Una versione ridotta del saggio è stata pubblicata su: “Politiche sociali e servizi”, 2013, n. 1
Sull’auto-costituzionalizzazione del Terzo settore.
Quale auto-regolazione per le professioni del “sociale”?
di Riccardo Prandini
1. Introduzione e struttura del saggio
La società globale, caratterizzata oltre che dalla complessità anche dalla accelerazione dei suoi
processi che rendono quasi vana l’osservazione scientifica (Rosa 2013), può essere descritta solo in
termini poli-contesturali. Di una cosa sola, infatti, possiamo essere certi entro un contesto globale
d’incertezza: che essa non è più de-finibile con un solo concetto (da qui il fallimento di tutte le
proposte finora utilizzate: società dei consumi, società del rischio, società post-moderna, società
della comunicazione; società delle reti, web-society, etc.) e che domani sarà profondamente diversa
da come la conosciamo oggi (così come gli attori che la popolano). Dentro a questa situazione
paradossale – che richiede alla scienza di operare con termini sempre più provvisori e contingenti,
lasciando però credere che siano definitivi – è possibile iniziare una osservazione sociologica
partendo da qualsiasi punto di partenza, cercando poi di recuperare nell’argomentazione i diversi
contesti. In queste mie note, del tutto provvisorie e introduttive al tema che andrà elaborato in ben
altri modi, io osservo la società (in primis quella cosiddetta occidentale) attraverso il problema
dell’esplosione di nuovi poteri e del loro controllo (sociale). Mi interessa in particolare
comprendere i modi in cui la società cerca di “difendersi” da essi1.
La globalizzazione “scatena” una congerie di nuovi poteri (e potenzialità) capaci di influire sulle
vite dei cittadini in modi a volte molto visibili a volte invece del tutto criptici2. Il processo può
essere facilmente descritto come quel (doppio) movimento di espansione e contrazione, di
esplosione di nuove libertà e controlli, già a suo tempo descritto da Karl Polanyi (1974). A fronte di
tali dinamiche nel Novecento sono state elaborate due risposte tipicamente moderne. La prima, ha
prevalentemente concepito lo “scatenamento” di nuovi poteri come un attacco alla logica strutturale
dello Stato-nazione (a sua volta inteso come “macchina” per contenere il potere,
costituzionalizzandolo), descrivendola come una sfida globale portata da potenze quasi impossibili
da rendicontare. A fronte di questa sfida, la risposta ha spesso preso le fattezze di un ripensamentopotenziamento della “forma-Stato”, intesa come argine ai poteri neo-liberali (Ferrarese 2006). La
seconda, ha invece preso le vesti di una valorizzazione poco critica (spesso anzi a-critica) di tale
“scatenamento”, inteso come occasio per la liberalizzazione di quei poteri sociali che finalmente
sfuggivano al controllo incatenante e spesso illegittimo della forma-Stato (Cacciari 2013). Tra
queste due posizioni si è aperto uno spazio di discussione più interessato alle novità reali, che ha
provato a uscire dal ristretto orizzonte della prima-Modernità (Teubner 2012; Sabel 2013; Thornhill
2011). Non da ultimo si è innescato anche il tema della costituzione/erogazione di beni
pubblici/comuni e della loro governance che è andato ad arricchire un campo di discussione
scientifica ormai maturo (Ostrom 2006, Chignola 2014).
In questo mio breve saggio affronto questa ponderosa problematica sotto un punto di vista molto
specifico e con un obiettivo ben definito. Il punto di vista è quello della auto-regolazione di poteri
“sociali” (e non statali) che emergono sia a livello globale che nazionale e locale. In specifico qui
mi occupo del livello nazionale e dei poteri derivanti dalla istituzionalizzazione delle nuove
1
Rispetto al tema non posso che rimandare (per questioni di spazio-tempo) al lavoro di Gunther Teubner che, meglio di
altri, ha saputo descrivere i nuovi pericoli che provengono da centri di potere non più soltanto politico-statali. Per una
introduzione al tema e per uno sviluppo delle riflessioni che fanno da base a questo saggio, rimando a: Prandini 2012.
2
Il “potere” non ha solo una dimensione “demoniaca”, di vincolo e sottomissione, bensì anche una ben evidente di
capacitazione e liberazione, da cui il termine americano di empowerment. Bisogna sempre tenerne conto nelle analisi
sociologiche. Per questa riflessione in generale si veda: Thornhill 2011
professioni del “sociale”, quelle che hanno a che vedere in particolare con i servizi alla persona
(Folgheraiter 2004)3. Cerco di mostrare in che modo tali poteri potrebbero auto-regolarsi fino ad
accedere a una loro “costituzionalizzazione civile” (Teubner 2005). L’obiettivo è proprio quello di
riflettere su forme di auto-costituzione capaci di guadagnare legittimità politica al “civile” –
liberando le sue energie – senza sottoporlo a un controllo esogeno di tipo legiforme o burocratico,
quella gabbia di duro acciaio da cui il nostro Paese mostra di voler uscire. Mostrerò, anzitutto, due
esempi di costituzionalizzazione civile tratti dalla riflessione economica per dare “immagine” a
quell’idea. Passerò quindi al tema centrale, quello dell’emergenza delle professioni del sociale (in
modo particolare quelle che hanno a che vedere con i servizi alla persona). Si tratta di un esempio
molto rilevante dell’emergere di nuovi poteri – generati necessariamente dall’asimmetria di ruoli tra
chi eroga un servizio-esperto e chi lo riceve – che occorre regolare in modo adeguato. Di fronte a
questa “emergenza” le forme di regolazione possibili sono ideal-tipicamente tre: 1) l’inclusione del
“lavoro sociale” entro organizzazioni e logiche di mercato (così da “mutare”4 la forma di Terzo
settore in impresa sociale market oriented); 2) la sua inclusione (in house) in una governance
spiccatamente pubblico-statale (così da “mutare” il Ts in impresa sociale state oriented); 3) la sua
trasformazione in una professione sociale auto-regolata mediante “forme collegiali” ed entro una
governance poliarchica-riflessiva5. In altre parole, intendo ragionare sul “progetto istituzionale”
(Institutional Design) delle società occidentali, ossia del modo in cui vanno delineati i diritti-doveri
di tutte quelle organizzazioni sociali – né stato-centriche né market oriented – che operando
impattano sui “coinvolti”6. Il progetto istituzionale concerne perciò il modo in cui una società
riflette sulle sue organizzazioni civili riconoscendogli determinati scopi, poteri e responsabilità,
entro un quadro pubblico (ma non statale) di regolazione. La Modernità ha esaltato sfere sociali
mercantili e politico-costituzionali (Hollingsworth e Boyer 1997). Oggi queste forme, fortemente
guidate attraverso i medium della Legge (statale) e del denaro (mercato), seppure necessarie (a
meno di non de-differenziare la società con esiti catastrofici) non sono più sufficienti a regolare
l’esplosione della complessità sociale. Occorre quindi proporre nuove soluzioni innovative per una
costituzionalizzazione delle organizzazioni “civili”.
2. L’esplosione dei poteri sociali e la crescente esigenza del loro controllo
2.1. Oltre la regolazione degli Stati-nazione: costituzionalismo societario e soglie di intelleggibilità
dell’auto-regolazione
Il problema del potere e del suo controllo democratico, identificato in modo classico da David
Sciulli (1992), è di estremo interesse e di ancora maggiore attualità di quando fu elaborato più di
vent’anni fa. Secondo Sciulli sia i politologi che i sociologi non sono ancora stati capaci di
inquadrare nei giusti termini il problema dell’abuso di potere e, più in generale, dell’autoritarismo
cioè dell’utilizzo illegittimo del potere. Egli si riferisce con ciò ad ogni tipo di decisione capace di
vincolare e di pre-definire le libertà di una collettività (i “coinvolti”, da definire di volta in volta),
imposto da organizzazioni non pubbliche (nei termini del diritto pubblico) – quali le imprese for
profit (nazionali e multinazionali), le partnership pubblico-private, le forme di neo-patrimonialismo,
Con “professioni del sociale” mi riferisco qui a quella parte del cosiddetto Terzo settore (etichetta quanto mai generica
e ormai inappropriata a raggruppare un insieme di realtà sempre più disomogenee) che produce beni e servizi alla
persona. È questa parte del non profit, quella che ormai si identifica fortemente con l’impresa sociale, che va sempre più
istituzionalizzandosi come “professione” del “sociale” e che, secondo quanto teorizzerò, catalizza in modo sui generis
processi di auto-costituzionalizzazione specifici. Sul genus turpe del terzo settore, si veda ora il tagliente: Moro 2014.
4
Utilizzo qui il termine “mutazione” proprio a sottolineare che non si tratterebbe solo di ibridazione, ma proprio di un
mutamento di logiche e identità dei servizi alla persona.
5
Sul tema della poliarchia direttamente deliberativa, rimando a: Sabel 2013
6
La distinzione decisori/coinvolti è centrale per lo sviluppo delle teorie della auto-regolazione sociale. Si veda:
Luhmann 1996.
3
le reti transnazionali e globali di attori non statali. Secondo il sociologo americano il limite delle
teorie mainstream è di focalizzarsi solo sulle forme di potere “politico-statale” senza essere capaci
di “generalizzare” il problema anche alle altre strutture di governance – pubbliche e private (o un
loro mix) – che ormai popolano gran parte della società. La mossa teorica che permette di
generalizzare il problema consta nel dis-connetterlo dalle strutture politiche-statali (in particolare
quelle tipiche del costituzionalismo liberal-democratico) per ri-connetterlo, in modi adeguati, a
quelle “civili”. In buona sostanza Sciulli mette a nudo la totale inadeguatezza di tutte quelle teorie
che definiscono la democrazia solo in termini “istituzionali” e rule-oriented. Non basta, ed è questo
il punto, che le istituzioni di governo (e/o di governance) siano regolate attraverso procedure
formalmente democratiche. È sotto agli occhi di tutti che la “forma” democratica è sempre più un
guscio vuoto che maschera “contenuti” di potere illegittimo (gli arcana imperii), scambi politici ed
economici illegali (“tangentopoli” e lobbysmo invisibile), formazione di élite non rendicontabili (le
varie caste), reti di amici degli amici (clientelismo), occupazione degli uffici pubblici (partitocrazia)
e tutta una serie di meccanismi nient’affatto democratici che da anni ammorbano le democrazie
occidentali, rendendo sempre più difficile il controllo del potere pubblico7. Il problema
dell’autoritarismo e dell’abuso di potere è esploso nel momento in cui: 1) il potere pubblico, ai
diversi livelli di governo amministrativo, ha dovuto essere condiviso con attori non
democraticamente eletti, come nella maggior parte delle forme di governance attuali; 2) molte delle
decisioni degli attori privati, a partire dalla grandi imprese multinazionali, ma non solo, hanno
cominciato ad impattare su “pubblici” rilevanti; 3) il potere “proceduralmente” attribuito agli uffici
pubblico-statali, è diventato sempre più intrasparente e pre-giudicato da logiche spartitorie. In altri
termini la società globale può essere descritta mediante una nuova distinzione: quella
“decisori/coinvolti”. I primi sono tutti (in particolare organizzazioni) coloro che decidendo – non
importa se da un “ufficio” (o posto di comando) pubblico o privato – influiscono direttamente o
indirettamente sulla vita delle persone; i secondi sono coloro che, non partecipando al processo
decisionale, ne subiscono il potere non potendo fare a meno di rimanere coinvolti (non hanno
capacità di exit). Si pensi alla decisione di Facebook di utilizzare certi dati, senza che questa
decisione sia realmente trasparente o contrastabile: oppure si pensi all’utilizzo dei dati sul web da
parte dei Governi e delle imprese for profit. O ancora alle decisioni prese in sede di Unione Europea
dalle Commissioni, senza che vi sia un vaglio “direttamente” democratico; o alle politiche
commerciali decise dal WTO che danno una quadro ben definito alla libertà di commercio. Gli
esempi potrebbero moltiplicarsi a volontà. In buona sostanza è accaduto che, entro le classiche
forme statali della liberal-democrazia, siano emersi poteri non controll(ati)/(abili). Il problema (e la
sua soluzione) non è più dipendente dalla caratterizzazione giuridica (pubblica o privata) degli attori
in gioco e neppure dalla presenza dell’eleggibilità democratica dei membri dell’istituzione (e poi:
con quale procedure si elegge “democraticamente”?). Neppure ci si può aspettare che la
democraticità di questi attori – che si presentano ai diversi livelli della società lungo l’asse
locale/globale – possa essere vagliata da Corti costituzionali nazionali o dai tribunali ordinari. Di
fronte a questo enorme campo problematico, si presenta un dilemma: o rinunciare completamente al
controllo delle decisioni collettivamente influenti (fine della democrazia come forma ideale di autogoverno del popolo e/o dei pubblici coinvolti a tutti i livelli decisionali); o rinunciare alla libertà,
costringendo tutti i decisori entro la cappa di nuovo autoritarismo collettivistico (come sembra
accadere nella Russia, in Cina e in molti Paesi sudamericani dove la costituzione è principalmente
solo politica simbolica).
La proposta di Sciulli (1992) per uscire da questo dilemma, somiglia alla miglior ricetta
parsonsiana del volontarismo normativo, cioè alla capacità di ogni attore (a tutti i livelli sociali) di
trovare una forma di auto-governo responsabile (Prandini 1998). Da questo punto di vista la forma
costituzionale dello Stato moderno è solo un “caso”, seppure estremamente rilevante, di soluzione a
un problema ben più generale. Sciulli infatti non è interessato al classico tema (costituzionale) della
Una descrizione drammaticamente realista e cristallina di questa “linea d’ombra” che accompagna da sempre le
democrazie occidentali, rimane quella luciferina (nel senso di illuminista) di Gianfranco Miglio (2011).
7
separazione dei poteri e della garanzia dei diritti umani. La sua riflessione rappresenta, invece, una
critica molto forte all’idea che un cambiamento sociale di tipo non autoritario sia possibile solo per
mezzo delle istituzioni, delle forme di governo e delle pratiche peculiari della società occidentali
moderne. In altri termini è alla ricerca di una infrastruttura sociale – quella che chiamerà “forma
collegiale” di organizzazione – capace si guidare uno sviluppo sociale ed economico non
autoritario, ma neppure solo formalmente democratico. Di fatto, le formazioni collegiali (tra l’altro
non solo tipiche dell’Occidente e neppure della Modernità) non debbono essere per forza di cose
“democratiche” in un modo formale. Sciulli sostiene invece che non tutte le organizzazioni
collegiali che operano al di fuori dalle procedure formalmente democratiche, sono perciò stesso
autoritarie e che, conseguentemente, la miglior difesa contro l’autoritarismo non è rappresentata
solo dalle istituzioni costituzionali liberal-democratiche e dalle loro procedure.
È proprio questa la parte più convincente della critica di Sciulli. Uno Stato costituzionale
moderno può, nonostante le sue strutture di divisione del potere, diventare ogni giorno più
autoritario e manipolatore. Il sociologo rileva nell’occidente democratico una deriva molto
pericolosa verso l’autoritarismo che si esprime attraverso quattro diverse modalità di
“razionalizzazione”: (1) l’iper-frammentazione delle logiche d’azione sociale che provoca una
compartimentalizzazione di “sfere di senso” sempre più separate e reciprocamente non trasparenti
(problema weberiano del politeismo dei valori, ora dei codici comunicativi); (2) il dominio del
calcolo strumentale su tutte le altre logiche sociali con loro conseguente “colonizzazione” e
alienazione (problema della dialettica dell’illuminismo di francofortese memoria); (3) sostituzione
del coordinamento informale tra attori e istituzioni, con burocratizzazione e giuridificazione sociale;
(4) incrementale inclusione del sociale nella gabbia d’acciaio di un controllo sempre più capillare e
invisibile (problema della governamentalità di foucaultiana memoria). Questi processi tendono a
trasformarsi in “dilemmi” e paradossi, laddove si provi a controllarli. Di fatto la razionalizzazione o
deriva razionalistica porta a una crescente competizione per le posizioni di potere e quindi alla
reazione delle forze sociali coinvolte che pretendono maggiori controlli: concedere più libertà
procedurale porta solo a richieste di maggiore controllo sociale sostanziale; più direzione
strumentale dell’agire porta a fughe verso logiche espressive di politeismo valoriale che, a loro
volta, generano conflitti di interpretazione da risolvere in modo “decisivo”; la
burocratizzazione/giuridificazione del coordinamento sociale, spinge verso la ricerca di spazi di
nuova libertà che vengono osservati come fuori legge, etc.
Per controllare questa implacabile deriva, i diversi attori di una società complessa debbono
essere capaci di elaborare e istituzionalizzare una norma molto particolare, esterna alla logica della
deriva stessa: un vincolo “non razionalista”. Sciulli è alla ricerca di un limite normativo al potere
capace di “con-vincere” dall’interno i diversi attori e lo rintraccia in uno standard di “azione sociale
ragionata”. Si tratta di una “soglia di intellegibilità” della norma comune, cioè di un modo di
regolare la cooperazione che per essere valido va riconosciuto come necessario da tutti, in modo
reciproco e complementare. Attori sociali totalmente eterogenei e gruppi in forte competizione sono
perciò “integrati” – invece che semplicemente “controllati” – in una unità sociale, quando i doveri
sociali condivisi che sono positivamente sanzionati, possono essere “riconosciuti” e “compresi” in
comune come necessari a quell’unità. Seguendo la teoria di Lon Fuller, ispiratore di Sciulli, si tratta
di individuare la soglia fondamentale di “interpretabilità” o di “sensatezza” del diritto. Secondo
Fuller (1964), il diritto (in quanto norma condivisa) è socialmente legittimo e non un mero abuso di
potere arbitrario – fosse anche deciso da un Parlamento o Governo eletto seconde le giuste
procedure–, se e solo se è: 1) generalizzabile a tutti i membri di una società (non può esistere diritto
ad hoc e ad personam); 2) reso pubblico in modo accessibile e trasparente (non può esistere diritto
“segreto” e “opaco”); 3) comunicato in modo chiaro e comprensibile (non può esistere un diritto
volutamente “oscuro” e incomprensibile); 4) applicato dopo la sua promulgazione (scorrettezza
nell’applicare retroattivamente una nuova norma); 5) internamente coerente (non può esistere un
sistema del diritto, o una singola norma, internamente incoerente); 6) capace di pretendere dai
“soggetti del diritto”, azioni che sono in loro potere (insensatezza di pretese impossibili del diritto);
7) stabile e istituito (insensatezza di un diritto che cambia troppo velocemente); 8) coerente rispetto
ai momenti della legislazione, della aggiudicazione e della amministrazione. Questi otto principi
rendono una aspettativa di aspettative, qualcosa di ragionevolmente normativizzabile. Un diritto che
non rispetti queste soglie logiche, in definitiva, non è presentabile come diritto bensì come semplice
comando arbitrario. Sciulli mostra “empiricamente” l’operare della soglia-logica, attraverso studi di
caso dedicati a “formazioni collegiali” specifiche: divisioni di ricerca aziendali, associazioni
professionali, board universitari e imprenditoriali, etc. Ogni organizzazione le cui decisioni possono
avere esternalità su persone “coinvolte” – gli stakeholder – deve perciò trovare sua autonoma forma
di auto-regolazione.
2.2. Primo esempio di formazione collegiale: la Corte del Delaware come “Corte costituzionale”
della polity economica
Un primo chiaro esempio di cosa significhi l’operare di queste formazioni collegiali, ci viene
fornito da una ricerca che Sciulli dedicò al tema del Corporate Power in Civil Society. Lo studio di
caso è estremamente interessante perché il sociologo americano prova a sviluppare una applicazione
del costituzionalismo societario alla american corporate judiciary (ACJ) – in particolare alla State
Courts of Delaware8 – che ha la funzione pubblica di controllare come i manager governano le
aziende quotate in borsa (Sciulli 2001). Sottolineiamo che per Sciulli il problema di chi rimane
all’interno della tradizione costituzionale liberal-democratica è quello di non poter comprendere i
nuovi e plurimi casi di esercizio di potere collettivo, attuato dagli attori privati della società civile,
che hanno ripercussioni sull’ambiente (umano e naturale). La tradizione politologica moderna
mostra una fortissima difficoltà nell’estendere i suoi concetti – forgiati per osservare la relazione tra
“individuo” (borghese e adulto) e “Stato” (nazionale) – a quella tra stakeholder e organizzazioni di
società civile (dotate di enormi poteri): in buona sostanza è capace soltanto di riflettere sull’arbitrio
del Governo, ma non di altre forme di potere collettivo (Sciulli 2001).
Secondo Sciulli il punto di svolta è rappresentato dal ruolo della ACJ che consta nel definire e
limitare le possibilità di “conduzione” delle imprese private (quotate). Entro una cultura del libero
mercato tipicamente nordamericana, il problema di come i manager governano le aziende è lasciato
prevalentemente ai principi della competizione (regolazione orizzontale), incorniciati entro un
quadro statale di regolamenti (regolazioni verticali). Le sanzioni (e gli incentivi) sono in prevalenza
giuridiche (leggi anti-trust; leggi per la regolazione e la competizione dei mercati, etc,) ed
economiche. Da questo punto di vista (e non lo sottolineeremo mai abbastanza) non esiste alcun
problema di progetto istituzionale per una società democratica. Dal punto di vista “formale” e
legale, ciò basta e avanza. Il vero problema, però, è che le imprese rappresentano non solo (e non
tanto) attori collettivi operanti nell’arena del mercato, bensì (e molto più concretamente) l’insieme
più significativo di “associazioni intermedie” della società americana: ed è in quanto tali che
acquisiscono responsabilità anche sociali. Le associazioni intermedie mediano sempre (volenti o
nolenti, in positivo o in negativo) il rapporto tra il singolo individuo e i modelli di azione e di
esperienza fissati nella società (Berger e Luckmann 2010). Come tali hanno un rilevante impatto
non solo sui loro membri (fino agli shareholder), ma anche e soprattutto sulla vita degli stakeholder
e da chiunque sia “coinvolto” dalle loro decisioni, ciò che Sciulli chiama le “esternalità istituzionali
del potere aziendale”. Le esternalità possono essere economiche, politiche, sociali e valoriali, ma di
questo non posso occuparmi ora analiticamente. Rimane il fatto che le imprese sono ben piantate
nella società e i loro assetti istituzionali sono parti rilevantissime del suo disegno strutturale. In altre
parole sono rappresentabili come “cittadini” della società con diritti e doveri ben specifici
(Macchioni 2014). In particolare le imprese economiche confinano con una parte del sistema
fiduciario della società, quello che ha come scopo il mantenimento della sua identità complessiva.
8
Per informazioni sulla Corte del Delaware, si veda: http://courts.delaware.gov/http://courts.delaware.gov/
In tale senso devono preservare e rigenerare continuamente i valori della “libertà d’intrapresa”,
personale e collettiva, finalizzata alla creazione di “benessere” per la società intera. Laddove
vengono meno a questo “servizio” collettivo, perdono di legittimità9.
Se si prende atto di questa loro identità “pubblica” e delle loro finalità sociali, allora il progetto
istituzionale della società democratica (nel caso in esame, quella statunitense) deve adeguare i suoi
principi regolativi (Anderson 2009). Deve, in primo luogo, generalizzare e ri-specificare i controlli
normativi tipici del potere governativo, verso le più importanti associazioni intermediarie della
società civile. Tali associazioni (e altri luoghi di pratica professionale organizzata, come quella che
opera negli ospedali, università, musei, agenzie governative, etc.) mediano il potere dello Stato e
allargano le lealtà degli individui ben oltre le loro famiglie e i gruppi primari (funzione di
limitazione nei confronti del potere statale): allo stesso tempo, creano nuove fonti di potere che
devono essere a loro volta controllate (funzione di regolazione di nuovi poteri sociali). Se la prima
funzione – difensiva – è ben riconosciuta nelle pratiche e culture delle società occidentali, la
seconda – costitutiva – è meno presente ed elaborata. Di una cosa si può però essere certi, contro
gran parte della tradizione regolativa nazionale e stato-centrica: gli Stati non potranno affatto
monopolizzare il controllo dei poteri “costituenti della società civile” a meno che non si voglia
scivolare pericolosamente in forme inedite di autoritarismo e di centralizzazione dei poteri. È però
altrettanto reale il pericolo che le imprese private, soprattutto quelle multinazionali o già globali,
sfuggano a qualsiasi controllo essendo capaci di esercitare un enorme potere collettivo in modo
abusivo e arbitrario (si pensi allo scandalo Roche-Novartis così come lo stanno presentando i media
nel marzo 2014).
Da questo dilemma – lasciare piena libertà d’impresa rischiando però l’abuso di potere, oppure
limitare la libertà rischiando l’autoritarsimo – scaturisce la soluzione proposta da Sciulli.
Monitorando la governance aziendale con un occhio ben aperto al design istituzionale della società,
la Corte del Delaware realizza quello che Parsons definì come funzione di mantenimento del
modello sociale. Non è certamente esagerato affermare che «la Corte di Cancelleria del Delaware e
la Corte Suprema, funzionano come la Corte Costituzionale degli Stati Uniti per tutte le
associazioni intermediarie e per tutti i potenti corpi della società civile statunitense» (Sciulli 2001,
15). Quella Corte non fa altro che manifestare apertamente le funzioni costituzionali/costituenti che
moltissime Corti non statali (e neppure inter-nazionali), bensì private e/o quasi private, esercitano
oggi nel globo (Thornhill 2013). La Corte non interviene affatto sulle funzioni “produttive” delle
imprese, ma solo su quelle inerenti il “governo” privato, valutando la loro legittimità, eguaglianza
di trattamento ed equità. La Corte del Delaware è fortemente interessata (e preoccupata) laddove
determinati cambiamenti nella governance delle imprese, possano mettere in pericolo una società
democratica. Sciulli sottolinea in modo risoluto come «il diritto aziendale, come la maggior parte
del diritto, è primariamente diretto allo strutturare in termini di regole il potere sociale, e riguarda
specificamente le regole che strutturano l’organizzazione del potere economico (…) il potere e le
restrizioni del diritto aziendale sono formulate con un occhio al costruire un insieme di regole per
gli affari che conduce al vantaggio pubblico. Con le parole del Professor Melvin Eisemberg, il
diritto aziendale è, in questo senso fondamentale, un diritto costituzionale» (Sciulli 2001, 25). Come
diritto costituzionale delle organizzazioni private for profit, identifica i diritti che i rappresentanti
delle imprese esercitano entro “situazioni strutturate” nella società civile e i doveri che devono
assumersi quando operano nell’interesse della propria azienda e per la collettività. Tale diritto
esprime simultaneamente le norme sociali e le configurazioni istituzionali verso cui i rappresentanti
9
Esistono numerosissimi esempi di questa crisi di legittimità. Si pensi soltanto a cosa è accaduto, in Italia, con gli
scandali “Parmalat” e “Banca Monte dei Paschi di Siena”, o con quello della Lehman Brothers negli US. Con tutt’altro
significato, ma egualmente interessante in quanto identificato come “tradimento”, si pensi al dibattito che è scaturito
dalla decisione di Fiat-Chrysler Automobiles di fondarsi come società di diritto olandese con domicilio fiscale nel
Regno Unito. In tutti questi, e in moltissimi altri casi, sembra venir meno la responsabilità sociale dell’impresa, intesa in
termini molto generali, ma altrettanto specifici come “contributo” che quelle istituzioni sono chiamate a dare al
benessere o bene comune della società.
delle imprese debbono mostrare fedeltà, quale che sia il loro operare economico entro domini
mercantili e “privati”. Ciò limita e regola i loro poteri posizionali, prevenendo esercizi unilaterali di
potere collettivo in situazioni socialmente strutturate e istituite. Così la Corte del Delaware mostra
la presenza di una strana (per la Modernità) social polity almeno già potenzialmente “costituita” e
auto-regolata. Abbiamo confini identitari precisi (quelli delle aziende quotate in Borsa), una
membership riconoscibile, una attribuzione e organizzazione di potere e una sua regolazione
giuridica autonoma: una costituzione civile.
2.3. Secondo esempio: l’auto-costituzionalizzazione delle imprese multinazionali e delle loro filiere
produttive
Come è ormai evidente, al centro della riflessione che sto elaborando, è conficcata una questione
davvero fondamentale per il futuro della società globale. Visto l’enorme e drammatico bisogno di
regolazione, cioè di controllo giuridico-normativo degli attori e delle configurazioni sociali in via di
globalizzazione e vista l’insufficienza-impossibilità di risposte statal-nazionali, va compreso se gli
attori sociali collettivi (non statali) siano in grado di produrre un loro ordine giuridico peculiare. Il
riferimento va, ora e innanzitutto, alla capacità delle imprese multinazionali di generare una propria
costituzionalizzazione (Becker 2012). Per poter operare in tal senso occorre sganciare la teoria della
costituzione da quella della dottrina dello stato e intendere il processo di costituzionalizzazione
come processo genuinamente sociale, prima ancora che di diritto (Teubner 2013).
Un primo spunto di grande interesse è dato dalla vicenda tedesca e al suo famoso modello neocorporativo (Teubner 2009). Nella seconda metà del XX secolo, la Germania cercò di ordinareregolare i rapporti tra Stato, società ed economia mediante la cosiddetta co-gestione. Più
recentemente sembra che le funzioni dei sindacati e del governo siano stati sostituite dalla sempre
più influente cultura di Corporate Governance. Si tratterebbe della rielaborazione, in chiave neoliberista, di quello stesso problema Novecentesco che però trova ora una social steering a guida
privata e capitalistica. In realtà secondo Gunther Teubner – che qui seguo nell’argomentazione –
l’ondata neo-liberale non è l’unica possibile modalità di regolazione. All’ombra della narrazione
liberista, stanno emergendo nuove forme di “costituzione” socio-economica, similmente
equidistanti dalle pressioni degli azionisti (gli attori del mercato), dei sindacati così come dallo
Stato. Le pressioni per questa auto-regolazione – che prende prevalentemente la forma privata di
“codici e standard di condotta” – non provengono tanto e solo dall’interno delle imprese (e quando
ciò avviene spesso i risultati sono negativi: Locke et alii, 2012). Si tratta invece di pressioni che
provengono dall’ambiente delle imprese multinazionali, come per esempio dai movimenti di
protesta, dalle Ngo, da class action, da reti locali e globali di consumatori, etc.. Questi attori
pressano dall’esterno le multinazionali spingendole a codificare sia le norme interne sia quelle
relative alla relazione con l’ambiente. È qui che troviamo la nuova sfida della autocostituzionalizzazione dei “regimi privati” di governance. È possibile osservare più analiticamente
questo processo di auto-costituzione che per accadere deve sviluppare percorsi giuridico-sociali
molto specifici, capaci di affrontare e dare soluzione ad almeno 5 diverse problematiche, quelle
della: 1) giuridificazione dell’impresa tramite codici etici, standard di condotta, bilanci sociali, etc.;
2) sua auto-costituzionalizzazione riflessiva; 3) possibilità di “giustiziabilità”; 4) ibridazione; 5)
inter-relazione nella filiera produttiva.
Il primo problema ha a che vedere con lo statuto/valore (validità) delle norme che le
multinazionali elaborano internamente. Le organizzazioni private, infatti, non producono leggi, ma
neppure producono mere norme sociali o, ancor meno, abitudini. Producono invece aspettative
normative in forma di Carte, Codici, Standard, etc., che, in prima istanza, vengono filtrate attraverso
il codice binario diritto/non diritto. In seconda battuta, queste elaborazioni vengono trattate
mediante il simbolismo della validità globale (e non nazionale) del diritto. Herberg (2007) spiega
molto bene che per definire come diritto una norma volontaria di una organizzazione privata, tre
sono i passaggi richiesti: 1) a livello superiore – nella relazione con il sistema sociale – i codici di
condotta servono all’azienda per comunicare con l’ambiente e per generare fiducia e legittimità; 2)
a livello intermedio – nell’operare quotidiano dell’organizzazione – gli organi esecutivi e regolatori
fungono da advisor ed enforcer delle norme auto-prodotte; 3) al livello di base, le regole concrete
organizzative e tecniche vanno a costituire le norme basiche di funzionamento dei codici. Affinché i
codici producano realmente “giuridificazione” dell’impresa, è fondamentale che esistano organi o
uffici centrali delegati a controllare e a sanzionare i comportamenti. Ciò però non è ancora
sufficiente. Occorre che diventi operativo un secondo processo di creazione di norme. In buona
sostanza è necessario operare “riflessivamente” mediante uffici, organi, attori che siano legittimati a
interpretare, giudicare e applicare i codici di condotta. Se ciò accade, allora i codici di condotta non
solo rappresentano genuine forme giuridiche, ma acquisiscono pure una qualità “costituzionale”. Al
processo riflessivo, che ha generato la norma, si accoppia un processo riflessivo giuridico. In pratica
si riproduce l’accoppiamento strutturale che nell’Ottocento diede vita alle Costituzioni politiche,
cioè la relazione stretta tra diritto e razionalità del potere statale. Nel caso delle multinazionali,
l’accoppiamento avviene tra razionalità delle corporations e diritto privato. Così due aspetti tipici
della costituzionalizzazione, la regolazione dei processi di decisione (regole organizzative e
procedurali) e l’istituzione di confini tra l’organizzazione e il suo ambiente (diritti fondamentali),
sono posti in essere. Rimane però aperto il problema decisivo, della giustiziabilità di questo diritto.
Secondo Teubner è fondamentale che i codici di condotta privati, possano essere giudicati o
comunque testati mediante il diritto statale. Si tratterebbe di quello che R. Michaels chiama ReState-ment of Non-State Law: una ricostruzione reciproca tra i due ordini giuridici. La soluzione
migliore sarebbe quella dell’istituzionalizzazione di Tribunali terzi (o Corti arbitrali) capaci di
elaborare norme sostantive trans-istituzionali, senza però che sia possibile organizzare una gerarchia
tra di essi. Questa relazione è più forte laddove dall’ambiente delle aziende multinazionali,
giungono pressioni alla loro apertura. Non si tratterà mai, però, di una re-inclusione dei codici
privati nelle leggi pubbliche o nelle norme del diritto amministrativo globale. È molto più probabile
che nasca una ibridazione tra diritto pubblico e privato, dove la parte pubblica agevolerà la
costituzione dei confini delle aziende e la “giustiziabilità” delle loro norme. Potrebbe anche
accadere che il diritto privato sia capace di costruire al suo interno, una sorta di spazio pubblico
responsivo delle esternalità. Quel che è certo è che sarà una rete di attori a costituire questo diritto
ibrido. Per ultimo arriverà il problema della giuridificazione della filiera produttiva. È infatti
evidente che la presenza di alcune isole di multinazionali, dotate di codici di comportamento
responsivi, in un mare di altre aziende che si comportano in modo antitetico, non avrebbe
sufficiente forza innovativa. Stanno però sviluppandosi “catene globali di produzione” che non si
costituiscono né come relazioni di mercato, né come aziende integrate (verticalmente). Sono invece
aziende che elaborano una loro propria governance reticolare da cui emerge un codice condiviso
che estende la sua portata e la sua validità alla filiera.
È con un saggio successivo che Teubner elabora ancora più in profondità il tema della
costituzionalizzazione delle multinazionali (Teubner 2010). Due sono le fenomenologie in atto
riguardo ai Codici di condotta delle multinazionali. Da un lato assistiamo a una loro istituzione
mediante accordi internazionali tra Stati – oppure attraverso la regolazione delle condizioni di
lavoro, della qualità del prodotto, delle politiche ambientali, della protezione dei consumatori e
diritti umani, sotto la pressione di organizzazioni internazionali quali l’Onu, l’Oecd e l’ILO.
Dall’altro si osserva l’impegno volontario delle multinazionali a creare loro Codici, sotto la
pressione dell’opinione pubblica mondiale amplificata dai mass media. Esiste un fronte molto
scettico riguardo alle due fenomenologie. Rispetto alla prima si afferma che i trattati internazionali
rappresentano solo deboli raccomandazioni senza alcuna reale possibilità di sanzione. Rispetto alla
seconda si afferma che in pratica si tratterebbe solo di relazioni pubbliche e di legislazione
simbolica. Secondo Teubner invece, sotto determinate condizioni questi fenomeni possono
trasformarsi in reali processi di costituzionalizzazione civile. Seguendo le intuizioni di Polanyi il
processo è descrivibile secondo due fasi: la prima di espansione e costituzione di un sistema
sociale; la seconda di auto-limitazione dello stesso. Il processo di espansione-costituzione si attiva
quando un insieme di organizzazioni, nel nostro caso imprese, necessitano di eccedere i confini
degli stati nazione per costruire un mercato globale. Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca
Mondiale, il Wto, il Nafta il Mercosur, l’Apec, rappresentano proprio regimi giuridici transnazionali
tesi alla protezione e alla liberazione dei diritti di proprietà, di libera competizione e contrattazione:
i numerosi standard internazionali servono per qualificare i processi e i prodotti a livello globale.
La fase “costitutiva” ha quindi come scopo primario quello di decostruire le regole nazionali, per
aumentare l’autonomia economica a livello globale. A seguito del rilascio di queste nuove energie
il sistema neo-costituito, liberato dai vincoli nazionali, tende a de-lirare e diventare pericoloso per il
suo ambiente. Qui si innestano i processi di limitazione spinti sia dall’esterno che dall’interno. Il
combinato disposto delle regole costitutive e limitative va a produrre una vera e propria
Costituzione laddove viene elaborandosi una doppia riflessività e un meta-codice. La doppia
riflessività riguarda il tipo di giuridificazione dell’organizzazione (Teubner 2013). Non solo norme
primarie, bensì norme secondarie funzionali a identificare, interpretare, emendare quelle primarie.
Occorre perciò un accoppiamento strutturale tra la struttura organizzativa dell’azienda (in relazione
con il suo ambiente) e la sua giuridificazione. Ci riferiamo alla regolazione dei processi decisionali
dell’organizzazione (primo livello) che fanno riferimento ai diritti fondamentali toccati dal suo
operare. Trattasi di regole di secondo livello, in forma di Principi generali, che servono sia come
punti di partenza per la generazione di norme interne, sia come punti fissi per la revisione delle
stesse. Solo a questo punto occorre elaborare una meta-codificazione. Il Codice è, appunto,
l’accoppiamento strutturale, su cui debbono essere “proiettate”, cioè ricodificate, tutte le operazioni
dell’azienda. Ogni valore viene così giudicato come compatibile/incompatibile rispetto al codice. In
tal senso ogni decisione è valutata nei termini della sua costituzionalità. Il meta codice serve come
unità nella differenza tra i codici del diritto (legale/illegale) ed economico (solvibile/insolvibile): nel
primo caso specifica se ci troviamo di fronte a norme semplici o costituzionali; nel secondo se le
operazioni economiche sono realizzate in vista della mission sociale dell’azienda o meno.
Il quesito ora diventa: siamo di fronte a un unico spazio giuridico globale che ingloba tutti i tipi
di diritto, oppure assistiamo a una frammentazione di spazi giuridici pur entro un quadro globale.
Questa seconda sembra essere la risposta di Teubner che, infatti, dipinge l’emergere di spazi
giuridici differenti dove la validità del diritto e la sua portata variano al variare di certe condizioni.
Queste sfere, in particolare quelle private (economiche) e pubbliche (degli stati), eccedono se stesse
e si ibridano. I regimi di diritto privato delle aziende si mettono in rete, andando ben oltre i confini
nazionali. Quelli di diritto pubblico, creano regolazioni che ibridano pubblico e privato, come per
Ilo, Oecd, Onu, etc. L’ibridazione tra queste due sfere di diritto, non genera – questo è il punto –
alcuna nuova unità gerarchica del diritto e neppure una rete di reti o una meta-rete, bensì una nuova
differenza. Il nome per questa differenza, è ultraciclo. Due sistemi chiusi l’uno all’altro si
perturbano mediante i loro cicli comunicativi. In primo luogo si crea una catena iperciclica di
comunicazioni tra aziende, reti di aziende e le loro filiere, con effetti di vincolo giuridico reciproco.
In seconda istanza il diritto pubblico perturba con raccomandazioni quello privato, senza però una
forza di sanzione reale. Ciò significa che il diritto pubblico non può direttamente intervenire nella
produzione dei Codici aziendali, ma può solo tentare di influenzarli dall’esterno, e viceversa.
Nessun passaggio di validità giuridica da uno all’altro, ma soltanto possibilità di apprendere cosa
accade all’interno dei sistemi. È la relazione tra gli ordini giuridici frammentati che viene regolata
cognitivamente, ma la loro validità normativa interna è mantenuta. Il diritto pubblico può solo
fornire modelli, principi, buone pratiche, raccomandazioni per i codici privati. Questi traducono
quelle raccomandazioni al loro interno, venendo pressate anche dalla società civile. Le spinte alla
auto-costituzionalizzazione delle imprese non nasce perciò né da motivazioni volontaristiche interne
e neppure da pressioni statali esterne. Emerge invece come interrelazione tra gli ambienti interni ed
esterni delle organizzazioni economiche e non genera una unità globale di tipo giuridico.
3. L’emergere del campo professionale come autorità culturale fiduciaria e la sua autoregolazione civile
3.1. Le componenti costitutive delle professioni: l’agire esperto in situazioni strutturate.
Il terzo esempio che propongo per chiarire il processo di auto-regolazione sociale ha a che
vedere con l’emergere del campo delle “professioni”. L’autore di riferimento è ancora David Sciulli
che, alla fine degli anni Novanta, riprese la sua teoria del Costituzionalismo societario,
approfondendo il fenomeno del professionismo (2005; 2009). Bisogna essere molto precisi, perché
Sciulli parla di “professioni” riferendosi soltanto ad alcune delle fenomenologie che nel nostro
Paese e in termini correnti, non definiremmo “professionismo”. Il sociologo statunitense definisce
la “professione” come una occupazione che eroga 1) servizi esperti entro 2) situazioni strutturate,
sulla base di una 3) autorità socio-culturale indipendente. Per comprendere la portata della proposta
di Sciulli, va chiarito da subito che egli pone la sociologia delle professioni entro la sociologia
“politica” – e non in quella dell’occupazione, del lavoro o del mercato – in particolare nella
sociologia delle associazioni intermedie della società civile. Il cuore della riflessione sta nel capire
se e come le attività, la regolazione e la governance delle associazioni intermedie – e
specificamente delle professioni – sostenga un progetto istituzionale capace di generare un ordine
sociale davvero libero e democratico. Si tratta quindi di comprendere le influenze di valoriali e di
lungo periodo – e non strumentali e di breve – del professionismo sulla struttura e cultura sociale.
Sono sei le qualità strutturali “costitutive” del professionismo, in ogni tempo e luogo (secondo
Sciulli, infatti, il professionismo è pre-capitalistico e non specifico dell’Occidente):
1) i professionisti (e le loro associazioni) erogano servizi esperti, in situazioni strutturate e sulla
base di una autorità socio-culturale indipendente;
2) sono tenuti a rendicontare del loro operare rispetto a due responsabilità sociali fiduciarie; una
immediata (relativa al servizio erogato) e l’altra istituzionale (relativa al progetto istituzionale);
3) sono tenuti a rendicontare rispetto a due orientamenti occupazionali, uno epistemologico e
l’altro didattico;
4) stabiliscono e mantengono la loro autorità socio-culturale indipendente, mediante processi
decisionali relativamente aperti e orientati al bene comune (non attraverso una chiusura sociale
arbitraria e un monopolio occupazionale);
5) privilegiano il merito sia nelle prove d’ingresso, nel placement occupazionale che
nell’avanzamento di carriera, contrapponendosi al “nepotismo”, al clientelismo e alla venalità (che
tendono a spiazzare o subordinare il merito);
6) stabiliscono e mantengono una posizione “giurisdizionale” e di “garanzia” rispetto al mercato
dei servizi esperti.
La distinzione tra professionisti ed altri tipi di esperti che erogano servizi è di tipo sia analitico
che empirico. La differenza fondamentale è quella dell’erogazione di servizi in una “situazione
strutturata/situazione non strutturata”. Gli altri operatori (non professionisti), erogano perciò i propri
servizi esperti, in quattro situazioni o non “strutturate” oppure strutturate in modo diverso:
1) in reti di “clienti” e “patroni”, cioè entro reti clientelari personalistiche e particolariste
(l’esatto “negativo” strutturale del professionismo che è costituito sui valori dell’impersonalità e
dell’universalismo);
2) in arene di scambio commerciale cioè entro il quadro del mercato. Questi scambi
normalmente producono relazioni sociali e perciò norme emergenti di comportamento, ma non
contengono mai posizioni-reciproche consolidate di inter-dipendenza. Possono perciò emergere
occupazioni che erogano servizi esperti – anche di carattere ripetitivo e abituale – che però non si
strutturano in professioni. Ciò perché i clienti non entrano mai in una situazione di dipendenza, non
sono costretti a chiedere il servizio e neppure a mantenerlo nel tempo. Esempi di tale relazioni di
servizio sono quelle dei cuochi, consulenti, designer, trainer, giardinieri, etc., che rimangono
strutturalmente liberi di vendere i loro servizi a anche a livello puramente commerciale;
3) luoghi di mera transazione commerciale e contrattuale momentanea, dove non è necessaria
neppure una vera relazione sociale, se non un mero “contatto”. Si tratta di relazioni contrattuali che,
mancando di scambi ripetitivi, non catalizzano norme peculiari e neppure la strutturazione di
posizioni reciproche e asimmetriche (di potere). In queste situazioni si entra e si esce liberamente.
In pratica i partecipanti rimangono “individui” senza che sia necessaria una vera interdipendenza,
rimanendo perciò preminente il loro interesse personale;
4) luoghi di divertimento scelto, dove il servizio erogato è di leisure time del tutto momentaneo.
A differenza di queste situazioni, il professionismo emerge come risposta a un problema
incastonato entro una situazione strutturata. Le situazioni strutturate si sviluppano lungo due insiemi
specifici di posizioni/ruoli. La prima è qualificata dalla presenza di potere; di capacità di giudiziosapere esperto; di affidabilità: è la posizione del professionista. L’altra è qualificata dalla
“dipendenza”; dalla vulnerabilità e dall’apprensione: è la posizione del cliente. Questi due ruoli
sono logicamente complementari e reciprocamente necessari. Chi non ha potere, manca di
conoscenze e necessita di un servizio, sta sempre dalla parte del cliente/utente: chi ha il
sapere/potere, ed eroga un servizio sta dalla parte del professionista. La struttura “complementare”
del professionismo, è fissata in modo duplice: la posizione in cui un attore si trova, non è né
negoziabile, né ricostruibile culturalmente (almeno in un colpo solo), né modificabile in base ai
desiderata degli osservatori (e ciò vale per entrambe le posizioni di cliente/professionista). Inoltre
l’entrata nella relazione è spesso causata da una condizione particolare e/o da una contingenza (un
bisogno impellente) e l’uscita è bloccata fino a che il problema non è stato affrontato e risolto. Chi
ha potere ha un vantaggio posizionale su che non l’ha, anche se l’utente (sotto altri rispetti) può
essere socialmente più forte. Infine chi ha il potere, ha un interesse posizionale evidente che non
coincide con il self-interest, ma neppure con l’altruismo puro o con un orientamento culturale al
servizio. In altri termini professionista è chi utilizza il potere/sapere in modo non opportunistico e
abusante, perché il suo operare è orientato al bene del cliente ed è strutturalmente aperto alla
revisione e al controllo dei pari (ma anche di esterni).
3.2. Le professioni come vettori del progetto istituzionale democratico: l’autorità socio-culturale
indipendente come sapere fiduciario e la sua forma organizzativa collegiale
Le professioni si sviluppano dunque entro situazioni strutturate che a loro volta catalizzano
processi di ad-sociazione peculiari, tipiche solo della società civile e non del mercato o dello Stato.
Di conseguenza e necessariamente – questo il punto forte dell’argomentazione di Sciulli – le
professioni introducono “sempre” nel progetto istituzionale della società una struttura di
governance peculiare. In altri termini di fronte a situazioni strutturate la risposta istituzionale non
può essere mai quella dell’ufficio pubblico o dell’impresa commerciale. Di questa governance deve
darsi una supervisione “pubblica” e “aperta”, invece che meramente “privata” e “segreta”. Ciò
accade necessariamente perché i clienti – che sono in una posizione di dipendenza – cercano di
controllare quel potere professionistico.
Le professioni, di conseguenza, introducono due fondamentali conseguenze istituzionali
“invarianti” nella società civile.
1) Stabiliscono e mantengono una “autorità socio-culturale indipendente” in un campo (o
giurisdizione) occupazionale specifico. L’autorità socio-culturale è indipendente e non usurpabile,
nel suo campo di attività. La sua sostanza è epistemologica e didattica (concernendo un sapere
esperto), mentre la sua forma è quella della collegialità. Si basa sulla codificazione,
standardizzazione, formazione, di un sapere esperto che viene riconosciuto pubblicamente ed è
aperto all’esame critico di pari. È indipendente perché non è controllabile sostituibile dall’esterno;
è aperto in quanto i professionisti non possono mai controllare del tutto cosa faranno di quel sapere
gli utenti; protegge i professionisti dalla colonizzazione di poteri esterna, cioè dalla eteronomia. Se
la professione è davvero autonoma, allora il comportamento dei membri rimane coerente con
principi elaborati in modo pubblico, che sono ispezionabili e valutabili da osservatori esterni e pari.
Ciò significa che se da un lato l’indipendenza isola dall’esterno, dall’altro rende del tutto criticabili
dall’interno (auto-regolazione) e dall’esterno (rispetto agli abusi). Proprio perché l’autorità è
indipendente è fonte sia di limiti che abilitazioni (funzione limitativa e costitutiva). Abilitante in
quanto legittima la professione: limitante perché la controlla, dall’interno regolando la relazione tra
professionista/cliente e tra professionisti; dall’esterno quando un utente o chiunque altro critica
l’operare di un professionista rifacendosi a quella stessa autorità.
2) Sostengono strutturalmente uno – e solo uno – progetto istituzionale, in particolare quello
delle società democratiche e commercialmente competitive. La meritocrazia professionale sfida
strutturalmente tutti gli altri design istituzionali; critica tutte le autocrazie ed espone pubblicamente
i limiti strutturali sia della democrazia “formale-procedurale” sia della forme di governo
democraticamente limitate. Ciò ha due tipi di conseguenze sul contesto sociale. a) Immediate, ma
altamente cangianti: a1) introduce uno status peculiare relativo nell’ordine occupazionale,
solitamente caratterizzato da una precisa valorizzazione del sapere e saper-fare che influenza a sua
volta il tipo di remunerazione, di fama e di riconoscimento; a2) introduce una forma specifica di
autorità basata sul sapere esperto, autorità che può variare moltissimo da professione a professione.
b) Di lungo termine e istituzionali che eccedono la forma peculiare della stratificazione
occupazionale. Il professionismo introduce queste influenze sempre e ovunque. Le conseguenze
istituzionali dipendono dal fatto che le professioni esercitano un potere posizionale sugli utenti. Le
conseguenze istituzionali sono riferite a due diversi insiemi di responsabilità fiduciarie verso la
società. Il primo, patente, è assunto coscientemente dai professionisti e riguarda la responsabilità
verso i clienti o gli utenti e della comunità locale (doveri fiduciari di cura e lealtà). Spesso è anche
legalmente sanzionabile entro specifiche giurisdizioni professionali, corti o agenzie dello Stato. Il
secondo, latente, riguarda il progetto istituzionale della società e dell’ordine sociale. Il
professionismo, perciò, si incastra e privilegia un design istituzionale specifico, quello della società
democratica. Ovunque il professionismo operi in modo coerente, introduce e replica questo modello
istituzionale, spingendo verso la pratica del governo “limitato”. In caso contrario si andrebbe verso
il “professionalismo”, cioè verso una forma degenerata ed élitaria di sapere esperto dominante e
abusante.
Al centro della rivoluzione socio-politica delle professioni sta la loro “forma collegiale”. Con
questo concetto si indica l’unico modo di organizzazione capace di istituzionalizzare il livello
necessario di integrità normativo-procedurale richiesta dalla auto-costituzionalizzazione del campo
professionale. Tale forma rende riconoscibili, all’interno e all’esterno, le regole dell’organizzazione
e impegna i membri a rimanere fedeli a quei principi. Le qualità sostanziali che vengono
riconosciute sono, ancora, quelle: 1) dell’autorità socio-culturale del professionismo; 2) delle sue
responsabilità fiduciarie per la società; 3) dell’orientamento occupazionale basato sul sapere e sul
merito. Solo attraverso questa forma di integrità procedurale-normativa, una molteplicità di attori
dispersi e isolati possono trasformarsi in un potenziale attore collettivo dotato di un suo specifico
potere costituente.
4. Un nuovo “design istituzionale” per l’auto-costituzionalizzazione per il Terzo settore:
professionalità, collegialità e governance poliarchica deliberativo-riflessiva.
4.1. La costituzionalizzazione delle sfere civili: oltre la semantica moderna stato-centrica
Dopo aver introdotto il problema dell’esplosione dei nuovi poteri e della conseguente necessità
di controllarli – mediante processi di auto-regolazione e auto-costituzionalizzazione societaria e non
stato-centrica – rientriamo nella sfera nazionale. È infatti il momento di utilizzare quelle riflessioni,
per pensare a forme innovative di auto-costituzionalizzazione delle organizzazioni civili di Ts10. Per
cominciare non va dimenticato che anche le Costituzioni degli stati nazionali, a partire dalla fine
della seconda guerra mondiale, regolarono-ordinarono non solo i poteri del sistema politicoamministrativo, ma pure quelli di molte altre formazioni sociali. Da qui l’idea (sociologica) di
Costituzione come carta fondamentale che dà forma all’intera società e non solo come dispositivo
politico-giuridico. Teubner ha osservato che storicamente le Costituzioni novecentesche
elaborarono differenti relazioni “costituzionali” con il loro ambiente sociale (2012, cap. 2). Il primo
modo di relazione – tipico del “costituzionalismo liberale” fine ottocentesco-primo novecentesco –
configura un rapporto di astensione programmatica dello Stato dall’intervento diretto nel “sociale”.
Lo Stato costituzionale liberale, ri-pro-pone la distinzione – già introdotta dalla Rivoluzione
francese con l’abolizione dei corpi intermedi – tra “stato/(pubblico)” e “società civile/(privato)”,
limitandosi a regolare direttamente il potere del primo. Con la distinzione
(diritto)pubblico/(diritto)privato, la “società civile” viene descritta come popolata solo da individui
privati da proteggere medianti diritti individuali. Qui lo Stato regola la sfera privata mediante la
classica “gerarchia delle fonti” del diritto. Con la catastrofe delle due Guerre e la nascita dei
totalitarismi, l’Europa della prima metà del Novecento muta di forma e diffonde le Costituzioni
totalitarie mediante cui il sistema politico – governato dal partito unico – tenta di includere tutta la
società nello Stato. Le istituzioni private non vengono affatto abolite, quanto piuttosto politicizzate
e messe a servizio del potere politico. Il grande tentativo, fallito, fu quello di trasformare la società
in una unica organizzazione, guidata dal partito e senza un esterno da organizzare.
Una volta falliti i totalitarismi fascisti e nazisti (e lasciando da parte quello delle Unioni
sovietiche che vennero a crollare nel 1989), l’Europa si trovò di fronte alle macerie delle ideologie
sia liberali sia totalitarie. Questi due regimi simbolici – il primo basato sulla garanzia delle libertà
individuali, il secondo sulla garanzia dell’ordine e del controllo collettivo – dovettero rimescolarsi e
trovare nuovi equilibri democratici. L’istituzione che emerse per dare soluzione al problema fu lo
Stato-sociale. Non è un caso se con il welfare state le società europee cercheranno proprio di
costituzionalizzare-imbrigliare il “volto demoniaco” del potere, garantendo diritti individuali
(oramai codificati anche come diritti dell’uomo a livello internazionale), sicurezza sociale (diritti
sociali) e provando a “disegnare” un ordine istituzionale democratico, basato sulla libertà
economica e culturale. In generale la scelta del potere politico fu quella di riconoscere il pluralismo
sociale senza intervenire direttamente, quanto piuttosto imponendo un quadro di regole comuni. Ciò
avvenne in modo molto diversificato e relativamente all’importanza delle sfere sociali coinvolte: se
da un lato si osservò una decisa “costituzionalizzazione” delle sfere dell’istruzione, della sanità e
dei mezzi di comunicazione, dall’altro le sfere della famiglia, dell’associazionismo e dell’economie
di mercato furono lasciate più libere. Questa tendenza generale – la Costituzione come regolazione
diretta di certe sfere sociali e indiretta di altre – venne poi declinata (di nuovo!) secondo i due
regimi simbolici moderni: da un lato si sviluppò un costituzionalismo a forte regolazione statale;
dall’altro uno trainato dalla cultura liberale (e poi neo-liberale).
Nel primo caso la Costituzione cerca di regolare anche i processi delle sfere sociali (non
politiche) imponendo determinate strutture normative (etero-regolazione). Qui la Costituzione
diventa una sorta di direttiva normativa per tutta la società: la costituzione della società. Ogni
sottosistema deve mimeticamente organizzarsi internamente mediante procedure democratiche,
divisione del potere e attribuzione di diritti individuali. Il classico esempio è dato dalle teorie del
“governo delle imprese private” (Selznick 1969), attraverso l’istituzionalizzazione del cosiddetto
neo-corporativismo dove le associazioni delle imprese e dei sindacati, concertavano scelte politiche
a fine di sviluppo economico (Streeck e Kenworthy 2005). Qui vengono riconosciuti i famosi
“interessi privati organizzati” con rilevanza pubblica e li si lascia auto-regolare così che partecipino
al processo di decisione politica pubblica. Il problema di questo primo modello di
costituzionalizzazione del civile è che continua a sopravvalutare le procedure tipiche del sistema
10
Una prima riflessione sul tema è rintracciabile in Zamagni, Fiorentini, Lamandini (2007).
politico (elezioni, rappresentanza, decisioni collettive, opposizione organizzata, divisione dei poteri,
etc.), sottovalutando però i poteri costituenti della società civile e lo loro specifica differenza dalla
politica. Da destra si potrebbe criticare questo orientamento come ancora troppo statalista e
dirigista; da sinistra come semplice ornamento del sistema capitalistico che si auto-regola evitando
il controllo. Il secondo modo di regolazione, riprende invece il registro simbolico della libertà e
della regolazione del libero mercato (Buchanan 1991). Suoi esempi sono quelli del
costituzionalismo ordo-liberale, prima, e del pluralismo (sociale e culturale) costituzionale, poi. In
questo caso si prova a generalizzare la costituzione del mercato a quella della società, laddove le
istituzioni giuridiche sono quelle della proprietà, del contratto e della competizione. Il limite dei
questo approccio sta però nel generalizzare la logica della scelta razionale e dell’interesse
economico a tutte le sfere sociali, così da non riconoscerne davvero le differenze specifiche nel loro
modo di operare.
Alla fine del giorno si perviene alla costatazione, quale che sia la soluzione normativa proposta
che ubi societas, ibi constitutio. Diventa sempre più evidente che ogni sfera sociale organizzata, per
poter essere riconosciuta e porsi in relazione con il resto della società, deve: 1) auto-costituirsi
identificandosi in modo socialmente riconoscibile (almeno nelle funzioni di rappresentanza interna;
di potere decisionale collettivamente vincolante per i suoi membri; di comunicazione e relazione
esterna); 2) auto-regolarsi per permettere scambi interni ed esterni non caotici (almeno nelle
funzioni di normazione, prima, e giuridificazione poi, dei suoi processi e strutture; di arbitrato
interno ed esterno in caso di conflitti). È solo a questo livello che entra il diritto come medium di
istituzionalizzazione; 3) limitarsi (o venire limitata) laddove produca potenzialità negative verso il
suo ambiente (interno ed esterno); 4) rendersi ordinata e prevedibile nei confronti delle altre sfere
sociali. Questi sono quattro momenti specifici del processo di costituzione di una sfera civile, cioè
di attivazione del suo potere costituente che dovrà concretizzarsi in un potere costituito capace di
dialogare con altri poteri. Il processo di costituzionalizzazione societaria, non è mai univoco e
unidirezionale. In primo luogo si tratta sempre e almeno dell’accoppiamento di due logiche ben
distinte: quella di auto-identificazione “politica” di una collettività e quella di auto-regolazione
politica della stessa. In seconda istanza la spinta alla costituzionalizzazione proviene quasi sempre
simultaneamente dall’interno – principalmente come esigenza di auto-identificazione e autoregolazione – e dall’esterno – come esigenza di limitazione di quella collettività e di interscambio
con l’ambiente sociale. È proprio in questo “paso doble”, in questo relazionarsi di relazioni interne
ed esterne che va elaborandosi la costituzionalizzazione societaria non stato-centrica (Teubner
2012; Sabel 2013).
4.2. Costituzionalizzazione del Ts come suo riconoscimento/inclusione: paragrafizzare il Ts nella
Costituzione dello Stato
Il problema della costituzionalizzazione del Ts – specificato come sopra – giunge alla ribalta
molto tardi. In termini molto generali e sintetici – che qui non possiamo meglio elaborare – il tema
emerge solo quando il moderno combinato disposto del codice pubblico/privato entra in crisi
(Arena 2006). Potremmo dire quando quella dicotomia è ormai inefficace nel ridurre una
complessità sociale che sta uscendo dalla Modernità. Non è affatto un caso che tutti i concettitermine oggi più in voga (seppure incubati da molti decenni) ci parlino di questa “uscita”:
partnership vs indipendenza degli attori; ibridazione vs identità chiara e distinta; governance vs
governo; comune vs pubblico/privato; contratti relazionali vs contratti discreti, etc. Anche
l’interpretazione della Costituzione italiana ha cominciato ad essere orientata al problema in esame
piuttosto tardi. Non che la sua visione di società non potesse da subito comprendere e trattare la
presenza di organizzazioni di Ts e comunque a forme di socialità non statali o mercantili. Certo
nella sua scrittura quel tema non era ancora pienamente presente, ma il richiamo al personalismo,
alle rappresentanze dei lavoratori, alle formazioni sociali dove i cittadini sviluppano la propria
personalità, etc., ha sempre garantito uno spazio di inclusione del Ts (Antonini e Pin 2011). Si sono
dovuti attendere però gli anni Novanta, con la Riforma Bassanini, prima, con la Legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali poi (L. 328 del 2000) e, soprattutto
con la Riforma del Titolo V della Costituzione, per poter riflettere concretamente su quel tema (La
Porta 2007). Di fatto fu in quel decennio che in Italia entrarono nell’arena politica nuovi attori,
legittimando una cultura da un lato più liberista e dall’altro riformatrice, e che ebbero inizio le
prime vere pratiche di esternalizzazione, contracting out, etc. che modificarono le condizioni
operative del Ts. In realtà il legislatore degli anni Novanta, con la produzione della Legislazione
speciale (Leggi sul volontariato, sulla cooperazione sociale, sulle associazioni di promozione
sociale, sulle Onlus e per finire sull’impresa sociale) ha soprattutto disegnato quali partner privati
fossere più funzionali a una programmazione di welfare ancora saldamente statale. Era chiaramente
una visione “complementare” del Ts rispetto al servizio pubblico, e non tanto una posizione tesa a
potenziare davvero la sfera di autonomia dei cittadini. Ciò ha generato la classica oscillazione liblab, con ampie aperture alla libertà civilistica di fronte a un controllo amministrativo
prevalentemente ex ante e piuttosto rigido (Donati 2001). Tale tendenza ha anche preso
configurazioni regionali molto “polari” e dettate da culture politico-amministrative specifiche. Da
un lato un modello chiaramente Lib dove l’amministrazione regionale definiva delle norme
programmatorie molto generali, il finanziamento della domanda e l’accreditamento di soggetti
erogatori. La forza di questo modello è stata nella creazione di quasi-mercati (fenomeno nuovo per
il nostro Paese), nell’agevolare la libertà di scelta degli utenti e la pluralizzazione degli erogatori. I
punti deboli stavano nel fatto che veniva sostenuta la tendenza a confondere la distinzione tra profit
e non profit e che il processo di liberalizzazione veniva spesso compensato dalla presenza molto
forte di una amministrazione “deus ex machina”. Dall’altro lato, un modello Lab che ha previlegiato
la programmazione regionale dal lato dell’offerta, un forte controllo politico sul territorio e sui suoi
attori. Questo sistema è stato forte rispetto alla organizzazione a medio termine dei servizi, ma paga
questa forte direzionalità con l’emergere di monopoli bilaterali (tra committente pubblico e
erogatori privati) che tendono a generare rendite politiche e scarsa innovazione sociale. In entrambi
i casi, come le esperienze dei Piani di zona hanno mostrato in abbondanza, viene paradossalmente a
crearsi una integrazione verticale tra Amministrazione pubblica ed erogatori privati dove – anche a
fronte di un disegno istituzionale “formalmente” sussidiario – la governance rimane fortemente
centralizzata, con un limitato coinvolgimento delle Ots sia in fase di programmazione che di
implementazione, gestione e valutazione dei servizi. Con le parole di Fiorentini, possiamo
affermare che questa è la storia di «un incontro tra gruppi che domandavano legislazione per
particolari modelli organizzativi e decisori pubblici che – spesso a livello regionale – domandavano
legislazione che definisse i modelli più utili ad integrarsi con il proprio modello di intervento
pubblico nei servizi alla persona» (2007, 44). Dal punto di vista del Ts questa configurazione
morfostatica, inscritta in uno scenario di forte complementarietà tra attori diversi, portò
all’istituzionalizzazione, soprattutto delle grandi centrali cooperative e delle loro associazioni
membri (Prandini 2010; Orlandini 2010).
A livello più strettamente costituzionale, agli inizi del millennio arrivò a compimento la
cosiddetta “costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà” con la riforma del Titolo V (in
special modo si veda l’art. 118). Questa riforma legittimò non solo la libertà di intervento dei privati
in attività di interesse generale, bensì la loro priorità dovuta a motivi di prossimità, laddove gli enti
pubblici “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di
attività di interesse generale” (4. Comma). Sebbene a distanza di più di un decennio, la Riforma si
sia dimostrata non attuata in modo adeguato (e neppure troppo efficace dal punto di vista
istituzionale), ci troviamo di fronte a un chiaro spazio di opportunità per la costituzionalizzazione
del Ts. La semantica di “costituzionalizzazione” è qui però ancora usata a un livello molto basico,
quello più semplice e generico che vede riconoscere gli attori di Ts entro l’elenco di attori che
godono di un favore costituzionale (almeno in termini di riconoscimento). È la prospettiva, mi pare,
rivendicata da Stefano Zamagni laddove egli sottolinea che «la transizione dal welfare state al
welfare civile postula che si passi dal binomio “pubblico e privato” al trinomio “pubblico, privato e
civile”, intervenendo con urgenza sull’assetto istituzionale a livello sia giuridico (riforma del Libro
I, titolo Il del Codice Civile; legge quadro degli enti di terzo settore; riforma della normativa sulle
mutue, ecc.) sia economico-finanziario (introduzione di strumenti finanziari per il civile;
adeguamento delle regole di funzionamento della concorrenza; creazione di una borsa sociale). A
ben considerare, il senso ultimo del nuovo Titolo V della nostra Carta Costituzionale e in
particolare dell’art.118, è quello di parlare a favore della costituzionalizzazione del civile (…)
Chiaramente, se si desidera che il civile possa svolgere questa funzione integratrice, esso non può
non porsi il problema dei modi della propria rappresentanza» (2007, 42). Come si legge,
costituzionalizzazione significa pieno riconoscimento del Ts e del suo “potere istituente” nella Carta
fondamentale. Da questo riconoscimento dovrebbe derivare anche la ri-organizzazione del Ts
attraverso suoi organi di rappresentanza, capaci di “presentare” i suoi interessi sui tavoli del sistema
politico nazionale. Chiaramente siamo a una semantica fortemente “mimetica” di quella politica
“moderna”, con un Ts incluso e riconosciuto nella Costituzione, laddove però la sua autoregolazione autonoma è ancora fortemente limitata dalle diverse competenze legislativa dello Stato
in materie di ordinamento civile, di concorrenza e di livelli essenziali, così come dai margini di
intervento delle Regioni e degli altri livelli dell’Amministrazione pubblica. È chiaro che sia la
riforma o addirittura riscrittura del Codice civile, fino alla predisposizione di un Codice per il TS e
anche la creazione di nuove leggi speciali condensabili entro un Testo Unico del Ts, rimangono in
questa configurazione fortemente stato-centriche. Anche la prospettiva di utilizzare due diversi
binari per la regolazione del Ts, non fa fare passi avanti particolari. Le proposte dell’ultimo
decennio hanno visto un triplice disegno istituzionale (Cafaggi 2007; Cafaggi e Francioni 2005). 1)
La netta separazione tra binari paralleli, dove il Codice civile riformato regola il settore dei soggetti
privati in termini di semplificazione e liberalizzazione, mentre la legislazione speciale regola i
regimi speciali di Ts. 2) Integrazione parziale tra i binari, dove il Codice civile detta la disciplina
generale delle organizzazioni e delle attività private e dove la legislazione speciale si concentra
sulle caratteristiche specifiche dei singoli sistemi. 3) Integrazione più sostanziale dove il Codice
civile regola le attività e le organizzazioni private mentre la legislazione privata regola le relazioni
con l’Amministrazione pubblica. Esiste anche una quarta proposta che si basa sulla cosiddetta
dottrina della “neutralità” della forma giuridica dei soggetti regolati. Per essa non conta tanto se il
soggetto imprenditoriale è for o non for profit (vista la sempre più forte ibridazione dei due campi,
orientata anche dalla giuridificazione dell’Impresa sociale), quanto il tipo di attività (se è “sociale”
o meno). Per chi propugna questa tesi, in generale, il Codice civile dovrebbe occuparsi dei soggetti,
mentre la legislazione speciale delle attività. Il problema è però almeno duplice: da un lato è molto
difficile stabilire cosa sia una funzione “sociale”, se non ricadendo dentro a classificazione del tutto
estrinseche (si veda per questo il bel lavoro di Moro: 2014); dall’altro la distinzione tra forma e
contenuto (soggetti e attività) non sembra riconoscere che, proprio nel caso delle Ots, è necessaria
una loro relazione stretta: il modo in cui quei soggetti “sono”, deve dettare anche il loro modo di
operare, e viceversa (Lamandini 2007). Se quella relazione saltasse, allora salterebbe l’identità
propria del Ts (cosa che di fatto sta accadendo).
Per fare un passo in avanti occorre dunque uscire dall’ombra della cultura regolativa statocentrica, per accedere a una semantica diversa di “costituzionalizzazione”: bisogna ripartire
dall’identità del Ts, almeno di quello che produce beni e servizi per la persona, e da lì ri-specificare
il concetto di “constitutio” dove lo Stato non sia il potere costituente assoluto che include gli altri
“ordini costituzionali”, ma solo una “parte” di una costituzione che va ampliandosi al divenire
complessa della società (Magatti 2005). Questa nuova semantica non può che partire dal basso, cioè
da veri e propri processi costituenti autonomi. Per una questione di sintesi, riprendo qui solo alcuni
spunti – che cominciano a circolare nella riflessione sul tema – e che compendio sotto il riferimento
bibliografico di Adriano Propersi (2011). A mio parere due sono i pilastri di questa seconda
semantica della costituzionalizzazione del Ts: 1) riconsiderare l’intero problema dell’auto-
costituzione e regolazione a partire dalla sua identità specifica: 2) riconsiderare la relazione tra
regolazione giuridica pubblica e auto-regolazione privata.
4.3. Costituzionalizzare socialmente il Ts: le tre qualità del processo costituente
Per uscire dall’effetto tunnel che la cultura costituzionale mainstream impone con il suo statocentrismo – e secondo cui la costituzione è un container dai confini solo “politico statali” (Preuss
2012) – occorre dimostrare che la costituzionalizzazione del Ts, pur essendo un vero processo
sociale (e non solo giuridico-politico), non è un mero processo di giuridificazione. Seguendo Kumm
(2006) possiamo esplicitare che una costituzione: deve stabilire un sistema giuridico autonomo che
struttura un processo sociale che, a sua volta, lo legittima. Le norme di questa costituzione (civile)
devono superare due test di qualità socio-giuridica:
1) Funzioni costituzionali (costitutiva e limitativa). La auto-costituzione del Ts – nel senso di
creazione di una polity riconoscibile internamente ed esternamente, prima, e di limitazione dei
poteri che ne scaturiscono, poi (entrambi i processi mediati dal diritto) – deve essere progettata
istituzionalmente (nel senso di design introdotto da Sciulli), attraverso principi unitari che siano
adeguati all’identità specifica del Ts e cioè almeno tenendo conto: A) dei principi interni: i) del
vincolo della non distribuzione degli utili e del loro destinazione sociale in caso di chiusura
dell’Ots; ii) del perseguimento di scopi di bene comune; iii) del principio di collegialità: B) della
relazione tra la Ots e: i) i benificiari-utenti diretti; ii) gli stakeholder; iii) i finanziatori-contribuenti.
Questa identità relazionale necessita di una auto-costituzione adeguata – sia dal lato del suo
costituirsi sia da quello dell’auto-limitarsi – pena il regolare in modo estrinseco e strumentale il Ts.
In altri termini l’auto-costituzione del Ts – quel “Noi” che sia auto-pone performativamente in
termini di soggettività sociale (Butler 2013; Prandini 2013c) – deve innanzitutto “formalizzare” il
proprio medium comunicativo specifico, nel caso in esame quello della “generatività di bene
comune attraverso dono e reciprocità”. Una volta formalizzato, questo medium diventa anche il
mezzo di interscambio (auto-limitata) con l’ambiente del sistema.
Ciò significa che le Ots dovranno elaborare modalità di governance specifiche sia rispetto alle
regole per la composizione dell’organo di governo sia per la partecipazione degli stakeholder, fino
alla codificazione di veri e propri diritti fondamentali. Senza entrare in tecnicismi che lascio ai
giuristi, penso alla auto-costituzione delle Ots come processo di istituzione dei poteri, prima, e della
loro divisione, poi, in termini di: 1) un Organo di indirizzo-politico amministrativo (“potere” di
darsi autonomamente le regole a cui si decide di sottomettersi); 2) un organo (Consiglio) di gestione
delle attività (“potere” di governo della Ots); 3) un organo di controllo e di soluzione di conflitti
interni e con l’esterno (“potere di giudizio sulla “costituzionalità” delle regole interne). È nella
giuridificazione “riflessiva” della relazione tra Ots e il suo ambiente sociale che possono emergere i
potenziali più interessanti per la sua costituzionalizzazione. Penso per esempio alla creazione di
Consigli di sorveglianza, di sistemi di auditing sociale, di social accountability, di codici di
condotta, codici etici e bilanci sociali, per quanto riguarda la giuridificazione dei processi e delle
strutture interne; alla istituzionalizzazione di un Revisore sociale, a sistemi di segnalazione e
monitoraggio delle attività, a Comitati etici, per ciò che riguarda la giuridificazione delle relazioni
con l’ambiente sociale. Mediante questa duplice relazione interno/esterno l’Ots si auto-costituisce
divenendo una polity dotata di potere costituente/costituito, proiettando principi giuridici che si
indirizzano al perseguimento del bene comune mediante il riconoscimento di diritti individuali.
Questa prima auto-costituzione produce quella nomic community che utilizza il diritto, innanzitutto
e prevalentemente, soltanto come meccanismo generativo di aspettative normative controfattuali.
Una vera “costituzionalizzazione” richiede che a questi processi di genuina giuridificazione venga
“accoppiato” riflessivamente e strutturalmente un secondo processo di normazione orientato a
decidere sul diritto/torto delle attività del Ts: solo allora si raggiunge una vera capacità-forza
costituzionalizzante.
2) Strutture costituzionali. Una volta accoppiata la social polity al diritto, occorre che venga
superato il secondo test di costituzionalità: l’emergere di un autonomo codice costituzionale ibrido.
L’operare del sistema del Ts deve poter essere giudicato, prima, secondo il codice
conforme/contrastante con il diritto (comune) e, poi, secondo il codice conforme/contrastante con i
“principi” costitutivi del settore in esame. Solo così si crea la gerarchia tra il diritto comune e quello
costituzionale. A questo punto, e solo ora, la costituzionalità “sociale” delle operazioni in esame –
generata dalla cultura autonoma del Ts – viene esposta e giudicata mediante la riflessione
aggiuntiva concernente la sua responsabilità pubblica (o meno). In buona sostanza qui si potrebbe
pensare di istituire una serie di Corti arbitrali, meglio se private (o una sola Corte intesa come
Authority), affiancate da una Agenzia nazionale di vigilanza (e da Agenzie di rating) capaci, da un
lato di svolgere funzioni costituzionali di soluzione di conflitti (auto-regolate) e, dall’altro, di
connettere queste decisioni al diritto costituzionale (e non solo) dello Stato. Si avrebbe allora
l’elaborazione di quelle forme di co-regolazione reciprocamente rafforzantesi che sembrano
funzionare ormai anche nel campo delle imprese for profit (Locke 2013). Come già hanno avuto
modo di chiarire Teubner e Sabel, il processo di auto-costituzionalizzazione emerge sempre dalla
relazione tra spinte interne alla regolazione (l’ambiente strutturato) e spinte alla regolazione
derivanti dal rapporto con l’esterno (l’ambiente non strutturato). Cercare un “inizio” unilaterale
puro è del tutto inutile (Prandini 2013a). D’altra parte è altrettanto utopico pensare a un universo
costituzionale globale “unificato”, mentre è molto più realistico pensare che i processi di
costituzionalizzazione del civile emergeranno nello scontro tra prospettive costituzionali diverse.
Due mi sembrano i punti da sottolineare dopo questa riflessione. In primo luogo è evidente che
la costituzionalizzazione del Ts appare molto più chiara se, dal livello della auto-regolazione delle
singole organizzazioni, passiamo al livello della loro costituzione in una polity collettiva, una
normic community di livello almeno nazionale. In secondo luogo mi pare chiaro che ogni semantica
neo-liberista o neo-welfarista della costituzionalizzazione del Ts siano votate al fallimento.
Cercherò di trattare questi due punti insieme, introducendo il concetto di “ordine costituzionale” – il
risultato del processo di costituzionalizzazione – come logica di governance del Ts che eccede
quelle Lib e Lab.
4.4. Oltre il costituzionalismo neo-liberale (guidato dall’ordine del mercato) e neo-welfarista
(guidato dall’ordine gerarchico): gli ordini costituzionali emergenti ordini propri del civile
Le Costituzioni moderne sono emerse dall’accoppiamento strutturale tra il sistema politico e
quello giuridico. Mediante l’invenzione della Costituzione il primo ha risolto il problema della
legittimità del potere (potenzialmente arbitrario), sottoponendolo al controllo del diritto; il secondo
ha risolto il paradosso della sua fondazione, richiamandosi al decisore politico e alle fonti del
diritto. Una volta costituzionalizzato lo Stato – cioè la forma di autorappresentazione semplificata
del potere politico – ha potuto includere e quindi controllare e regolare ogni altro attore sociale. La
complessità sociale ha però richiesto forme diverse di “costituzionalizzazione” degli attori sociali:
le configurazioni già descritte del neo-corporativismo e delle costituzioni economiche ci hanno
ricordato che la Modernità oscilla dal suo inizio tra spinte neo-liberiste e neo-welfariste, senza
riuscire a trascenderle. Le due figure di “governo” inventate dal Moderno per ridurre i costi di
trasazione, sono state non a caso le “gerarchie” e i “mercati” (Hollingwood e Boyer 1997). Queste
hanno rappresentato per tutto il Novecento due “metafore” dell’ordine sociale, ben oltre le loro
tecnicalità, in quanto si sono strettamente legate, la prima al valore del controllo centrale (e di
conseguenza della redistribuzione e della perequazione), la seconda della libertà (e di conseguenza
della produzione e della concorrenza). Sarebbe interessante seguire le rappresentazioni simboliche
di questi due principi organizzativi e di ordine – che topologicamente prendono rispettivamente la
figura della “piramide” e della “rete” (Ost e van de Kerchove 2002) – ma non possiamo che
sintetizzarne le logiche così da far emergere per differenza gli ordini costituzionali.
Le gerarchie sono strutture d’ordine composte da unità (spesso burocratiche) chiamate anche
“agenti” e da un ufficio centrale (o capo ufficio) chiamato “principale”. Ogni unità (burocratica) è
direttamente subordinata ad una – e solo ad un’altra – unità (burocratica) fino ad arrivare al vertice
o “principale”. Questa forma di organizzazione e di trasmissione verticale di comandi e controlli, è
estremamente funzionale per decomporre problemi complessi (e “continui”) in una serie discreta di
problemi più semplici. Ognuno di questi, però, è solo lascamente connesso agli altri e perciò poco
influente sul processo di soluzione. Potremmo dire che la gerarchia è una macchina per decostruire
la complessità, trasformando realtà emergenti in realtà addizionali (con i rischi di riduzionismo del
caso). Il vertice è anche quel centro che: i) determina le responsabilità e le giurisdizioni delle sottounità (burocratiche); ii) le dota di risorse; iii) le supervisiona e ne monitora le prestazioni. Questa
forma di governo funziona bene ed è adeguata, solo se il “vertice” ha a disposizione tutte le
informazioni necessarie a controllare e dirigere le sotto-unità (e anche tutte le informazioni sulle
unità), così da poter risolvere tutti i problemi di coordinamento che emergono nel processo di
governo. È evidente che lo Stato moderno costituzionale e di diritto è una concretizzazione di
questa struttura d’ordine. Il problema è che in una società complessa e “accelerata” come l’attuale è
altamente improbabile che: 1) il suo vertice “politico-governativo” sia così ben informato; 2) le
sotto-unità utilizzino le informazioni e i poteri a loro attribuiti solo per svolgere la loro funzione
(mentre le usano non per “servire”, ma per mantenere e aumentare i loro interessi-poteri); 3) la
suddivisione del problema in micro-problemi aiuti alla sua soluzione (in realtà crea difficoltà
crescenti di coordinamento tra principale e agenti, e fortissime inefficienze e inefficacie di sistema).
Per tali motivi l’ordine gerarchico, nel suo complesso, ha una capacità di reazione al cambiamento
ambientale molto lenta (per di più dipendente dalle capacità di comprensione delle innovazioni da
parte dei vertici) e non si crea alcuna reale condivisione collettiva dei problemi, dei saperi, delle
soluzioni e degli obiettivi.
I mercati consistono invece solo di attori indipendenti e non ordinati reciprocamente attraverso
alcun un vertice. Nessun attore è sovraordinato-subordinato ad altri e ognuno può impegnarsi in
qualsiasi tipo di transazione con chi vuole. Possono naturalmente nascere filiere, economie di scale,
collaborazione, cluster, distretti, ma senza un loro ordinamento gerarchico. In altre parole le regole
che governano le transazioni sono autoprodotte attraverso lunghi processi di eduzione sociale che
vanno a costituire ordini spontanei. Le istituzioni del contratto e della proprietà, garantite
giuridicamente, cementano il sistema. Il mercato si adatta velocemente alle novità e trasmette quasi
in diretta le informazioni utili al suo funzionamento (si pensi all’importanza della formazione
“immediata” dei prezzi senza che sia necessaria alcune “programmazione” centralistica, tema
troppo spesso sottovalutato). Qui, a differenza della gerarchia, il problema sta nel fatto che i mercati
funzionano bene quando il futuro è facilmente prevedibile, quando i meccanismi di domanda e
offerta non vengono pervertiti da altre logiche e, soprattutto, quando vi sono clienti solvibili.
Gli “ordini costituzionali” (Sabel 1997) consistono invece di unità (costituenti) e di un
sovraintendente (costituito). Le unità costituenti possono essere qualsiasi cosa: attori di mercato
come aziende; cittadini; membri di un sindacato o di altre associazioni, uffici di organizzazioni
private o pubbliche, agenzie governative, organizzazioni di Ts. Il sovraintendente potrebbe essere
una Corte (Costituzionale o privata arbitrale); il capoufficio di una gerarchia pubblica o privata;
l’ufficiale eletto di una associazione; una entità burocratica; un comitato arbitrale; infine un
“soggetto” composto da questi ed da altri soggetti, per esempio un cartello locale per lo sviluppo
economico formato da rappresentanti di sindacati, imprese, banche locali, grandi e piccole aziende,
agenzie di welfare, istituzioni educative, etc.. La topologia degli ordini costituzionali è “frattale”,
dove una distinzione rientra in se stessa creando sotto-insiemi. Solitamente un sovraintendente è
l’unità di un ordine istituzionale di ordine superiore che così va a costituirsi come un “ordine di
ordini”. La funzione del sovraintendente (costituito) è di determinare le responsabilità e le
giurisdizioni delle unità (costituenti) e di porre le regole attraverso cui esse possono agire e
risolvere i conflitti che insorgono. Egli svolge una funzione regolativa (legislativa), di governo e di
giudizio. La sua autorità, giurisdizionale e legislativa, deve essere coerente con le regole a cui anche
il sovraintendente è obbligato in quanto unità (logica dell’auto-governo) e tutte le regole devono
essere necessariamente stabilite consultando i costituenti. Le forme di consultazione possono essere
le più diverse.
Diversamente dai mercati, gli ordini costituzionali – attraverso i sovraintendenti – possono
programmare e decidere di allineare (o ridisegnare) le diverse unità, i loro compiti e le loro
dotazioni. Diversamente dalle gerarchie, possono fare conto su unità che auto-allineano
reciprocamente i loro interessi, mediante processi di consultazioni e deliberazione comune. In
buona sostanza gli ordini costituzionali sono più efficienti ed efficaci dove: esistono forti problemi
di coordinamento spontaneo e/o dove l’ambiente sociale cambia in fretta. Negli ordini
costituzionali, infatti, le relazioni orizzontali tra le parti (costituenti) – tipiche del mercato – possono
essere modifiche tramite consultazione e deliberazione a livello verticale (costituito). Così è
possibile ri-ordinare l’ordine costituzionale, potendo cambiare i propri interessi, identità e regole di
coordinamento, senza distruggere l’ordine. Questo modo d’ordine costituzionale è, questa la mia
ipotesi, il più adeguato per costituzionalizzare il Ts come social polity dotata di una sua specifica
identità differente da quella delle istituzioni dello Stato e delle organizzazioni del mercato. Vediamo
perché.
5. Costituzionalizzare il pluralismo societario: l’emergere della costituzione poliarchicadeliberativa
5.1. L’adeguatezza sostanziale (di struttura) e funzionale (di processo) degli ordini costituzionali
civili per l’auto-regolazione del Ts: auto-costituzionalizzazione di prim’ordine.
Come abbiamo sostenuto, quando si tratta di auto-regolazione del Ts, non è adeguato parlare di
neutralità delle procedure e neppure della forma giuridica. Il Ts per potersi differenziare dagli altri
settori della società deve mantenere i suoi tratti identificanti e deve poterli auto-regolare secondo
certe modalità specifiche. Sintetizziamo ora le proprietà identificanti del Ts, ricordando che qui
trattiamo di quelle organizzazioni che erogano beni e servizi per la persona perché è nel loro
operare che emerge un potere specifico che va prima costituito e poi regolato. Non ci occupiamo
invece di quelle forme di Ts come il volontariato (che non implica l’emergere della professionalità),
l’associazionismo sociale di advocacy o rappresentanza e neppure delle Fondazioni.
L’emergere delle nuove professioni sociali e la loro tendenziale formalizzazione entro imprese
sociali o civili (Sciulli 2009), viene a definirsi differenzialmente rispetto alle imprese di mercato e
alle organizzazioni dell’amministrazione pubblica, secondo le dimensioni:
1) Strutturale (posizionale o istituzionale). 1a) Le nuove professioni per essere riconoscibili
devono adottare e mantenere due specifici orientamenti occupazionali, uno epistemologico (il
sapere esperto) e uno socializzativo-didattico (la sua trasmissione). 1b) Operano sulla base della
fedeltà a norme procedurali che includono una governance ragionata, resa visibile e criticabile
dall’esterno. Questa soglia normativa permette a chiunque di identificare la fedeltà verso l’autorità
socio-culturale indipendente, le responsabilità fiduciarie e al contenuto dei saperi esperti. 1c)
introducono una particolare forma di organizzazione, la forma collegiale, l’unica a poter
istituzionalizzare i principi soglia della “chiarezza e coerenza” delle regole.
2) Operativo (e dal punto di vista del training professionale). 2a) Il professionismo dipende da
un tipo di training e di istruzione, solitamente molto lungo, difficile e condiviso (Sabel 2013). 2b)
Si basa su studi sia teorici che pratici. 2c) Tutta la preparazione si basa su standard riconoscibili che
debbono essere pubblici e condivisi ed hanno sostanza epistemologica prima e didattica poi. 2d) Il
processo di training è aperto e trasparente. 2e) Viene valutato incessantemente, inclusa la peer
review. 2f) Il training comprende anche la presentazione pubblica dei risultati e la loro discussione.
2g) Mediante questi passaggi una professione codifica il suo sapere esperto e lo diffonde nella
società.
3) Occupazionale. 3a) Tutto l’agire del professionista è mediato dall’aspettativa (fiduciaria) che
le attività di apprendimento e di lavoro siano intraprese con coerenza, alacrità, fiducia e distacco.
Ogni professionista ha delle responsabilità verso: il difendere e l’arricchire il contenuto
epistemologico e didattico della professione; l’istituzione e il mantenimento della forma collegiale;
l’introdurre nuovo sapere nella società. 3b) La forma collegiale stabilisce e mantiene una
giurisdizione identificabile sul settore dei servizi, controllandone la qualità.
Queste qualità distintive del Ts professionale, richiamano una sua auto-regolazione speciale che
richiede l’istituzionalizzazione delle “formazioni collegiali”, come modalità di governo e di
riflessione adeguate alle relazioni interne tra i membri delle Ots e alla loro relazione con l’ambiente
sociale, costituito in primo luogo da utenti e stakeholder. Le forme collegiali sono arene di
riflessione e deliberazione condivisa, mediante le quali i professionisti si identificano come
collettività e si rendono riconoscibili dalla società. Operano seguendo la soglia di integrità
procedurale-normativa che rende intelligibile e legittimo l’agire professionale. Rappresentano il
modo più adeguato di regolare autonomamente la professione rispondendo alle stringenti aspettative
che l’autorità socio-culturale indipendente pone sull’operare quotidiano dei professionisti. Tali
forme non istituzionalizzano solo la fedeltà dei membri alla soglia di integrità proceduralenormativa (identificazione interna), ma facilitano e limitano la supervisione regolativa delle
professioni dall’esterno (riconoscimento esterno). Anche questo controllo deve seguire gli stessi
valori soglia (regolare la regolazione). La forma collegiale non è né una burocrazia (dove vale la
catena del comando) né una democrazia (dove vale la maggioranza), e neppure una forma
“proprietaria”.
5.2. La auto-costituzionalizzazione (civile) delle formazioni collegiali e la loro governance
deliberativo-riflessiva: auto-costituzione di secondo ordine (regolazione della regolazione)
Una volta inquadrate le nuove professioni sociali entro l’emergere di nuovi poteri da regolare e
mostrata la loro forma di auto-regolazione interna mediate formazioni collegiali (auto-costituzione
delle organizzazioni), dobbiamo passare al livello della loro “costituzione” sociale. È infatti
evidente che per dialogare con i settori e le organizzazioni dello Stato e del mercato, così come con
la società civile e con gli utenti organizzati, il Terzo settore deve a sua volta costituzionalizzarsi
come “settore” sociale, come social polity.
In primo luogo le diverse organizzazioni del Ts – ipoteticamente già costituite in formazioni
collegiali di primo ordine, ma ancora isolate le une dalle altre – debbono costituirsi in quanto settore
specifico, trovando una loro forma di auto-governo a livello nazionale (e poi a scendere tra i livelli
amministrativi. Ma il processo può avere anche una fenomenologia bottom-up). La costituzione del
Forum del Terzo settore (come tutti gli Osservatori dedicati) pur con tutti i limiti che ha mostrato, è
stato un primo passo in questa direzione, così come lo è stato, per altri versi, la costituzione
dell’Alleanza delle Cooperative italiane. Questa nuova collettività, dotata di un governo, di
organismi di rappresentanza e di una regolazione giuridica sui generis, deve farsi riconoscere dagli
altri settori sociali, in primis quello dello Stato, dell’Amministrazione pubblica e del mercato e deve
regolare la relazione con essi. La sua forma deve essere quella di una formazione collegiale di
secondo ordine che includa le rappresentanze del primo. In altri termini deve costituirsi un ordine
costituzionale le cui unità (costituenti) sono organizzazioni di Ts che scelgono un sovraintendente
(costituito) con funzioni di portavoce, di governo e di rappresentanza.
Facciamo un esempio ipotetico. Il processo inizia sempre dalla identificazione di un problema
specifico, per esempio l’erogazione di servizi personalizzati a persone disabili. Qui abbiamo un
campo professionale che si costituisce, generando un sapere-esperto da cui gli utenti vengono a
dipendere (asimmetria di potere/sapere). L’organizzazione della professione, per essere adeguata a
quel compito sociale, deve prendere la forma di una formazione collegiale di tipo societario (a meno
che non si tratti di servizi erogati dall’amministrazione pubblica in house; o di servizi erogati in
forma commerciale-mercantile, con però tutti i problemi della State e Market Failure). Già a questo
punto l’organizzazione può essere riconosciuta da Stato e mercato e con essi collaborare. Se però il
campo professionale vuole darsi una riconoscibilità, prima, e rappresentanza “politica”, poi, a
livello nazionale, deve aggregare le sue unità locali e costituirsi in una (chiamiamola) “Alleanza
nazionale” che, a sua volta, prenderà la forma della collegialità di secondo ordine. Questa Alleanza
istituzionalizzerà i suoi livelli di governo, di deliberazione e di giudizio, andando a definire –
mediante il medium del diritto (privato), di Carte e Codici etici, di standard dei servizi, di bilanci
sociali, etc. – la propria auto-costituzione capace di auto-controllo e di self-steering. A questo punto
l’Alleanza si sarà auto-costituita, sarà ben identificabile come una social polity – dotata di una sua
capacità di operare – e potrà dialogare a livello nazionale con gli altri settori (così come anche a
livello inter-nazionale, trans-nazionale e globale, laddove partecipasse a istituzioni di
rappresentanza di quei livelli, cioè laddove divenisse una unità “nazionale” di un ordine
costituzionale inter o transnazionale).
5.3. Auto-costituzionalizzazione di terz’ordine: la Costituzione come poliarchia deliberativoriflessiva
Questa auto-costituzione di una social polity (mediata dal diritto in termini di atto costitutivo,
regole interne di funzionamento, attribuzione e divisione dei poteri associativi, etc.), pur necessaria
per dar vita a una collettività dotata di una identità socialmente riconoscibile, non è ancora
sufficiente. Nel momento in cui comincerà ad operare entro un ambiente sociale altamente
complesso e poli-contesturale, dovrà essere capace di regolare quelle relazioni. Di nuovo si
comincia da un problema reale, questa volta individuato da diversi attori appartenenti a settori
sociali differenti. Potrebbe essere il problema di creare un mercato regolato per la fornitura di
servizi a persone disabili e i criteri di accreditamento per venirvi inclusi. A questo punto: i) tutti gli
attori interessati (organizzazioni di professionisti, imprese sociali, imprese for-profit,
amministrazioni pubbliche, rappresentanti dell’Università, medici, psicologi, etc.) e gli utenti
coinvolti dalle loro decisioni – che divengono così stakeholder – cominciano un primo round di
riflessione comune, seguendo un metodo di coordinamento e dialogo aperto non gerarchico. ii) A
questo primo tavolo di riflessione com-partecipata, segue un momento di deliberazione comune,
attraverso cui vengono selezionati alcuni obiettivi e finalità fortemente condivise, ma allo stesso
tempo modificabili, se del caso. iii) Questi obiettivi vengono poi devoluti al livello territoriale più
adatto e “sussidiario”, laddove attori con un sapere situato possono considerare più da vicino le
modifiche e i miglioramenti da apporre al progetto. iv) L’operato autonomo e le libere riflessioni di
queste unità locali e situate, va però monitorato, rendicontato e spiegato nuovamente al livello più
elevato, mediante processi di peer review. v) I risultati di questo processo deliberativo diretto e
poliarchico, vanno rivisti periodicamente e riadattati alle mutate condizioni locali e nazionali.
Come si osserva qui siamo di fronte non solo alla auto-costituzionalizzazione di un settore, ma
alla costituzione di un processo di governance multi-livello che eccede di molto le forme politiche e
giuridiche della modernità. Mediante una governance riflessiva e deliberativa multi-livello, una
poliarchia deliberativa, si costituiscono veri e propri “ordini costituzionali” emergenti che vanno a
rispondere in modo flessibile e veloce alla domanda di regolazione dei nuovi poteri, senza
costringerli nel governo dello stato e del mercato (de Burca, Keohane and Sabel 2013). È a questo
punto che probabilmente verranno istituzionalizzate Corti di arbitrato civili, dove gli attori potranno
confrontarsi e dove verrà creata giurisprudenza ad hoc; regole di diritto per regolare la
giurisprudenza; processi riflessivi di “gerarchizzazione” delle norme. Tali Corti, sempre in stretta
connessione con il diritto costituzionale e pubblico, svolgeranno la funzione di creazione del nuovo
diritto costituzionale civile divenendo essi stessi poteri costituenti (Von Bogdandy and Venzke
2014).
La prospettiva giuridico-istituzionale che emerge è quella di uno scontro tra ordini costituzionali
diversi, sia a livello statale che non statale (inter-nazionale, trans-nazionale, globale). Due paiono
essere le caratteristiche di questo ordine emergente (Teubner 2011). 1) Il suo inarrestabile
pluralismo sia rispetto agli attori che lo producono (pubblici, privati, for profit, non for profit,
partnership, reticoli di attori, etc.), sia rispetto alle fonti giuridiche che vi trovano spazio senza
alcuna gerarchia predeterminata. In tal senso le costituzioni dello Stato, insieme alle costituzioni
dei vari sotto-sistemi sociali, entreranno in relazione di “collisione” e da questi scontri emergerà il
nuovo ordine costituzionale. Si tratterà di un diritto ibrido che si costruisce relazionalmente senza
alcun centro o vertice assoluto. Probabilmente si tratterà di un diritto “vivente” fluido, poroso e
altamente tollerante, tipicamente di common law, che genererà dal suo interno due principi
fondamentali operanti come funzioni di esternalizzazione del processo auto-generato, cioè come
formule di contingenza del diritto: 1) creazione e simultaneo rimando ai dritti dell’uomo (come
realtà di bene comune globale da proteggere dall’espansione dei poteri sociali): 2) principio della
sostenibilità ambientale umana e naturale (come criterio di riflessione della costituzione globale).
Questo ordine costituzionale sembra istituirsi non più sulla base di poteri costituenti di tipo
moderno, bensì sul diretto operare del sistema del diritto, fortemente gestito a livello di Corti
(nazionali, internazionali, globali, pubbliche, private) (Stone Sweet 2004). Saranno i diritti stessi a
catalizzare la formazione di collettività e social polities del tutto diverse dai moderni stati nazione a
democrazia rappresentativa. Come scrive Thornhill (2013) “i diritti agiscono come surrogati
autorizzanti per il potere costituente. Le comunità politiche non necessitano di forza costitutiva a
parte di quella di attori che enunciano diritti (…) nelle diverse dimensioni della costituzione
transnazionale una condizione di poliarchia estrema, simultaneamente geografica, settoriale e
funzionale è sempre più identificabile. La costituzione poliarchica manca di solide fondazioni
sociali. Però ad ognuno dei suoi livelli ottiene un qualche livello di coesione inclusiva attraverso il
fatto che le corti, altri attori giudiziari e gli agenti privati riconoscono i diritti come punti strutturali
di orientamento, che tali diritti azionabili sono pretesi da e allocati a agenti privati e che i diritti
sono cementati come basi per il policy making sia da corpi pubblici che privati. L’emergere di un
sistema globale di governance è sostenuto da una proliferazione di diritti che si sviluppano a livelli
governativi diversi e che sono attribuiti ad attori privati. Ciò significa che i diritti connettono il
livello nazionale alla dimensione inter-nazionale dell’ordine globale: e lo fanno principalmente
attraverso la funzione intermediaria delle corti”. In altri termini viene a costituirsi quello che a
livello di lex mercatoria ha elaborato il sistema dei tribunali e corti arbitrali, ben al di sopra del
diritto dei contratti: una sorta di diritto costituzionale, con principi sostanziali e procedurali –
comprensivi anche di diritti fondamentali specifici – che va sotto il nome di ordre public
d’arbitrage international (Renner 2011).
Solo a questo punto si coglie l’impressionante complessità della nuovo ordine costituzionale
emergente. A livello statale, la Costituzione verrà a rappresentare quella Legge delle leggi generata
mediante la collisione tra ordini costituzionali civili, ibridati attraverso il diritto Costituzionale dello
Stato. Si creerà così una poliarchia costituzionale sui generis che potrà dirsi “statale” solo in quanto
il nome dello Stato servirà come garante della validità ultima del diritto: rappresenterà la stenografia
della social polity con confini più estesi, qualsiasi essi siano. In realtà, però, si tratterà di qualcosa
di molto più importante di una mera ibridazione tra principi costituzionali “civili” e statali.
Probabilmente si andrà verso una costituzione generata da “strane molteplicità” come le chiama
James Tully (1995). A livello globale, queste nuove costituzioni ibride, andranno a collidere con
altri ordini costituzionali non statali, bensì infra e supra statali. Teubner parla della genesi di un
diritto “fittizio” capace di istituire nuovi diritti fondamentali e costituzionali, sulla base
dell’elaborazione dei nuovi diritti dell’uomo, vero livello intangibile dell’intero processo (Prandini
2013b). Il Ts, se saprà auto-costituzionalizzarsi in modo responsabile, sarà certamente a livello
nazionale, prima, e oltre che nazionale poi, uno di questi player che daranno vita una costituzione
poliarchica e riflessiva.
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