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sabato 10 aprile 2010

Departures

Crisi di astinenza. Sì, la chiamerei proprio così. Crisi di astinenza da cinema. Non da film, perché di film ne ho visti diversi nell'ultimo paio di settimane. Ma da cinema, quell'esperienza straordinaria di entrare in una grande sala buia, di essere avvolti da immagini e suoni, di sentirsi collettivamente partecipi di un'emozione, di sentire la presenza attiva dell'altro senza necessariamente vederlo. I motivi per cui a mio avviso il cinema non potrà mai essere sostituito da alcuna altra forma di proiezione filmica.

E, dunque - dicevo - ero in profonda crisi di astinenza da cinema, perché la pausa pasquale (con la full immersion in famiglia) e le ultime inaspettate e piacevoli incursioni nella mia vita privata mi avevano tenuta per un po' lontana dal mio habitat naturale. Ma com'è giusto che sia - e a grande richiesta dei miei fans ;-) - eccomi di nuovo a me e a voi.

Departures di Yojiro Takita è decisamente un film interessante (termine per me ormai divenuto praticamente onnicomprensivo, ma che aiuta quando faccio fatica ad usarne altri o volontariamente preferisco l'indefinizione), espressione di un mondo e di una cultura certamente altri rispetto alla nostra contemporanea cultura occidentale, ma - aggiungerei - non del tutto estranei.

Dentro questo film ci sono molte cose. Ho letto da qualche parte che è una riflessione sulla morte, ma io direi piuttosto che è una riflessione sulla vita, quel groviglio inestricabile di stati d'animo, di fasi contraddittorie, di sentimenti, in cui nascita, vita, morte e rinascita generano un ciclo ineluttabile, ma forse proprio per questo rasserenante, e il cui senso va cercato al suo stesso interno in questa eterna ripetizione, che però è anche rigenerazione.

Il film è denso di metafore della vita e della morte fin troppo semplici ed esplicite (le stagioni, i salmoni, il cibo, le piante, il sasso che passa di mano in mano), ma forse è inevitabile che sia così in una cultura altamente visuale come è quella giapponese. Ma ancora di più è giocato sul significato della ritualità, quella che forse la nostra cultura occidentale ha almeno in parte perso.
La ripetizione dei gesti di Daigo (Motoki Masahiro) - e del suo maestro Sasaki (Yamazaki Tsutomu) - nel preparare i corpi per l'ultimo viaggio non è stanca monotonia, ma amorevole conferma di sintonia, di compassione, di risonanza.

La vita prende luce dall'esistenza stessa della morte, come la felicità si illumina dell'esperienza della sofferenza. E tutto è naturale e fluido.
Il violoncello è strumento di una musica dell'anima, che risuona solo quando entra in sintonia con la natura profonda della vita.

Riconoscere gli altri, cioè scoprirne l'essenza e focalizzarne il volto interiore, significa trovare noi stessi, la nostra origine, il posto dal quale veniamo, quello che siamo sempre stati e quello che diventiamo giorno per giorno. Ovvero, trovare noi stessi significa riconoscere alfine anche gli altri.

E non vi immaginate necessariamente un film etereo, perché si ride anche, e poi ci si commuove, e poi si rimane un po' spiazzati, e poi non si capisce, e poi, e poi...
Forse dura più di quanto ci si aspetterebbe, ma - come ho letto l'altro giorno da qualche parte - niente dura troppo se dentro di te prepari il tempo necessario, e forse niente dura troppo poco se lo vivi intensamente.

Meritato Oscar come miglior film straniero nel 2009. Mi ha fatto tornare voglia di vedere un film orientale che mi era piaciuto molto Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, del grande Kim Ki-Duk.

Voto: 4/5

mercoledì 25 febbraio 2009

La notte degli Oscar


Ed eccoci qui a smaltire la sbornia della notte degli Oscar e delle sue statuette.
Per una volta è andata quasi esattamente come avrei sperato... Credo che The millionaire meriti le 8 statuette che ha vinto e non ritengo - come qualcuno ha ipotizzato - che la vittoria sia solo legata al vento Obama che spira negli Stati Uniti e all'ottimismo che caratterizza la pellicola (ottimismo che sinceramente mi pare una lettura superficiale del film e dei suoi contenuti).
Peccato che Frost/Nixon non sia riuscito a portare a casa nulla, nemmeno una statuetta consolatoria, ma la concorrenza era veramente forte.
Sono contentissima per la vittoria di Sean Penn, checché ne dica Mark Kermode della BBC. Io ho trovato la sua interpretazione magistrale e secondo me andava premiata più di un risorto Mickey Rourke che in qualche modo si è solo limitato a esporre il suo corpo trasformato.
Altrettanto contenta per Kate Winslet; non ho ancora visto The reader (ma rimedierò al più presto; ecco qui la mia recensione), però quest'attrice la trovo sempre ad altissimi livelli. Certo Meryl Streep era una degna avversaria, però credo che in questa circostanza fosse giusto dare la precedenza alla Winslet. E, con un leggero sadismo, bene che non abbia vinto Angelina Jolie, che personalmente non posso fare a meno di sentire costruita e artefatta.
Per quanto riguarda gli attori non protagonisti, l'omaggio a Heath Ledger tutto sommato era dovuto e, a parte Philip Seymour Hoffman, non vedevo concorrenti; invece, pur apprezzando la scelta di Penelope Cruz, sono curiosa di vedere Marisa Tomei in The wrestler sulla cui interpretazione ho sentito meraviglie.
Non oso immaginare cosa sia il film Departures, miglior film straniero (che ha prevalso su Valzer con Bashir e La classe, tra gli altri), che a questo punto, nonostante qualche avversione alla cinematografia giapponese, spero di riuscire a vedere.
Grandissimo Wall-e che non aveva concorrenti come miglior film d'animazione, anzi personalmente avrei addirittura sperato in qualcosa di più per questo film straordinario.
Invece, d'accordo nell'aver relegato Il curioso caso di Benjamin Button ai premi di consolazione sul trucco e gli effetti visivi, che mi sono sembrati gli unici aspetti veramente degni di nota nel film.
E ora tutti ad ascoltare la colonna sonora di The millionaire.