Giorgio Amico
Italo Calvino e la Massoneria
Savona – Ottobre 2023
Nel fiume di pubblicazioni che stanno celebrando il centenario della nascita di Italo Calvino e che
ne tratteggiano i molteplici aspetti della vita e della creazione letteraria non si trova quasi traccia del
rapporto profondo che legò il grande scrittore alla Massoneria. Rapporto di cui si ritrovano tracce
evidenti in tutta la sua opera a partire da un passaggio de “La strada di San Giovanni”, una sorta di
bilancio che Calvino fa nel 1961 della sua giovinezza. Parlando dell'amore del padre per la
campagna egli scrive:
“La tavola dove si posava la frutta e la verdura e si riempivano le ceste da portare giù, era sotto il
fico, a fianco dell'antico casolare di Cadorso, (dove viveva la famiglia dei manenti) con ancora la
traccia sbiadita, sopra la porta, del simbolo massonico che i vecchi Calvino mettevano sulle loro
case”.
Frase rivelatrice del legame profondo che da sempre univa la sua famiglia alla Massoneria. Legame
antico se nel 1874 fra i dieci fondatori della loggia “Liguria”, prima loggia del GOI a Sanremo
risultano il nonno e lo zio dello scrittore, il medico e floricoltore GioBernardo Calvino e suo fratello
GioBatta. Il 26 marzo 1900 la “Liguria” gemmava una nuova officina: la “Giuseppe Mazzini”. Fra
i fondatori ritroviamo il nonno di Calvino, GioBernardo poco dopo raggiunto dai figli, Mario e
Quirino, rispettivamente padre e zio di Italo.
In un articolo uscito l'anno precedente nel numero di settembre-dicembre della rivista “Il
Paradosso”, Calvino aveva descritto con ricchezza di particolari l'ambiente culturale nel quale era
cresciuto, sottolineando come la vita della famiglia fosse improntata a rigorosi principi etici di
origine laica e repubblicana e come ciò comportasse una netta presa di distanza dal regime fascista
allora all'apice del consenso:
“ La mia famiglia era piuttosto insolita sia per San Remo sia per l'Italia d'allora: i miei genitori
erano persone non più giovani, scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori, personalità diverse
tra loro ed entrambe all'opposto dal clima del paese. Mio padre, sanremese, di famiglia mazziniana
repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista
riformista, aveva vissuto nell'America Latina molti anni e non aveva conosciuto l'esperienza della
Guerra mondiale; mia madre, sarda, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile
e della scienza, socialista interventista nel '15 ma con una tenace fede pacifista. Ritornati in Italia
dopo anni all'estero mentre il fascismo stabiliva il suo potere, avevano trovato un'Italia diversa,
difficilmente comprensibile. Mio padre cercava senza fortuna di mettere al servizio del suo paese la
sua competenza e la sua onestà (…) mia madre, sorella d'un professore universitario firmatario del
manifesto Croce, era d'un antifascismo intransigente. Cosmopoliti entrambi per vocazione ed
esperienze (...) Il fascismo s'inseriva in questo quadro come una via tra le tante, ma condotta da
ignoranti e disonesti. La critica al fascismo nella mia famiglia, oltre che per la violenza, l'ingordigia,
la soppressione della libertà di critica, l'aggressività in politica estera, si appuntava soprattutto su
due peccati capitali: l'alleanza con la monarchia e la conciliazione col Vaticano (…) Da bambino
sentendo i discorsi dei grandi a casa mia, ebbi sempre per ovvia l'impressione che in Italia andasse
tutto per traverso”.
Date queste premesse non stupisce che in uno dei suoi primi scritti importanti, “La Riviera di
Ponente”, suo esordio su “Il Politecnico” di Elio Vittorini, rivista centrale nel panorama culturale
italiano di quegli anni, il giovane scrittore tracciasse nel novembre 1945 una sintetica ricostruzione
del ruolo importante svolto dalla Massoneria in Liguria e più in generale in Italia, nel Risorgimento
prima e nella costruzione dello Stato unitario poi:
“ Battuto Napoleone, nel 1814, i Savoia si trovarono padroni della regione. Come conseguenza si
ebbe che, al Risorgimento, la borghesia ligure, tradizionalmente repubblicana, diede i suoi uomini
migliori alla cospirazione ed alla lotta dei Mazzini e dei Garibaldi. Delle vecchie famiglie borghesi,
chi non era bigotto e clericale era nei carbonari, o nei mazziniani, o nella Massoneria. La
Massoneria soprattutto finì per raggruppare intorno a sé tutte le energie progressive dell’epoca e per
temperar ogni slancio rivoluzionario: il repubblicanesimo diventò un puro sfogo verbale e la lotta si
polarizzò sull’anticlericalismo. Così due forze dominarono la vita pubblica della Liguria di Ponente:
la Chiesa e la Massoneria. E due furono i partiti che si contesero le amministrazioni: il conservatore
(clericale e monarchico) e il socialista (sostenuto e temperato dalla Massoneria)…”.
A quell'epoca lo scrittore è fresco di militanza comunista, si era iscritto al partito nel 1944 durante
la guerra partigiana, ma, nonostante la diffidenza se non l'ostilità del PCI verso la Massoneria, non
esita a riconoscere l'importanza del ruolo svolto da questa nella storia d'Italia. E non è, come si
potrebbe pensare, una semplice ripresa adattata al contesto ligure delle tesi gramsciane sul
Risorgimento sviluppate nei “Quaderni del carcere”, di cui allora non si conosceva neppure
l'esistenza visto che la casa editrice Einaudi ne iniziò la pubblicazione solo nel 1948, ma di una
riflessione del tutto personale, acutissima nella sua sinteticità, derivante dalla conoscenza diretta
frutto della sua personale esperienza dato che, come si è visto, le due storie, quella della Massoneria
nel Ponente ligure alla fine dell'Ottocento e quella della famiglia Calvino, risultavano
inestricabilmente connesse. Una conoscenza profonda della storia e dei riti massonici che
riemergerà un decennio più tardi nel romanzo “Il barone rampante”.
“Il barone rampante”
Nel 1957 Calvino pubblica “Il barone rampante”, secondo capitolo de “I nostri antenati”, insieme a
“Il visconte dimezzato” (1952) e “Il cavaliere inesistente” (1959). In questo romanzo, che abbraccia
tutto il periodo della Rivoluzione francese iniziando nel ventennio immediatamente precedente e
concludendosi in piena Restaurazione lo scrittore fa precisi riferimenti alla Massoneria. In
particolare nel capitolo XXV che è interamente dedicato alla vita massonica non proprio ortodossa
del protagonista e in cui si può leggere questa illuminante annotazione:
“Nella Massoneria Cosimo dunque non faceva che ripetere quel che già aveva fatto nelle altre
società segrete o semisegrete cui aveva partecipato. E quando un certo Lord Liverpuck, mandato
dalla Gran Loggia di Londra a visitare i confratelli del Continente, capitò a Ombrosa mentre era
Maestro mio fratello, restò così scandalizzato dalla sua poca ortodossia che scrisse a Londra questa
d’Ombrosa dover essere una nuova Massoneria di rito scozzese, pagata dagli Stuart per fare
propaganda contro il trono degli Hannover, per la restaurazione giacobita”.
Per il lettore comune un periodo buttato là con nonchalance, come una annotazione fra le tante, ma
per chi ha gli strumenti per comprenderne le implicazioni profonde, la testimonianza della
conoscenza di prima mano che l'autore aveva delle cose massoniche, considerato che la cosiddetta
massoneria dissidente “giacobita” è da sempre argomento per accademici e specialisti della materia
e in quanto tale, non solo del tutto sconosciuto ai “profani”, ma spesso poco noto anche agli stessi
appartenenti all'istituzione libero muratoria.
Tornando al “Il barone rampante”, il romanzo racconta la storia di un giovane aristocratico del
Ponente ligure, Cosimo Piovasco di Rondò, che all’età di dodici anni, in seguito a un litigio con i
genitori si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi più per il resto della vita.
Come via via raccontato dal fratello, voce narrante del romanzo, quell'atto di ribellione diventa una
scelta di vita, un percorso di formazione e maturazione destinato a durare tutta la vita nel tentativo
di passare dal caos del mondo a un ordine fondato sulla ragione e su una visione etica della vita. Il
romanzo si chiude con un ultimo colpo di scena: ormai anziano, Cosimo non si arrende e non
scende a terra, al passaggio di una mongolfiera, si aggrappa ad un cima penzolante e scompare nel
cielo alla ricerca di nuovi superiori orizzonti.
Come si comprende fin dalle prima pagine quella di Cosimo non è una fuga dal mondo, né il rifiuto
snobistico o capriccioso di mantenere rapporti con gli altri uomini. Cosimo non è un eremita. Fedele
alla sua scelta di vita, Cosimo vive sugli alberi, ma continua a partecipare attivamente alla vita del
suo tempo, tanto da interloquire idealmente anche con il grande Voltaire. Semplicemente, scrive
Calvino, Cosimo ha compreso che “per essere con gli altri veramente, la sola via era d’essere
separato dagli altri”. Detto in altri termini, un'azione mirante ad un cambiamento in meglio del
mondo e al “benessere dell'umanità” deve partire da un punto di osservazione esterno alle dispute
ideologiche e personali, mantenendosi estranea ad ogni fanatismo. Esattamente quanto predicava
negli anni in cui il romanzo è ambientato il massone Voltaire, in questo fedele interprete degli ideali
su cui il giorno di San Giovanni Battista del 1717 era stata fondata a Londra, nei locali della taverna
“L'oca e la graticola”, la Gran Loggia d'Inghilterra. E d'altronde la frase altro non è che una
citazione del filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte che nelle sue famose “Lezioni sulla
Massoneria”, pubblicate nel 1802-1803, aveva affermato che solo «uscendo dalla società» e
cercando di superare gli svantaggi di una «cultura unilaterale», si poteva diventare uomini
veramente liberi e di buoni costumi come i massoni amano definirsi.
Figlio e nipote di massoni, Calvino non fu mai iniziato alla Massoneria, né per quello che se ne sa
provò mai il desiderio di esserlo, forse proprio perché massone si sentiva già nel senso più profondo
del termine e l'adesione formale sarebbe stata probabilmente fonte di delusione. Perché gli ideali
camminano sulle gambe degli uomini che sono spesso terribilmente corte e di questo Calvino, che
aveva appena rotto con il PCI, era pienamente consapevole. Di questa adesione ideale, che era
anche – sia detto per inciso – riconciliazione con il padre e il suo percorso di vita - “Il barone
rampante” resta testimonianza viva nel suo essere non solo romanzo filosofico, intriso di ironia alla
maniera settecentesca, ma anche espressione in forma di favola dei fondamenti del pensiero
massonico: l'iniziazione (l'abbandono della vita terrestre e la salita sugli alberi) come cambiamento
di stato; la ricerca costante della verità non fine a sé stessa ma finalizzata al miglioramento della
condizione umana; il Tempio (la chioma degli alberi) come luogo separato dal caos del mondo dove
meditare sulla vita per raggiungere uno stato superiore di coscienza. E nel cielo stellato che sovrasta
sia il bosco che il Tempio massonico, Cosimo sparisce a simboleggiare che la morte è solo un
ulteriore passaggio di stato, proprio come lo è da sempre l'iniziazione ai Misteri.
Ne abbiamo già accennato: il momento in cui il romanzo viene scritto è estremamente significativo.
Calvino è ad una svolta fondamentale della sua vita, analoga per importanza a quella operata nel
1944 quando era salito in montagna per unirsi alle Brigate Garibaldi e aveva chiesto l'iscrizione al
Partito comunista. Una scelta etica più che ideologica: “Quando seppi – scrive in “Autobiografia
politica giovanile” del 1960 – che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico
Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio
1944 chiesi a un amico comunista di entrare nel partito”.
Sono gli anni della crisi politica dello scrittore, della sua rottura con il Partito comunista e
l'abbandono di una militanza politica intensa come conseguenza diretta del dramma dell'Ungheria e
delle rivelazioni del XX Congresso del PCUS. Anche questa volta l'aspetto etico è predominante,
risposta al fallimento di una fede salvifica rivelatasi fallace. “Il dio che è fallito” aveva non a caso
titolato nel 1950 l'ex comunista Silone un suo libro importante che raccoglieva, oltre la sua,
testimonianze di altri intellettuali che avevano vissuto gli stessi entusiasmi e la stessa disillusione.
Per Calvino, che pure ci aveva creduto fortemente, il comunismo nella sua versione storicamente
realizzata non rappresenta, come aveva utopicamente pensato Marx, la risposta finalmente trovata
alla alienazione della condizione umana. Altra è la via. La rivoluzione è prima di tutto rivoluzione
interiore, conoscenza e miglioramento di sé. Conquiste da riportare nel mondo, perché la vita degli
uomini si regga su quei principi di armonia (libertà, eguaglianza, fratellanza) che lo scrittore aveva
appreso a conoscere e ad amare in famiglia a contatto con il padre e lo zio e nel ricordo del nonno,
combattente alla presa di Porta Pia nel 1870. Per essere con gli altri veramente, la sola via è essere
separato dagli altri, afferma Calvino. Proprio quello che aveva scritto centocinquanta anni prima
Fichte e che rappresenta l'essenza di quel “segreto” massonico su cui tanto si è scritto a sproposito.
Una scelta che i “profani” spesso non comprendono, vedendo in questa voluta separazione dal
vociare confuso e caotico del mondo la prova di chissà quali oscure e inconfessabili manovre, ma
che rende la Massoneria scuola di vita e non partito o sorta di religione come qualcuno vuole
dipingerla per meglio combatterla.
Sarà da queste esperienza traumatica ma illuminante che nasceranno le riflessioni contenute in un
altro scritto autobiografico di Calvino, quel già citato “La strada di san Giovanni” in cui nel 1961 lo
scrittore ricostruisce il rapporto con il padre negli anni dell'adolescenza.
“La strada di San Giovanni”
Nella Strada di San Giovanni Calvino contrappone l’universo del padre, Mario, agronomo e
floricoltore di fama internazionale, al proprio di adolescente inquieto:
“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com'era situata
casa nostra, nella regione un tempo detta «punta di Francia», a mezza costa sotto la collina di San
Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via
privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza
Colombo li a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava
dietro casa a monte (sapete i beudi, che derivano le acque dei torrenti per irrigare i terreni della
costa: un canaletto a ridosso d'un muro, fiancheggiato da uno stretto marciapiede di lastre di pietra,
tutto in piano) e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e pali di
vigne e il verde.
Era sempre di là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi gambali, e si sentiva il passo delle
scarpe chiodate per il beudo, e lo scampanellio d'ottone del cane, e il cigolare del cancelletto che
dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l'altra parte
del mondo, quella di giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose da sbrigare, ma
estranea e insignificante, da attraversare a lunghi passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno.
Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto
era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie,
da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le luci della nostra piccola città appartata, ma la
città, uno spiraglio di tutte le città possibili”.
Il paesaggio come punto di partenza per definire un percorso umano, una identità, dunque, ma
ancora non basta. Per attribuire senso e significato alla vita il paesaggio non è sufficiente. Perché il
paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si
posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere
rappresentato il paesaggio deve poter essere introiettato, in qualche modo vissuto, fatto proprio. E
proprio a questo serve la vita vissuta come ricerca di sé: a dare senso e significato al caos che ci
circonda, alla apparente irrazionalità e casualità dell'esistere. “Ordo ab chao” il motto del Rito
Scozzese Antico e Accettato in cui Mario Calvino aveva raggiunto il 33° grado, ma anche la
conclusione a cui giunge Italo e che lo riconcilia idealmente con il padre nel riconoscere che, anche
se in forme diverse, la strada cercata era stata la stessa:
“Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch'io, cos'era la
strada che cercavo se non la stessa di mio padre scavata nel folto d'un'altra estraneità, nel
sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo con lo sguardo negli androni male illuminati nella
notte (l'ombra d'una donna, a volte, vi spariva) se non la porta socchiusa, lo schermo del
cinematografo da attraversare, la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e
le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l'eco di un'eco di un'eco”.
Attraversare lo schermo del cinematografo, voltare pagina alla ricerca di un altrove dove le parole
abbiano sostanza e non siano l'eco di altri echi, scrive Calvino. E questo per scoprire la propria
individualità, il proprio essere autentico. Sono i motivi per cui si bussa alla porta del Tempio, per
cui si cerca la Luce. Ed è questa ricerca che innerva la vita e l'opera letteraria di Italo Calvino a
rendere lo scrittore un Massone non iniziato, un Massone nel cuore.