non avere senso, in realtà ce l'ha: se nell'inverno del 1943-44 restare al di sopra delle parti sembrava essere l'unica strada sensata da intraprendere, la Storia ha poi dimostrato che la scelta vincente era un'altra. I testimoni si sentono quindi giudicati dalla Storia, per questo dichiarano di essere comunque stati solidali, al di là della propria neutralità, nei confronti di coloro che furono gli unici vincitori del conflitto. Tutto questo però non spiega ancora il perché della scelta - o non scelta - dei tanti imboscati. Tutti quei ragazzi odiavano i fascisti e i tedeschi, ma l'odio nei loro confronti non li spinse verso la rivolta armata. È emblematico ciò che dice a questo proposito Angelo Duetti: "Io odiavo i fascisti, come stavo con i partigiani, però non da andare con loro". Le testimonianze riportate sopra hanno chiarito solo in parte la questione: hanno messo in luce l'amore del quieto vivere e le riserve che quasi tutti avevano nei confronti dei partigiani, ma non hanno spiegato l'origine di queste riserve. Per capire meglio il problema, dobbiamo tener presente che quei ragazzi, nati e cresciuti sotto il regime fascista, vedevano sgretolarsi tutti quelli che erano stati, culturalmente parlando, i loro punti di riferimento, e vedevano avanzare qualcosa di nuovo, il movimento resistenziale, senza capire bene cosa fosse. Inoltre non possiamo dimenticare che il montanaro è, per tradizione, dubbioso di fronte alle novità. Ecco perché tutti scelsero di restare al di sopra delle parti fino a quando questo fu possibile. Quando non fu più possibile restare al di fuori della mischia, cioè quando i nazifascisti, nell'aprile del 1944, diedero l'ultimatum, allora i più non videro altra strada se non quella di accettare passivamente la loro sorte fino alla fine. I nazifascisti in paese Nel considerare la scarsa partecipazione alla lotta armata, bisogna anche tenere conto del fatto che in paese, durante il periodo della Repubblica sociale, non accadde nulla di dirompente. Dice Maria Preti, la figlia del podestà di quel periodo: "Dopo il settembre del 1943, non ci furono mai truppe tedesche o fasciste in pianta stabile: erano di passaggio. La situazione era abbastanza tranquilla: non c'era quella tensione come in altri posti". Ricordano altri testimoni: "Ogni tanto giravano, venivano su le camicie nere. Venivano dentro dalla parte di là, da Cervatto: passavano la Tracciora e venivano giù" (Vittorio Preti). "I fascisti e i tedeschi venivano solo per il rastrellamento" (Giuseppe Cucciola). Ogni volta che passavano, i fascisti e i tedeschi seminavano la paura: "Una volta i tedeschi si sono messi a sparare sul campanile. Era morta una bambina e suonavano per i funerali. Combinazione, come i tedeschi entravano in paese si sono messe a suonare le campane e loro pensavano che fosse l'allarme" (Maria Preti). "Hanno sparato sul campanile: hanno fatto su delle sventolate di fucile! Credevano che fosse un segnale per i partigiani" (Amato Tapella). Forse il giorno in cui la paura si fece sentire in modo più tangibile fu il 7 novembre 1944, giorno in cui un gruppo di partigiani fu massacrato all'alpe Fei di Rossa. Ricorda Riccardo Cucciola: "Era il 7 novembre del 1944. Alle 7 del mattino il Giuseppin Rotta, io e altri operai eravamo giù che caricavamo il camion. Era quel giorno là che han bruciato il Fei. I tedeschi sono arrivati a Boccioleto e ci han presi [...]. In quei giorni avevano dato l'annuncio, alla radio e sul giornale, che le classi del '20 e del '21 le richiamavano, ma io non sono andato. Mi han portato lì al ponte e han messo di piantone uno, un tedesco, a guardare. Era un martedì e fermavano tutti quelli che andavano al mercato. Lì c'era una donna - buon'anima - che mi ha aiutato e mi ha salvato. Ha chiamato dentro in casa questo tedesco. Gli ha detto: 'Vieni dentro che fa freddo'. Era novembre e faceva freddo. Dopo viene fuori e dice: 'Scappa, vai a nasconderti giù lì. Scappa che il tedesco è dentro in casa'. Ero solo io soldato, gli altri operai erano borghesi. Io sono scappato e mi sono nascosto giù nelle fontane. Dopo sono andato a nascondermi a Casetti e sono stato nascosto otto giorni". Solo una volta i nazifascisti non si accontentarono di lasciare alle loro spalle della semplice paura: il 14 maggio 1944 due militi della legione "Tagliamento" uccisero Delfino Cucciola, disertore del regio esercito, mentre, preso dal panico, tentava di fuggire4. A parte quest'unico, triste episodio, la sorte risparmiò il paese: Boccioleto infatti non subì alcun danno di grave entità. Venne quindi a mancare la molla che avrebbe potuto far scattare il desiderio di ribellarsi in modo attivo, con le armi. Se il paese avesse subito atti di violenza da parte dei nazifascisti, probabilmente la partecipazione alla lotta armata sarebbe stata superiore. Infatti dalle testimonianze5 emerge in modo chiaro che i soldati di Boccioleto non concepivano la guerra come conquista, ma la concepivano come difesa. Il fatto che, durante il periodo della Rsi, a Boccioleto non capitò mai nulla di particolarmente toccante, che potesse lasciare il segno negli animi della popolazione, ebbe un'altra conseguenza importante: il tessuto del paese poté resistere agli urti senza lacerarsi mai. La partenza di tanti uomini sconvolse l'esistenza di molte famiglie e il dolore per coloro che erano lontani era continuo, ma il paese, nel suo complesso, fu capace di sopportare tutti i disagi e di andare avanti con una certa stabilità: per quanto riguarda l'economia, il lavoro, in prevalenza di tipo agro-pastorale, fu portato avanti dalle donne e dagli uomini più giovani; per quanto riguarda la vita sociale, la popolazione riuscì sempre a restare unita. Neppure la presenza di alcune spie, che denunciarono più di una volta coloro che erano nascosti, riuscì a rompere l'unità del paese. Questo avvenne anche grazie alle scelte del podestà, Alessandro Preti, il quale seppe tenere in pugno la situazione: con l'autorità, con la capacità di accomodare ogni tipo di problema, con la possibilità di tenere il piede in due staffe. Oggi c'è chi lo ricorda come una persona troppo autoritaria e chi come un amante delle cose giuste. Racconta Amato Tapella: "Arrivati qui, all'inizio del 1945, io e mio fratello ci siamo nascosti: eravamo su a Oromezzano. Ci sono state delle spie e un bel giorno sono venuti a cercarci, a Boccioleto. Sono andati dal podestà, e lui ha detto: 'I fratelli Tapella risultano prigionieri'. Bisogna darne atto. Poteva dire: 'Sì, sono qui'. Invece...". La figlia, Maria Preti, così descrive la posizione del padre: "Il papà ha trovato difficile fare il podestà, perché c'erano i partigiani, passavano i fascisti, i tedeschi e lui era in mezzo e doveva farla buona a tutti. Era pericoloso fare diversamente, ma era pericoloso anche fare come faceva, perché se venivano a scoprire ciò che faceva... Era soprattutto pericoloso per via del suo mestiere: lui era sarto. Ha fatto le divise per i partigiani, di nascosto, nel solaio, e, nel laboratorio dove lavorava, per i tedeschi e per i fascisti. Come podestà doveva stare un po' da una parte e un po' dall'altra, ma cercava di fare tutto per il bene del paese, per non provocare qualche combattimento [...]. Alla fine della guerra il papà ha ricevuto un diploma dal Comitato di liberazione, per il servizio che aveva fatto al paese". I prigionieri I soldati che, dopo l'8 settembre 1943, non riuscirono a tornare a casa, ebbero sorti diverse: molti furono internati in Germania o in Polonia; alcuni vennero fatti prigionieri dai tedeschi in territorio francese, dove si trovavano di presidio, utilizzati in Francia come manodopera e spostati secondo l'andamento della guerra; altri si affiancarono alle truppe alleate; altri ancora, trovandosi in territorio balcanico, si unirono ai partigiani di Tito. Furono prigionieri dei tedeschi in Francia Giuseppe Cunaccia e i fratelli Amato e Germain Tapella: tutti e tre si trovavano di presidio in territorio francese. Giuseppe Cunaccia, dopo l'8 settembre, venne fatto prigioniero a Tolone, poi - racconta - sono andato a finire in Bretagna. Abbiamo fatto otto giorni su un treno merci: come le bestie. Peggio. In Bretagna chi voleva andava come lavoratore, oppure andava a combattere ancora". Giuseppe preferì lavorare, piuttosto che combattere per i tedeschi. "Siamo stati a Quimper, poi siamo stati a Clugnau [sic] vicino a Brest [...]. Dopo lo sbarco in Normandia, ci hanno spedito da Clugnau al fronte, a lavorare, a far trincee. Lì ci han divisi, perché avevano paura anche loro di qualche sommossa". Gli Alleati intanto attaccavano: era il mese di giugno del 1944. "I mitragliamenti che ho preso io! Se avevo una foto era una cannonata da vedere. Era una roba che... Guai! C'era un faggio che sarà stato due metri di diametro - di sicuro - e tre o quattro di circonferenza. C'era un mitragliamento lì: era una roba! Noi eravamo appena arrivati. Quegli apparecchi lì venivano giù e portavano via le punte dei pini. Io giravo gattoni intorno alla pianta. Lì era un cinema! [...]. Di notte si andava fuori a tagliare il fieno da dare ai cavalli. Un mattino - era mattino presto, era il mese di luglio - vado fuori per tagliare il fieno, passo vicino a una jeep tedesca e vedo lì due militari tedeschi. Io credevo che dormissero: vado là, tiro su e... a uno mancava la testa e all'altro le gambe. Mi ha fatto un'impressione! C'è stata poi la grande offensiva. Lì, una roba! Un disastro. Si uccidevano fra di loro - tedeschi eh - per scappare. [Gli Alleati] hanno attaccato otto giorni continui: non potevi cacciar fuori un dito, sai cosa vuol dire? Ah, era un disastro! Poi più niente: calmo". Dopo lo sbarco degli Alleati in Normandia, i prigionieri dei tedeschi passarono nelle mani degli angloamericani. "Ci hanno spediti vicino a Cherbourg: ci siamo fermati lì e ci han fatto lo smistamento. Trentacinquemila eravamo dentro! Hanno dovuto dividere il campo: chi voleva stare coi tedeschi, stava coi tedeschi, chi voleva stare con i russi, stava con i russi. Lì siamo stati tre giorni, poi ci hanno spedito in Inghilterra, a Shafsebury. Lì ci han chiesto chi voleva essere cooperatore o fascista. Lavorare si doveva lavorare lo stesso - non è che non ti facevano lavorare in Inghilterra - allora ci siam messi d'accordo noi lì - eravamo un gruppo di sette o otto - 'Andiamo a lavorare, facciamo i cooperatori, basta che ci diano da mangiare' [...]. Sono poi tornato a casa nel '46. I primi ad andare via sono stati i più vecchi, gli ultimi sono stati quelli che non hanno voluto collaborare. Noi siamo stati gli ultimi fra i cooperatori: eravamo i più giovani. Mi sono imbarcato il 15 di maggio a Liverpool e sono arrivato a casa alla fine di maggio" (Giuseppe Cunaccia). Il 20 giugno 1946 il "Corriere Valsesiano" scriveva: "È tornato dall'Inghilterra, dove era prigioniero di guerra, il militare Pino Cunaccia da Fervento: tornato anche lui col bagaglio dei suoi tristi ricordi, delle sue sofferenze, ma lieto di avere riveduto finalmente i suoi cari, il suo paese, la sua valle, cui rivolgeva ogni giorno il pensiero nostalgico dalla sua forzata lontananza"6. Amato e Germain Tapella furono fatti prigionieri ad Albertville, dopo aver tentato invano, col proprio battaglione, di resistere ai tedeschi. Così Amato Tapella ricorda la prigionia: "In principio il trattamento era abbastanza umano, in quanto non è che ci maltrattassero. Il periodo più brutto è stato quello del recupero dei proiettili: eravamo a le Pont de Claix, vicino a Grenoble, in un grosso deposito di munizioni a recuperare proiettili da 75-27, residuo della prima guerra mondiale. Questi proiettili erano carichi di gas liquido, liparite, un vero calvario per noi: durante il recupero fuoriusciva il liquido, che, investendoci, ci ustionava, provocando piaghe purulente che non si rimarginavano. La vista si annebbiava: praticamente eravamo quasi ciechi. Questo periodo durò circa tre mesi". La situazione in seguito migliorò. Il 7 aprile 1944 scriveva alla famiglia: "Qui trascorriamo sempre la solita vita io lavoro sovente del mio mestiere [imbianchino e decoratore], ultimamente ho tappezzato la sala da pranzo degli ufficiali ed in questi giorni vernicio delle macchine e vetture. Sovente vado pure per servizio in diverse città, sono stato qualche giorni in una grande città vicino al mare, ero solo e libero di andare dove volevo, adesso voglio chiedere il permesso di andare trovare il tonton alla Demi-Lune. Come vedete non stiamo troppo male"7. Dice Amato Tapella: "Potevamo scappare con i partigiani francesi, ma non sono scappato perché, siccome parlavo francese come loro, dicevano che ero un traditore, anche se ero figlio di italiani"8. Dopo lo sbarco degli Alleati sulla costa mediterranea, nell'agosto del 1944, i tedeschi si ritirarono verso Bardonecchia. "I tedeschi sbaraccavano, bruciavano, distruggevano i documenti. Avevano montagne di zaini di caduti e di soldati morti. Distruggevano tutto quello che potevano [...]. Durante la ritirata i tedeschi ci trattavano più umanamente e cercavano di accattivarsi la nostra simpatia verso di loro. Dicevano: 'Se ci attaccano i maquis dovete difendervi anche voialtri'. 'E con che cosa ci difendiamo?'. 'Vi diamo anche il fucile'. Avevano fiducia eh! "Sa na dan nu sciop, i tirumma a viait noi! [Se ci danno un fucile, spariamo a voialtri noi!]" (A. Tapella). Nell'ottobre del 1944 Amato e Germain Tapella riuscirono finalmente a fuggire: si unirono ai partigiani della val di Susa, fino alla fine del 1944, poi, all'inizio del 1945, tornarono a casa. Giuseppe Cunaccia, di cui parlavo poc'anzi, non fu l'unico prigioniero degli Alleati; nella prima fase della guerra furono fatti prigionieri in Africa Roberto Alberti e Federico Antonietti: il primo venne portato in India, il secondo restò prigioniero in Africa per un certo periodo, poi fu trasferito in Inghilterra. Alla fine della guerra, furono prigionieri degli angloamericani, a Coltano, in Toscana, Francesco Alberti e Marco Ceriani, soldati della Rsi. Racconta Marco Ceriani: "Eravamo lì a migliaia, in ogni campo ce n'era dentro quattromila: era un formicaio. Lì non avevi né tende né niente: eravamo sulla sabbia. A dormire sulla terra, così, a qualcuno ha preso ai polmoni ed è morto. Con gli americani non mi sono trovato bene; quando ci han preso non ci hanno maltrattato, no, questo non bisogna dirlo, però ci han lasciato dal 24 aprile al 1 maggio senza cibo" (Marco Ceriani). La prigionia dei soldati della Repubblica sociale durò pochi mesi: alla fine di agosto gli Alleati decisero di consegnare al governo italiano tutti i prigionieri della Rsi detenuti nei loro campi. Di fronte allo scottante problema di questi scomodi prigionieri, il governo italiano decise di rendere la libertà alla maggior parte di loro. Per primo fu sciolto proprio il campo di concentramento di Coltano, così nell'ottobre del 1945 tornò a casa Marco Ceriani e a novembre Francesco Alberti. Gli internati Se i prigionieri dei tedeschi furono solo tre, gli internati furono molti di più; durante la mia ricerca ho raccolto le testimonianze di due di loro: Umberto Robichon ed Aldo Preti, che insieme vissero l'internamento in Polonia e, in seguito, la liberazione da parte dei sovietici. Umberto Robichon l'8 settembre 1943 fu catturato dai tedeschi a Massa Carrara, ma fu subito liberato; si mise allora in viaggio per tornare a casa, ad Alessandria però fu nuovamente fatto prigioniero. Racconta: "Un giorno senza mangiare, senz'acqua, né niente e poi sono venuti a prenderci: c'erano già le tradotte pronte. Lì i ferrovieri ci dicevano: 'Scappate che vi portano in Germania!'. Infatti uno ha tentato di scappare, ma l'hanno ammazzato [...]. Ci han poi chiusi a Bolzano e non ci hanno aperto più fino in Polonia. Non si sapeva dove si andava. Una notte - si sentiva che era freddo, perché là non era più estate: eravamo quasi sul confine della Lituania - ci han fermato e ci han fatto scendere tutti. Ci han portati dentro per una foresta e lì c'era un campo. Da una parte c'erano già dentro i russi: cinquantamila russi prigionieri; avevano il tifo petecchiale: ne morivano due o trecento al giorno. Noi ci han portati lì e da mangiare niente. Quando davano da mangiare ti mettevi in fila e magari davanti a te ne avevi due o tremila: uscivi alla mattina e arrivavi magari alla sera davanti alla cucina. Se andava bene prendevi un mestolo di roba, se non andava bene non ce n'era poi più e ti mandavano i cani addosso". Dopo un breve periodo di lavoro, in una masseria, "ci portano a lavorare nella ferrovia, sul fronte russo. La ferrovia era sempre bombardata, continuamente e bisognava sempre ripristinarla. Alla mattina si partiva alle tre, alle quattro, o alle cinque d'inverno. Si prendeva il treno. Ah faceva freddo! A trenta gradi [sotto zero] arrivava. Si partiva a digiuno e si andava fuori a lavorare sulla ferrovia: dovevi fare settanta o cento chilometri, secondo dove avevano bisogno. Ti buttavano lì: arrivavi lì ancora di notte e ti portavano su, in mezzo alla tormenta, ad aspettare che arrivasse un po' di giorno. Passavi tutto il giorno a fare quel mestiere lì e non avevi niente nella pancia: mangiavi solo la sera, quando rientravi. Prima di entrare, ispezione a tutti, e a chi, per dire, trovavano una patata, lo portavano dentro e gli davano legnate. Ah, era potente quel lager lì! La sera ti davano un mestolo di roba: patate, rape e erba, erba medica, e un filoncino di pane. Noi abbiamo fatto persino una pesa per mettere su le fettine, perché doveva essere perfetto. Comunque era una roba che non si poteva resistere, non si poteva. Si tenevano dentro i morti, due o tre giorni, per prendere la razione. Un bel giorno io sentivo come un formicaio che mi mangiava lo stomaco: 'Io muoio, muoio, muoio'. Ho detto all'Aldo Preti: 'Scappiamo'. `Ma dove vuoi andare?'. 'Scappiamo, andiamo in qualche posto, in giro'. Un giorno - ero lì sul binario - ho detto all'Aldo: Portami dietro il piccone, io me ne vado, non so se ritorno. Se vengono qui a chiedere, dì che io sono andato al gabinetto. Io muoio, ma non muoio qui dalla fame'. Poteva venire anche l'Aldo eh. L'ho poi salvato io: lui moriva là piuttosto che scappare. Piano piano - non mi hanno visto le guardie - sono passato fuori dalla pineta. Ho passato la pineta, poi non si vedeva niente: una distesa di neve e pianura. Le scarpe ce le avevano tolte: ci avevano dato un paio di zoccoli. Andavo avanti, poi cadevo per terra, andavo avanti poi cadevo per terra, fino a che vedo tre o quattro case". Lì la gente gli diede cibo in abbondanza, così poté anche portarne con sé. Si rimise in cammino e "a forza di camminare mi son trovato davanti a dove si lavorava, in ferrovia. Piano piano, piano piano sono andato su. L'Aldo lavorava: 'Dove sei andato?'. 'Sono andato a cercare da mangiare' e ho cominciato a dargli da mangiare. Non si poteva portarlo dentro: mangia, mangia, mangia - ce n'erano altri due o tre - abbiamo mangiato su tutto. Io ho mangiato per otto giorni!". Non potendo sopravvivere con lo scarso rancio del lager, i compagni di baracca di Aldo ed Umberto organizzarono delle uscite notturne, per raccogliere le patate che i contadini lasciavano nei campi, coperte da paglia e da erba. Per un certo periodo andò tutto bene, poi furono scoperti e mandati ad Auschwitz. "Ci hanno scaricato vicino ad Auschwitz, il grande campo di concentramento, e ci hanno infilato dentro in un grosso capannone, al freddo e al gelo, tutti nudi. E allora uno ha detto: 'Andiamo al crematorio' [...]. Ci hanno poi portati dentro il campo di Auschwitz. Di là gli ebrei e noi di qua. Lì ce n'erano sette o otto di italiani. Ci han portati a lavorare nelle miniere di carbone: si faceva tre chilometri di campagna per andare lì, nei pozzi, a milleseicento metri di profondità. La prima volta che sono andato giù, la sera dico: 'Io sto qui, muoio qui'. I gas! [...]. Una mattina, andando via, si sentiva un rumore: sembrava un terremoto che veniva. Era l'artiglieria russa". Dopo una battaglia durata due giorni, i sovietici liberarono il campo: era il gennaio del 1945. I prigionieri raggiunsero la città di Opole. "Lì si sperava di partire presto per Odessa e imbarcarci, invece è arrivato lì un generale e ha detto: 'Siete stati qui fino adesso, è meglio che aspettate qualche mese ad andare a casa: sul mar Nero non si può andare perché è tutto pieno di mine'. E lì abbiamo cominciato a lavorare: sgomberare i canali, dove c'erano giù tutti i ponti e non potevano passare i barconi. Dopo, gli attacchi dei tedeschi erano sempre più duri, così siamo andati a fare trincee. Abbiamo fatto dei chilometri di trincee: chilometri e chilometri, centinaia di chilometri di trincee". La prigionia presso i sovietici durò parecchi mesi. Il lavoro era duro, ma non c'era paragone con i lager tedeschi: il cibo non mancava e il rapporto con la popolazione era ottimo: "Erano bravi i russi, la popolazione, più bravi ancora che i polacchi" (Umberto Robichon). I mesi passavano, la guerra in Italia era già terminata, ma non si tornava ancora a casa. Continua a raccontare Umberto Robichon: "A maggio ho fatto un sogno, che si è rivelato, fino all'ultima ora, giusto. Ho detto ai miei compagni: 'Ho sognato che andremo a casa o al 20 o al 25 di ottobre, ma è facile il 25, alla sera, quando il sole tramonta'. [...] Difatti il 25 ottobre [1945], la sera, quando andava giù il sole, ci han portati alla stazione [...]. Siamo arrivati a Varallo e pioveva che Dio la mandava. Ci siamo fermati, io e l'Aldo Preti, alla chiesa di San Giovanni, in cima a Varallo, a mangiare. Avevamo ancora una scatoletta di carne russa e un pezzo di pane. In quel tempo passa su uno in bicicletta e a me sembra di conoscerlo. 'Chi sei?', ho detto, e si è fermato. 'Sono Giuseppe Preti - studiava a Varallo - voi chi siete?'. 'Oh, là, non ci conosci?'. E ci siamo fatti conoscere. Era lì che veniva notte e Giuseppe ha detto: 'Adesso vado, così arrivo a Boccioleto e glielo dico che arrivate'. E noi su a piedi. Arrivati a Giavina Rossa vediamo un faro di una bicicletta che veniva giù: era mio fratello Mario. Siamo arrivati su a Boccioleto e lo sapevano già tutti che stavamo arrivando. Sono andato a casa, a vedere la mamma, intanto ci avevano già preparato cena giù all'albergo, dove sta la Teresa Vinzio. Sono venuti fuori tutti. Suonavano le campane: non ci aspettavano già più. Era il novembre del 1945". La guerra è finita: si torna a casa Dopo il 25 aprile 1945, a poco a poco, cominciarono a rientrare in paese prima i soldati dell'esercito repubblicano, poi gli internati e, ultimi, i prigionieri. Ogni rientro era una festa per l'intero paese: le campane suonavano a distesa, tutti uscivano per le strade, si improvvisavano pranzi e cene. Dopo qualche giorno di festa tutto tornava alla normalità. Racconta Camillo Sasselli: "Abbiamo fatto qualche giorno di festa, poi ci siamo messi a lavorare di nuovo nei boschi. Non c'era tanta libertà, ma, insomma, si è cominciata la giovinezza". Non era facile però ricominciare a vivere una vita regolare dopo aver sopportato anni di guerra: i tanti reduci erano tornati a casa con un bagaglio di dolore, di rabbia, di delusione, di amarezza e di sensi di colpa. Racconta Amato Tapella: "Dopo la guerra non eravamo più quelli di prima noi. A parte il cambiamento di carattere, eravamo disorientati. E quello che ci ha dato più amarezza è il fatto che siamo stati anche un po' trascurati dalle autorità. Quasi quasi avevamo un senso di colpa perché è finita così [...]. Dovevamo ingrandire l'Italia, invece ce l'hanno tagliata. A noi ci davano una colpa per questo. A quei tempi erano ancora vivi tanti reduci della guerra del 1914 e, a volte, nelle osterie, chiacchierando, dicevano: 'State zitti voialtri: noi l'abbiamo ingrandita l'Italia, voi invece...'. Erano battute che ci ferivano. Dopo tutto quello che abbiamo passato! Gli anziani erano piuttosto ostili contro di noi. Tra di noi si parlava, perché ognuno aveva la sua vicenda da raccontare - anzi, tanti l'abbiamo vissuta insieme - però con loro non si poteva parlare. Loro si vantavano di aver vinto una guerra. Anche per questo noi ci siamo appartati". Tanti anni passati a combattere, a soffrire, senza capire bene il perché, per poi sentirsi zittire senza possibilità di replica. Non tutti però rimasero zitti. Racconta Enrico Carrara: "Dopo, tanti facevano venire matti, perché dicevano: 'Eh, voialtri avete perduto la guerra, noi vecchi invece...'. Ma non l'hanno detto più tanto, non c'era tanto da dire. Una volta ho detto: 'Chi ha votato Mussolini? Voialtri, non noi. Mussolini era del 1883, era coscritto di mio papà, e quindi non l'abbiamo votato noi che andasse al potere. Perché noi non andavamo mica a cercare di andare in guerra, di sicuro!'. Dicevano parole che non bisognava neanche dire". Visto il clima che aleggiava in paese, i reduci osavano parlare della guerra solo fra di loro, certi che nessuno li avrebbe capiti se avessero raccontato ad altri le loro esperienze. Sostiene a questo proposito Siegfried Sassoon: "L'uomo che ha realmente sopportato la guerra nei suoi aspetti peggiori sarà eternamente diverso da chiunque altro, tranne dai suoi commilitoni"9. Precisa Enrico Carrara: "E poi dopo non si raccontava neanche più! Perché uno che ha sofferto, se trova un altro amico, che è stato insieme, dice: 'Ti ricordi quella volta là? E ben, adesso siamo ancora qui!'. Altrimenti non viene la voglia di raccontare. Non si raccontava perché era una cosa che... Prima di tutto era troppo lunga una cosa così. Si può raccontare una cosa che dura sei mesi o un anno, ma così... Non abbiamo fatto giù tanto chiasso: si sono tenuti ognuno la sua parte e valà". Una sola cosa consolava: il fatto di essere potuti tornare a casa: "Allora uno pensa: 'E quelli che sono morti?'. Noi ne abbiamo visti tanti morti. Troppi" (Enrico Carrara). "Comunque, con tutti quelli che sono stati là, noi siamo stati fortunati a venire a casa" (U. Robichon). In paese tutto torna come prima Non tutti infatti tornarono a casa. La guerra portò via a Boccioleto sei giovani: cinque morirono in terre lontane, uno in paese nel maggio del 194410. Nel marzo del 1944 morì anche Attilio Gozzi: partito per la Germania come lavoratore, finì i suoi giorni come prigioniero, pare, in un campo di annientamento. Pochi furono i morti in rapporto alle tante partenze: comunque troppi per le famiglie in lutto. Il paese ricordò pubblicamente i suoi caduti in occasione della festa dei reduci, nel gennaio del 1946. Qualche giorno dopo il "Corriere Valsesiano" raccontava: "Dettata dal cuore, è stata domenica scorsa una manifestazione di fraternità e di concordia. Nessuno dei reduci di Boccioleto e Fervento è mancato, e dopo che essi si furono adunati alle 9.30 si recarono in corteo, musica in testa, a deporre una corona alla lapide dei Caduti per onorare i compagni che non sono più tornati e che le melodie dell'inno del Piave hanno salutato nel cielo degli eroi"11. Dopo la commemorazione dei caduti, ci fu il pranzo, per festeggiare tutti coloro che dalla guerra erano tornati. "A mezzogiorno, un banchetto ha visto seduti in affettuosa corona ai reduci le nostre autorità, i maggiorenti del paese, amici e simpatizzanti, e al centinaio di commensali è stato ammanito [sic] un succulento pranzo, che, servito da ragazze in costume, è durato in un'atmosfera cordialissima"12. In realtà l'atmosfera non fu così cordiale come sottolinea l'articolo. Ricorda Umberto Preti: "C'era un po' di attrito fra noialtri e quelli che erano rimasti imboscati, gli esonerati e, quando hanno fatto la festa dei reduci, hanno messo avanti gli imboscati e quei tre o quattro partigiani e abbiamo avuto una mezza discussione". Più che di una mezza discussione si trattò di una vera e propria lite, che forse si scatenò a causa dei tanti bicchieri di vino che accompagnarono il "succulento pranzo". La tensione però non durò a lungo: "Eravamo giovani! Abbiamo cominciato poi ad andare fuori insieme" (G. Cucciola). "Passa poi via di nuovo tutto e valà. Si dimentica!" (E. Carrara). I reduci cercarono di dimenticare per ricominciare a vivere una nuova vita: una vita tranquilla, fatta di affetti e di lavoro. Cercarono di ritrovare la propria identità, perduta ormai da troppi anni, nell'ambito della famiglia e degli amici. Il paese non chiedeva di meglio: dopo aver pianto i morti e festeggiato coloro che erano tornati, sentiva il bisogno di voltare pagina e di guardare al futuro. Perché ciò avvenisse, occorreva che tutto tornasse come prima della guerra e, almeno in apparenza, così fu: i personaggi più importanti del fascismo locale non furono allontanati dalla vita pubblica, così l'economia e la vita politica del paese restarono salde nelle mani di coloro che per anni avevano detenuto il potere. Questo fu possibile perché la guerra non era stata per il paese, nel suo complesso, un avvenimento dirompente, come non lo era stato il fascismo: il paese aveva saputo adattarsi alle varie situazioni. Per gli abitanti di Boccioleto ciò che accadeva altrove non era poi tanto rilevante: essenziale era ciò che succedeva in paese; importanti erano le persone che avevano un certo potere economico e politico all'interno del paese. Il fatto che queste sventolassero una bandiera piuttosto che un'altra non cambiava la realtà delle cose. Per questo si può parlare di continuità tra fascismo, guerra e dopoguerra: sia nella gestione della cosa pubblica, sia nella struttura sociale del paese. Per questo si può dire che la guerra, per Boccioleto, non fu nient'altro che una parentesi: una parentesi triste, che non ebbe però alcun effetto dirompente sul paese e non lasciò ferite profonde nel tessuto sociale. Gli sconfitti e i vincitori Le ferite rimasero, invece, negli animi di tutti coloro che avevano combattuto una guerra inutile ed erano stati indotti a dimenticarla in fretta, in nome di un futuro nuovo, che si rivelò un ritorno al passato. In realtà tutto tornò come prima solo in apparenza: il paese non poteva riportare indietro l'orologio della Storia. Riuscì però a fermare le sue lancette. Così i tanti reduci dovettero accettare il ritorno allo status quo, non per libera scelta, ma perché non poterono fare altrimenti: nessuno diede loro la possibilità di far ripartire l'orologio della Storia. Questo, insieme al fatto di non avere mai potuto sfogare il proprio dolore e di non essere stati quasi mai ascoltati, fece sì che le ferite morali inferte dal conflitto rimanessero per sempre aperte. Per questo coloro che hanno vissuto la guerra in prima persona non sono mai riusciti a dimenticarla; per questo ancora oggi riemergono intatti dal passato i ricordi e, soprattutto, le emozioni. Ricordare oggi provoca dolore e questo scatena la rabbia per aver dovuto subire una guerra inutile, l'amarezza per aver sacrificato anni della propria giovinezza per nulla, la delusione per essere stati messi da parte come qualcosa di scomodo e i sensi di colpa per aver combattuto una guerra sbagliata: una guerra che ha lasciato in quasi tutti i testimoni soltanto un senso di sconfitta morale. La guerra ebbe i suoi perdenti veri, quelli che risultarono tali dall'esito del conflitto: furono i soldati che avevano fatto parte dell'esercito repubblicano. Raccontano i testimoni: "Quando c'è stato il 25 aprile, i partigiani, alleati con gli americani, hanno vinto la guerra. Invece noi avevamo perso. Eravamo 'volontari' della Repubblica di Salò: fascisti eravamo!" (M. Ceriani). "E poi siamo passati per 'volontari' e non ci hanno contato neanche sulla pensione l'anno che abbiamo fatto in Germania" (G. Cagna). "Sono tornato a casa il 29 ottobre. Fra la Germania e la prigionia in Italia erano passati due anni: mi hanno preso il 28 dicembre del '43 e sono arrivato a casa il 29 ottobre del '45. L'anno dopo, il mese di agosto, arriva la cartolina di andare a militare: il servizio prestato alla Repubblica di Salò non era riconosciuto. E allora mi son fatto tredici mesi ad Aosta negli alpini" (M. Ceriani). Ma perdenti furono anche coloro che, dopo l'8 settembre 1943, furono fatti prigionieri dai tedeschi. Ricorda Umberto Preti: "Non eravamo dei guerrafondai, o dei volontari proprio - noi si faceva il militare perché bisognava farlo - però, quel momentino lì, essere disarmati... Era un po' dura eh! Eravamo tutta gente che aveva fatto chi cinque, chi sei anni di naia. Non si era sfegatati patrioti, però a vedersi disarmare lì..." (U. Preti). E perdenti furono tutti i prigionieri: sia coloro che finirono in mano ai tedeschi, sia coloro che furono prigionieri degli Alleati. Dice a questo proposito Anna Bravo: "Per quanto possano variare le modalità della cattura e le reazioni personali [...] la trasformazione da combattente in prigioniero è un passaggio di status segnato da un'ulteriore riduzione delle facoltà e dei diritti [...]. I prigionieri vivono una dimensione arcaica del dominio in cui ci si sente sempre meno soggetti tutelati dalla normativa internazionale, sempre più vere e proprie prede di guerra"13. Fatto strano è che si sentirono, e si sentono ancora oggi, perdenti anche due testimoni che dalla guerra tornarono vestendo gli abiti dei vincitori: Severino Bonomi ed Emilio Canova. Severino Bonomi, che entrò nelle file partigiane dopo varie vicissitudini (soldato del regio esercito, imboscato dopo l'8 settembre 1943, fu nella milizia per un breve periodo), oggi prende le distanze dalla sua esperienza dicendo: "A me non possono dirmi niente, perché io ho servito il vecchio esercito, ho servito quello nuovo; ho servito i fascisti, ho servito i partigiani" (S. Bonomi). Eppure questo testimone non ha subito passivamente il proprio destino, ma ha fatto delle scelte precise: è fuggito dalla tradotta che avrebbe dovuto portarlo in Germania, per il periodo di addestramento come soldato della Rsi, poi, dopo essere stato costretto ad entrare nella milizia, è fuggito una seconda volta per unirsi ai partigiani. Oggi però sembra quasi rinnegare quelle scelte e, a volte, nel raccontare, cerca di mettere le distanze fra sé e gli anni della guerra. Non sempre riesce nel suo intento e spesso dalle sue parole trapela la rabbia per tutto ciò che la guerra gli ha fatto subire: non importa se agli occhi del mondo risulta essere un vincitore, le esperienze dolorose che ha vissuto lo hanno sconfitto moralmente. Emilio Canova, nato in Francia e vissuto in Francia fino a diciannove anni, nell'agosto del 1942 si trovò costretto, per questioni familiari, a rientrare a Boccioleto, suo paese di origine, così nell'autunno dello stesso anno fu mandato a combattere per una patria che non era la sua. Di quella guerra capiva ben poco, e ancor meno riuscì a capire come stavano le cose dopo l'8 settembre 1943, quando si trovò in Corsica schierato dalla parte degli Alleati. Oggi dice: "Poi, quando sono stato congedato [nel luglio del 1946], mi spettava il premio di cobelligeranza, perché ero stato con gli Alleati, il premio della Repubblica, perché ero sergente, e il premio di smobilitazione. Di tre premi: niente! Neanche uno! Un giorno vado a Vercelli a sentire. Il premio della Repubblica niente, perché ero stato congedato il 25 luglio e spettava dal 26 in poi. Porca miseria! Per una giornata. Potevo ben star là per una giornata! Il premio di cobelligeranza: mi han detto che non c'era ancora nessuna circolare che parlasse di quella roba lì. E due! Almeno la smobilitazione. Niente neanche questa! [...]. Io avevo degli amici toscani: quelli lì li han presi i soldi! E allora? Non è tutta Italia?". Il senso di sconfitta morale, che emerge da quasi tutte le testimonianze, deriva dal fatto che tutti i testimoni (a parte un unico volontario) subirono una guerra non voluta, quasi tutti la persero oggettivamente, tutti dovettero sopportare da soli, per tanti anni, il pesante fardello dei ricordi. La comunità avrebbe potuto aiutare i tanti perdenti a ricostruirsi un'identità positiva, favorendo la loro partecipazione attiva alla vita sociale, ma non lo fece; non solo: non lasciò neppure uno spazio adeguato ai vincitori. Così vinti e vincitori subirono la stessa sorte e divennero indistintamente dei perdenti. Soltanto coloro che furono sorretti da valori forti, riuscirono ad elaborare i ricordi e le emozioni, dando loro una valenza positiva. Questo accadde, ad esempio, ad Enrico Carrara e a Giuseppe Cucciola: il primo riconobbe come valore primario l'onor militare, il secondo credette, e continuò a credere, nella libertà. Giuseppe Cucciola, da tutti conosciuto come Pino, nel novembre del 1944, all'età di diciott'anni, si unì ai partigiani della "Strisciante Musati" e vi restò fino alla fine della guerra. Fu il solo, fra i ragazzi nascosti in paese, a fare quella scelta. Pino ha visto cose atroci e ha vissuto momenti di terrore, ma tutto ciò per un fine che considerava, e considera ancora oggi, nobile: la libertà. Per questo si è sentito vincitore alla fine della guerra e continua ancora oggi a sentirsi tale. Enrico Carrara, soldato del regio esercito dal marzo del 1940, dopo l'8 settembre entrò a far parte della divisione italiana partigiana "Garibaldi", che combatteva nei Balcani a fianco dei partigiani di Tito, e rimase in Jugoslavia fino al febbraio del 1945. Alla fine della guerra fu decorato con la medaglia di bronzo. Enrico dice: "Noi non andavamo a cercare di andare in guerra di sicuro". Eppure accettò il suo destino e si fece cinque anni di dura guerra. Oggi racconta la sua storia con l'orgoglio di chi sa di essere stato fino alla fine, innanzitutto, un buon soldato e, con grande serenità d'animo dice: "Tanti dicono così: 'Non voglio saperne di niente'. Ma tanto è lo stesso. Non c'è nessuno che ne ha colpa: la guerra è venuta fuori nel nostro periodo e valà". Ciò che accomuna questi ultimi due testimoni è anche il fatto di avere avuto un'esperienza di guerra che non conobbe bruschi cambiamenti e consentì loro di essere coerenti dall'inizio alla fine: Pino Cucciola militò esclusivamente nella Resistenza, Enrico Carrara cambiò fronte dopo l'8 settembre e combatté al fianco dei partigiani di Tito, però rimase sempre fedele al proprio comandante, Ravnich, fino alla fine della guerra. Pochi militari ebbero il privilegio di essere coerenti durante la seconda guerra mondiale: quasi tutti, anche coloro che apparentemente uscirono vincitori dal conflitto, subirono esperienze frammentarie e discordanti. La mancanza di coerenza, insieme alle ragioni di cui parlavo prima: il fatto di aver subito una guerra non voluta, di averla persa oggettivamente, di aver sopportato in solitudine e in silenzio il pesante fardello dei ricordi, di non aver potuto partecipare attivamente, alla fine del conflitto, alla vita sociale della comunità, ha determinato la sconfitta morale della quasi totalità dei militari di Boccioleto. Mentre il paese uscì incolume dal conflitto, tutti coloro che furono costretti a combattere una guerra non voluta, furono segnati per sempre da ferite profonde, che ancora oggi, dopo cinquant'anni, non si sono rimarginate. Note * Saggio tratto dalla tesi di laurea Boccioleto nella seconda guerra mondiale: la memoria dei militari, in cui il conflitto è stato analizzato attraverso le testimonianze dei militari della piccola comunità della val Sermenza, valle laterale dell'alta Valsesia: considera il periodo dalla dichiarazione dell'armistizio nel settembre del 1943 fino ai primi anni del dopoguerra e si sofferma ad analizzare il rapporto che vi è stato fra la guerra e la comunità. Altri due saggi sull'argomento sono stati pubblicati ne "l'impegno" e sono qui riediti on line. 1 Si veda Angela Regis, Esperienze al margine della guerra, in "l'impegno", a. XV, n. 3, dicembre 1995, p. 38, e qui edito. 2 Claudio Pavone, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 23. 3 Idem, p. 33. 4 Si veda Angela Regis, Esperienze al margine della guerra, cit. 5 Si veda A. Regis, La percezione della guerra e i racconti dei soldati di Boccioleto, qui edito. 6 Boccioleto, in "Corriere Valsesiano", 20 giugno 1946. 7 Archivio privato di Amato Tapella. 8 Si veda A. Regis, Esperienze al margine della guerra, cit. 9 Siegfried Sassoon, Memoirs of an Infantry Officer (1930), in Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 115. 10 Si veda Angela Regis, Esperienze al margine della guerra, cit. 11 Boccioleto, Festa dei reduci, in "Corriere Valsesiano", 31 gennaio 1946. 12 Ivi. 13 Anna Bravo, Simboli del materno, in Id (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 123.