Hugo von Hofmannsthal
LA GRECIA *
Un viaggio in Grecia, tra quanti viaggi si possono intraprendere, è il più
spirituale. La curiosità dei sensi, che in fondo è il movente segreto di tanti altri
viaggi, qui non c’entra quasi affatto; la Grecia, anche prima che ne abbiamo
toccato il suolo, con nostra sorpresa ci accoglie con cose da cui il nostro pensiero
era lontano: un’aria inebriante, veramente orientale, fragrante di fiori d’aranci, di
gaggia, di lauro, di aromi.
Pellegrini dello spirito, non pensavamo che questi paesi potessero offrirci
altro che dei ricordi. Ci tarda di vedere ciò che ci ha mossi al viaggio; troppe anime
sono in noi, che ci accompagnano a questi luoghi famosi e a queste rovine di
templi. Ma appena tocchiamo col piede il suolo della Grecia, questa compagnia ci
abbandona. Finché la nostra nave costeggiava la Sicilia e la Magna Grecia,
sentivamo con noi lo spirito di Goethe; ma, scomparsa dalla vista la terra d’Italia,
esso si è dileguato. Ci accorgiamo nello stesso tempo che egli è un Romano; tra noi
e lui sta la grande testa della Giunone Ludovisi. Ci ricordiamo che egli non vide mai
un’opera della vera antichità classica, una scultura del V secolo a.C.: la serenità con
la quale egli e il Winckelmann s’immergevano nello studio dell’antico, per noi non
è che un momento nella storia dell’anima tedesca, e nulla più. Ma anche i grandi
eruditi del secolo scorso, il Burckhardt, il Bachofen, il Fustel de Coulanges, che ci
hanno rivelato un’antichità più oscura e più primitiva, d’un tratto ci appaiono
come una luce incerta e fioca. Essi senza dubbio furono incomparabili interpreti
dell’anima greca, che richiamarono in vita un mondo sepolto; ma qui non siamo
più tra i sepolcri, bensì avvolti da una luce sfolgorante, che essi non videro. Tutte
le loro visioni impallidiscono; non abbiamo più bisogno di loro. La prima
impressione del paesaggio è austera; non lascia campo a evocazioni, né fantastiche,
né storiche. È una terra arida, aspra, dalle linee fortemente espressive, quasi ostili,
come di un viso emaciato; ma è immersa in una luce che ci par di vedere per la
prima volta, quasi che i nostri occhi si siano aperti appena adesso: luce quanto mai
tagliente, e nello stesso tempo mitissima, che dà risalto a ogni minuzia, ma un
risalto delicato che fa battere più forte il cuore. Se è lecita l’espressione
paradossale, è una luce che avvolge gli oggetti in un velo che li illumina. Essa non è
paragonabile che allo spirito. In un intelletto sovrano le cose devono presentarsi
così, nitide, ma con linee dolci, disgiunte e pur collegate. Questa luce è audace e
giovanile. È il simbolo della giovinezza che penetra nell’intimo dell’anima. Finora
* H. Holdt-H. von Hofmannsthal, La Grecia. Architettura – paesaggio – vita popolare,
Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1923, pp. V-X (traduzione leggermente
modificata).
pensavamo che l’espressione più bella di ciò che non invecchia mai fosse l’acqua;
ma questa luce le è di molto superiore.
È la luce della Palestina, dell’Asia Minore, della Persia, dell’Egitto; ci fa
sentire l’unità della storia, che da millenni determina le nostre sorti. Troia, i
Diecimila di Senofonte, Cleopatra, la bizantina Teodora, ci appaiono come parti di
un’unica sinfonia. Le astuzie di Ulisse, l’ironia di Platone, lo scherzo di Aristofane
sono una cosa sola, e la trama di tale identità è la luce.
Ciò che vive in questa luce è realmente vivo. Così la intendevano i Greci;
partirsi da questa luce, diventare ombre, era il massimo dei mali, al quale non c’era
consolazione. «Meglio schiavo lassù, che Achille quaggiù» – è un concetto che
intende appieno solo chi ha visto la luce della Grecia. Da un colle vediamo sulla
pendice di fronte un paio di capre. Il loro arrampicarsi, il movimento delle teste
sono cose reali, e tuttavia sembrano delineati dal più geniale dei disegnatori: oltre
all’animalità, queste creature hanno un non so che di divino, che è dato dall’aria.
Una cima aguzza, qualche pino, un campo di frumento, un vecchio albero dalle
robuste radici che hanno spaccato la petraia; sono cose che vivono di vita propria,
non si confondono col rimanente, sebbene non siano isolate. Questa è la patria
dell’individuo; qui esso è nato, ma con un destino divino e sociale. Qui si può
vivere in una stupenda solitudine, ma si sente, come gli Dei quando vagavano a
loro arbitrio per il mondo, di non essere abbandonati. Questo pino, bello come
una colonna disegnata da Fidia, è un Dio, e piccoli Dei sono i fiori che splendono
e olezzano nei prati.
Qui è nato «l’uomo», come noi lo intendiamo, perché qui è nata la misura.
Tra una rovina di tempio, tra colonne e un frammento di timpano, e la quercia che
ivi presso frondeggia nel cielo, c’è una così bella proporzione, che ci pare quasi
un’armonia musicale, alla quale concorre anche il cielo, simile a una solida volta. Se
poi tra queste colonne appare un contadino, in cerca di un po’ d’ombra per la sua
merenda, o un pastore col suo cane, la scena raggiunge una magnificenza da cui ci
sentiamo esaltati, quasi sopraffatti. C’e qualche cosa di misterioso, di cui non
riusciamo a comprendere che la proporzione tra il corpo umano e l’architettura.
Dall’Acrocorinto appaiono alla vista due mari, con molte isole, la vetta
nevosa dell’Olimpo e i monti dell’Acaia; tutti questi elementi sono dalla luce
composti in un ordine così mirabile, che non si può paragonare che a una musica;
ma è qualche cosa di più. Quale insegnamento per il pensatore! Nulla di esagerato,
né di confuso; ogni cosa sta da sé nella sua originaria purezza, e nello stesso tempo
si collega a tutte le altre. Non si può che guardare, respirare quell’aria e godere la
gioia di vivere.
In questo paesaggio è difficile accorgersi subito se una figura è vicina o
lontana. La luce, pur dando evidenza alle cose, le spiritualizza… Ma l’effetto di un
gesto, a distanza di centocinquanta passi, è straordinario; con la mano un vetturale
fa un cenno per chiamare un pastore, che appare tra le rocce con un otre pieno di
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acqua. È meraviglioso pensare che nella battaglia di Salamina i Navarchi, dal loro
ponte di comando, non potevano comandare che a gesti, perché nel fragore del
combattimento la voce non sarebbe stata intesa; gli occhi dei Greci, in questa
atmosfera d’argento vibrante, non perdevano di vista la mano di Temistocle,
finché verso sera la sorte del mondo fu decisa.
Gli Dei e le Dee di Omero escono sempre dall’aria luminosa; cosa che
appare naturalissima a chi abbia visto questa luce. L’immaginazione dei
settentrionali è stata educata dalla mezza luce; curiosi di conoscere il mistero dello
spazio, non seppero trovare altro mezzo che quello inventato da Rembrandt: i
contrasti di ombra e di luce. Ma qui c’è un arcano nella pienezza della luce; essa
avvolge le forme, e, nello stesso tempo che ce le presenta nitidissime, le avvolge di
mistero. Non sono che alberi e colonne, al più le mutile cariatidi dell’Eretteo, per
metà figure femminili e per metà colonne; tuttavia la loro bellezza è irresistibile.
Ma gli Dei e le Dee erano statue di carne e di sangue; sotto la loro fronte massiccia
brillava la luce degli occhi; in questa atmosfera, che avvolge ogni oggetto, persino
un semplice ramo fiorito, in un velo che gli dà un non so che di venerabile,
immaginiamo con quale animo Paride stesse in contemplazione delle tre Dee che
gli stavano dinanzi, superbe e ardenti di mutua gelosia.
Che situazione drammatica! Come un diamante, che nessun peso può
schiacciare, esso contiene in germe tutto l’immane e oscuro fato dell’Iliade. Sì,
questi miti sono veri, ma in modo diverso da quello che pensavamo. Ci erano cari
come prodotti di un’immaginazione in sommo grado armonica; ma c’è in esso,
assai più che non credessimo, alcunché di magico, che scaturisce direttamente dalla
realtà e opera sull’uomo. Prima che il primo raggio del sole sfiori la cima del
Parnaso c’e sul culmine una tenue striscia di roseo, il vero colore carnoso della
rosa, una striscia di appena due dita, quasi due dita di una bella donna appoggiata
sul bordo di una nave, e di una movenza leggera come di una mano femminile. Ci
vuole meno fantasia a figurarsi l’Aurora dalle rosee dita, leggera come una colomba
spiccante il volo verso occidente, che a immaginare una siepe fiorita nei
lunghissimi e semioscuri vesperi del Settentrione.
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Ma il fine del nostro viaggio non è la ricerca del pittoresco; noi vogliamo
rivivere uno dei momenti supremi della storia umana, toccare con mano il
santuario, partecipare a solennità di un’austera bellezza che raggiunge il sublime.
Ciò che, affaticandoci su Eschilo, abbiamo più indovinato che inteso a fondo,
vogliamo sentirlo immediatamente coi nostri sensi corporei. Siamo impazienti
d’indugio, e in questa impazienza si assommano i desideri delle generazioni che ci
hanno preceduto; non è forse la grande anima dello Schiller che rivive in noi? La
sua visione dell’antichità, la sua ardente aspirazione a trovare in alto, in qualche
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parte della Terra, quell’idea del bello che gli stava in mente, era ben diversa da
quella del volgo dei letterati, perché egli aveva ferma fede in ciò che scriveva, e il
suo genio abbracciava il presente e l’avvenire.
Non è cosa assurda riconoscere sul suolo greco le tracce materiali di una
sublimità spirituale. In questa luce lo spirituale ha del corporeo, e viceversa, più
che in qualsiasi altro paese del mondo. Se sotto questo cielo leggiamo un’ode di
Pindaro che glorifica il pugilato, in questo avventarsi di corpo contro corpo non
sentiamo che la bellezza poetica. Ai giochi olimpici, Atene, di cui crediamo di
saper tanto, e Sparta, di cui sappiamo così poco, erano l’una accanto all’altra. Noi
comprendiamo che l’una e l’altra erano elleniche, e che nulla era più ellenico che il
lottare sino alla morte di uno dei due contendenti. La pallida concezione del
Winckelmann, che del bello fa quasi una sola cosa col leggiadro, concezione posta
in atto dal Canova, ci aveva fatto dimenticare che la bellezza è strettamente
congiunta alla forza, e la forza a tutto ciò che la vita ha di fiero e terribile.
Ma qui davanti a queste grandiose rovine ci ricordiamo che i fratelli di
Elena, Castore e Polluce, erano predoni, rapitori di donne, e fortissimi pugilatori;
Antigone ci pare una sorella di Achille: il piglio risoluto che assume davanti al re
Creonte rivela non minor forza primitiva dell’ostinazione del figlio di Teti, che
rimane nella sua tenda a dispetto di Agamennone e dei cento altri minori sovrani.
Gli efebi senza nome, le figure quasi mascoline di sacerdotesse, ridate alla luce dai
recenti scavi, sono creature stupende, ma soprattutto forti. C’è in esse qualche cosa
di impenetrabile, di meno comprensibile che nelle più belle creazioni della scultura
gotica; ma sono anche più complete; se anche non le comprendiamo appieno, non
è men vero che non esiste altra creazione dell’arte che ci scuota così fortemente i
sensi e lo spirito. La completezza è l’ultima parola della civiltà in cui siamo radicati;
ma qui non c’è Oriente soltanto, né soltanto Occidente; e noi apparteniamo all’uno
e all’altro di questi due mondi.
Forse noi guardiamo queste statue di marmo con un occhio ancora
romantico; forse aggiungiamo loro troppo della nostra coscienza, della nostra
anima. Vogliamo evitare con ogni studio di confondere tra loro due mondi
infinitamente diversi. Ma al solo guardare uno di questi frammenti, un braccio
colla sua mano, una spalla seminuda, il ginocchio di una dea sotto le pieghe della
veste, senza volerlo siamo tratti a completarlo. Questa mano, bella e forte senza
ostentazione né di forza né di bellezza, pare fatta per giustificare il detto di
Anassagora: l’uomo è il più sapiente degli animali, perché possiede le mani. Sono
organi del corpo, sono strumenti, ma di valore spirituale. non minore che la parola.
Guardando queste membra, nobili, agili, vigorose, è spontaneo il confronto con la
bellezza del greco, come lingua della filosofia. Sia nel dominio dello spirito che in
quello dei sensi troviamo vestigia che ci sono di guida sino al cuore dell’Ellenismo.
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Il paesaggio greco, quale oggi appare, può forse produrre una delusione,
ma solo inizialmente. La Grecia moderna è un paese disboscato e presenta una
certa durezza di linee, che la luce ammorbidisce alquanto. Invano cerchiamo le
«colline ondulate», che il Fallmerayer dice di aver visto dalla spiaggia, e i folti
boschi di castagni, querce e platani che egli vide dall’alto di un monte. Ma queste
colline sono intorno a Trebisonda; i boschi li vide dal Monte Athos; oggi ancora
esistono nella penisola di Volo, per secoli proprietà riservata della Sultana Madre, i
celebri castagneti; ma siamo fuori della Grecia propriamente detta. L’Attica aveva
ancora un unico bosco; non molto grande, che fu incendiato durante la guerra per
scacciarne il re, che lì aveva la sua villa; la «frondosa Beozia» è oggi una bassura
sassosa, con qualche campicello di frumento e qualche magro oliveto. Ma questo
arido e aspro paesaggio ha in sé indimenticabili elementi di bellezza.
Io non ho visitato il territorio di Sparta, e solo da lontano ho veduto
splendere le cime del Taigeto; ma ho letto più volte, a intervalli di anni, le pagine di
Maurice Barrès sull’argomento, le più belle del suo bel libro Viaggio a Sparta. Sono
il più bell’esempio di descrizione entusiastica, ma nei limiti della ragione. Esse ci
fanno conoscere, insieme al monte, l’anima dell’uomo non mediocre che lo
contempla. A questo politico, a questo cerebrale e visionario le rupi e le voragini
del Taigeto parlano un linguaggio fatto per lui. La prima impressione che ne riceve
non ha nulla di vago né di sentimentale: il Taigeto, al prima vederlo, gli agita
l’anima, come al giovane Achille, nascosto in Sciro tra le donne, la vista improvvisa
delle armi recate da Ulisse.
Il Taigeto si innalza sopra una base poderosa, che presenta alla vista forti
ombre, prodotte da avvallamenti selvosi sovrastati da irte rupi a forma di bastioni.
Le propaggini di questa base avanzano nella pianura; i villaggi sparsi sopra di esse
paiono eroi che vi si siano adagiati per morire. Il secondo piano è costituito da
formidabili rocce verticali, sopra le quali comincia la regione delle nevi, e in ultimo
una serie di vette aguzze di una meravigliosa varietà di forma. Quanta forza e
quanta grandiosità in questo solenne adergersi del monte sopra la pianura, quanto
impeto nelle sue sette vette nevose che si profilano sull’azzurro del cielo!
Abbiamo qui compendiato, più che tradotto, la descrizione del Barrès, alla
quale sarebbe temerario qualsiasi aggiunta o commento; egli ha saputo esprimere le
sue sensazioni e definire il carattere eroico del paesaggio greco senza cadere nel
romantico; le pendici del Taigeto sono il luogo dove la fantasia del Goethe
immagina le nozze di Elena e di Faust. Ma c’è pure in questo paesaggio un aspetto
più mite; chi ha viaggiato in Grecia può averlo visto più di una volta. Presento qui
di seguito qualche mio ricordo personale di impressioni vespertine provate
nell’arrivare a un convento solitario.
Avevamo cavalcato nove o dieci ore per una pianura squallida e sassosa,
senza incontrare che rari pastori colle loro pecore o qualche tartaruga che, uscendo
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da un cespuglio, ci attraversava la strada. Verso sera ci apparve in lontananza un
villaggio, ma proseguimmo il cammino. Si cominciavano a sentire voci di armenti,
da presso e da lontano; i nostri muli affrettavano il passo aspirando l’aria che
spirava dalla valle, la quale veniva restringendosi: odore di acacie, di fragole, di erbe
aromatiche. Si sentiva che i monti azzurrini presto ci avrebbero chiusa la strada e
che questa valle era la fine del nostro viaggio. Continuammo a cavalcare prima tra
due siepi di rose selvatiche; poi tra muriccioli, dietro i quali vi erano dei frutteti; un
uomo con un potatoio in mano era immerso nelle rose sino al petto. Il convento
doveva essere vicinissimo ed eravamo meravigliati di non vederlo. A un tratto ci
apparve nel muro a sinistra una porticina che tosto si aprì. Stava sulla soglia un
monaco dalla barba bionda, d’un taglio simile a quello dei ritratti bizantini, dal
nano aquilino, dall’occhio inquieto. Ci salutò inchinandosi e allargando le braccia.
Smontati da cavallo, egli ci precedette e, facendoci passare per un corridoio, ci
condusse in una camera. Ci accorgemmo allora di essere proprio nel mezzo del
convento e che questo era quasi una cosa sola col monte; la nostra camera, che dal
lato del giardino era a terreno, dal lato opposto dava sul chiostro ed era al secondo
piano. Uno dei lati era chiuso dalla Chiesa, di cui i vecchi muri rossicci
splendevano della luce vespertina; gli altri tre erano formati da casette come quella
in cui eravamo, con balconcini colorati di azzurro, di giallo e di verdognolo. Tutto
era quiete e serenità; in basso mormorava una fontana. I monaci, in lunghe vesti
nere, con alti berrettoni neri, facce di un pallido giallognolo incorniciate da barbe
nerissime, passeggiavano nel cortile, entravano in Chiesa, stavano appoggiati al
balcone o scendevano da una scala scoperta. In Chiesa cominciò il canto dei salmi
a mezza voce su un’antica melodia. Le voci salivano e scendevano, senza fine, né
tristi né liete; un non so che di solenne, che pareva aver avuto principio in tempi
remotissimi e dover durare per l’eternità; da una finestra aperta si sentiva nel
cortile l’accompagnamento di voci di fanciulli. Eravamo nel presente e assistevamo
ai riti della Chiesa Orientale. Ma i gesti, la dignità degli atteggiamenti, le inflessioni
della voce, il ritmo degli inchini, tutto ciò era bizantino e più antico di Bisanzio. Si
udiva ancora qualche strido di cicale, che cedeva allo squittire della civetta. Dalla
parte dove appariva la stella di Venere, dietro altri monti oscuri si indovinava il
Parnaso: laggiù era Delfi. Mai le forme esterne di quel mondo estinto ci erano
parse tanto lontane e, nello stesso tempo, tanto vicine; e quando da una finestrella
apparve la testa di un chierichetto, un bello e vivace ragazzo, di quelli che poco
prima avevano cantato, fu per noi cosa naturale trasportarci con l’immaginazione
in altri secoli – da queste cerimonie per noi misteriose, sebbene fossimo stati ad
esse presenti –, rievocare un altro culto e vedere in quel ragazzo vivo e parlante il
giovinetto Jone di Sofocle.
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