Storia della pittura a Verona
La storia della pittura a Verona va dai primi esempi di età preistorica alla contemporaneità.
Preistoria, età romana e paleocristiana
[modifica | modifica wikitesto]I primi esempi di pittura nel veronese si manifestano principalmente nelle incisioni rupestri e nelle pitture murali ritrovate in grotte e ripari rocciosi della zona montuosa circostante. Queste opere mostrano figure stilizzate di animali, scene di caccia e simboli astratti, riflettendo credenze spirituali e pratiche quotidiane delle prime comunità. Il ritrovamento più noto proviene dalla grotta di Fumane, in Valpolicella, e consiste in una pietra, nota come lo "Sciamano", in cui è dipinta in color ocra una delle più antiche raffigurazioni umane, un esempio dell’attività artistica dei primi Homo Sapiens di circa 34000-38000 anni fa. Probabilmente si trattava di una pietra parte della volta della grotta, originariamente tutta dipinta, crollata per cause naturali.[1][2][3]
Nell'89 a.C. Verona divenne romana come municipium a seguito della Lex Pompeia de Transpadanis. La sua posizione strategica ne favorì lo sviluppo economico e militare, con la costruzione di monumenti e importanti infrastrutture, diventando ben presto un centro chiave per il controllo delle Alpi e della pianura padana. In questo contesto la pittura e l'arte in generale cominciarono a fiorire; l'arte pittorica si concentrava principalmente sulla decorazione delle abitazioni private e degli edifici pubblici. I ricchi cittadini abbellivano le loro dimore con pitture murali, spesso realizzate ad affresco, rappresentanti scene mitologiche, paesaggi e motivi geometrici.[4][5][6] La villa romana di Valdonega, risalente al I secolo e situata poco fuori il centro di Verona, è uno degli esempi meglio conservati di abitazione romana che offre un'idea di come dovessero essere gli interni delle case dei ceti più ambienti in epoca romana. In particolare, il salone centrale presenta pareti riccamente decorate ad affresco con raffigurazioni, nel registro inferiore, di volatili alternati da elementi vegetali, mentre in quello superiore con rappresentazioni mitologiche quali grifoni con cornucopie, maschere femminili e nature morte.[7][8]
La diffusione del cristianesimo trasformò profondamente l'arte, introducendo nuovi soggetti legati alla religione, come immagini sacre e simboli cristiani. L'arte paleocristiana si sviluppò come espressione della nuova fede, inizialmente in contesti privati e nascosti per via delle persecuzioni, ma dopo l'editto di Costantino del 313, che legalizzò il cristianesimo, questa forma d'arte divenne pubblica sostituendo velocemente l'arte pagana. A Verona, l'esempio più importa si questa nuova espressione artistica religiosa si riscontra presso l'ipogeo di Santa Maria in Stelle. Nato probabilmente come cenotafio e ninfeo, nella seconda metà del IV secolo l'ambiente venne trasformato in un edificio cristiano e le sue pareti vennero successivamente decorate da affreschi. Delle due aule che costituiscono il complesso, solo in quella a nord il ciclo pittorico è ancora ben leggibile con rappresentazioni dell'Antico e Nuovo Testamento riprodotte tra due fasce orizzontali rosse e separate da finte lesene, che hanno fatto ipotizzare che si trattasse di uno spazio di catechesi. Da sinistra troviamo i seguenti temi: ingresso a Gerusalemme, tre giovani dati a Nabucodonosor, tre giovani nella fornace, strage degli Innocenti, Natività. Nella lunetta sopra l'ingresso vi è la rappresentazione di un collegio apostolico.[9][10] Nell'atrio, molto deteriorati ma ancora leggibili, vi sono una Traditio legis e un Daniele nella fossa dei leoni, entrambi temi molto diffusi nell'iconografia cristiana del III secolo.[11] Sebbene gli storici dell'arte all'unanimità considerano gli affreschi di Santa Maria in Stelle come uno dei cicli più importanti dell'arte paleocristiana, non vi è concordanza riguardo alla qualità dividendosi tra chi li considera l'esito di un mediocre pittore locale e chi ne esalta «la ricca gamma cromatica e l'eleganza del disegno delle figure».[12]
Le origini altomedievali
[modifica | modifica wikitesto]A Verona sono sopravvissuti fino a noi ben pochi esempi di pittura dell'alto medioevo. È certo che almeno dagli inizi del VI secolo, ma probabilmente già dal secolo precedente, in città fosse attivo un importante scriptorium in cui lavoravano amanuensi affiancati probabilmente da miniatori. E proprio qui che negli ultimi anni del VIII secolo viene prodotto quello che è considerato uno dei più significativi e antichi esempi di arte alto medievale veronese: quattro miniature incluse nel cosiddetto codice di Egino, originariamente dono del vescovo Egino di Verona alla cattedrale di Santa Maria Matricolare, prima del suo ritiro nell'Isola di Reichenau nel 799, ma oggi conservato Biblioteca di Stato di Berlino. In esse sono rappresentati a tutta pagina i padri della Chiesa Agostino d'Ippona nell'atto di insegnare, Leone Magno benedicente, Ambrogio da Milano e Gregorio Magno entrambi impegnati nello scrivere; i quattro, inoltre, sono raffigurati tutti con l'aureola, seduti sui rispettivi troni e accompagnati dal proprio seguito di chierici. I colori maggiormente utilizzati sono l'oro e l'argento, ma sono presenti anche tonalità di marrone, rosso, verde e blu.[13][14][15] È stato osservato di come il loro stile richiami i modelli tardoantichi della miniatura carolingia dimostrando così la presenza di influssi d'oltralpe nel panorama artistico veronese dell'epoca. Il resto del codice è scritto da più di un amanuense in minuscola carolina.[13][16]
Particolare nel contesto artistico del tempo è un tessuto liturgico, di cui sono sopravvissuti tre porzioni, noto come velo di classe in cui sono ricamati i busti dei primi tredici vescovi veronesi associati al proprio nome. Fu realizzato per volere del vescovo Annone di Verona nel VIII secolo per adornare la tomba dei santi Fermo e Rustico.[16][17]
Nei decenni successivi Verona, come molte città dell'Italia settentrionale, fu vittima di incursioni degli ungari e questo ne compromise lo sviluppo artistico fino a quando queste terminarono nel 955 a seguito della battaglia di Lechfeld. Un probabile esempio della ripresa successiva si trova a Bardolino, a pochi chilometri dalla città di Verona, dove la chiesa di San Zeno vanta pareti interne con pregevoli affreschi.[16]
Della metà del X secolo è anche la più antica rappresentazione grafica di Verona, la cosiddetta iconografia rateriana, originariamente parte di un codice appartenuto al vescovo Raterio. Esempio di tarda arte carolingia, probabilmente venne realizzata per celebrare la rinascita città dopo gli anni oscuri delle devastazioni degli Ungari. Di questo disegno oggi possediamo solamente una copia fedele fatta eseguire nel 1739 dall'erudito veronese Scipione Maffei.[13][18]
Nel 1889, a seguito di uno stacco di affreschi del XII secolo, venne alla luce una serie di pitture più antiche che decoravano le pareti del sacello rupestre dei santi Nazaro e Celso nelle immediate vicinanze dell'omonima chiesa a Veronetta. La scoperta venne da subito documentata da Carlo Cipolla che gli datò al 996 grazie ad una iscrizione[N 1] oggi praticamente non più esistete. In questi affreschi, anch'essi staccati e conservati al museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle, gli storici dell'arte hanno riscontrato il lavoro di più autori il cui stile ricorda la miniatura ottoniana del X secolo. In particolare, gli occhi dei santi, spalancati e con la pupilla isolata, sembrano simili a quelli raffigurati all'interno del coevo Evangeliario di Ottone III e del Codex Egberti ad ulteriore testimonianza della stretta connessione tra Verona e la scuola dell'Abbazia di Reichenau.[19][20][21][22]
Il romanico dal XI a XII secolo
[modifica | modifica wikitesto]A partire dall'XI secolo sembra che l'arte veronese, pur rimanendo legata ai modelli d'oltralpe, sia arricchita da ulteriori e variegate influenze muovendosi verso la fase nota come "romanica". È il caso ad esempio degli affreschi più antichi superstiti, seppur in forma frammentaria, nella Pieve di Sant'Andrea a Sommacampagna in cui tuttavia i caratteri principali rimandano ancora all'area nordica con lo storico dell'arte Wart Arslan che ha riscontrato alcune similitudini con le miniature prodotte nella celebre Abbazia di San Gallo. Di poco più tardo dovrebbe essere la decorazione dell'arco trionfale dell'abside occidentale della pieve di San Giorgio di Valpolicella che può essere considerata come il ponte tra l'arte germanica e l'emersione di una corrente veronese sempre più definita e autonoma.[23][24] Sempre fuori Verona sono assai degni di nota anche gli affreschi che decorano la chiesa di San Severo a Bardolino.[25]
Tornando in città, della seconda metà dell'XI secolo sono i pochi frammenti del più antico ciclo di affreschi della fabbrica benedettina della chiesa di San Fermo Maggiore iniziata nel 1065 e poi fortemente manomessa dall'avvento dei francescani circa due secoli dopo. I più interessanti appartengono alla calotta dell'absidiola settentrionale in cui al centro vi è raffigurato un Cristo giudice con ai fianchi l'arcangelo Gabriele e (probabilmente) l'arcangelo Michele. È stato osservato che «la tipologia dei visi e l'eleganza delle forme» siano debitrici dell'arte ottoniana e che la «qualità pittorica doveva essere di alto livello e l'esecuzione molto raffinata».[26]
Molto interesse nella critica ha suscita una Crocifissione collocata su un pilastro nella cripta della chiesa di San Pietro Incarnario poco fuori dal centro di Verona. Sebbene la maggioranza degli storici abbia proposto una collocazione nel XI secolo, non vi è unanimità in quanto altri la pongono nel secolo precedente o in quello successivo. Nemmeno l'analisi del suo stile non ha riscontrato problematiche con parte della critica che ha visto influssi provenienti dell'arte bizantina e parte che invece la considera di stile pienamente occidentale. In ogni caso, questo affresco è considerato, per la sua originale poetica, come uno dei primi esempi di «arte romanica veronese» e quindi testimone di una scuola locale probabilmente già sufficientemente consolidata. Tuttavia Arslan questo affresco rappresenta anche un esempio della «tenace sopravvivenza dei mezzi figurativi e iconografici dell'epoca carolingia».[27][28] A supporto di questa tesi, lo storico padovano ne analizza la sua fattura, non certo eccelsa e considerata addirittura «grossolana», che però colpisce per il «Cristo crocifisso, ancora vico, con gli occhi sbarrati, i piedi inchiodati separatamente e con la croce piantata sul calvario con ancora visibile il cranio di Adamo. Accanto la Vergine e san Giovanni, al di sopra i due busti dei santi arcangeli Michele e Gabriele».[29][30]
Della fine del secolo successivo, il XII secolo, è il secondo strato di affreschi del sacello dei santi Nazaro e Celso considerato un «testo cruciale e fondamentale della più tarda pittura romanica veronese» per la sua maturità testimoniata dai colori vivaci e dalle sicure pennellate che conferiscono alle figure spessori e finiture non banali.[31] Altri esempi di pittura romanica nel veronese sono il ciclo Apocalisse e Leggenda della croce a san Severo di Bardolino e Storie di sant'Andrea nella pieve di Sommacampagna con quest'ultima particolarmente raffinata nella sua fattura. Una santa Margherita sopravvissuta nella Chiesa dei Santi Apostoli nel centro storico di Verona, di qualità non eccelsa, e le decorazioni poste tra le tre arcate del pontile della basilica di San Zeno, sono ulteriori «antiche espressioni del romanico veronese».[32]
Il Duecento: verso il gotico
[modifica | modifica wikitesto]Sebbene non sempre di grande qualità, Verona conserva numerose testimonianze pittoriche risalenti al Duecento. Queste testimonianze consistono quasi esclusivamente in lacerti di pitture murali, sia interne che esterne, che dimostrano una intensa volontà decorativa nei complessi chiesastici e negli edifici residenziali. Gli stili sono vari, frutto di diverse influenze pittoriche, il che rende difficile ricostruire personalità e correnti artistiche specifiche. Il legame di Verona con la Germania, dovuto alla presenza di Ezzelino III da Romano, signore della Marca Trevigiana e fedele dell'imperatore Federico II, è evidente anche nella pittura. Caratteristiche di questo periodo sono la vivacità narrativa, l'attenzione ai dettagli delle vesti, una certa plasticità e, al contempo, una rigidezza nelle figure tendenzialmente allungate. A metà del secolo, il passaggio da libero comune alla signoria degli Scaligeri rappresentò un periodo di trasformazione politica e sociale, che coincise con il passaggio dal romanico al gotico.[33]
Nel catino absidale della cappella del transetto di destra della chiesa superiore di san Fermo Maggiore vi erano degli affreschi, oggi staccati, di buona fattura collocabili agli inizi del XIII secolo quando la chiesa era officiata dai benedettini raffiguranti una Verigine con il bambino tra due santi; in un lungo cartiglio vi è scritto "BEATI QUI AUDIUNT VERBUM DET ET CUSTODIUNT ILLUD". Questo è forse il più esplicito esempio di bizantinismo occidentalizzato visibile a Verona.[34][35] Circa degli stessi anni dovrebbe essere un graffito originariamente dipinto su una serie di otto lastre raffigurante un Giudizio universale sul timpano della facciata della basilica di San Zeno. Opera giudicata assai originale per il panorama veronese, a metà via tra scultura e pittura, Simeoni e Da Lisca lo attribuirono al Brioloto anche per la sua iconografia sicuramente occidentale.[36][37] Sempre a San Zeno, lacerti presenti sul pontile-tramezzo potrebbero collocarsi negli stessi anni, come alcune immagini votive che decorano i pilastri della cripta. In particolare una maestosa Maddonna col Bambino dal sapore bizantino e un analogo soggetto dipinto all'esterno in una nicchia sul fianco meridionale che versa però in cattive condizioni.[38][39][40]
Alcuni esempi coevi sono presenti anche in edifici abitativi. Restauri effettuati nel 1997 hanno messo in luce alcune decorazioni presenti nelle antiche abitazioni dei canonici della cattedrale di Verona che fanno pensare che originariamente gli spazi affrescati fossero ben maggiori di quelli superstiti. Nel più interessante dei brani ancora oggi visibili è raffigurata l'allegoria di due vizi capitali, acidia e lussuria, in cui vengono trafitte e calpestate da due figure femminili prive di testa. Si può supporre che fosse parte di un ciclo ben più complesso in cui erano raffigurati Vizi e Virtù, un tema non nuovo al medioevo.[41] Nella vicina biblioteca capitolare sono statai rivenuti ulteriori affreschi, ma di mano diversa, origiarimanete di un ciclo episodi dell'antico Testamento.[42] Sulle pareti delle scale di sinistra che scendono nella cripta della chiesa di Santo Stefano si trovano diversi affreschi ascrivibile alla metà del duecento oramai difficilmente leggibili.[43][44][45]
Nella seconda metà del duecento riprese l'attività decorativa delle pareti della Basilica di San Zeno; di questi anni è il grande San Cristoforo che indossa una ricca veste con mantello sulla parete destra e alcuni affreschi presenti nella sagrestia.[46][47] Ma l'affresco giudicato il più interessante nel panorama veronese del tempo si trova invece in una delle sale interne della Torre abbaziale di San Zeno attigua alla basilica. Qui, davanti ad una rappresentazione di una Ruota della fortuna oramai in gran parte persa, vi è una grande scena raffigurante al centro un corteo di vari popoli che si avviano a rendere omaggio a un sovrano in trono, con una città turrita sullo sfondo, coronato in alto da un piccolo fregio caratterizzato da un ornato floreale ravvivato da mascheroni mostruosi e da figure fantastiche di animali e combattenti, infine in basso sono raffigurate delle scene di caccia.[48] Si tratta di un dipinto piuttosto insolito a causa degli appariscenti copricapi che rendono distinguibili i diversi popoli, per le difficoltà di interpretazione iconografiche e per la singolare tecnica pittorica utilizzata. Questo dipinto potrebbe essere un'opera romanica delle maestranze altoatesine della Val Venosta, tanto che sono presenti alcune somiglianze con un dipinto situato nell'abside della chiesa di San Giovanni a Müstair, e potrebbe essere databile agli ultimi due decenni del XII secolo.[49][50] Arslan vide nell'affresco delle similitudini con due codici miniati oggi conservati presso la Biblioteca apostolica vaticana: la Bibbia A. IV 74 e il Vaticano latino 39 contenente il testo del Nuovo Testamento.[51]
Al museo di Castelvecchio sono custoditi numerosi affreschi della fine del duecento staccati nel 1892 dall'ex Convento di san Giovanni Evangelista della Beverara (oggi Istituto Don Bosco) tra cui una Madonna allattante, una Crocifissione e una Pietà; sia per la vicinanza geografica che per lo stile, è stato proposto come autore lo stesso frescante che lavorò ad una nuova fase di decorazione a San Zeno dove vennero dipinti un Battesimo di Cristo e una Ressurezione di Lazzaro. Entrambi i dipinti appaiano inseriti in una cornice, la cui parte superiore è composta da un fregio a foglie; la composizione è semplice, senza profondità.[52]
Il secolo si chiude con numerose pitture votive, se ne trovano ad esempio nella cripta di chiesa di san Procolo o nella parete destra della chiesa di San Giovanni in Valle, in cui sono rappresentante soprattutto Madonne con bambino spesso accompagnate dalla figura dell'offerente, un tema che diverrà ricorrente della pittura veronese.[53] Da menzionare, infine, un frescante di grande qualità autore a San Zeno di una Madonna col Bambino e un'Ultima cena (una delle più antiche raffigurazioni di questo genere) entrambe collocate sulla parete di sinistra.[54] Oramai il panorama veronese è pronto per accogliere a pieno titolo il gotico e al formarsi di un proprio stile plasmato dalle molteplici correnti che giungevani nella dinamica città scaligera.[55]
Il Trecento, l'arrivo del giottismo
[modifica | modifica wikitesto]Gli inizi del XIV secolo furono anni felici per Verona che con Alboino e Cangrande I della Scala, signori illuminati e rispettati, raggiunse una notevole ricchezza. Il fortunato periodo politico ebbe riflessi anche sulla scena pittorica cittadina che divenne una tra le più importanti dell'Italia settentrionale, almeno per quanto riguarda la quantità di affreschi realizzati. Numerosi furono i pittori impegnati a Verona e provincia nella decorazione di chiese e edifici civile. Iniziano anche a conoscersi i nomi di questi frescanti, come è il caso di tale maestro Cicogna che firma e data (ANNO DOMINI MCCC) un suo dipinto sulla parete di sinistra della chiesa di San Martino a Corrubbio in Valpolicella e a cui sono state attribuite numerose altre opere sparse per il territorio veronese.[56][57] Un certo Giovanni, invece, firmò e datò al 1305[N 2] una Sant'Anna dipinta su di un pilastro della Chiesa di San Zeno a Cerea. Oltre a questi maestri si ritiene che complessivamente a quel tempo fossero attivi non meno di una trentina di pittori a Verona.[58] È stato osservato di come questi primi frescanti siano ancora "legati alla tradizione del Duecento, con influenze stilistiche nordiche e bizantine ormai obsolete di seconda e terza mano. Tuttavia, dimostrano spesso di possedere capacità e tecniche di altissimo livello".[56]
Lo stile "obsoleto" del panorama veronese ebbe una profonda scossa quando anche qui, come nel resto d'Italia, giunse la rivoluzione di Giotto. Non è certo se Giotto stesso lavorò in città, nel cinquecento Giorgio Vasari raccontò che intorno al 1316 il pittore toscano "andò a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture e particolarmente il ritratto di quel Signore; e ne’ frati di S. Francesco una tavola".[59] Tuttavia, nessuna sua opera veronese è giunta fino a noi e non vi sono altri prove che possano testimoniare un suo soggiorno alla corte scaligera, quindi la sua effettiva presenza è un tema ancora dibattuto. Il primo autore veronese il cui stile appare evidentemente influenzato dal giottismo fu il cosiddetto "Maestro del Redentore", molto probabilmente un aiuto di Giotto a Padova, che lavorò alla fabbrica della chiesa di San Fermo Maggiore. Nel 1907 Gerola lesse la data del 1314.[60] Nella stessa chiesa, da poco passata ai francescani, un ordine molto vicino a Giotto tramite numerose e celebri commesse, sono presenti numerosi altri esempi ascrivibili al primo giottismo veronese.[61]
Da qui in avanti la lezione di Giotto diverrà la corrente le prevalente a Verona, senza tuttavia giungere a elevati risultati qualitativi. I pittori veronesi giotteschi non riusciranno, infatti, mai a raggiungere il maestro per quanto riguarda la spazialità e l'organizzazione di grandi cicli narrativi; anzi, la loro produzione è stata criticata per essere monotona, caratterizzata prevalentemente da riquadri votivi a sé stanti, "sequenze stucchevoli di santi presenti frontalmente evadendo quasi sistematicamente l'irruzione di storie e di azione che Giotto aveva imposto. Nasce un linguaggio sterile, stereotipato che coinvolgerà il panorama veronese fino a metà del trecento".[57]
Tutto ciò è ben visibile sulle pareti laterali della basilica di San Zeno dove sono ancora visibili numerose testimonianze del trecento pittorico veronese ad opera di quelli che la critica attribuisce ai cosiddetti primo e secondo maestro di San Zeno secondo la proposta della storica Evelyn Sandberg Vavalà. È necessario precisare che tutti gli storici dell'arte concordano che non si tratti di due unici frescanti, ma che con questi nomi si voglia intendere due diversi gruppi di pittori affini per stile, epoca e tecnica che lavorarono in questa basilica e in altri luoghi cittadini. Per la precisione, con "primo maestro" si attribuiscono convenzionalmente gli affreschi realizzati intorno al secondo quarto del XIV secolo e accreditati per essere stati i primi ad aver diffuso la scuola giottesca a Verona ma anche ad aver contribuito all'"inaugurazione della vera scuola locale". Invece, con "secondo maestro", quasi sicuramente un suo allievo, si intendono i frescanti che realizzarono nella seconda metà del XIV secolo numerosi dipinti in molte chiese di Verona, tra cui una serie di 24 a carattere votivo nella sola San Zeno, e che si caratterizzano per una pittura più evoluta rispetto al primo maestro e con forti richiami alla cultura pittorica lombarda.[62][63]
Il panorama artistico veronese della seconda metà del trecento è dominato da due importati figure: quella di Turone di Maxio e, soprattutto, quella di Altichiero. La presenza di Turone a Verona è documentata dal 1356 e la sua unica opera certa è il celebre polittico della Trinità, realizzato nel 1360 per la Chiesa della Santissima Trinità in Monte Oliveto e oggi esposto nelle collezioni del museo di Castelvecchio. È il primo caso a Verona di un'opera dalla datazione certa firmata da un personaggio storico.[64][65] Numerose altre opere sono state attribuite a Turone, tra cui una Vergine con Bambino e un San Giovanni Battista con due donatori nella chiesa di Santa Maria della Scala, un Crocifisso (datato 1363) inserito nella lunetta del portale laterale della chiesa di San Fermo, una Crocifissione sempre a san Fermo nella lunetta del portale principale.[65][66], un Giudizio Universale sulla parete destra del presbiterio della basilica di Santa Anastasia sebbene per quest'ultimo i dubbi sono molti e spesso si parla invece in un più generico "maestro del Giudizio Universale".[67][68] Vavalà ha proposto che Turone possa essere stato anche l'autore delle circa 300 miniature che compongono diciassette corali conservati presso la biblioteca capitolare di Verona, tre di quali datati al 1368.[69]
Allievo di Turone, Altichiero da Zevio è unanimemente considerato il massimo pittore veronese del trecento. Scarse sono le notizie biografiche su di lui; Vasari lo presentò già maturo e tenuto in alta considerazione nel mondo dell'arte, e lo definì «famigliarissimo con i signori della Scala». E proprio per gli scaligeri, stando al racconto di Vasari, dipinse nel 1362 per il palazzo del Podestà una Guerra di Gerusalemme secondo Giuseppe Flavio, due Trionfi e una serie di affreschi con effigi di imperatori romani, l'esempio più antico attestato nel Medioevo, che trovavano spazio negli ampi sottarchi ed erano probabilmente volti a celebrare la signoria. Questi sono gli unici sopravvissuti dell'intero complesso pittorico e sono stati strappati, restaurati e collocati al museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle.[70][71] L'unica opera certa di Altichiero sopravvissuta per intero a Verona è però un'Adorazione per la cappella Cavalli della basilica di Santa Anastasia che forse Altichiero eseguì dopo il ritorno da Padova, poco prima del 1390, anche se alcuni studiosi la datano al 1369 in base a un documento ritrovato negli archivi veronesi. Nel dipinto, un antico omaggio feudale, i nobili cavalieri s'inginocchiano davanti al trono della Vergine posto in un tempio gotico. Le arcate dipinte presentano sulla chiave di volta lo stemma nobiliare della famiglia Cavalli.[72][73][74]
Per numerose altri dipinti collocabili negli anni 1380 e sparse per il territorio veronese è stata proposta l'attribuzione ad Altichiero, benché non vi siano prove certe che non siano invece opera di allievi particolarmente dotati della sua bottega. Ad esempio, una Crocifissione all'interno della basilica di San Zeno e posta sul muro di sinistra sopra l'entrata della sagrestia non permette una sicura attribuzione al maestro di Zevio per via del suo cattivo stato di conservazione ma non vi sono dubbi che lo stile sia a lui riconducibile.[75] L'attribuzione del cosiddetto polittico di Boi (proveniente da Caprino Veronese e oggi al museo di Castelvecchio) ad Altichiero appare più sicura soprattutto dopo i recenti restauri mentre l'affresco raffigurante l'Arcangelo Michele della Chiesa di San Michele a Pescantina è più probabilmente opera di un suo seguace.[76][77] Uno dei suoi allievi, Giacomo da Riva, è autore di una Madonna in trono con Bambino allattante, che data al 1388, dipinta su di un pilastro della chiesa di Santo Stefano.[78][N 3][76][79]
Il Quattrocento: dal gotico al Rinascimento
[modifica | modifica wikitesto]L'età di Martino
[modifica | modifica wikitesto]Il passaggio tra XIV e XV secolo coincise per Verona con periodo di instabilità politica. La sconfitta nella battaglia di Castagnaro del 1378 segnò la fine della lunga egemonia degli Scaligeri, che dopo qualche mese sarebbero stati cacciati da Verona dalle truppe viscontee, e la fine dell'indipendenza della città. I successivi brevi domini di Gian Galeazzo Visconti prima e Francesco II da Carrara poi, furono contraddistinti da disordini.[80] Approfittando del malcontento dei veronesi, la Repubblica di Venezia inviò il suo esercito che, aiutato in parte dal popolo, riuscì a prendere la città.[81] Con la dedizione a Venezina del 24 giugno 1405 Verona entrò a far parte dei domini della Serenissima.[82][83][84] La pittura risentì di questo periodo difficile offrendo opere dagli schemi irrigiditi, privi di originalità e quasi esclusivamente a tema devozionale.[84]
Protagonista dei primo decennio del XV secolo fu Martino da Verona, molto probabilmente allievo di Altichiero, ebbe molto successo tra i contemporanei nonostante non fosse riuscito né ad arrivare al livello del maestro né ad aggiungere qualcosa alla sua maniera. A lui sono attribuite con certezza soltanto due opere, entrambe presso la chiesa di san Fermo. La prima è la decorazione attorno al pulpito che firmò e datò al 1296, e l'esecuzione di un Giudizio Universale per la tomba di Barnaba da Morano che dovette eseguire tra il 1410 e il 1411.[85] Oltre a queste, gli sono state attribuiti altri affreschi come un'Incoronazione della Vergine e un Giudizio universale per la chiesa di sant'Eufemia,[86] alcuni presso la cappella Cavalli di Santa Anastasia,[87][88] e una Annunciazione e incoronazione della Vergine a Santo Stefano,[89][90] Altri dipinti attribuiti a Martino potrebbero invece appartenere alla mano di Jacopo da Verona, anch'egli allievo di Altichiero che però non ha lasciato a Verona nessuna opera a lui ascrivibile con certezza.[91] Martino muore nel 1412 ma per almeno il decennio successivo i pittori veronesi continueranno a dipingere alla stessa maniera rendendo difficile capire se si tratta di allievi o di Martino stesso.[92]
Correnti tardo gotiche lombarde e veneziane
[modifica | modifica wikitesto]L'uniformità degli anni di Martino vennero interrotti dall'arrivo di Stefano da Verona la cui presenza in città è documentata soltanto nel 1425 quando era già cinquantenne. Vasari racconta che già alla sua epoca molte delle numerose opere di Stefano prodotte a Verona erano andate perse. Sopravviveva ancora oggi una Gloria di Sant'Agostino originariamente posta esternamente opera il portale laterale della chiesa di santa Eufemia e oggi spostat all'esterno, anch'essa citata da Vasari. Citato con ammirazione da Giorgio Vasari, l'affresco, che reca la firma dell'autore «STEFANUS / PINXIT», versa oggi in cattive condizioni che lasciano solo immaginare la ricchezza cromatica che poteva vantare.[93][94] Stefano fu autore anche di un grande affresco per la chiesa di san Fermo di cui oggi sopravvivono solo lacerti, scoperti durante un restauro del 1909, raffiguranti Angeli osannanti di gusto squisitamente originale nel contesto veronese e molto lontani dallo stile del Sant'Agostino.[95] A Stefano viene attribuita anche una grande e originalissima tempera su tavola raffigurante Madonna del Roseto e oggi al museo di Castelvecchio sebbene in molti abbiano fatto anche il nome di Michelino da Besozzo come possibile autore.[96]
In ogni caso, gli stili di Stefano e Michelino, si assomigliano tanto che se il Madonna del Roseto fosse attribuita al secondo sarebbe da rivedere anche il catalogo del primo. È probabile che i due, entrambi di provenienza lombarda, si siano formati insieme probabilmente nella bottega del padre di Stefano, Jean d'Arbois, al servizio di Filippo II di Borgogna dove avrebbe appreso alcuni modi della pittura fiamminga. Non vi sono prove documentali di un soggiorno di Michelino a Verona, che comunque lavorò certamente a Vicenza e a Venezia, tuttavia gli influssi suoi e di Stefano contribuirono a plasmare il panorama pittorico veronese del secondo e terzo decennio del quattrocento. Oltre alla attribuzione condivisa con Stefano, a Michelino è attribuito il ciclo di affreschi della Chiesa di San Valentino a Bussolengo.[97]
Stefano e, probabilmente Michelino, non furono gli unici pittori "itineranti" che in questi decenni che chiudono la prima metà del quattrocento soggiornarono a Verona per tempi più o meno lunghi. Celebre è la presenza in città di Pisanello, tra i maggiori esponenti del Gotico internazionale in Italia e forse nato e formatosi proprio a Verona prima di spostarsi attraverso l'Italia conteso tra le corti più importanti. Nel 1426 decorò il Monumento a Niccolò Brenzoni presso la chiesa di san Fermo. Sempre a Verona dipinse anche la tardo gotica Madonna della Quaglia, oggi a Castelvecchio. Pisanello a Venezia fu collaboratore di Gentile da Fabriano che ne seguì i modi trasferendoli anche a Verona mediati dalla cultura pittorica veneziana; è stato osservato di come "la pittura veronese avesse da tempo dimenticato la monumentalità, e che Pisanello gliela renderà nuovamente ma in uno sforzo che rimarrà isolato".[98] L'esperienza veronese di Pisanello si concluse, probabilmente, con quello che è unanimemente considerato uno dei suoi capolavori: il San Giorgio e la principessa, affrescato tra il 1433 e il 1438 sulla parete esterna sopra l'arco di accesso della cappella Pellegrini nella basilica di Santa Anastasia. Celebrato anche dal Vasari, l'affresco è importante sia per la qualità del tratto e la composizione non banale, sia perché, nonostante i danni del tempo, rappresenta l'unica opera sostanzialmente integra della maturità di Pisanello.[87][99][100]
Come Pisanello, anche Michele Giambono probabilmente contribuì a portare a Verona lo stile veneizano e la lezione di Gentile da Fabriano. A lui è attribuito l'affresco di sfondo del monumento di Cortesia Serego sul presbiterio di Santa Anastasia.[101][102] Altre due sue opere autografe, una Dormitio Virginis e una Madonna che allatta il Bambino, oggi a Castelvecchio vennero probabilmente dipinte a Verona a dimostrazione di un suo lungo soggiorno a Verona. Circa negli stessi anni di Giambono, in riva all'Adige dovette lavorare anche Jacopo Bellini, anch'egli veneziano. Nel 1436 dipinse una Crocifissione per il duomo andata distrutta nel 1759 mentre un'altra Crocifissione firmata e datata 1436 è oggi esposta a Castelvecchio. Sempre a Castelvecchio è collocato un suo San Girolamo nel deserto collocabile nel terzo quarto del XV secolo.[103][104]
Tra tutti questi pittori di formazione lombarda o veneziana che lavorarono saltuariamente a Verona, si distingue Giovanni Badile che qui nacque e, a quanto risulta, mai lasciò la città natale. Cresciuto in una agiata famiglia di pittori, tra le altre opere più significative si ricordano il Polittico dell'Aquila e la Madonna della Levata entrambe a Castelvecchio. A lui, o più probabilmente a qualcuno della sua cerchia, è attribuita anche la cosiddetta Ancona Fracanzani anch'essa custodita nela pinacoteca cittadina. In queste opere è ben visibile l'influsso dell'arte tardo gotica lombarda portata a Verona da Stefano e Michelino. Di diverse altre opere è stata proposta una possibile attribuzione a Giovanni, tuttavia senza poter giungere a conclusioni soddisfacenti; certamente è invece sua la decorazione della Cappella Guantieri, in Santa Maria della Scala di Verona, dove eseguì gli importanti affreschi Storie di San Girolamo e di San Filippo, in stile trecentesco e influenzato da Altichiero sia per l'organizzazione degli scenari architettonici sia per l'utilizzo del colore.[105][106]
Seconda metà del quattrocento: la svolta di Mantegna
[modifica | modifica wikitesto]Il contesto pittorico veronese nel periodo compreso tra il 1450 e il 1480 fu caratterizzato da una certa desolazione che rese la città poco attraente per gli artisti spingendo anche i migliori locali a recarsi altrove. Le poche committenze furono quasi esclusivamente religiose e i pittori che vi lavorarono non riuscirono ad esprimere idee e correnti nuove che invece si diffondevano nelle altre città venete. Le difficoltà economiche e l'emergere di una nuova classe borghese poco attenta alla cultura umanista, sono le cause più comunemente riconosciute di una tale arretratezza. Sembra che il ruolo di protagonista appartenesse alla scultura dipinta, con Jacopo Moranzone uno dei maggiori esponenti, ma anche la miniatura ebbe un ruolo significativo, con molti pittori che iniziarono la loro carriera cimentandosi in questa pratica. Liberale da Verona e Francesco dai Libri sono probabilmente gli esempi più illustri dell'intensa attività di decorazione che si praticava negli scriptorium veronesi.[107]
La svolta fu segnata dall'arrivo nel 1459 della Pala di San Zeno di Andrea Mantegna, commissionato dall'abate commendatario Gregorio Correr. Con quest'opera, il pittore padovano, portò un nuovo linguaggio pittorico in città traghettando l'arte di Verona dal tardo gotico al Rinascimento. Di certo Mantegna torno a Verona soltanto nel 1497 quando dipinse la Pala Trivulzio per San Maria in Organo, ma la sua presenza in città fu probabilmente più continuativa di quanto si pensi poiché alcune sue opere sono andate perse. Inoltri, molti artisti veronesi si recarono certamente a Mantova per osservare le sue opere, pertanto è certo che la sua influenza a Verona non dovette limitarsi solo all'opera in san Zeno.[108]
In ongni caso, affinché dalla lezione di Mantegna potesse scaturire una corrente originale veronese definibile come "rinascimentale" dovettero passare diversi anni In questo periodo di transizione, emerse però l'opera di Francesco Benaglio. Probabilmente doveva essere già un pittore affermanto in città quando nel 1462 ricevette la commissione per una Sacra Conversazione per la chiesa di San Bernardino. Accusata di essere soltanto poco piùù che una copia del trittico mategnesco di san Zeno, l'opera è stata vista "come prova della forzata adattabilità della cultura locale, che continuava a mantenere uno stile tardo-gotico".[109][110][111][112] Altri hanno ancora rigettato l'idea che possa essere considerata soltanto come «una brutta copia» sottolineando che Benaglio non si limitò a imitare Mantegna ma dimostrò anche la capacità di fondere in essa le più recenti correnti artistiche veneziane introdotte dai fratelli Gentile e Giovanni Bellini. Indipendentemente dal giudizio qualitativo sull'opera, è innegabile il contributo che essa portò in città nel tentativo di superare, seppur magari forzatamente, quella stantia cultura tardogotica che da anni sclerotizzava la scuola veronese di pittura per adeguarsi alla «svolta mantegnesca».[112][113]
Oltre a Benaglio, nei primi decenni della seconda metà del XV secolo, a Verona fu attiva una bottega di pittura nota con la denominazione convenzionale di "Maestro del Cespo di Garofano". Le opere di questo gruppo riflettono uno stile che, pur essendo visivamente allineato con il nuovo linguaggio umanistico, mantiene ancora elementi di linearismo e grazia tipica del gotico, arricchiti da un sentore popolare. Dietro questo nome è stata recentemente riconosciuta la mano di Antonio Badile II, figlio di Giovanni, tuttavia non esistono documenti che confermino con certezza la sua paternità. Tra le opere principali di questa bottega: Madonna dei cherubini, I santi Cecilia, Tiburzio e Valeriano, Madonna Mazzanti, Madonna col Bambino in trono e le sante Maria Consolatrice e Caterina, Madonna col Bambino e i santi Biagio e Sebastiano tutte al museo di Castelvecchio e il trittico santi Rocco, Alessandro e Sebastiano per la chiesa di Quinzano.[114]
Il primo Rinascimento a Verona
[modifica | modifica wikitesto]Il Rinascimento a Verona è generalmente considerato iniziato intorno agli anni 1480, con il ritorno di Liberale da Verona in città e il raggiungimento dell'apice della produzione artistica di Domenico Morone. I colori accesi, la grande forza espressiva, la creatività originale, furono i tratti peculiari dello stile che Liberale da Verona portò nella città natale dopo un lungo soggiorno a Siena. Sua la decorazione, realizzata con tecnica grisaille, della cappella Bonaveri presso la basilica di santa Anastasia.[115][116][117][118] Sempre in Santa Anastasia dipinse Santissime Maddalena, Caterina e Toscana mentre per il duomo di Verona realizzò una Adorazione dei magi; diverse altre opere presenti in città sono a lui attribuite.[119] Continuò a dipingere fino alla tarda età (morirà nel 1530) perdendo però la qualità delle prime opere, considerate le più originali del Quattrocento veronese, non riuscendo ad adeguarsi alle nuovi correnti.[118] Domenico Morone iniziò come miniaturista per poi dedicarsi anche alla realizzazione di opere di più grandi dimensioni, di cui il polittico San Francesco, san Bernardino, san Bartolomeo e san Rocco è considerato uno dei primi esempi. Le fisionomie di questi santi ricordano quelle proposte da Benaglio, ma con una raffinatezza da lui non raggiunta. A differenza delle opere veronesi del Liberale che mantengono intatti i canoni stilistici di Andrea Mantegna, secondo lo storico Giuseppe Fiocco l'arte di Domenico Morone contemplò maggiormente le voci delle correnti veneziane, pur preservando alcune reminiscenze del gotico.[120][121] Nel corso dell'ultimo decennio del XV secolo, la bottega di Morone fu in continua ascesa ricevendo le commissioni per una serie di cicli per chiese come San Bernardino, Santa Maria in Organo, i santi Nazaro e Celso e infine Santa Maria in Mazara.[122]
Francesco Bonsignori è un'altra importante figura attiva alla fine del quattrocento che si può annoverare tra la prima generazione di pittori rinascimentali veronesi. Nato a Verona intorno al 1460, si formò probabilmente sotto Francesco Benaglio per poi proseguire l'apprendistato a Venezia; le sue prime opere veronesi note appartengono all'ottavo decennio del quattrocento: Madonna col Bambino, Pala Dal Bovo, Madonna col Bambino e santa Margherita, Allegoria della musica tutti al museo di Castelvecchio e una pala d'altare che rappresenta la Madonna col bambino in trono con i Santi Giorgio e Girolamo, risale al 1488, per la cappella dei Banda presso la chiesa di San Bernardino. Seppure ancora debitore dei modi dei pittori già affermati, riuscì fin da questi primi lavori a mettersi in luce per un proprio personalissimo stile fatto di "corpi massicci e tarchiati, da una formazione dura quasi legnosa delle pieghe e da un acuto contrasto fra luce ed ombra che modella in maniera molto plastica le forme".[123][124][125]
Il XV secolo si chiuse con l'affrescatura della Cappella di San Biagio (all'interno della chiesa dei Santi Nazaro e Celso), che impegnò il giovane Giovanni Maria Falconetto tra il 1497 e il 1499. Seppur "non essendo mai stato in grado di raggiungere una qualità pittorica davvero soddisfacente", Giovanni Maria fu anch'egli un artista che contribuì alla corrente veronese rinascimentale apportando contributi che apprese durante un suo soggiorno a Roma. La critica ha infatti evidenziato di come la maniera con cui affrescò le pareti della cappella abbia risentito di una forte influenza del Pinturicchio, che probabilmente Falconetto ebbe modo di frequentare. Anche la decorazione della cupola "richiama con maggiore evidenza alle cupole romane a cassettoni e costoloni". Dalle sue esperienze romane, Falconetto, importò a Verona anche l'uso delle grottesche fino a quel momento sconosciute. Al museo di Castelvecchio è conservata una sua tavola raffigurante Augusto e la Sibilla.[126][127][128]
Rinascimento, la scuola veronese di pittura
[modifica | modifica wikitesto]All'inizio del XVI secolo, Verona si trovava da un secolo sotto il dominio della Repubblica di Venezia, che manteneva un controllo amministrativo e militare, garantendo una relativa stabilità. Tuttavia, la città fu coinvolta nelle guerre italiane del XVI secolo, e nel 1509 fu brevemente occupata durante la guerra della Lega di Cambrai prima di essere restituita a Venezia. Strategicamente situata lungo le rotte commerciali, Verona era un importante centro economico e culturale. Gli artisti che animavano la scena dell'epoca erano perlopiù nati in famiglie provenienti dalla Lombardia giunte in riva all'Adige come muratori e scalpellini che qui fusero le loro reminiscenze originali con l'arte locale. Questi artisti, convertitisi alla pittura, dettero vita a botteghe che monopolizzarono le commissioni rendendo praticamente impossibile l'inserimento di pittori forestieri, con rari eccezioni come il soggiorno di Bartolomeo Montagna all'inizio del secolo. La committenza della prima metà del secolo era quasi esclusivamente sacra, con l’eccezione della decorazione delle facciate delle case che in questi anni si riempirono di dipinti a tema mitologico, sacro o allegorico tanto da rappresentare un caso eccezionale che fece meritare a Verona l'appellativo di urbs picta. La decorazione delle Case Mazzanti da parte di Alberto Cavalli è un esempio sopravvissuto.[129][130] Molto importante anche la committenza delle famiglie nobiliari per le loro cappelle private all'interno delle più importanti chiese cittadine.[131]
Gli inizi del XVI secolo coincisero anche con l'affermazione di una seconda generazione di pittori rinascimentali ispirati dalla Pala Trivulzio che Mantegna realizzò per nel 1497 per la chiesa di Santa Maria in Organo e oggi alla Pinacoteca del Castello Sforzesco.[131] Girolamo dai Libri, formatosi come miniaturista alla scuola del padre, esordì con grande successo proprio a Santa Maria in Organo con una Deposizione dalla croce, lodata anche dal Vasari. Girolamo collaborò spesso anche con l'amico Francesco Morone, figlio di Domenico, come nelle celebri portelle dell'organo della chiesa di Santa Maria in Organo, dipinte tra il 1515 e il 1516 e oggi alla chiesa di Marcellise. Sempre a Santa Maria in Organo, Francesco, decorò la sagrestia realizzando quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro.
Altri giovani artisti che caratterizzarono il Rinascimento veronese si formarono presso la bottega del vecchio Liberale. Da lui ereditarono la capacità di esprimere il pathos specializzandosi nella rappresentazione di personaggi piangenti, una tecnica che poi si diffonderà in molti artisti veronesi futuri.[132][133] Tuttavia, se il maestro negli ultimi anni di vita aveva dimostrato una sostanziale incapacità ad adattarsi ai nuovi modelli, i suoi allievi seppero cogliere le varie correnti pittoriche che scorrevano per tutta la penisola. Dopo essersi formato presso Liberale, Giovan Francesco Caroto viaggiò a lungo nell'Italia settentrionale venendo in contatto con l'arte di Mantegna, Raffaello, Bernardino Luini e Bramantino che importò a Verona influenzando profondamente la stantia scena locale. La sua opera più celebre, Fanciullo con disegno, per l'originalità del soggetto rappresenta quasi un unicum nel panorama artistico del suo secolo.[134] La sua Pietà della lacrima è un fulgido esempio della specializzazione della scuola veronese nel ritrarre figure piangenti.[135]
Nicola Giolfino, anch'egli allievo di Liberale, fu una personalità tormentata e a tratti eccentrica. Sensibile alle lezione di Lorenzo Lotto e agli influssi tedeschi, fu autore di molte opere in grado di "creare un linguaggio originalissimo, senza riscontro nella coeva pittura veronese».[136][137] Tra i suoi lavori più importanti, Madonna dei Gelsomini e la serie delle Allegorie, ambedue custoditi al museo di Castelvecchio.[138][139]
La vita di Paolo Morando fu tanto breve, morì a soli 36 anni nel 1522, quanto ricca di produzione pittorica. Allievo di Francesco Morone, presto superò il maestro grazie alla sua capacità di recepire le diverse correnti artistiche evolvendosi dal tono ieratico e solenne del maestro rivelando un approccio monumentale inedito nel panorama veronese. Le sue opere più importanti sono il Polittico della Passione (1517) e la Pala delle Virtù (1522), oggi entrambi a Castelvecchio.
Il manierismo a Verona
[modifica | modifica wikitesto]Ta la fine degli anni 1520 e gli inizi del decennio successivo, anche Verona venne investita dall'onda manierista che, da Roma, stava raggiungendo tutta l'Italia. Il primo sentore fu l'arrivo in città dell'arte di Raffaello Sanzio attraverso le stampe di Marcantonio Raimondi e al suo dipinto La Perla, di chiaro stampo manierista, giunto a Verona insieme a Ludovico di Canossa.[140] Inoltre, nel 1534, Francesco Torbido, artista nato a Venezia ma poi formatosi nella bottega di Liberale, frescò il coro della cattedrale veronese su disegno di Giulio Romano, una delle più importanti e versatili personalità della maniera.[141]
L'introduzione del manierismo attraverso opere di artisti forestieri, sconvolse l'ambiente delle botteghe veronesi che da decenni cautamente impedivano l'arrivo di lavori esterni.[137] Molti tra i vecchi pittori che allora dominavano la scena tentarono di recepire i nuovi modi, ma spesso senza grande convinzione: se Girolamo dai Libri mosse timidamente in questa direzione (la sua Madonna della Quercia ne è un esempio), Giovani Francesco Caroto rimase tenacemente ancorato ai vecchi stilemi sebbene in tarda età avesse provato con il suo Lucifero scacciato ad adeguarsi sebbene ormai il suo tempo fosse passato[142] Giolfino fu tra questi il più reattivo alla nuova cultura, non riuscendo tuttavia a coglierla completamente, come nelle non troppo felici Storie della Passione, dipinte per la chiesa di San Bernardino (ora a Castelvecchio).[143]
Perché si possa parlare di un manierismo locale bisogna aspettare l'arte di Domenico Brusasorzi e di Battista del Moro che la critica indica come "traghettatori" verso questo movimento che modificò profondamente il contesto veronese.[144] Nel 1522 Domenico e Battista vennero chiamati dal cardinale Ercole Gonzaga, insieme ad altri due giovani pittori veronesi - Paolo Caliari e Paolo Farinati - per dipingere quattro pale d'altare per il duomo di Mantova.[145]
Paolo Caliari, detto "il Veronese", è probabilmente il pittore nato a Verona più celebre. Formatosi presso la bottega di Antonio Badile, in realtà la sua carriera si svolgerà in gran parte lontano dalla sua città natale dove lascia due opere giovanili, Compianto sul Cristo morto e la Pala Bevilacqua-Lazise, entrambe di chiaro stile manierista. Rientrerà successivamente a Verona solo sporadicamente come tra il 1555 e il 1556 quando dipinse Cena in casa di Simone il fariseo (oggi conservata nella Galleria Sabauda di Torino) che eseguì su incarico dei monaci benedettini di San Nazaro e Celso per il refettorio del loro convento. Oltre a essere considerata la più importate opera del Caliari in terra natia,[N 4] essa aprì la serie delle sue celebri "Cene".[146] Nel 1566 tornò nuovamente per sposare la figlia del maestro Antonio Badile e nell'occasione dipinse un Martirio di San Giorgio per l'altare maggiore della chiesa di San Giorgio in Braida.[147][148] Nonostante il poco tempo trascorso a Verona, il suo stile sarà di grande esempio per gli altri artisti locali meno famosi.
A differenza del Caliari, Paolo Farinati dette vita a Verona ad una solida bottega la cui ampia attività è ben documentata grazie al suo Giornale in cui annotò con precisione tutte le commissioni fornendo agli storici dell'arte un valido strumento per ricostruire la vita di un pittore della seconda metà del XVI secolo. Restio a rincorrere le innovazioni,nel rappresentare i suoi soggetti spesso ricorse a una «pittura movimentata nel groviglio delle membra, ma anche negli effetti compositivi».[149] In tarda età Farinati lavorò intensamente per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso dove fu autore degli affreschi del catino absidale e di grandi tele per il presbiterio.
Ma molti altri furono i pittori veronesi che lavorarono alle decorazioni delle grandi chiese di Verona che in quegli anni andavano ad arricchirsi di pale d’altare o affreschi parietali, come Orlando Flacco, Bernardino India, Michelangelo Aliprandi, Sigismondo de Stefani. Di Orlando Flacco, allievo anche lui del Badile, ricordiamo in particolare una Resurrezione di Lazzaro (oggi a Castelvecchio), mentre de Stefano fu autore di un Martirio di san Lorenzo per la chiesa di San Giorgio in Braida vicina alla maniera del Veronese. Bernardino India è considerato il "più manierista" tra i veronesi e tra il suo catalogo si può annoverare una Santa Giustina, anch'essa a Castelvecchio, oltre a numerose altre tele per le maggiori chiese di Verona. Ma non mancò anche le commissioni private per soggetti profani, spesso legate ai cantieri del celebre architetto veronese Michele Sanmicheli o Andrea Palladio che impegnarono molti degli artisti già citati e altri come Giovanni Battista Zelotti spesso operante insieme al Veronese in molte ville venete.[150] Jacopo Ligozzi nacque in una famiglia veronese da tempo dedita all'arte. Dopo un periodo trascorso in Trentino, fece ritorno a Verona intorno al 1572 prima di essere chiamato a Firenze nel 1577.[151]
Alla fine '500 si può dire che Verona era uscita da quella situazione stantia e chiusa che aveva contraddistinto gli anni intorno alla metà del secolo, tuttavia anche la generazione che aveva introdotto e sviluppato il manierismo andava a scomparire. Le committenze erano prevalentemente assorbite dalle due più importanti botteghe attive in città, quella di Paolo Farinati continuata dai figli Orazio e Giambattista, e quella di Felice Brusasorzi, figlio di Domenico. Fu quest'ultima ad avere più successo e a raccogliere a sé tanti giovani e valenti pittori che saranno i protagonisti del secolo successivo e anticipano il modo di fare bottega e istruire gli allievi che sarà poi tipico dell'Accademia del XVIII secolo.[152]
Il barocco del XVII secolo
[modifica | modifica wikitesto]Il primo trentennio del XVII secolo
[modifica | modifica wikitesto]Come detto, Felice Brusasorzi è stata la figura chiave della pittura veronese a cavallo tra cinquecento e seicento. Felice soggiornò a lungo a Firenze dove venne in contatto con i modelli tardo manieristici dell'Italia centrale che poi portò a Verona fondendoli con la tradizione locale. Può essere considerato un anticipatore del barocco che contraddistinguerà il secolo successivo.[153] Tra le tele più importanti ricordiamo I Tre Arcangeli per la chiesa di San Giorgio in Braida, Flagellazione e Deposizione per sanmicheliana chiesa della Madonna di Campagna, Madonna e santi per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso (citata anche dal Vasari), San Raimondo e San Vincenzo nella basilica di Sant'Anastasia, Mosè salvato dalle acque oggi a Castelvecchio.
Nel 1602 il pittore fiammingo Peter Paul Rubens, secondo Giuliano Briganti l'«l'archetipo del "barocco"»,[154] e il suo inevitabile contatto con il Brusasorzi, probabilmente facilitato dai suoi allievi di bottega desiderosi di apprendere nuovi stili, fu determinante per lo sviluppo dell'arte veronese verso il nuovo stile che stava propagandandosi in tutta Europa sugli echi della Riforma protestante e della Controriforma.[155][156] Ma se Rubens fu certamente il primo a far conoscere il barocco compiuto di provenienza nordica a Verona, anche i ritorni in città di Jacopo Ligozzi e Claudio Ridolfi saranno fondamentali per far conoscere in riva all'Adige le declinazioni centro-italiche.[157]
Quando Felice morì all'improvviso (probabilmente assassinato) nel 1605, la sua bottega si trovava in un periodo di grande attività, forte di una concorrenza quasi inesistente, con molte commissioni ancora in corso che vennero continuate dai suoi numerosi discepoli tra cui possiamo ricordare nomi di: Sante Creara, Pasquale Ottino, Marcantonio Bassetti e Alessandro Turchi.[158][159] Questo gruppo di giovani pittori, dallo stile aderente all'arte della Controriforma, sarà, nonostante le trasferte (soprattutto a Roma) di molti di loro, il protagonista della scena veronese fino alla terribile peste del 1630.
Sante Creara, l'allievo più anziano, durante l'apprendistato nella bottega del Brusasorzi ebbe l'opportunità di recarsi a Firenze dove poté venire in contatto con il manierismo locale che lo influenzerà nelle sue prime importanti opere come si può vedere nella Consegna delle chiavi di Verona a Gabriele Emo, Provveditore Generale della Serenissima per la Loggia del Consiglio cittadino. Nel 1607 fu impegnato nel terminare una Santissima Trinità per la chiesa dei Santi Apostoli lasciata incompiuta dal maestro. A differenza dei suoi compagni, ai viaggi preferì una tranquilla vita a Verona che però incise sulla sua arte che sarà povera di stimoli e di sviluppi.[160] Pasquale Ottino fu tra i pittori di maggior successo del primo seicento veronese. Sotto la direzione di Brusasorzi si specializzò nella ritrattistica per la committenza aristocratica cittadina ma la sua capacità in questo genere è dimostrata soprattutto nel suo Ritratto di monaco del Museo di Castelvecchio. Alla morte del maestro fu chiamato a continuare le molte commissioni in capo alla bottega, tra cui l'ultimazione de La manna nel deserto per la chiesa di san Giorgio in Braida. È documentato un suo soggiorno romano antecedente al 1612. Nel 1619 ricevette insieme agli ex compagni Turchi e Bassetti l'incarico di realizzare una tela ciascuno per la costruenda cappella Varalli della chiesa di santo Stefano, uno dei pochi esempi di architettura barocca che Verona possa offrire. Ottino realizzò Strage degli innocenti (al centro della cappella), Bassetti I cinque santi Vescovi (a destra) e Turchi I quaranta santi martiri veronesi (a sinistra). Le tre tele dimostrano le influenze caravaggesche, nonché di Guido Reni, che i tre amici dovettero apprendere durante i loro viaggi a Roma.[161][162][163][164]
La scena pittorica veronese del primo XVII secolo fu quindi monopolizzata dagli ex allievi del Brusasorzi, pochi infatti furono agli altri pittori che ricevettero commissioni rilevanti e ancora meno quelli che hanno lasciato contributi significativi. Claudio Ridolfi, di nobile stirpe, si era formato con Paolo Caliari a Venezia e come il maestro aveva proseguito la carriera nella città lagunare prima di recarsi a Urbino e a Roma. Con Verona tenne comunque sempre stretti contatti ricevendo commissioni importanti, grazie anche all'importanza della sua famiglia, a cui rispose inviando le proprie tele. Tra le sue opere più importanti custodite nella città natale vi sono una Assunzione presso la chiesa di Madonna di Campagna del 1596, una Flagellazione di Gesù nella Basilica di Sant'Anastasia, Annunciazione a Sant'Eufemia, Maddalena in contemplazione della Madonna con i santi Giovanni e Nicolò per la chiesa di San Paolo in Campo Marzio, un San Siro e una Circoncisione entrambi al museo civico.[165] Come molti altri pittori della sua generazione, Antonio Giarola frequentò a lungo le botteghe romane dopo l'iniziale formazione veronese e forse veneziana. Nel veronese fu autore di diverse opere, tra cui una Crocifissione tra i santi Francesco e Carlo Borromeo per la parrocchiale di Mezzane di Sotto e una Madonna e i santi Caterina e Nicola del museo di Castelvecchio, entrambe collocabili tra il 1620 e il 1621.[166][167]
Dopo la peste del 1630
[modifica | modifica wikitesto]L'epidemia di peste del 1630 che infuriò su gran parte dell'Italia settentrionale causò la morte a Verona di oltre la metà della popolazione. Tra le vittime vi furono anche gli ex allievi del Brusasorzi ad eccezione del Turchi che si trovava fuori città. Terminata la pestilenza la ripresa fu lenta e priva di vitalità: la città si trovava spopolata, l’economia era stagnante e la scena culturale si trovò ad affrontare una "lunga notte".[168][169][170] L'attività pittorica in realtà non si ferma del tutto, anzi, la produzione negli anni seguenti alla peste è abbastanza sostenuta, ma è una produzione economica, di bassa qualità, affidata ai pochi artisti superstiti, spesso semplici mestieranti.[171] Tra i pochi sopravvissuti, di Giovanni Battista Barca non si conoscono dipinti antecedenti alla peste. Legato a famiglie aristocratiche cittadine alternò committenze private a tele per le principali chiese cittadine, come una Deposizione dalla croce per San Fermo Maggiore, una Madonna per chiesa di San Nicolò all'Arena e un Martirio dei Santi Crispino e Crispiniano per la chiesa di Santa Maria della Scala.[172]
Venuti a mancare gran parte dei pittori locali, non sorprende che negli anni successivi alla peste a Verona giungessero o facessero ritorno artisti provenienti da altre città, spesso però per brevi soggiorni senza lasciare peraltro impronte significative. Antonio Giarola fece ritorno da Venezia intorno al 1636 chiamato a dipingere la pala votiva Verona implora la Trinità per la cessazione della peste per la cappella della Madonna presso la Chiesa di San Fermo Maggiore. Sempre Giarola, in età avanzata, sarà autore dell'interessante ritratto del canonico Giambattista Cassani oggi al museo di Castelvecchio.[173] Frà Semplice da Verona, forse anch'egli tra gli allievi del Brusasorzi, fece ritorno nella città natale nel 1640 dove iniziò intesa attività per le case dei frati capuccini per tutta la provincia.[174] Mattia Preti invia la tela Santi Gaetano da Thienee e Sant'Andrea Avellino per la chiesa di San Nicolò e un San Paolo eremita per la chiesa di san Fermo e oggi in deposito a Castelvecchio.[175][176]
Intorno al 1672 il pittore romano Giacinto Brandi inviò una Assunta per la chiesa di Santa Maria in Organo mentre l'anno successivo toccò al napoletano Luca Giordano inviare un Beato Bernardo Tolomei battuto dai demoni per la stessa chiesa.[177] Negli anni 1670 il veneziano Giulio Carpioni tenne bottega a Verona mostrando una grande capacità di adattamento allo stile locale. Sue le tele San Mauro che risana gli ammalati per la chiesa dei Santi Nazaro e Celso, una Maddalena per chiesa di Sant'Eufemia e una Crocifissione oggi a Castelvecchio, quest'ultima uno dei rari lavori di piccolo formato della suo periodo veronese.[178][179][180][181] Da Trento giunse Biagio Falcieri, sebbene non trovando a Verona una grande fortuna. Fu autore della decorazione del soffitto della chiesa di San Bernardino (andato distrutto durante la seconda guerra mondiale e di alcuni ritratti di funzionari veneti.[182]
Rinnovamento alla fine del XVII secolo
[modifica | modifica wikitesto]Dopo il 1680 Verona conobbe una lenta ripresa economica favorita dai buoni rapporti instaurati con l'impero alla fine della guerra dei trent'anni che permisero un riapertura dei mercati con il nord Europa. La scena artistica locale risentì delle mutate condizioni e, pur dimostrando una sostanziale incapacità di rinnovamento, fu capace di ritagliarsi un ruolo considerevole nel mercato d'arte del tempo.[183] L'arrivo della tela di Gregorio Lazzarini San Leonardo libera i prigionieri (di collocazione ignota dopo un furto) e di David inorridito davanti alle armi di Saul (oggi a Castelvecchio) di Sebastiano Ricci, esercitarono una profonda influenza sulla nuova generazioni di pittori attivi a Verona che traghetterà la scena locale ben oltre gli inizi del XVIII secolo.[184] "L'ultimo quarto del diciassettesimo secolo è forse da considerarsi come l'ultima stagione aurea della pittura veronese che si prolunga nel secolo successivo senza soluzione di continuità".[185]
Sante Prunati, apprese i rudimenti della pittore presso Biagio Falcieri ma volendo ottenere una formazione migliore rispetto a quella che poteva offrirgli lo stantio ambiente veronese ancora legato ad una vetusta tradizione decise di spostarsi a Venezia presso Johann Carl Loth e poi a Bologna da Carlo Cignani. Quando tornò a Verona intorno al 1680 portò nella città natale un nuovo classicismo che influenzerà molti pittori della sua generazione. Qui esordì con una Ultima Cena per la Chiesa di San Tomio e ora a Castelvecchio nel quale "compendia, nel relativo tenebrismo, tutto il percorso di formazione che va dai ricordi di Domenico Brusasorzi a quelli del Riccoi, equilibrati, tuttavia, in un composto pietismo". Degli inizi degli anni 1690 è il suo Agar e l’angelo per la chiesa di san Nicolò mentre nel 1699 realizzò una Presentazione al Tempio per la cappella dei Notai e oggi a Castelvecchio.[186] Anche Alessandro Marchesini si formò inizialmente presso la bottega del Falcieri per poi approdare, solo diciassettenne, a Bologna da Cignani. La sua prima commissione arrivò intorno al 1687 quando gli venne chiesto di affrescare il soffitto della Chiesa di San Domenico Verona con le scene di san Domenico e di santa Caterina da Siena in cui risulta evidente il suo stile veneto-emiliano. Nel 1699 lavorò alla Natività per la cappella dei Notai e ad una Annunciazione oggi al Museo di Castelvecchio. Fu autore anche di molte altre pale d'altare per le diverse chiese della provincia di Verona.[187][188]
Nell'ultimo decennio del XVII secolo si trasferì a Verona il pittore Louis Dorigny e qui ottenne numerose commesse tra cui la tela Giuseppe interpreta i sogni del Faraone per San Nicolò, una Annunciazione per la Cappella dei Notai, un San Cristoforo per l’altare degli Osti nella Chiesa di Sant’Eufemia a Verona. Nel 1699 dipinge un ovale con Ercole all’ingresso di palazzo mentre è del 1703 la Caduta della manna per la chiesa di San Luca.[189].[190] Lo stile raffinato e teatrale del Dorigny influenzò particolarmente il veneziano Simone Brentana giunto a Verona nel 1694 dove fu apprezzato e stimato come artista,[191][192] Antonio Balestra iniziò la sua formazione a Verona, ma non maestri all'altezza delle sue ambizioni, nel 1687 si recò a Venezia e poi a Roma. Nel 1697 fece un breve ritorno a Verona; nello stesso anno dipinse una Annunciazione per la chiesa degli Scalzi.[193][194]
"La piena attività di Prunati, Dorigny, Brentana, Calza, Marchesini, Balestra a fine Seicento a Verona è solo l'acme di una attività e di un movimento che si esaurirà nell'arco di tutto il secolo seguente, infrangendosi soltanto nei rivolgimenti dell'età napoleonica, fino ad esaurirsi nei geli accademici della Restaurazione".[195]
Il Settecento fino all'arrivo di Napoleone
[modifica | modifica wikitesto]All'alba del Settecento la pittura veronese si trovava ad affrontare un lento declini. Le novità creative più interessanti, come quelle di Calza, Prunati, Dorigny e Brentana, si erano già espresse nell'ultimo quarto del secolo precedente e questi artisti, pur continuando ad affermarsi come maestri, non seppero innovare la propria arte. Antonio Balestra fu probabilmente fu l'unica figura significativa del primo settecento veronese, "un punto di riferimento per tutta la cultura figurativa della città in questo secolo. La sua posizione fu importante perché in bilico tra una sorte di classicismo accademico e l'accettazione del linguaggio rococò che nasceva a Venezia sin dai primi anni del 700".[196] Lavorò per sia per le famiglie nobili venete, sia per commissioni religiose che lo portarono a dipingere, tra le altre, una Annunciazione per la chiesa degli Scalzi, un San Giovanni Battista per la chiesa di San Nicolò all'Arena, una Annunciata per la chiesa di San Tomaso Cantuariense, una Beata Vergine per la cattedrale di Verona, una Madonna del Rosario e un Sposalizio di Santa Caterina per la chiesa di santa Maria in Organo. Non volendo confrontarsi con i nuovi linguaggi, preferì l'ambiente classico e conservatore che gli offriva Verona, dove nel 1718 si ritirò continuando tuttavia a seguire i suoi allievi.[197]
Una svolta al tradizionalismo veronese si ebbe con una nuova generazione di pittori formati presso l'accademia di Sante Prunati che intendeva essere la continuatrice della scuola di Felice Brusasorci,[N 5] dispersa il secolo precedente a seguito della peste. I suoi numerosi allievi seppero preservare e consolidare questo patrimonio artistico.[198]
Felice Torelli iniziò con Prunate prima di trasferì a Bologna per approfondire la sua formazione. Scipione Maffei, l’erudito suo contemporaneo, lo descrisse come uno dei massimi artisti veronesi e nel 1732 lo lodò per aver «composto un misto di modi bolognesi e veronesi che riesce graditissimo». Tra le sue poche opere lasciate nella città natale si ricorda una Immacolata (circa 1710), Madonna col Bambino e San Nicolò per la chiesa di Santa Maria in Organo e una San Pietro Martire per la basilica di Sant'Anastasia (1727).[199]
Felice Cappelletti lavorò alla parrocchiale di Torri del Benaco dove dipinse il Salvataggio di San Pietro e l'Angelo che abbatte gli idoli. Per la Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo a Parona realizzò una Vergine col Bambino e due Santi caratterizzata da scala verticale che rivela la sua capacità monumentale e retorica.[200] Bartolomeo Signorini, uno dei primi allievi di Prunate, è noto per le sue numerose pale d'altare, come quella nella parrocchia di Erbezzo.[200] La maniera di Paolo Pannelli ricorda molto quella del maestro nei chiaroscuri e nei colori. Una delle sue opere più conosciute, Le Tentazioni di San Domenico (1720), mostra un cromatismo vivace.[201] Odoardo Perini, pittore dotato di viva originalità, dopo una prima esperienza con Prunate, studiò a Bologna per poi portare quando appreso a Verona.[202]
Ma tra gli allievi di Prunate si distinse Giambettino Cignaroli la cui fama si estese sia tra i contemporanei che tra i successori. Alla morte del maestro si avvicinò alla scuola di Dorigny e Balestra, sviluppando uno stile raffinato e influenzato dal classicismo. Soggiornò a Bergamo, Venezia e Chioggia, prima di fare ritorno, intorno al 1738, a Verona chiamato dall'aristocrazia locale per decorare i propri palazzi e ville. Nonostante che saltuariamente si recasse anche nelle città limitrofe, a partire dagli anni 1750 la sua attività si concentrò prevalentemente nel veronese diventandone il protagonista della fase scena locale. Tra i suoi lavori conservati nella città scaligera: Betsabea al bagno conservato nella galleria d'arte moderna Achille Forti, Vergine e San Tommaso da Villanova per la chiesa di Santa Eufemia. Cignaroli contribuì a fondare nel 1764 l'Accademia di belle arti di Verona, oggi ancora attiva, con lo scopo di formare giovani artisti, promuovendo l'arte classica e rafforzando la scena artistica locale raccogliendo così l'eredità che affondava le radici nella scuola seicentesca iniziata da Felice Brusasorzi.[203][204]
Contemporaneo di Cignaroli e anch'egli allievo del Balestra, Pietro Rotari, aprì nel 1734 una scuola a Verona dove insegnò gratuitamente ottenendo fama e successo. E' noto per le sue opere religiose come La Vergine con i 7 fondatori dei Servi di Maria a Santa Maria della Scala, in cui si distinse per uno stile più freddo rispetto al luminismo all'ora molto diffuso. Eccelse però nei ritratti, apprezzati per il realismo e la freschezza dei colori, in particolare le serie di bambini e fanciulli. Tra i suoi allievi, Felice Boscaratti si distinse per il suo spirito inquieto e satirico, ma anche per la sua curiosità e capacità di assimilare diversi stili. Tra le sue opere ricordiamo i santi Ignazio e Bonaventura nella cappella Canossa nella chiesa di San Bernardino a Verona e le tele il sogno di Elia e il sacrificio di Melchisedech collocate nel transetto della chiesa dei Santi Nazaro e Celso sempre a Verona.[205][206]
Matteo Brida fu anch'egli un allievo di Antonio Balestra, ispirandosi in particolare a Raffaello e Domenichino. Tra le sue opere più rilevanti si annovera la pala d'altare di Sant'Alò libera un indemoniato a Castelvecchio. Anche Giambattista Mariotti Pietro Longhi, discepoli del Balestra, lasciarono numerose testimonianze artistiche in città.[207] Anche Domenico Pecchio è della scuola del Balestra, seppure fosse stato per gran parte autodidatta; sua è una piccola tela con Pastore e contadinelle con rustici in secondo piano esposta la museo di Castelvecchio.[208]
La prima metà del Settecento a Verona si distinse anche per l'inizio di una produzione di letteratura critica artistica che superò per ricchezza quella di molte altre città limitrofe. Nel 1718, Bartolomeo Dal Pozzo pubblicò Le vite de' pittori, degli scultori et architetti veronesi, seguito nel 1732 da Scipione Maffei con Verona illustrata, un'opera di sintesi critica. Tra il 1749 e il 1756, Giambattista Biancolini aggiunse Notizie storiche delle chiese di Verona.[209]
Mentre la pittura locale attraversava un periodo felice, altri diversi artisti di passaggio, come Giambattista Tiepolo e Giovanni Battista Pittoni, contribuirono con le loro opere a portare nuove idee. Il Tiepolo, in particolare fu chiamato a decorare Palazzo Canossa in occasione delle nozze della figlia della famiglia Canossa, celebrate il 13 settembre 1762. Il lavoro fu danneggiato gravemente durante la seconda guerra mondiale, ma originariamente consisteva in un grande soffitto decorato con un ovale centrale.[210][211]
Accanto alle accademie di Cignaroli e Rotari, a cavallo tra la metà del settecento, il pittore Giovanni Battista Marcola (allievo di Brentana) dette vita con i figli Nicola, Marco, Francesco e Angela, ad una vera e propria impresa famigliare, protagonista della seconda metà del settecento veronese. I Marcola lavorarono principalmente su importanti commissioni da parte degli aristocratici veronesi, come la decorazione di Villa Canossa a Grezzano e di Villa Dionisi a Cerea. Marco Marcola contribuì anche alle decorazioni della Villa Bernini Buri a san Michele Extra e alla Villa Marioni Pullè del Chievo. Intorno al 1790-1791, realizzò per la Chiesa degli Scalzi un affresco raffigurante Gloria di santa Teresa mentre al museo di Castelvecchio è conservato un suo disegno con Baccanale del gnocco.[212][213] Nel campo della pittura paesaggistica, Tommaso Porta, coadiuvato dal figlio Andrea, detenne quasi il monopolio. I loro lavori non si limitarono a singole tele, ma spesso si occuparono della decorazione di intere sale, a Villa Pompei Carlotti ad Illasi, la Villa Pellegrini Marioni Pullè a Chievo e il Palazzo Serpini Salvetti Paletta Dai Pre a Verona.[214][215]
Nell'ultimo ventennio del Settecento, il panorama artistico veronese cominciò a mutare nuovamente. La diffusione della quadratura, che occupava interamente lo spazio pittorico, influenzò l'approccio alla decorazione degli ambienti, ora orientato verso spazi più contenuti e confortevoli.[216] Gli artisti che conclusero il secolo, come Saverio Dalla Rosa, Agostino Ugolini e Angelo Da Campo, ottennero limitati risultati, ancora influenzati dai maestri della prima metà del Settecento. L'arrivo delle truppe napoleoniche nel 1797 segnò la fine di un'era: le chiese furono spogliate delle loro opere d'arte, e il mercato, saturo di dipinti requisiti, non permise per lungo tempo nuove importanti commissioni.[217]
L'Ottocento
[modifica | modifica wikitesto]Sotto la dominazione francese e austriaca
[modifica | modifica wikitesto]È stato osservato come "forse solo la peste del 1630 ebbe un'incidenza così devastante sulla tranquilla vita cittadina quanto l'affacciarsi delle truppe napoleoniche" nel giugno 1796.[218] Le difficoltà degli anni successivi ebbero forti ripercussioni sulla scena artistica mentre molte opere di grande pregio furono vittime delle spoliazioni napoleoniche comprese le tele di Mantegna, Tiziano e Veronese. Fondamentale fu il lavoro di Saverio Dalla Rosa, direttore dell'Accademia dal 1805, nella protezione del patrimonio culturale. Egli supervisionò la confisca e la catalogazione delle opere e nel 1812 fondò una pinacoteca pubblica per evitarne la dispersione. La soppressione di molti ordini religiosi e la chiusura di alcune parrocchie causò l'abbandono di tante chiese e la conseguente immissione nel mercato di numerosissime opere d'arte quattro e cinquecentesche che causò il crollo di nuove commissioni da cui si salvò solo la ritrattistica.[219][220]
Con la parabola dei pittori di fine settecento oramai in discesa, la crisi è grave. Appare venire meno l'esistenza di una autonoma "scuola veronese di pittura" che, tra alti e bassi, poteva essere identificata, per tradizione stilistica e di linguaggio, nella scena artistica locale dall'epoca comunale al settecento. I pittori ora attivi in riva all'Adige sono veronesi solo per nascita o residenza ma privi di caratteri omogenei e riconducibili al contesto locale. La tradizionale "bottega" non esiste più, la formazione avviene esclusivamente come autodidatti o all'interno dell'Accademia. La committenza religiosa, vero motore dell'attività artistica, scarseggia più che nelle altre città limitrofe mentre il classicismo è lo stile predominante senza peraltro apportare grandi innovazioni. La ritrattistica inizia un lento declino come la decorazione degli interni, mentre la paesaggistica la fa da padrone. Verona è intanto passata dal 1815 sotto il dominio austriaco.[221][222]
Un primo segnale di ripresa si ebbe in occasione del congresso di Verona del 1822 quando la città, trovatasi proiettata in un contesto internazionale, si rianimò.[223] Giuseppe Canella fu una delle figure di maggior rilievo di questi anni. Nato nel 1788, nei primi anni di attività si dedicò alla realizzazione di scenografie per teatri cittadini e alla decorazione pittorica, ad affresco, di residenze nobiliari. Dotato di un "solido senso dell'organizzazione spaziale e della percezione prospettica della scena", dal 1832 si trasferì a Milano, tuttavia inviando spesso le sue opera a Verona dove "era venerato come una gloria cittadina".[224][225] Tra i numerosi pittori influenzati dalla sua maniera si distinse il fratello Carlo Canella che, frequentante dell'Accademia locale, realizzò diverse vedute cittadine, ritratti e scene di genere di gusto neofiammingo.[226]
Da ricordare anche il contributo in questi anni dato da Paolino Caliari, che spesso si cimentò nella copia degli antichi maestri rinascimentali e nel loro restauro "facendo diventare famigliari i capolavori del '400 e del '500 veronese". Sua è l'attuale predella della Pala di San Zeno in sostituzione dell'originale vittima delle spoliazioni napoleoniche.[227] Il figlio Giovanni si distinse soprattutto nella pittura sacra lavorando a Verona nella chiesa di Sant'Eufemia, in San Pietro Incarnario, in Santissima Trinità in Monte Oliveto in Santi Nazaro e Celso (insieme al padre e nella chiesa di San Pietro Martire.[228]
Intanto l'Accademia diventa sempre di più "il polo gravitazionale di tutta la vita artistica veronese che essa regola soprattutto attraverso le mostre che, a partire dal 1829, sono concepite come occasioni per l'esibizione dei migliori lavori degli allievi". Qui si studiano i pittori classici, come Paolo Veronese, Caroto, Domenico e Felice Brusasorzi, Turchi, mentre la critica pubblica sulle riviste locali i propri giudizi sugli studenti.[229]
L'ambiente veronese, privo in questi anni di un suo carattere distintivo, è invece molto attento alle influenze esterne. Se il mantovano Giuseppe Razzetti porta a Verona gli elementi raffaelleschi propri della sua città natale e lascia a Verona un'enorme tela con San Tommaso apostolo che intercede per gli appestati di Verona per la chiesa di San Tomio, il passaggio in città del celebre Francesco Hayez, esponente del romanticismo e dal 1827 anche socio onorario dell'Accademia veronese, non fu privo di conseguenze sulla pittura locale.[230][231]
Ma il pittore più emblematico del periodo austriaco fu certamente Carlo Ferrari, detto "Ferrarin". Anch'egli si formò all'Accademia sotto la guida di Pietro Nanin e Lorenzo Muttoni. Celebre per la paesaggistica, per le tele a carattere storico e per le sue rappresentazioni di piazza delle Erbe, realizzò anche molti ritratti di alti ufficiali asburgici guadagnandosi i loro favori. Divenne uno dei pittori favoriti di Josef Radetzky che gli commissionò un quadro all'anno, soprattutto vedute di Venezia. Tra i suoi ammiratori vi fu addirittura l'imperatore Francesco Giuseppe che vistò il suo studio.[232][233]
Nel 1854 giunse a Verona il tedesco Moritz Lotze dove aprì uno dei primi studi fotografici portando nella città scaligera una novità con cui la pittura non potrà sottrarsi al confronto.[234] Intanto il clima politico in città si faceva sempre più opprimente, Le guerre d'indipendenza italiane avevano irrigidito il controllo e la censura degli austriaci con i conseguenti effetti sulla scena artistica locale.[235]
Verona "italiana"
[modifica | modifica wikitesto]Con il plebiscito del 1866 Verona entrò a far parte del Regno d'Italia. Nell'immediato, il mutamento politico non interessò più di tanto l'ambiente artistico sebbene sia da registrare un aumento dei dipinti a tema patriottico. Tra i pittori più attivi in questa fase si possono citare Giacomo Fiamminghi e Angelo Recchia, entrambi fortemente legati all'Accademia.[236][237]
Nel 1873 il veneziano Napoleone Nani divenne direttore dell'Accademia di pittura veronese. Descritto come insegnante rispettato ma non particolarmente amato dai suoi allievi portò in città le innovazioni che già si erano manifestate a Venezia. E così, insieme a Nani, giunse a verona il verismo e il diffondersi della pittura di genere "capace di dipingere soggetti in apparenza umili e modesti, riscattandoli dalla dimensione meramente aneddotica".[238][239]
Ma anche il naturalismo, di cui Ercole Calvi è probabilmente tra i maggiori esponenti veronesi di quel tempo, iniziò a vivere la sua stagione più fortunata dopo i fasti dei Canella di cui egli stesso ne fu probabilmente allievo. Capace di costruire prospettive interessanti basate su piani paralleli in successione di profondità, Calvi usò spesso inserire elementi architettonici nei suoi paesaggi, spesso associati al punto di fuga centrale.[240] Da segnalare anche l'assidua frequentazione dell'ambiente veronese da parte di Giacomo Favretto, allievo di Nani a Venezia, che contribuì ad introdurre in città la corrente dei cosiddetti "macchiaioli".[234][237]
Intorno agli anni 1870 lascia invece Verona per Roma uno dei pittori autoctoni considerati tra i più moderni: Vincenzo Cabianca. Specialista nell'uso della luce rientra a pieno titolo tra i macchiaioli a cui apportò "un contributo qualificante". Nonostante il trasferimento, la sua fama presso la città natale non verrà a meno tanto che in Accademia spesso si terranno mostre a lui dedicate. Presso la Galleria d'arte moderna Achille Forti di Verona è conservata la sua tela Vita tranquilla dipinta nel 1880.[241]
Ma la scena veronese degli ultimi decenni del XIX secolo è dominata soprattutto da Angelo Dall'Oca Bianca. Nato in una famiglia molto povera, la sua predisposizione al disegno gli permise di entrare in Accademia sotto la guida di Nani. I suoi esordi avvennero in un contesto culturale non prospero e i suoi lavori non raggiungevano i risultati ambiti. Come egli stessi raccontò, la svolta nella sua carriera avvenne con la conoscenza dei lavori di Giacomo Favretto. Ottenuta nel 1881 la consacrazione all'Esposizione Nazionale di Milano, rimarrà sempre legato alla città natale "diventando un cantore della realtà locale". La sua produzione, influenzata dal naturalismo del Nani ma con affinità con l'impressionismo e il divisionismo, si incentrò sulla rappresentazione di episodi di vita popolare e scene quotidiane spesso in contesti di povertà.[242][243] Celebri anche le sue numerose vedute della veronese piazza delle Erbe. Nel 1887 presentò all'Esposizione Nazionale Artistica di Venezia la tela Prima luce, oggi al Museo Revoltella di Trieste, considerato uno dei suoi lavori più significativi.[244] Nell'ultimo decennio dell'Ottocento, Dall'Oca Bianca divenne un vero e proprio fenomeno artistico, "uno dei pittori più alla moda e più richiesti, conteso dalle collezioniste di tutta Europa" tanto da mettere in ombra molti dei suoi colleghi. "La sua figura si trasformò in un emblema di Verona, rappresentando l'identità popolare della città".[245]
Sebbene il suo successo durò praticamente per tutta la sua carriera (vivrà fino agli anni della seconda guerra mondiale), è condivisa l'opinione che la qualità del suo lavoro iniziò a scadere con l'inizio del XX secolo facendosi ripetitivo, privo di originalità e con scarsa attenzione al profilo psicologico dei personaggi rappresentati. Già a quei tempi parte della critica iniziò a girargli le spalle rimproverandogli "uno scarso impegno culturale" con i sentimenti che non trasparono nelle sue opere. Nonostante ciò il pubblico non lo abbandonerà mai e la sua esposizione alla biennale di Venezia, con oltre 80 opere, si rivelerà un successo.[246]
Il successo di Dall'Oca Bianca ebbe inevitabili influenze sulla scena pittorica veronese. Giuseppe Zannoni, Vittorio Avanzi e Francesco Danieli sono solo alcuni esempi di pittori attivi a Verona che in un modo o in un altro furono suggestionati dallo stile dell'illustre concittadino. Se il primo alternò la pittura di genere all'arte sacra (alla fine del secolo lavorò per molte chiese cittadine tra cui san Nicolò, san Tomio e Filippini), il secondo si specializzò nel naturalismo dopo essersi esercitato nella raffigurazione di paesaggi bavaresi durante un soggiorno a Monaco terminato nel 1878.[247] Ma il vero "antagonista" di Dall'Oca Bianca è considerato Vincenzo De Stefani. Nato a Verona ne 1859, dopo essersi formato anch'egli sotto la guida di Nani preferì trascorrere gran parte della carriera a Venezia lontano dall'ostico ambiente veronese. Nonostante il poco tempo a verona, gli si riconosce "un ruolo cruciale nel traghettare la pittura veronese nel nuovo secolo". E' stato osservato di come De Stefani, rispetto a Dall'Oca Bianca, riuscisse ad offrire un'interpretazione più profonda dei suoi soggetti, riuscendo a "rinnovarsi anche in età avanzata, esplorando nuove tecniche incisorie e aggiornando il proprio stile in linea con le tendenze del Novecento".[248][249]
Il XIX secolo sembra chiudersi positivamente per la scena pittorica veronese, con i pittori locali che partecipano alla rassegne più importanti, "ma a questa affermazione senza precedenti fa riscontro una situazione interna quanto mai confusa e intorbidita da violente polemiche che, nate in seno all'Accademia, trovano amplificazione sulle colonne de quotidiani locali. Istigatore è sempre il personaggio più brillante e intemperante della città, Angelo Dall'Oca Bianca [...] il suo attacco più duro sferrato contro Napoleone Nani accusato di aver sbagliato indirizzo didattico di non essere stato al passo con l'evoluzione dell'arte contemporanea, di aver abusato del potere personale, insomma di aver affossato la scuola veronese". Nel 1898 Nani verrà sostituito alla guida dell'Accademia da Mosè Bianchi a cui presto succederà Alfredo Savini.[250]
La pittura del XX secolo
[modifica | modifica wikitesto]Note
[modifica | modifica wikitesto]Annotazioni
- ^ Cipolla lesse la seguente iscrizione: «ANN. AB INCARNC dNi NRI DCCCCXCVI. INDIC X». In Dal Forno, 1982, p. 20.
- ^ "Ego sum Johannes c'a fata quest[a] in dies se fata p[i]tura co[mpli]do MCCCV scripsi Johanne". In Cozzi, 1992, p. 311.
- ^ Vi è scritto: «Mille.trecento.otanta.oto.impeta.per.messer.Giacomo da Riva». In Cozzi, 1992, p. 349.
- ^ La lodò anche Vasari "ha fatto in un gran quadro di tela la cena che fece Simon lebroso al Signore, quando la peccatrice se gli gettò a’ piedi; con molte figure, ritratti di naturale, e prospettive rarissime, e sotto la mensa sono due cani tanto belli, che paiono vivi e naturali, e più lontano certi storpiati ottimamente lavorati,...". In Marinelli, 1998, p. 816.
- ^ Giambettino Cignaroli parlava del maestro Sante Prunati «Ebbe sempre fiorita scuola e insegnò con amore e diligenza, avendo molta comunicativa. Insegnava agli scolari a ricercare la simmetria e l’erudizione dei nostri Brusazorsi, specialmente di Domenico, che poneva come esempio, senza trascurare Paolo Farinati e il robusto modo di disegnare. Per dipingere, li indirizzava alle opere dell’Orbetto e di Ridolfi, consigliando di ammirare Veronese più che seguirlo». In Marinelli, 2011, p. 191.
Fonti
- ^ Museo archeologico nazionale di Verona, Palazzo e collezioni, su manverona.cultura.gov.it. URL consultato il 18 ottobre 2024.
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