Paolo di Tarso: elementi di ricezione e tradizione filosofica
καὶ εἰ ἡ ῥίζα ἁγία, καὶ οἱ κλάδοι.1
L’atteggiamento intellettuale dei primi cristiani rivisita il percorso che il pensiero
antico aveva tracciato per giungere alla verità. Pertanto per essi non di secondaria importanza
risulta la congiunzione del dato religioso con la lunga tradizione speculativa precedente e
contemporanea al fine di consolidare, diffondere e quindi condividere universalmente la
parola di Dio. Significativa è l’impronta filosofica che Paolo di Tarso offre alla divulgazione di
una conoscenza che non è più solo scientifica ma che è occasione di conversione sapienziale del
pensiero. Sulla base della distinzione dei due termini scientia e sapientia2, la novità rivelativa si
rende sia complementare alla conoscenza imperfetta che alimentava la magna dissensio delle
diverse scuole di pensiero (assicurando la continuità della tradizione filosofica), sia
“fondativa” di un sapere che mostrava nella rielaborazione degli antichi concetti l’originalità
innovativa del dato religioso. La fede religiosa in tal modo investe esistenzialmente il cristiano
che non può essere indifferente alle conseguenze che l’avvento della Verità comporta a livello
della dimensione prettamente intellettuale. La radicalità della fede delle comunità
protocristiane, che non si arresta di fronte alla repressione delle istituzioni, testimonia il
profondo coinvolgimento non solo delle facoltà etiche ma anche di quelle teoretiche al fine di
dimostrare la complementarità tra gli antichi sistemi filosofici e il sapere religioso. Figura
centrale a tal proposito è quella di Paolo di Tarso che mette in opera il primo tentativo di
congiunzione, di innesto, così come lui stesso testimonia, della cultura classica rinnovandola
con spirito sapienziale. Infatti, escluso l’autore del quarto Vangelo, Paolo è il primo a
utilizzare un lessico che gli intellettuali successivi troveranno familiare all’antico sapere. Ciò
1
2
Se è santa la radice lo saranno anche i rami.
La prima infatti era intesa come la conoscenza a cui l’uomo giunge attraverso le capacità a esso
connaturate e la seconda intesa come conoscenza completa che trova materia veritativa a un livello
che oltrepassa la natura di comprensione dell’uomo.
1
avviene non a caso: infatti è Paolo, Apostolo dei Gentili, a curare l’evangelizzazione del mondo
pagano.
Saulo è un Giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città [Gerusalemme],
istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della Legge dei padri (Atti, 22,3), cittadino
romano di nascita (Atti 22,28), vissuto come fariseo, secondo la setta più osservante della nostra
religione [ebraica] (Atti 26,5). Questi sono i tratti essenziali del profilo che Paolo traccia di se
stesso estrapolati dai discorsi riportati dall’evangelista Luca negli Atti degli Apostoli.
Indirettamente, però, a partire da questi dati si è tentato nel corso degli anni di ampliare il
numero di informazioni attraverso delle deduzioni esplicitando (e a volte forzando) gli indizi
presenti nelle descrizioni biografiche di Paolo. Così, si è ipotizzato che gli sia stato attribuito
dagli stessi genitori che godevano di cittadinanza romana l’appellativo latino di Paulus, nome
utilizzato da lui a partire dal primo viaggio di evangelizzazione (forse per evidenziare una
certa comunanza culturale con i destinatari della sua missione). Oggetto di discussione,
invece, è l’educazione ricevuta: si può sostenere che la sua educazione abbia un importante
taglio ellenistico, dal momento che Tarso in quel periodo storico era una città culturale molto
vivace, dal clima cosmopolita all’incrocio della cultura greca e di quella semitica e che diede i
natali ad Atenodoro. Tuttavia, Paolo stesso afferma che ha ricevuto la sua educazione a
Gerusalemme fornendo anche il nome del rabbino presso il quale è stato istruito.
Considerando però che lo studio del Talmud non era accessibile prima del quindicesimo anno
di età, si è pensato che fino ad allora abbia vissuto nella sua città natale. Come dato a favore di
questa ipotesi sarebbe l’uso corretto della lingua greca da parte dell’Apostolo. D’altro canto la
conoscenza di tale lingua potrebbe essere attribuita anche all’esito dello studio della Bibbia
tradotta in greco, come dimostrato dalle citazioni paoline di puntuali passi della Septuaginta.
Invece, l’appartenenza al giudaismo e in particolare alla corrente dei farisei è certa. A partire
da questa certezza può essere avanzata l’ipotesi che vede Paolo far parte di un giudaismo
ellenistico che proprio in quel periodo storico va affermandosi. L’apertura di alcune frange,
caratteristica peculiare del giudaismo ellenistico, però, confligge con la prospettiva che ci
presenta lo stesso Apostolo quando afferma di essere appartenuto alla setta più osservante o
quando allude al rigore dell’osservanza della Legge; tale precisazione lascerebbe pensare
2
infatti che sia stata presente anche una frangia meno osservante che rischiava di essere
ulteriormente “compromessa” dal processo di sincretismo ellenistico.
In base a tali riflessioni si pone la seguente questione: quanto ellenismo e quanto
giudaismo è presente in Paolo? Come visto, dunque, due sono essenzialmente le correnti di
pensiero sull’appartenenza mulitculturale di Paolo: la prima è quella di Albert Schweitzer
(1930) che vuole Paolo prevalentemente giudeo, tesi sostenuta fino ai giorni nostri a cui però si
affianca anche una seconda prospettiva più ampia circa la possibilità di intravedere espliciti
riferimenti al mondo pagano3. Non basta tuttavia la ricerca a livello del mondo pagano ma è
necessario restringere il campo d’indagine in modo più particolare al mondo greco-romano
per capire quanto familiare si sia presentato il suo messaggio ai contemporanei e soprattutto,
ai fini di tale ricerca, quale valenza intellettuale sia stata percepita dai destinatari dei secoli
successivi. Ad una prima analisi dei testi (Atti degli Apostoli e Lettere) sembrerebbe non sia
presente una profondità speculativa tale da poter attribuire all’Apostolo una conoscenza
esperta in ambito filosofico e letterario. I riferimenti rintracciabili nei testi sono citazioni molto
probabilmente apprese dall’ambiente frequentato circostante e che non implicano una
preparazione specialistica da parte di chi ne fa uso. I richiami al sapere antico, infatti, non sono
molto frequenti se si tiene conto della possibilità da parte di Paolo di ricorrere a numerosissimi
parallelismi con autori antichi a supporto del messaggio evangelico; oltretutto le allusioni
nella maggior parte dei casi non sono accompagnate da citazioni testuali. Non è da escludere
che tali allusioni anche se non esplicitate con riferimenti a nomi di autori e/o opere non siano
casuali ma che abbiano una certa funzione di assimilazione del sapere. Questo porta a pensare
che sicuramente l’Apostolo abbia avuto una familiarità con la cultura classica ma non tale da
poter rilevare una preparazione specialistica. Non scontata, però è tale conoscenza se si prende
atto del fatto che la sua istruzione è prevalentemente giudaica e che il mestiere che esercita
Paolo è lontano dall’ambito teorico, essendo, conformemente alla sua origine cilicia4, un
fabbricatore di tende. Consapevole di ciò può dunque vantarsi e avvalersi della sua
provenienza culturale medio-alta ai fini della buona riuscita della sua missione: “io sono un
Cf. L’originalità cristiana di Paolo apostolo ed il suo debito ebraico e pagano: due articoli di Ed Parish
Sanders e di Romano Penna, 2009.
4 Circa l’attinenza del mestiere alla provenienza cf. GIOVANNI SALMERI, Processi di ellenizzazione in
Cilicia, 2003.
3
3
Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza” (Atti 21,39); un
privilegio, dunque questo, considerato commisurato alla sua vocazione, cioè quella di Apostolo
dei Gentili. Se Paolo, tuttavia, consapevole dell’importanza del titolo di ‘apostolo’, è attento a
non abusare di questo appellativo, sottolineandone la limitazione alla vocazione ricevuta
(“apostolo per vocazione”), la tradizione successiva sembra trascurare questa precisazione
conferendo in tal modo un peso maggiore alle citazioni paoline. Infatti apostolo è
un’attribuzione distintiva riservata ai discepoli, dei quali Paolo non fa parte, seppure a essi
contemporaneo. Quindi intendendo con tale termine non solo il significato di inviato (tra i
pagani), ma anche di persona con auctoritas pari a quella dei discepoli che sono stati testimoni
diretti e contemporanei a Gesù di Nazareth, gli intellettuali dei secoli successivi individuano
nella sola persona di Paolo, sia la figura di inviato sia quella di testimone: l’una diffonde e
tramanda un sapere rinnovato, l’altra attesta in modo diretto il dato rivelato. Le citazioni
paoline quindi acquisiscono un valore di autorità ambivalente di cui ben opportunamente i
filosofi cristiani si servono per sviluppare e diffondere l’insegnamento cristiano. Del fatto che
l’apostolato invece sia indirizzato ai Gentili, Paolo ne fa un marchio di originalità rispetto agli
altri apostoli. Questa differenza evidentemente, come detto, conferisce un carattere di
congruenza comunicativa con i destinatari contemporanei e non.
Tale corrispondenza, dunque, è quanto basta ai primi intellettuali cristiani per cogliere
una significativa valenza su cui fissare le basi della traditio culturale continuando in tal modo
la realizzazione del progetto di quell’innesto di cui parla Paolo. Il concetto di innesto nasce nel
contesto della Lettera ai Romani, dove è evidente lo sforzo retorico atto a giustificare l’apertura
del messaggio cristiano al mondo pagano che il giudaismo, invece, aveva escluso dalla propria
relazione con Dio proprio perché quest’ultima si era manifestata sin dalla sua origine come
esclusiva e indirizzata unicamente al popolo di Israele. La lettera si rivolge ai romani
convertiti al cristianesimo (ex pagani) e ha lo scopo di affermare l’universale destinazione del
messaggio evangelico, eliminando in tal modo qualsiasi discriminazione all’interno dei
neoconvertiti tra credenti giudei e credenti Gentili. Le comunità protocristiane a Roma, infatti,
nacquero probabilmente da un originario nucleo giudaico al cui interno si sviluppò un
processo di conversione al cristianesimo che andava assimilando in misura sempre maggiore
neoconvertiti pagani. Superando dunque l’originaria predilezione particolaristica del
4
giudaismo, Paolo deve giustificare agli occhi dei giudei un rinnovamento universalistico che
supera tale distinzione scegliendo per la sua diffusione una strada alternativa a quella ebraica
che non ha riconosciuto in Cristo il Messia. È in tal modo che molti rami dell’ulivo sono stati
tagliati via e un ulivo selvatico è stato innestato su una radice santa; è in tal modo che si
congiunge la sapientia con la scientia offrendo un nuovo e unico corso di sviluppo alla
conoscenza e all’amore per la verità. Qui di seguito si analizzerà la presenza di temi affini alla
filosofia prendendo in esame la Lettera ai Romani dove, più che in altre epistole, è facile
rintracciare gli elementi che permetteranno nei secoli successivi la fusione tra la scientia e la
sapientia. Paolo, infatti, quale occasione migliore avrebbe potuto cogliere per far emergere i
tratti di continuità e per conferire una portata universale al messaggio evangelico se non
quella della predicazione destinata agli abitanti di Roma? Consapevole, oltretutto della
fervente attività filosofica praticata nell’Urbe, sembra non trascurare le categorie e le forme del
pensiero antico per testimoniare la novità evangelica.
Lettera ai Romani: analisi
ὁ δὲ δίκαιος ἐκ πίστεως ζήσετα.5
Dunque, come è stato dimostrato, Paolo non ha una conoscenza specifica della cultura
ellenistica dal momento che molti temi, che ben si prestavano a una argomentazione filosofica,
sono lasciati nei suoi discorsi privi di citazioni. Ciò non significa, però, che tali tematiche siano
rimaste indifferenti ai suoi destinatari. Che la trattazione di alcuni argomenti sia voluta o
meno dall’autore al fine di conformarsi all’interesse del mondo pagano, non va a invalidare la
portata significativa da cui ha attinto successivamente la speculazione filosofica. A partire
dalla Lettera in cui esplicitamente si parla di un innesto e quindi di una congiunzione della
tradizione ebraica a quella pagana, un’analisi di quanto viene trattato in essa può far emergere
le questioni che al vaglio filosofico hanno un’importante valenza speculativa. La Lettera ai
Romani6 infatti presenta sin dall’inizio significative questioni (come quella dell’intelligibilità,
del rapporto tra la corruttibilità visibile e l’incorruttibilità invisibile, della relazione tra teoresi
5
6
Il giusto vivrà dalla fede.
In seguito Rm
5
ed etica) unite da un unico filo: il superamento del giudaismo. Se infatti da un lato emerge il
superamento dell’osservanza giudaica e il tentativo di abolire qualsiasi discriminazione tra i
destinatari del messaggio evangelico a favore di una fede universale, dall’altro è notevole
l’affinità con le tematiche filosofiche sopra accennate e discusse dalle diverse scuole di
pensiero dell’epoca al fine di supportare l’argomentazione dimostrativa della sua tesi. È
altrettanto fuor di dubbio che in altre occasioni Paolo stesso abbia esplicitamente affermato la
presa di distanza dalla sapienza pagana, semplicemente perché ritenuta inadatta a
comprendere perfettamente i misteri della fede7. Ciò non esclude, tuttavia che essa possa farsi
preambolo al successivo completamento del percorso conoscitivo. Che egli abbia adeguato la
sua forma di predicazione in base ai destinatari del messaggio è testimoniato dallo stesso
Apostolo dei Gentili quando nella Prima Lettera ai Corinzi afferma di essersi conformato a
coloro che avrebbero ascoltato la sua predicazione al fine di guadagnarli e salvarli.8
In concordanza dunque alla sua missione, cioè portare all’obbedienza della fede tutti i
Gentili (Rm 1,5), Paolo deve dimostrare che così come la fede, da cui deriva la salvezza, è un
dono fruibile universalmente (Giudeo e Greco) così nessun uomo è estraneo al peccato sia esso
pagano o giudeo. Per dimostrare ciò deve quindi spiegare che cosa sia la fede e che cosa sia
invece il peccato. L’Apostolo afferma che gli uomini empi sono coloro che soffocano la verità
nell’ingiustizia (Rm 1,18). Nei versetti successivi sembra subito essere chiarita questa
espressione: l’ingiustizia di cui si parla risiede nel non voler riconoscere a Dio le perfezioni che
pur essendo invisibili, si sono rese visibili all’intelligenza tramite le opere. Si compie
ingiustizia, quindi, quando viene falsificata la corrispondenza tra le perfezioni invisibili di Dio
e le manifestazioni concrete delle opere, scambiando in tal modo le cose incorruttibili con
quelle corruttibili. Sin dalle prime righe dunque si delinea una questione di carattere teoretico:
da un lato si riscontra il piano della verità invisibile e incorruttibile, dall’altro un piano di
manifestazione visibile suscettibile di corruzione. La giusta corrispondenza tra l’invisibile e il
visibile avviene a livello dell’intelligenza che contempla e comprende (Rm 1,19). Quando
l’intelligenza non svolge il suo compito correttamente, cioè non fa corrispondere alle opere
visibili la potenza invisibile di Dio, si commette un’ingiustizia, una scorrettezza nella quale la
7
8
Si veda a tal proposito la Prima Lettera ai Corinzi (1; 2, 1-16)
Idem (9, 20-23)
6
verità è soffocata (Rm 1,18). Chiaramente vani risultano i ragionamenti dei sapienti divenuti
stolti quando non riconoscono nel visibile l’invisibile: la mente si ottenebra, ovvero non vede più
perché anche il visibile perde la cifra di intelligibilità quando la verità è repressa. Quello che
nei secoli successivi si chiamerà rectitudo tra ordo idearum, ordo verborum e ordo rerum circa il
problema degli universali potrebbe essere rinvenuto in nuce in questo passo di Paolo che
chiaramente è lontano non solo cronologicamente ma anche speculativamente dallo sviluppo
da cui nascono le questioni gnoseologiche ed epistemologiche future. Uno sguardo
retrospettivo invece potrebbe rintracciare elementi propri del platonismo sia secondo la
considerazione della duplice realtà (quella incorruttibile - vera e quella corruttibile suscettibile di errore) sia riguardo alla visibilità intellettiva che rende manifesta la realtà nella
sua verità. Senza voler però forzare l’intenzionalità del messaggio, con certezza si può
affermare che Paolo critica apertamente i ragionamenti derivanti da una erronea lettura della
realtà: essi non sono più sapienti ma stolti (Rm 1,23), ovvero perdono la sapidità che è la
valenza conoscitiva e per questo motivo i loro ragionamenti diventano vani, vuoti (Rm 1,21).
Quindi svuotati della verità, coloro che si dichiaravano sapienti scambiano l’incorruttibile con
il corruttibile, scambiano cioè il valore assoluto e autentico da cui deriva la realtà con la cifra
della realtà sensibile che dovrebbe invece avere il compito di rinviare all’assoluto. È da una
cattiva intellezione della realtà che consegue una cattiva condotta etica: l’Apostolo infatti,
dopo aver chiarito cosa sia l’errore teoretico, subito dopo ci presenta le conseguenze negative
che da esso si proiettano nella sfera morale. Lo scambio del Creatore con le creature (Rm 1,24)
e cioè della Verità con la menzogna comporta una sregolatezza del desiderio (Rm 1,24). È da
una mente insipiente che deriva la malvagità. I falsi sapienti saranno senza intelligenza, senza
lealtà, senza amore e senza misericordia (Rm 1,31): la mancanza di intelligenza quindi non è innata
nell’uomo ma è piuttosto l’uomo che non l’ha esercitata secondo giustizia (cioè, in senso
filosofico, senza rectitudo); infatti, non a caso gli insipienti sono anche ‘senza lealtà’. Quindi
dalla carenza di intelligenza e di lealtà (piano teoretico) non può non derivare in modo
corrispondente anche la mancanza di amore e di misericordia (piano etico). Dal punto di vista
filosofico qui emerge quell’indissolubile rapporto tra teoresi ed etica: chi conosce la verità non
può comportarsi in modo ad essa inadeguato. Tuttavia, sembrerebbe che proprio i Giudei che
conoscono la Legge, cioè sono a conoscenza di ciò che è giusto e retto, compiano azioni
7
deplorevoli (Rm 2,1). Si ritrova qui ciò che in termini filosofici potrebbe essere espresso come
‘crisi dell’intellettualismo etico’ o come akrasìa, esemplificata attraverso la locuzione latina:
video meliora proboque deteriora sequor. Il Giudeo non appare migliore del pagano perché, pur
illuminato per operare il bene essendo dotato della Legge, le sue opere non sono più conformi
ad essa rispetto a chi, come il pagano, ne è sprovvisto. Quindi Paolo può affermare che non
coloro che ascoltano la Legge sono giusti, ma coloro che la mettono in pratica (Rm 2,13). Quindi
ingiusto non è soltanto colui che non ha riconosciuto una corrispondenza tra la realtà
invisibile e quella visibile ma anche chi scinde la teoresi e la pratica ovvero separa la
conoscenza del bene e la sua effettiva attuazione. La degenerazione morale non è soltanto
l’effetto di una mancata fede nell’invisibile (come il pagano) ma può essere anche il risultato di
una discrepanza tra ciò in cui si crede e ciò che si fa (come il Giudeo). Non vi è dunque alcuna
differenza tra Giudeo e Greco proprio perché entrambi sono ingiusti quando disobbediscono alla
verità (Rm 2,8) e se il Giudeo crede di essere privilegiato per il solo fatto di possedere la Legge,
non meno privilegiato potrà rettamente pensare di essere il pagano che, pur non avendo la
Legge, pratica azioni prescritte dalla Legge, seguendo il dettame della natura (Rm 2 14). In tal modo
Paolo dimostra che il messaggio di fede non è riferito solo ai Giudei ma a chiunque; l’annuncio
ha destinazione universale perché Dio non fa distinzione di persona (Rm 2,11). In una situazione
parificata che riguarda sia Giudei che pagani, si evidenzia maggiormente il peccato dei Giudei
che pur avendo riconosciuto nella Legge un paradigma di scienza e di verità (Rm 2,20),
impossessatisi di questa, hanno trasgredito i precetti; rendendo intelligibile la realtà con la
Legge, si presentano come maestri e dottori tuttavia rendono vano il loro compito nel
momento in cui disgiungono la conoscenza del bene dalla pratica di esso. In questa
dimostrazione Paolo ha riconosciuto la possibilità di compiere il bene anche se non si conosce
la Legge, cioè ha ammesso la possibilità di perseguire il bene per una ‘via naturale’ che
esercita correttamente la ragione e da cui seguono opere buone. Non che abbia voluto
promuovere uno percorso autonomo rispetto alla Legge, ma certamente Paolo lascia intendere
che sia insita in ogni uomo la possibilità di perseguire il bene anche senza la Legge, cioè che ci
sia, tutto sommato, una natura precorritrice di una conoscenza sapienziale che conduce alla
correttezza della Legge. Ma se la rectitudo è la giusta corrispondenza tra il visibile e l’invisibile
e quindi la Legge è retta per tale corrispondenza, allora coloro che senza la Legge sono giunti
8
alla medesima corrispondenza teoretica si sono resi giusti attraverso il mezzo della ragione da
cui sono seguite le buone opere. Qui dunque c’è una rivalutazione della via naturale di portata
universalistica: esiste una legge scritta nei propri cuori (Rm 2,15) quindi connaturata all’uomo,
che funge da parametro e che si confronta e si conferma nello scambio dialettico dei
ragionamenti. Questa via naturale sembra essere quella dei filosofi che senza una Legge
‘conferita’ da Dio, tuttavia ritrovano nella correttezza del ragionamento una corrispondenza
con ciò che non è visibile. La via naturale tuttavia si arresta proprio nel momento in cui si
ipotizza una realtà invisibile.
A questo punto può essere ben compresa l’espressione che ha aperto la Lettera: iustus ex
fide vivet (Rm 1,17): dalla fede nell’invisibile segue la giustizia dell’uomo, sia esso Giudeo o
Greco. Non è dunque il possesso della Legge a rendere giusto un uomo; la Legge, come
contenitore che conserva quella corrispondenza tra verità e realtà, una volta svuotata del suo
significato intrinseco, non rimanda più a quell’originaria corrispondenza che fa essere recta la
Legge e che, come dice Paolo, la fa essere paradigma di verità (Rm 2,20). È per questo motivo che
la Legge non rende necessariamente giusto il Giudeo che la conosce e che la pratica in
segmenti di precetti ostentativi. Se, quindi non è la Legge a rendere giusto l’uomo, qual è la
funzione della Legge? Essa, secondo Paolo, serve a prendere coscienza del proprio peccato
(Rm 7,7): è paradigma, metro per mezzo del quale l’uomo può misurare il limite a esso
universalmente
connaturato.
L’universalità
dell’umana
condizione
di
imperfezione
conoscitiva e quindi di ingiustizia può essere però ‘corretta’ cioè resa ‘recta’, salvata, come
dice Paolo, da fede a fede (Rm 1,17) come dono rivelatore che si perpetua e si diffonde
indistintamente. Se la fede per importanza è anteriore alla Legge e anche all’adempimento dei
suoi precetti, allora qual è il posto occupato dalla praxis? La praxis non viene abolita così come
non viene abolita la Legge ma, nello stesso modo in cui ad ogni opera buona c’è un
corrispettivo di giustificazione, come ad ogni lavoro il relativo salario, così allo stesso modo
per ogni mancata opera e fiduciosa benevolenza corrisponde una diffusa grazia di
giustificazione (Rm 4,4). Nel primo caso non c’è nulla in più rispetto al dovuto, nel secondo
caso opera la grazia; mentre nel primo la giustificazione è ristretta al campo della Legge e di
chi la pratica, nel secondo caso la giustificazione si rende universale perché è un dono gratuito
che si diffonde a tutta la discendenza. Adesso dunque è anche più chiara l’espressione ‘da fede
9
a fede’ trovata all’inizio della Lettera: la fede si tramanda di generazione in generazione a
partire dal dono stesso della fede e quindi il giusto non vivrà tanto per la fede ma è la fede
stessa che renderà giusto l’uomo: non dunque ‘il giusto vivrà per la fede’ ma ‘dalla fede/ di
fede vivrà il giusto’. La giustizia non è limitata alla fede ma è piuttosto derivata e motivata da
essa. Lungi dal volere essere un annuncio di esclusione e di predeterminazione come vorrebbe
un’interpretazione agostiniana-protestante, quello paolino è un messaggio di apertura
universale, non più ristretto alla generazione dei circoncisi secondo la Legge, ma destinato alla
generazione della fede: appunto da fede a fede. Dalla fede di Abramo, infatti discende
l’universale generazione di credenti poiché egli è padre di molte nazioni non tanto per mezzo
dell’osservanza della Legge bensì per mezzo di una promessa (Rm 4,16). La fede di Abramo
nella promessa di Dio consiste nel dare fiducia in Colui che dà vita ai morti e chiama all’essere le
cose che non sono (Rm 4, 17) e tale fiducia viene posta a fondamento dell’esistenza di Abramo:
divenire il padre dell’universale discendenza di fedeli. Non i figli della carne sono figli di Dio; ma
i figli della promessa saranno computati come discendenza (Rm 9,8). La parola ‘discendenza’ quindi
non è utilizzata per riferirsi a un’appartenenza di tipo materiale/carnale ma rispecchia
piuttosto una comunione spirituale applicabile universalmente e non solo alla ristretta cerchia
degli osservanti della Legge. Risulta altrettanto chiaro che non è abolito il valore della Legge
né della sua pratica ma in virtù della fede è ripristinato il significato della Legge perché la fede
dà fondamento a essa (Rm 3,31).
Però, se in un primo momento l’Apostolo condanna la preminenza conoscitiva della Legge a
favore delle buone opere: Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge (Rm 2,23),
successivamente sembra capovolgere la gerarchia di importanza affermando che non sono
tanto importanti le buone opere quanto la fede. Alla luce di quanto detto tuttavia si
comprende bene che qui non c’è contraddizione poiché la coincidenza tra conoscenza e prassi
dovrebbe essere intrinseca alla stessa Legge; è nella Legge stessa che dovrebbe essere
contenuta la relazione tra il visibile e l’invisibile e questa relazione, che dà fondamento alla
Legge, è la fede: quell’anticipazione conoscitiva che congiunge le due realtà. È la fede dunque
l’anello di congiunzione della rectitudo teoretica e pratica e che per tale motivo recupera un
valore preminente nel sistema teologico paolino.
10
τῇ γὰρ ἐλπίδι ἐσώθημεν·9
Si passa a questo punto dal concetto di fede, anticipazione conoscitiva, al concetto di
speranza che invece è anticipazione di una condizione vitale di salvezza, lasciando alla fine
della Lettera il concetto di carità come sugello di somma unità e perfezione. Se il binomio
riguardante la prima parte della Lettera è giustizia - fede, nella seconda parte è costituito dal
concetto di speranza congiunto a quello di libertà. Infatti, come detto, l’universalità è assicurata
dalla fede che non limita il campo dei giusti a chi è sub lege, ma che piuttosto sconfina
nell’universo della grazia, la quale, giustificando l’umanità intera per mezzo di Gesù Cristo, la
libera assicurandone la salvezza. Essendo dunque anticipazione di vita futura, è la speranza
quella virtù che permette di attuare nella vita presente la giustificazione ricevuta per grazia
(Rm 5,2). È nella vita presente che si attua la speranza, cioè una condizione non più di
sottomissione alla Legge ma di libertà. Così Paolo giunge al concetto di libertà, tema caro
all’ambiente culturale a lui circostante. Per l’Apostolo, il concetto di libertà passa per quello di
grazia superando quello di Legge: attraverso la grazia l’uomo è sottratto alla Legge perché è già
giustificato e quindi è libero dai precetti di osservanza della Legge. Laddove non c’è Legge,
infatti, non c’è trasgressione né peccato (Rm 4,15) e il peccato senza la Legge è morto (Rm 7,8). Ma se
la Legge, proprio in virtù del suo essere legge, lega l’uomo alla sua inosservanza, cioè al
peccato (Rm 7,7) e quindi alla mortificazione di sé, la grazia, con la morte del peccato in Cristo
(Rm 6,10), rompe questo legame di obbligo e libera l’uomo verso una nuova prospettiva di vita
giustificata. La speranza è tale proprio perché è consapevolezza di uno stato di libertà dal
peccato e dalla morte; in altre parole essa è giustificazione vissuta in attesa della gloria futura.
Dunque rispetto alla tradizione giudaica il messaggio cristiano di Paolo inaugura un nuovo
modo di vivere la giustificazione. Diventano chiari quindi i passi in cui afferma che il cristiano
ha un comportamento di vita del tutto nuovo (Rm 6,4) e che egli serve Dio nell’ordine nuovo dello
Spirito e non in quello vecchio della lettera (Rm 7,6): è una vita liberata e quindi nuova ma che non
si afferma nel disimpegno morale bensì nel dono di speranza dello Spirito. Nella
contrapposizione tra la lettera e lo spirito troviamo ancora una volta la scissione tra visibile e
invisibile, tra il caduco e l’eterno, tra il corporeo e lo spirituale, tra l’uomo esteriore e quello
9
Nella speranza infatti siamo stati salvati.
11
interiore. Questa scissione tuttavia è superata stavolta tramite il dono spirituale della
speranza: essa è un dono dello Spirito le cui aspirazioni sono la pace e la vita eterna (Rm 8,6) a
cui si oppone il corporeo che caratterizza la caducità di tutta la creazione (Rm 8,21). Infatti la
creazione intera è in attesa proprio in virtù della speranza che proietta il caduco nell’eternità, il
peccato nella salvezza, la schiavitù nella libertà. Chi pratica la speranza dunque congiunge la
dimensione visibile con l’invisibile e non potrebbe essere altrimenti proprio perché nessuno
potrebbe sperare in ciò che già è reso visibile (Rm 8,24). Oltretutto, essendo anticipazione della
vita futura, la speranza rende possibile al fedele di compiacersi non solo della gloria di Dio ma
anche e soprattutto delle tribolazioni nella vita presente (Rm 5,4), infatti non a caso essa è
risultato di una virtù collaudata cioè di una virtù che si pratica nella costanza dell’oggi, una
virtus (potenzialità) che si attua nell’operatio. Dunque seppure divincoli l’uomo dalla Legge
rendendolo libero, essa non si traduce in disimpegno morale ma nella pratica di una costante e
retta condotta anche nelle tribolazioni. Anche qui, il filosofo cristiano degli anni a seguire può
intravedere quell’etica antica che vuole il compimento dell’essere umano nella traduzione
della dynamis in energheia.
Ciò che rende la speranza tale, cioè fondata e non mera illusione o autoinganno, invece,
è lo Spirito Santo (Rm 5,5). Con l’introduzione del carattere spirituale infatti si completa il
concetto di speranza e si inserisce anche un elemento di novità in ambito religioso giudaico:
quello che in termini teologici verrà denominata successivamente inhabitatio10. Infatti se a
livello religioso questo concetto è nuovo, in ambito filosofico è già presente. Basti pensare al
daimon di socratica memoria oppure al logos eracliteo o, più vicino alla predicazione paolina, al
logos della scuola stoica. Allora è chiaro anche il motivo per cui lo Spirito diventa garanzia di
fondatezza della speranza: questa non è illusoria perché è data dalla Spirito che non
diversamente da quanto dimostrato in ambito filosofico, abita nell’uomo.
Sulla correlazione tra l’insegnamento paolino e la filosofia stoica si sono concentrati
molti studiosi11, infatti è nota la leggendaria corrispondenza epistolare tra Paolo e Seneca.
Appurata la falsa attribuzione delle epistole ai due autori, è significativo tuttavia che al
Cf. ILARIA RAMELLI, Aspetti degli sviluppi del rapporto fra stoicismo e cristianesimo in età imperiale. Stylos.
2003
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falsario del IV secolo non siano sfuggite le affinità tra i concetti presenti nella predicazione di
Paolo e la dottrina stoica. Ciò dimostra il tentativo successivo di coniugare la sapienza
cristiana con la scienza filosofica a partire dalla ricercata corrispondenza del messaggio di
Paolo con i suoi interlocutori. Infatti Girolamo che recepisce come vera la notizia della falsa
corrispondenza tra l’Apostolo e il filosofo, può vantarsi del fatto che il cristianesimo abbia una
solida radice culturale e affermare nel De viris illustribus:
«Celso, Porfirio, Giuliano, questi cani arrabbiati contro Cristo, così come i loro
seguaci che pensano che la Chiesa non abbia mai avuto oratori, filosofi e colti
dottori, sappiano quali uomini di valore l’hanno fondata, edificata, illustrata e
smettano le loro sommarie accuse di rozza semplicità contro la nostra fede»12.
Di nota stoica sono infatti rinvenibili: la concezione della conflagrazione finale del
mondo, l’importanza della libertà intesa come autarcheia, la preminenza dello Spirito sulla
carne, l’appartenenza a una medesima stirpe13. Senza dunque soffermarsi a lungo sulla
valenza stoica della predicazione paolina, è possibile affermare l’importanza della presenza,
non irrilevante per gli autori successivi che si approcciano ai temi della «vera philosophia», di
un sostrato culturale da cui attingere, elaborare, tramandare. L’intenzione di Paolo infatti è
quella di unificare il sapere quasi in una reductio alla sola vera sapienza come verrà teorizzato
secoli dopo.
La testimonianza di questo tentativo attuato nella direzione dell’unificazione del
sapere (tentativo passato alla storia come il grande fallimento della predicazione paolina)
trova posto nel racconto degli Atti, dove Paolo nell’Areopago rivolge il messaggio evangelico
ai sapienti ateniesi. Non è forse un caso che la tradizione medievale, invece, a partire da quel
tentativo fallito fa nascere la leggendaria figura dello Pseudo Dionigi?
12
13
GIROLAMO, De viris illustribus, Prologo
Cf. R. PENNA, Ma quanto stoicismo nei suoi scritti, 2009
13
τίς ἡμᾶς χωρίσει ἀπὸ τῆς ἀγάπης τοῦ Χριστοῦ; 14
πλήρωμα οὖν νόμου ἡ ἀγάπη.15
Ultima tappa del percorso virtuoso del cristiano si identifica con l’amore. Infatti, dalla fede per
mezzo della grazia il cristiano, superata la Legge, è reso giusto; per la speranza, annientato il
pericolo del binomio peccato/morte, è proiettato alla libertà e alla vita; con la carità trova una
compiuta unità nel ricongiungimento con Dio. Dunque si tratta non solo di ‘filosofia’ nel
significato originale del termine, cioè nel senso di ‘amore per la sapienza’, ma di amore per
quell’unico principio universale da cui tutto ha origine, per mezzo del quale tutto si riconcilia
e al quale tutto tende. È lo stesso Paolo che lo ricorda quando dice che tutte le cose provengono
da Lui, esistono in grazia di Lui, tendono a Lui (Rm 11,36), affermazione questa che non potrà
risultare insignificante agli occhi dei filosofi cristiani di scuola neoplatonica; è chiaro, infatti il
possibile collegamento a posteriori al processo di manenza, processione e conversione. La
conversione al principio, quindi avviene attraverso l’amore. Opposto a questo, nella teologia
paolina, è invece la separazione o la discriminazione: seppure, infatti, nulla possa separare
l’uomo dall’amore di Cristo (Rm 8,35), sono tuttavia elencati tutti i possibili impedimenti che
minacciano la consapevolezza da parte dell’uomo di tale amore (la tribolazione, l’angoscia, la
persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada). In particolare Paolo sente l’esigenza di
aggiungere che nessuna cosa creata può separare dall’amore di Dio, individuando evidentemente
nelle res create una gerarchia di realtà che man mano degradano allontanandosi da Lui: né
morte né vita, né Angeli né Potestà, né presente né futuro, né altezze né profondità (Rm 11,38).
Dunque risulta chiaro che l’opposto di ciò che attrae al principio (l’amore) è ciò che si
allontana da esso, che separa e che discrimina. Allora non può esserci discrimine tra Giudeo e
Greco (Rm 10,12)16 proprio in virtù di quel principio da cui la totalità prende parte. Qui risiede
la portata universale del cristianesimo predicato dall’Apostolo dei Gentili: la totalità a cui si
aspira è dettata dall’universalità da cui il messaggio deriva.
14
Chi ci separerà dall’amore di Cristo?
Quindi la pienezza della legge è l’amore.
16 A tal proposito si veda anche il passo della Lettera ai Galati 3,28.
15
14
Due sono i termini utilizzati per indicare l’amore: ἔλεος (pietà, misericordia) e ἀγάπη (amore
fraterno, carità); il primo è l’amore che viene da Dio, il secondo è l’amore scambiato tra gli
uomini. Questi due termini accomunati dalla valenza semantica dell’amore come
ricongiungimento totalizzante, si differenziano solo rispetto a colui dal quale esso proviene.
Tale distinzione diventa importante per ben comprendere il versetto seguente: “ha rinchiuso
tutti nella disobbedienza, per usare misericordia (ἐλεήσῃ) a tutti” (Rm 11,32). Se non c’è
discrimine nel peccato è perché non ci sia discrimine neanche nella misericordia che deriva,
come detto, da Dio, principio universale di ogni cosa. Come la misericordia è relazione
d’amore di Dio per l’uomo così l’uomo torna a Dio attraverso l’amore; è evidente allora anche
l’importanza dell’amore tra gli uomini: ricomporre quell’unità per poter convergere all’unico
principio e poter identificarsi con esso. È una concezione del tutto mistica quella che Paolo
presenta: l’immedesimazione dell’uomo con Cristo, del soggetto amante con l’amato e
viceversa dell’amato con l’amante; ma se ciò è reso possibile, è grazie all’unità degli uomini
che formano per l’appunto un solo corpo, lo stesso di Cristo (Rm 12,5). Dunque quella stessa
universalità ricercata a livello gnoseologico si compie massimamente con l’attuazione etica del
precetto di amore. Se però da un lato l’amore comporta la concordia al fine di rendere
possibile il compimento di conversione all’unico principio, la discordia è mossa dalla
cupidigia, che è l’interesse particolare di ciascuno e che inevitabilmente discrimina, divide,
disintegra la comunità di cristiani (Rm 16,19). Per questo motivo i precetti dell’amore fraterno
mirano alla compartecipazione dei sentimenti fraterni: prendere parte alla gioia di chi gioisce, al
pianto di chi piange […], gli stessi pensieri e sollecitudini (Rm 12, 15-16) fino a costituire il corpo
mistico della Chiesa. Paolo nella Lettera ai Filippesi (2, 5) giungerà a incitare il cristiano ad
assumere gli stessi sentimenti di Cristo: è chiaro allora che l’agape si trasforma nella
misericordia e la misericordia in agape perché si possa compiere perfettamente l’unione
mistica dell’uomo con Dio. Avere gli stessi sentimenti di Gesù Cristo significa assumere
l’habitus, l’hexis di Dio. Per questo motivo l’invito di Paolo a rivestirsi del Signore Gesù Cristo
(Rm 13,14) acquisisce una valenza etica, cioè fonda la precettistica morale indicando il
prototipo da seguire. Quindi al paradigma gnoseologico segue un paradigma etico non
scindibile dal primo. Sarebbe un percorso imperfetto quello che si fermerebbe al dato
conoscitivo; da ciò deriva che la compiutezza della Legge è l’amore. Dunque non basta essere
15
dotti, non è sufficiente conoscere la legge perché il cristiano possa realizzare la sua natura, ma
è necessario l’esercizio delle virtù. I cristiani troveranno in Paolo il tema corrispondente a
quello filosofico di entelechia, ovvero di massima realizzazione, di perfezione della natura che,
nelle alternanti fasi del divenire nel passaggio di potenza in atto, raggiunge la sua estrema
compiutezza. Ricorrente nella tradizione filosofica cristiana è infatti a tal proposito il rinvio al
passo paolino in cui si tratta della perfezione della natura dell’uomo:
fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di
Dio, all’uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo,
affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati qua e là da ogni soffiar
di dottrine17
Qui la prova del fatto che la conoscenza può aspirare alla compiutezza se si ricapitola
in un solo principio per il quale essa ritrova la sua unitaria origine annullando la dispersione
della pluralità di dottrine. Tale unità tuttavia non può realizzarsi pienamente se non attraverso
l’atto di quella virtus (o potenzialità) per eccellenza che è l’amore: “vivendo la verità
nell’amore, cresciamo sotto ogni aspetto in colui che è il Capo, Cristo, dal quale tutto il corpo,
reso compatto e unito […] riceve incremento, edificandosi nell’amore” (Ef 4,15-16). L’entelechia
dunque va ricercata nell’esercizio di una virtus performante che si pone al termine ultimo del
percorso etico proprio perché è quella più prossima alla perfezione. Allora è anche chiaro il
motivo per cui la compiutezza della Legge è l’amore (Rm 13, 10) e il culmine della legge è Cristo (Rm
10,4): non è contraddittorio ma è una reductio ad unum, è l’acme di un processo di compimento.
Alla luce di ciò si può comprendere anche la preminenza dell’amore nella teologia paolina che
emerge nei versetti della Prima lettera ai Corinzi, conosciuti nel loro insieme con il nome di Inno
alla carità; anche qui Paolo parla di perfezione e di conoscenza; è chiaro il collegamento tra
carità, perfezione e conoscenza (conoscerò perfettamente come perfettamente sono conosciuto18):
l’uomo solo ricongiungendosi per amore a Cristo potrà conoscere come Cristo.
La carità inoltre è l’unica virtù imperitura (I Cor 13,8) perché è da, per e in Cristo, non
trovando radice su tradizioni umane o sullo studio degli elementi del mondo, come invece fa
la philìa di chi ama la filosofia, fatuo inganno (Col 2,8), ma la sua stessa natura divinizza chi la
pratica.
17
18
Lettera agli Efesini 4, 13-14
Prima lettera ai Corinzi, 12
16
Ἀγνώστῳ θεῷ19
Un fatuo inganno, la filosofia, che tuttavia può rendersi utile come precorrimento alla
fede se si considera la predicazione dell’Apostolo dei Gentili ad Atene nell’Areopago.
Emblematico è il riferimento al poeta e filosofo Arato di Soli. Paolo consapevole degli interessi
del pubblico ateniese, non indugia a servirsi della filosofia e condivide i punti comuni, quelli
più incisivi, tra lo stoicismo e il cristianesimo: 1) l’esistenza di un principio-Dio immateriale 2)
da cui tutto deriva; 3) a cui tutti gli uomini appartengono come partecipi di una stessa stirpe;
4) nel quale gli uomini vivono fino alla fine del mondo; per il quale tutto sussiste
provvidenzialmente. Nulla, fin qui, infatti fa presagire che sia stia parlando di qualcosa
diverso rispetto alla filosofia stoica. Ma la filosofia si arresta al dato naturale e non può
accogliere ciò che è contrario alla natura, come la resurrezione dai morti. Infatti gran parte
degli uditori, come testimonia l’autore degli Atti, si disinteressa al discorso di Paolo proprio
nel momento in cui egli inizia a predicare la resurrezione dai morti. Qui si prefigura il
rapporto della scientia con la sapientia: la conoscenza della verità ha il compito di offrire la
condivisione dell’universo conoscitivo a partire dal dato naturale, il superamento di tale
conoscenza si completa, si perfeziona con il dato rivelato. Tra i pagani e i cristiani, tra il dato
naturale e il dato rivelato si colloca nel mezzo il dio i-gnoto che da una parte si rende
conoscibile ai convertiti, dall’altro resta sconosciuto al resto dei filosofi uditori. È la
conoscenza di questo stesso Dio ignoto dunque la posta in gioco desiderata da filosofi e non,
da pagani e non. Il punto comune da cui Paolo può dar inizio alla sua predicazione è proprio
questo dio sconosciuto; infatti gli argomenti su cui può contare per la buona riuscita della
predicazione sono: la condanna dell’idolatria e l’appartenenza a una medesima stirpe.
Assertori dell’astrattezza di Dio, i filosofi non avrebbero potuto non concordare infatti con
l’apostolo che critica l’abbondanza di statue e idoli nella città d’Atene20. Inoltre la citazione del
passo dei Fenomeni di Arato di Soli avrebbe introdotto l’uditorio a un’argomentazione
familiare, cioè quella per cui il genere umano appartiene a una medesima stirpe. In particolare
19
20
Al Dio ignoto
Cf. RAFFAELE MACINA, Il rapporto fra pensiero greco e cristianesimo
17
il passo a cui fa riferimento era ben conosciuto perché costituiva parte del Proemio contenente
l’Inno a Zeus, composto sulla falsa riga di quello dello stoico Cleante. Anche il Dio di Arato è
padre amorevole degli uomini e loro benefattore, è principio e provvidenza che lega gli eventi
nelle serie inviolabile delle cause21.
È chiaro dunque che Paolo non svaluta il ruolo della filosofia: se essa resta un fatuo inganno è
perché non trova consolidamento nel dato rivelato. Lungi dal bistrattare l’intelligenza della
fede, l’apostolo dei Gentili apre un nuovo cammino percorso dai primi cristiani che si
accingono a elaborare la vera philosophia e a sviluppare l’intera tradizione teologica cristiana.
21
Cf. ARATO DI SOLI, Fenomeni, Prologo 1-18.
18
Conclusione
Il lavoro svolto ha voluto evidenziare i punti di congiunzione tra la scientia e la sapientia
nella Lettera ai Romani di Paolo di Tarso dove, come dimostrato, emerge più che in altri luoghi
e nei tempi più vicini all’origine dell’incipiente pensiero cristiano, la corrispondenza tra i temi
scientifici e quelli sapienziali. Dopo la presentazione del problema circa l’identità culturale
dell’Apostolo dei Gentili, si è tentato di sottolineare i passi suscettibili di interpretazioni
filosofiche congruenti alle correnti intellettuali del tempo e il possibile interesse speculativo
recepito dalla tradizione filosofica successiva che a partire dall’auctoritas dell’Apostolo ha
tentato di sviluppare l’unica vera philosophia. L’intera Lettera è stata analizzata alla luce di tre
punti cardine che percorrono l’opera e che coincidono con le tre virtù teologali: la fede, la
speranza e la carità. La fede è anticipazione conoscitiva della verità e in quanto tale permette
all’uomo di rendersi giusto conoscendo il vero rapporto tra l’ordine delle cose visibili con
l’ordine di quelle invisibili. La fede si propaga non per appartenenza esclusiva al giudaismo
ma in virtù della grazia che si diffonde universalmente e che mira alla giustificazione
dell’uomo. La speranza anticipazione della condizione della vita futura, invece, permette
all’uomo di operare nella libertà di uomini salvati, non più sottomessi alla Legge e alla morte.
L’uomo può vivere nella piena libertà perché grazie alla speranza può provare la virtù stessa
nel suo esercizio. La libertà è presentata come qualità interiore dettata dallo Spirito cioè da una
condizione interiore e invisibile a dispetto di una concezione esteriore, visibile e corporea.
Infine attraverso la carità a compimento del percorso c’è la riconduzione all’unico principio in
cui tutto universalmente si ricapitola perché permette l’unione e il ricongiungimento
dell’uomo, nelle vesti del corpo mistico della Chiesa, con Cristo, principio da cui, per cui e a
cui tutte le cose tendono.
Il rapporto di visibile/invisibile, la rectitudo gnoseologica, la libertà come esperienza interiore e
il percorso di ricongiungimento al principio sono stati i principali temi evidenziati come punti
d’interesse filosofico possibilmente recepiti dalla tradizione filosofica successiva come temi
affini e adatti allo sviluppo del pensiero cristiano nascente. Senza la pretesa di attribuire a
Paolo l’intenzionalità di apertura ai temi filosofici del suo tempo, tuttavia il lavoro svolto
tende a dimostrare quanto la filosofia per Paolo non sia solo un fatuo inganno se ad essa viene
19
fatto precedere l’insegnamento del dato rivelato su cui egli stesso per la tradizione successiva
ha autorità di testimonianza. Ciò caratterizzerà il pensiero della filosofia cristiana per molti
secoli, come denominatore comune agli autori cristiani, tanto da poter parlare di ‘paradigma
medievale’.
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