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Selvaggia dei Vergiolesi

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Amos Cassioli, Cino e Selvaggia

Selvaggia dei Vergiolesi (... – Castello di Sambuca, 1313 ... ante 1321) è stata una nobile italiana.

Stemma Vergiolesi

Figlia di Lippo Veriolesi,[1] rampolla della nobile famiglia pistoiese, guelfa di parte Bianca, visse dall'aprile 1306 nella rocca di "Poggio di Marco", nei pressi di Piteccio, paesino nell'alta periferia pistoiese, dove i Vergiolesi vengono esiliati dopo che l'11 aprile era cessato l'assedio di Pistoia. A causa delle scorrerie effettuate dai Vergiolesi nel contado e perfino a Pistoia, questa rocca viene messa a sua volta sotto assedio (dai Neri pistoiesi e dai fiorentini e lucchesi, che dai primi erano stati chiamati), e il 30 novembre 1307, Sant'Andrea, la rocca viene abbandonata. I Vergiolesi fuggono nottetempo, per raggiungere l'altra loro rocca, a Sambuca.[2]

Selvaggia Vergiolesi dunque fugge da Piteccio, raggiungendo la via di crinale che unisce Pistoia, Le Grazie, la Castellina e Pontepetri. Dalla Castellina passando per il Lagoni presumibilmente raggiunsero Spedaletto e da lì il castello di Sambuca.[3]

Selvaggia morì (nel 1313,[4] ma senz'altro prima del 1321[5][6]) a Sambuca, perché il castello di Sambuca Pistoiese nel 1311 fu ceduto da Filippo Vergiolesi a Pistoia per undicimila lire.[7]

Ella fu cantata in numerosi componimenti dal poeta stilnovista Cino da Pistoia,[8][9] grazie al quale la vicenda di Selvaggia si è tramandata per secoli, nella tradizione popolare e letteraria, fino al tempo attuale.

Il mito di Selvaggia

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La leggenda trova riscontro in quanto, per mano di ragazzi del posto appassionati di archeologia, è stata portata alla luce una quantità eccezionale di ossa umane risalenti al periodo. Della rocca Vergiolesi, quasi interamente crollata, è ancora visibile il basamento della torre, i ruderi di alcune stanze, alcune decine di metri di mura e i resti degli stipiti di ingresso (un ingresso a volta alto circa un paio di metri e mezzo dal quale si accedeva all'interno delle mura).[senza fonte]

Selvaggia sposò il nobile Vanni de' Cancellieri, che Dante pose nella Caina (Inferno, XXXII, 63).[1]