LUCIA BASTIANINI
Menzogna e verità nella Storia della colonna infame
In
Letteratura e Potere/Poteri
Atti del XXIV Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti)
Catania, 23-25 settembre 2021
a cura di Andrea Manganaro, Giuseppe Traina, Carmelo Tramontana
Roma, Adi editore 2023
Isbn: 9788890790584
Come citare:
https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/letteratura-e-potere
[data consultazione: gg/mm/aaaa]
Letteratura e Potere/Poteri
© Adi editore 2023
LUCIA BASTIANINI
Menzogna e verità nella Storia della colonna infame *
Il presente contributo cerca di indagare la relazione tra la menzogna e la verità nella Storia della colonna infame; o meglio
cerca di esplicitare quale sia la verità ultima che Manzoni vuole additare alla riflessione e quali menzognere verità siano indicate
negli atti processuali da cui la narrazione prende il via. Tale ricerca in Manzoni non può mai essere scissa da quella della giustizia,
pertanto la profonda ingiustizia, messa in atto dai giudici nel processo al Piazza e al Mora, sarà luogo di riflessione per il lettore
chiamato a comprendere profondamente la loro responsabilità nell’occultamento della verità che li porterà a emettere sentenze
aberranti.
Il legame tra la ricerca della giustizia e le opere letterarie è ampio e articolato, ed è proprio nella
dimensione di continua recherche di sensi e di significati degli accadimenti e dei vocaboli che è possibile
stabilire il loro profondo nesso; del resto «lo scrittore non fa altro che lavorare sulle parole per rendere
loro giustizia, […] e, in tal modo, costruisce un testo il cui senso ultimo va oltre il valore letterale delle
parole di cui pure si serve, per aprirsi verso una dimensione ulteriore, che diventa rivelativa dell’essere
a sé stesso».1 Talvolta questo percorso viene intrapreso dagli scrittori anche attraverso opere in cui
della giustizia palesemente si discute e sull’ingiustizia si riflette.
È il caso di Manzoni che, fin dal Conte di Carmagnola, sua prima opera tragica,2 fu interessato a
esplorare la crudeltà delle azioni non guidate dalla rettitudine e i devastanti effetti che la mancanza di
ragione nei giudizi provoca nella comunità civile. Coloro, che dovrebbero affermare l’equità e
l’onestà, si macchiano spesso dell’atroce delitto di condannare a morte vittime incolpevoli. La scena
dell’approssimarsi dell’innocente sul patibolo con cui si conclude la tragedia3 chiude anche la
narrazione degli eventi portanti della Storia della colonna infame4. Tale tema, del resto, è profondamente
legato a quello più ampio della giustizia che viene largamente approfondito anche nel romanzo, 5 per
divenire, per così dire, dominante, proprio nella Colonna.
Il dramma della prima tragedia ruota attorno all’ingiusta e crudele condanna del protagonista, 6
così come nell’altra, anche Adelchi e Ermengarda subiscono la violenza delle inique azioni degli
uomini e vengono condannati a una morte ingiusta. La trilogia sarebbe stata conclusa dall’ultima
fatica: Spartaco, anch’egli vittima giusta (portatore di valori positivi) immolata dalla crudeltà degli
uomini, se la ricerca di nuove modalità espressive e la tensione per l’inizio del Fermo e Lucia non
fossero venute a modificare i piani del tragediografo, ormai tutto teso a diventare romanziere.7
Ma è proprio nella Colonna che l’autore ci chiamerà ad essere giudici di ingiuste condanne, in un
mirabolante intreccio di menzogna e verità (così come si evince dagli atti processuali), che, dando
luogo a profonde iniquità, si alterneranno nelle parole del popolo, dei giudici e degli imputati; il lettore
non sarà comunque lasciato solo, ma accompagnato dal commento dell’autore nella difficile opera di
discernimento.
In questo testo, come nel Saggio sopra la rivoluzione francese sono ravvisabili due tipi di discorso:
«quello narrativo funzionale all’esposizione dei fatti; e quello argomentativo, funzionale alla
dimostrazione […] perché il racconto non è mai neutro, ma sempre orientato alla persuasione, e vi si
insinuano elementi valutativi […] Così c’è continua infiltrazione del racconto nel commento e
soprattutto -che più interessa- del commento nel racconto»;8 questa mescidanza dà luogo all’opera
letteraria, che non può essere mai, per sua natura, una semplice riproduzione o trascrizione di
documenti storici, in quanto l’atto narrativo è sempre un atto articolato in cui si alternano spesso
nelle esposizioni sia elementi fittizi che reali e riflessivi9 e talvolta la distinzione tra l’uno e l’altro
appare difficile da scovare e non sempre necessaria: «Nelle cronache della mia parentela fanno a volte
la loro comparsa tali personaggi romanzeschi, mai esistiti altrove che nella nostra invenzione, che
pure ci accompagnano da un’età all’altra».10
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È necessario, quindi, accostarsi al testo per cercarvi una più profonda verità anche su questioni
che talvolta sembrano ancipiti 11 perché in esso ha luogo la complessità che «non va negata, ma
ordinata attraverso la scrittura, quindi fatta avvio e materia di un percorso di attribuzione e di senso»; 12
il lettore verrà dunque orientato nella sua ricerca del vero perché questo non coincide con la semplice
veridicità delle narrazioni, ma le supera «in un percorso progredente di salvezza».13
Per le datazioni e gli sviluppi dalla prima Colonna, che nasce inizialmente come un capitolo del
Fermo e Lucia, al testo definitivo che possiamo leggere nella quarantana, rimandiamo al recente
contributo di Raboni da cui apprendiamo che la prima Colonna aveva indubbiamente un impianto
romanzesco, e i protagonisti somigliavano molto a quelli ficti del romanzo, con la funzione di portare
al culmine il pathos del componimento narrativo.14 Il tema affrontato appare indubbiamente
interessante all’autore, anche per l’imponente documentazione storica; tuttavia, egli non dedica a
questo un particolare spazio nella ventisettana. L’edizione princeps gli appariva, così, probabilmente
mancante della parte finale, quella capace di dare luce a tutto;15 anche per questo motivo si ritenne
necessario ristampare l’opera che doveva apparire come un trittico di cui la Colonna era la parte finale
(continuità sottolineata anche dall’apparato grafico). Anche questo scritto pubblicato nell’edizione
della quarantana a chiusura del volume deve essere dunque inteso come un testo narrativo (e non la
trascrizione di un documento storico sic et simpliciter) in quanto costituisce la fine di un lungo processo,
iniziato con l’Introduzione dell’anonimo e proseguito con i 38 capitoli 16; dovrà essere, così, giudicato
secondo i criteri dell’arte il cui fine è quello di additare la verità, dando luogo a quel verosimile che è
per sempre. 17
Nel romanzo l’autore aveva già voluto sottolineare, con ironia, la difficoltà che la giustizia potesse
essere esercitata nei tribunali. Così si esprime Azzecca-garbugli (già nel nome parodia del diritto):
«Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato
bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle» PS III 32. Nel capitolo successivo la
nobile funzione del diritto e della giustizia (base e fondamento dei popoli) è asservita a risolvere
questioni frivole e sciocche elaborando alchimie inutili e dannose; l’esposizione della futile
disquisizione sul diritto di passo tra il nobile e Ludovico porta il nostro autore ad esclamare: «(dove
mai si va a ficcare il diritto!)» PS IV 21.
Nella Colonna Manzoni esplorala questione in modo più approfondito per portare il lettore ad
un’ulteriore meditazione; gli atti processuali di una triste storia vera in sé, ma anche capace di additare
l’ultimo vero18 offrivano la materia necessaria per la narrazione. Anche la metodologia usata per
guidare alla riflessione nella Colonna è diversa da quella posta in atto nelle tragedie: 19 seguendo le
indicazioni presentate nella Lettre,20 Manzoni va, nelle opere tragiche, a ricostruire i fatti storici per
poter meglio esplorare il cuore dell’uomo dove la storia tace, e chiama il lettore a essere giudice delle
azioni seguendo i ragionamenti dei personaggi.21 Nella Colonna questa impostazione subisce
un’importante revisione come viene ben spiegato nel Romanzo storico:22 non si tratta più, solamente, di
dare vita a personaggi verosimili (ovvero storici che, grazie all’intervento dell’arte, hanno
l’opportunità di esprimere la propria interiorità), ma di far comprendere al lettore la sua (dell’autore)
idea di giustizia e verità attraverso, per lo più, la sola narrazione di situazioni e personaggi offerti dalla
storia. Può essere chiarificatore il confronto tra queste due scene: la prima è tratta dal Carmagnola: il
conte, ingiustamente condannato, proclama la sua innocenza:
Or sono
Contento. E quindi, se tu riedi al campo,
Saluta i miei fratelli, e di lor ch’io
Moio innocente: testimon tu fosti
Dell’opre mie, de’ miei pensieri, e il sai.
Dì lor che il brando io non macchiai con l’onta
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D’un tradimento: io nol macchiai: son io
Tradito.
(Carmagnola,scena V)
Nella seconda, Gaspare Migliavacca, anch’egli iniquamente portato al patibolo proclama la sua
innocenza, ma allo scrittore sono le stesse fonti storiche a fornire le parole del condannato:
Minacciatagli la tortura disse: V. S. facci quello che vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, nè mai condannarò
l’anima mia; et è molto meglio che patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell’inferno a patire eternamente. (SCI
capitolo VI 6) 23
I concetti espressi sono simili, ma Manzoni non dà voce al dolore del protagonista, facendosene
interprete, tramite la lingua letteraria, ma offre al lettore la trascrizione di un vero storico
(assolutamente credibile) che è esso stesso epifania di un altro vero.
Ed è proprio seguendo puntualmente gli atti processuali del Padilla che può essere messo a fuoco
l’intreccio tra verità e menzogna ed essere offerta un’analisi più circostanziata e approfondita che va
a palesare lo scricchiolio degli ingranaggi di un’iniqua giustizia priva di ragione. In questo triste
scenario di falsità e mediocrità, dove anche i giudici appaiono meschini, non solo gli avvocati, quanto
viene narrato apparirebbe inverosimile se incontrato in un romanzo,24 ovvero in una narrazione
basata sul ‘dover essere’: ma un’idea di uomo diviene verosimile e credibile solo se si riveste di
immagini tratte dal vero storico, senza deformazioni.
Pertanto nel buio della storia Manzoni si inoltra, si confronta: «non si limita a discuterne: lo
incorpora, in forma di resoconto degli strazi di tortura; di testimonianze, verbali processuali, sentenze
di giureconsulti. Non sosta sull’orlo dell’abisso, vi si cala, e la pagina fa spazio all’orrore, all’errore, al
timore».25 È proprio in questo mondo squallido dove la giustizia e la verità sembrano essere morte
per sempre che il lettore deve essere guidato, grazie anche alla struttura sintattica dei ragionamenti,
all’ammirazione delle scene finali dove è possibile contemplare gli exempla virtutis: la sincera
contrizione di Piazza e Mora e il sacrificio di Gaspare Migliavacca.
Manzoni addita, in primo luogo, la tracotante certezza dei giudici e il testo mostra già così la
sua profondità, che va oltre una semplice condanna del loro operato: «si dice, di solito, che la Storia
della colonna infame è un atto di accusa contro i giudici milanesi. Si tratta di una lettura non sbagliata,
ma fortemente semplificatoria».26 Nelle tristi vicende che si andranno a raccontare si cerca di
descrivere piuttosto come il soddisfacimento della perversione delle passioni ha fatto sì che coloro
che erano chiamati al giudizio si sono prima creati un’idea dei fatti, di poi si è stabilita una possibile
forma della verosimiglianza e a questa si è tentato di conformare la veridicità degli avvenimenti,
contro ogni evidenza. Il lettore sarà così chiamato a districarsi in questo paradosso: ciò che i giudici
chiederanno ai testimoni di raccontare come verosimile non è vero e ciò che era realmente accaduto,
ed è narrato nei loro racconti, viene ritenuto mendace perché, per l’idea preconcetta dei magistrati,
inverisimile. Viene ribadito, ad esempio, con una certa insistenza soprattutto al termine del capitolo
primo, che la testimonianza del Mora non era ritenuta verosimile e pertanto era menzognera:
E anche qui gli fu detto: non è verisimile. Terribile parola: per intender l'importanza della quale, son
necessarie alcune osservazioni generali, che pur troppo non potranno esser brevissime, sulla pratica di
que' tempi, ne' giudizi criminali. (SCI I 35)
Il capitolo secondo della Colonna è costituito, appunto, da una lunga digressione scritta per
permettere al lettore di capire meglio i termini della questione, legata proprio al concetto di verosimile
e inverosimile, sui quali si dipanerà la storia. Ai giudici secondo la giurisprudenza è affidato il potere
di stabilire «“se un indizio sia verosimile e probabile”» (SCI II 50) tenendo conto che «“l’arbitrio non
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si deve intender libero e assoluto, ma legato dal diritto e dall’equità”» (SCI II54).27 Dunque, chi
condannò il Mora e il Piazza lo fece di suo arbitrio, non per una manchevole giurisprudenza; il lettore
potrà solo rammaricarsi con l’autore che le giuste indicazioni fornite dai giuristi non siano state seguite
ed esclamare: «fossero stati ubbiditi!» (SCI II 58).
La ripresa della narrazione è affidata al capitolo terzo dove ben si spiega perché i giudici ritennero
falsa la testimonianza del Piazza e in seguito quella del Mora in quanto i due soggetti dovevano
risultare necessariamente colpevoli per soddisfare il delirio della folla,28 al di là di ogni ragionevolezza;
potevano, inoltre, essere sottoposti a tortura solamente provando la mendacia delle loro affermazioni.
In questa triste storia di tortura illegale (Piazza e Mora) e di illegale impunità (Piazza) 29 che si
propaga, con l’ingresso di altri personaggi, fino al capitolo sesto, siamo più volte invitati a prendere
parte e a formulare un giudizio.
Per offrire ulteriori strumenti critici, Manzoni si sofferma anche sulla nascita delle favole create
dagli stessi condannati, su istigazione dei giudici, per suffragare una verità posticcia:
Volevan dal Piazza una storia d'unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle circostanze così recenti
gli serviron di materia per comporne una [favola]: se si può chiamar comporre l'attaccare a molte
circostanze reali un'invenzione incompatibile con esse. (SCI III 47)
Queste «favole»30 (esemplificative delle molte contenute nei documenti storici) presenti nella
Colonna31 sembrano strettamente connesse a far riflettere sul pericolo di aderire in modo acritico alla
veridicità delle narrazioni dando luogo a un errore di valutazione che può portare a ingiuste condanne;
del resto, neppure il popolo, che spesso alle favole crede, al pari dei giudici, degli avvocati e anche
degli storici, è depositario di nessuna verità e le riflessioni sulla sua stupidità32 sono ricorrenti sia in
tutto il romanzo, in particolare nei capitoli che trattano l’assalto ai forni, sia nella Colonna, dovei giudici
sembrano, appunto, preoccupati di trovare velocemente i colpevoli per soddisfare il furore popolare:
tema antico e prettamente evangelico, come è già stato osservato, se pensiamo al ruolo della folla
nella Passione di Cristo narrata proprio nei Vangeli. Il lettore prova, alla fine, su di sé tutto il dolore
provocato dalle calunnie e spera fino in fondo nel riscatto degli innocenti
Dunque, comincia a palesarsi il senso di quest’opera che fornisce, come ogni testo narrativo,
molteplici spunti alle riflessioni morali, mentre vengono descritte le azioni e i vari personaggi;
Giangiacomo Mora viene, ad esempio, presentato con indicazioni essenziali: «barbiero» con moglie e
figli; ma da subito viene indicata la sua attanza scenica: «infelice»; l’autore suggerisce di poi un’indagine
dei suoi pensieri:
Ma in quell'ore (direm noi di riposo?) il sentimento dell'innocenza, l'orror del supplizio, il pensiero della
moglie, de' figli, avevan forse data al povero Mora la speranza d'esser più forte contro nuovi tormenti;
e rispose: Signor no, che non ho cosa d'aggiongerui, et ho più presto cosa da sminuire. (SCI IV 87)33
Verrà poi delineato, sia nel Mora che nel Piazza, il passaggio da vittime a colpevoli richiamando
l’ardito capovolgimento di prospettiva a cui è già stato invitato il lettore nella vicenda della monaca
di Monza;34 ribadendo così che anche chi è vittima del male ha la possibilità di esercitare il libero
arbitrio e il mal agire può avere attenuanti, ma non scusanti, pena la caduta nel relativismo morale.
Il fine morale dell’opera appare evidente anche nella potenza della rappresentazione di questa
scena dove il Mora è protagonista; ancora una volta un fatto storico, documentato, diviene nella rinarrazione elemento di profonda riflessione 35 grazie anche al commento dell’autore:
e si mise in ginocchio davanti a un'immagine del Crocifisso, cioè di Quello che doveva un giorno
giudicare i suoi giudici (SCI IV 88)
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lo stesso intento è ravvisabile nella considerazione espressa sulla sentenza di condanna degli
accusati:
Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio[…] E
se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que' disgraziati, dopo
l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni
medesime che gliele avevano estorte.[…] Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que'
giudici, non solo a fare atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir
colpevoli. (SCI V 39-40)
Al lettore viene però data anche la possibilità di superare l’impasse di sentirsi afferrato tra questi
due diversi sentimenti: la profonda pietà per i condannati e la costatazione delle loro reali colpe. La
loro morte, infatti, che si offre come sacrificio «in pena de’ peccati che avevano commessi davvero»
(SCI V45-46) disvela in questi uomini «vinti tante volte dal timor della morte e dal dolore» (SCI V
44) la rassegnazione:« quel dono che, nell'ingiustizia degli uomini, fa veder la giustizia di Dio, e nelle
pene, qualunque siano, la caparra, non solo del perdono, ma del premio» (SCI V 44-45); anche le loro
misere esistenze36possono essere salvate, richiamando la suggestiva immagine del «tacito fior» del
tardivo frammento di Ognissanti.37
Giunti quasi alla conclusione dell’opera se ne intravede il fine: fallita ogni giustizia umana, per gli
errori arbitrariamente compiuti da parte di molti, non resta che svelare l’idea di verità e di giustizia
che Manzoni vuole suggerire: incastonata in questi orrori si innalza la figura del martire; viene così
rappresentato nel sacrifico di Gaspare Migliavacca il concetto teologico del sacrificio di Cristo,38 unica
via di salvezza per un’umanità preda del delirio; morire da innocenti, senza odio né rancore, è la strada
da seguire:
Ne' tormenti, in faccia alla morte, le sue parole furon tutte meglio che da uom forte; furon da martire.
Non avendo potuto renderlo calunniator di sé stesso, né d'altri, lo condannarono (non si vede con quali
pretesti) come convinto […] Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui
sempre. Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la
verità. Sempre rispose: l'ho già detta; voglio saluar l'anima. Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho
fatto niente. (SCI VI 4-7)
La riflessione sul fatto, suggerita dall’autore, permette al lettore, dopo aver vissuto su di sé quanto
narrato riguardo al sacrificio della vittima incolpevole, di muovere il giudizio sul fatto medesimo, e di
intravedere e quindi di ipotizzare che nella follia della Storia è possibile trovare percorsi alternativi:
Non si può qui far a meno di non pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa
costanza, il povero Mora sarebbe rimasto tranquillo nella sua bottega, tra la sua famiglia; e, al pari di lui,
questo giovine ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri innocenti non avrebbero
nemmen potuto immaginarsi che spaventosa sorte sfuggivano. (SCI VI 8-9)
Forti di questi corredi, possiamo comprendere quale possa essere la giustizia (correlata ad una più
ampia verità) che si manifesta anche in atti così terribili, come quelli narrati, che sembrerebbero
antitetici a ogni forma di equità; la rappresentazione in forma narrativa, rivestita delle forme del vero
storico, di una grande verità teologica, e soprattutto la sua potente funzione paradigmatica
nell’indicare la via del bene, sembra veramente poter scrivere la parola ‘Fine’ non solo alla Colonna,
ma anche a tutto quel lungo viaggio iniziato dall’Introduzione dell’anonimo.
Questo è il lieto fine del Romanzo: aver indicato al lettore un diverso modo di concepire la
giustizia, la verità e quindi l’esistenza39 e aver, così, concorso alla sua metanoia. L’autore ci ha
accompagnati a comprendere una verità così rilevante, incarnandola nelle immagini offerte dalla
Storia perché fosse perfettamente comprensibile e assolutamente credibile.
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*Il presente contributo è, in parte una ripresa, in parte una rielaborazione di quanto contenuto in LUCIA
BASTIANINI, Il romanzo tripartito: per una lettura sistemica dei Promessi sposi, Tesi di dottorato, Università Cattolica,
Milano, 2019, (consultabile in DOCTA), in particolare cfr. Capitolo IV e V, 170 e ssg.
1 PIERANTONIO FRARE, La via stretta. Giustizia, vendetta e perdono nei «Promessi sposi», «Giustizia e letteratura», II
(2014), 38-54: 39.
2 Il tema della giustizia fortemente legato a quello della libertà è presente fin dalle sue opere giovanili. Cfr. LUCA
DANZI, La poesia, in Manzoni a cura di Paola Italia, Roma, Carocci, 2020, 25-40: in particolare 27-29.
3 Cfr. ISABELLA BECHERUCCI, Imprimatur: Si stampi Manzoni, Venezia, Marsilio, 2020, 43.
4 Testo di riferimento: Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, Premessa di Giancarlo Vigorelli, a cura di
Carla Riccardi, Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli,
vol. 12, Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2002, 2-160. Abbr.: nel testo Colonna; nelle citazioni SCI
segue paragrafo.
5 Cfr. FRARE, La via stretta.
6 Cfr. BECHERUCCI, Imprimatur, 43.
7 Cfr. ivi, 175, ma anche BECHERUCCI, Il teatro, in Manzoni, 41-57: 55-56.
8 MARIAROSA BRICCHI, Grammatica del buio. Strategie testuali di Manzoni saggista, Milano, Centro nazionale studi
manzoniani, 2017, 98.
9 Così sostiene lo stesso Manzoni in Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (Testo
di riferimento: Alessandro Manzoni, Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione,
Premessa di Giovanni Macchia, Introduzione di Folco Portinari, Testo a cura di Silvia De Laude, Edizione
nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni diretta da Giancarlo Vigorelli, vol. 14, Milano, Centro
nazionale studi manzoniani, 2000, 1-85. Abbreviato in DRS, segue l’indicazione della parte prima (I) o seconda
(II) e i paragrafi). «Per le stesse ragioni, ai personaggi storici (e voi siete ben contento di trovare in un romanzo
storico de' personaggi storici) farà dire e fare, e cose che hanno dette e fatte realmente, quand'erano in carne e
ossa, e cose immaginate da lui, come convenienti al loro carattere, e insieme a quelle parti dell'azione ideale,
nelle quali gli è tornato bene di farli intervenire». (DRS I23-24). Per un approfondimento della complessa
problematica rimandiamo a BASTIANINI, Il romanzo tripartito, in particolare cfr. Capitolo II: Tra invenire e inventare:
la ricerca dell’‘ultimo vero’, 36-52.
10 ELSA MORANTE, Menzogna e sortilegio, introduzione di Cesare Garboli, Torino, Einaudi, 2014, 42.
11 Più volte Manzoni chiama il lettore a prendere parte e a riflettere su questioni che lo stesso narratore lascia
insolute; basti a esempio «Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra
Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? […] Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha
voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare»:ALESSANDRO MANZONI, I
promessi sposi, Saggio introduttivo, revisione del testo critico e commento a cura di Salvatore Silvano Nigro.
Collaborazione di Ermanno Paccagnini per la Storia della Colonna infame, Tomo I e II, Milano, Mondadori, 2002.
Abbr.: PS segue capitolo e paragrafo;per la citazione PS VI 25; «Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual
meno tra queste abbia dominato nel cuor di que' giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli
oscuri […] o il timor di mancare a un'aspettativa generale […] il timore fors'anche di gravi pubblici mali che ne
potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando
sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l'ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere
se que' magistrati, trovando i colpevoli d'un delitto che non c'era, ma che si voleva, furon più complici o ministri
d'una moltitudine che, accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i
precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace»: SCI, Introduzione 12-14.
12 BRICCHI, Grammatica, 78.
13 FRARE, La religione, in Manzoni, 221-238 :233.
14 Vd. GIULIA RABONI, La storia della Colonna infame, in Manzoni, 123-158; in particolare 124-125.
15 «Non più storia nella storia, ma griglia interpretativa, matrice ed emblema del tema portante dell’intero
romanzo, e con questo posta in esplicito dialogo»: ivi, 127.
16 Per questi concetti Cfr. BASTIANINI, Il romanzo tripartito, in particolare 149-152.
17 L’arte, offre, infatti: «un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero veduto dalla mente per
sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla
dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno» (DRS I36-37)
18 «A che altro fine si scrive e si parla? […] cercando e trovando spesso così splendidamente il bello poetico,
non in quelle tristi apparenze, né in quelle formole convenute, che la ragione non intende o smentisce, e delle
quali la prosa si vergognerebbe; ma nell’ultimo vero, in cui l’intelletto riposa»: ALESSANDRO MANZONI, Lettera
al Marchese Cesare D’Azeglio (Sul Romanticismo) in ID., Tutte le opere, Roma, Editrice Italiana, voll. I e II, 1967, 11281138: 1131.
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Per un’analisi della metodologia anche nel romanzo cfr. BASTIANINI, Il romanzo tripartito, in particolarecap. II.
«Tout secret de l’âme humaine se dévoile, tout ce qui faites grands événements, tout ce qui caractérise les
grandes destinées, se découvre aux imaginations douées d'une force de sympatie suffisante. Tout ce que la
volonté humaine a de fort ou de mysterieux, le malheur de religieux et de profond, le poéte peut le deviner ;
ou, pour mieux dire, l'apercevoir, le saisir et le rendre»: ALESSANDRO MANZONI, Lettre à M.R C*** sur l’unité de
temps et de lieudans la tragédie, a cura di Carla Riccardi, Roma, Salerno Editrice, 2008, 2-228. Abbreviata in LCH,
seguono i paragrafi di riferimento. Per la cit.: LCH 167.
21 «la ricostruzione dei fatti che avevano spinto un personaggio ad agire in una determinata maniera era
necessaria a portare il lettore a formulare la sua sentenza di azione o di condanna»: BECHERUCCI, Il Teatro, in
Manzoni, 41-75: 44. Cfr. anche BECHERUCCI, Imprimatur, 22.
22 Vd. nota 9.
23 Corsivi sempre nel testo se non indicato diversamente.
24 Cfr. SCI I 14.
25 BRICCHI, Grammatica, 69.
26 FRARE, La via stretta, 40.
27 Le due espressioni sono attribuite nelle note dallo stesso Manzoni rispettivamente a Bossi e a Farinacci.
28 Cfr. SCI VI 19.
29 Cfr. ivi, IV 70.
30 «Ora, l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a
un atroce supplizio»: SCI IV 76, così come favole racconterà il Piazza, cfr. SCI III 47-59, altre il Baruello cfr.
SCI VI 13-18.
31 «Di episodi di magia è fitto tutto il processo»: MANZONI, Storia della colonna, 134, nota 1; si rimanda anche a
PS 32 50-52.
32 In Manzoni: «Non bisogna però dimenticare che il giudizio unanime di una ‘moltitudine’ che sta all’origine
del processo e della sentenza-tanto dei tribunali quanto di una lunga posterità di intellettuali-, è la sommatoria
di una serie di giudizi individuali»: FRARE, La scrittura dell’inquietudine. Saggio su Alessandro Manzoni, Firenze,
Olschki, 2006, 70.
33 Per i pensieri del Piazza, cfr. SCI III 45 e V16.
34 «Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse
divenuta. Ma l'infelice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse» PS X 73;
Gertrude, prima da noi compatita, diviene, in seguito alla sua scelta del male agire, da noi stessi condannata.
35 «E il tangibile segno di questo sotterraneo lavorio [dall’Appendice alla Colonna infame] si manifesta proprio nel
passaggio dalla dimensione psicologico-narrativa dell’Appendice a quella teologica della Storia: dal racconto
dell’“accecamento della passione” a un racconto-saggio che si specchia, quale guida, nella teologia della
giustizia»: PACCAGNINI, Nota critico-filologica, XLI.
36 Su questo concetto, sviluppato nei Promessi sposi, rimandiamo a BROGI, Un romanzo per gli occhi. Manzoni,
Caravaggio e la fabbrica del realismo, Roma, Carocci, 2018, in particolare il capitolo secondo: Attraverso una natura
morta. I promessi sposi come romanzo storico, 45-72.
37 «a Quello domanda, o sdegnoso, / perché sull’inospite piagge, / al tremito d’aure selvagge, / fa sorgere il
tacito fior, /che spiega davanti a Lui solo/ la pompa del pinto suo velo, / che spande ai deserti del cielo/ gli
olezzi del calice, e muor.» (vv. 17-24).
38 «L’orrore che Manzoni prova al cospetto delle passioni incontrollate dell’uomo è dovuto al fatto che esse,
pervertendo il giudizio -quel giudizio cui non ci si può sottrarre, in nessuna occasione e in nessun modo- fanno
ri-accadere, una volta di più, la Passione»: FRARE, La scrittura dell’inquietudine, 68.
39 Cfr. FRARE, La via stretta, 53-54.
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