Eccidio dell'ospedale psichiatrico di Vercelli
Eccidio dell'ospedale psichiatrico di Vercelli | |
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L'ospedale psichiatrico di Vercelli | |
Tipo | Esecuzioni sommarie |
Data | 12-13 maggio 1945 |
Luogo | Vercelli e provincia |
Stato | Italia |
Responsabili | Partigiani della 182ª Brigata Garibaldi "Pietro Camana" |
Motivazione | Ritorsione[1][2] |
Conseguenze | |
Morti | Militi fascisti della GNR e delle Brigate Nere (da 51 a 65, a seconda delle fonti)[3] |
L'eccidio dell'ospedale psichiatrico di Vercelli fu l'esecuzione sommaria — ad opera di alcuni partigiani della 182ª Brigata Garibaldi "Pietro Camana" — di un gruppo di militi della Repubblica Sociale Italiana (RSI) prelevati dallo stadio di Novara, allora adibito a campo di concentramento.[4] Secondo le diverse fonti, i militi uccisi furono tra cinquantuno e sessantacinque.[3] L'eccidio ebbe luogo in parte nel comune di Vercelli e in parte nel comune di Greggio tra il 12 ed il 13 maggio 1945. La memoria dell'evento fu per decenni tramandata quasi unicamente dai reduci della RSI: solo in anni più recenti alcuni storici hanno ripreso il tema, oggi ricostruito in modo sufficientemente esauriente nelle sue linee generali, pur differendo in alcuni particolari a seconda delle fonti.
Le fonti
[modifica | modifica wikitesto]La prima trattazione storiografica dell'eccidio di Vercelli fu quella di Domenico Roccia – partigiano e rappresentante del Partito d'Azione presso la commissione per l'epurazione istituita dal CLN locale – che nella sua opera Il Giellismo Vercellese del 1949 pubblicò i nomi delle vittime, oltre a stralci del diario di un tenente della Brigata Nera "Bruno Ponzecchi" detenuto allo stadio di Novara.[5]
In seguito, per anni, l'argomento non fu trattato dagli storici. Le notizie sui fatti rimasero quindi riportate nelle fonti di polizia, giudiziarie e parlamentari, oltre che in articoli giornalistici: alcuni di essi risalenti ancora alla fine degli anni quaranta,[6] altri invece scritti in occasione delle varie richieste di autorizzazione a procedere nei confronti degli ex comandanti partigiani accusati dell'eccidio, nel frattempo divenuti deputati.[7] Inoltre, ne fecero menzione il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa nel suo La Resistenza in Piemonte: guida bibliografica 1943-1963 pubblicato nel 1965,[8] ed il giornalista storico Giorgio Pisanò, reduce della RSI, in Storia della guerra civile in Italia del 1972.[9]
Nel 1991 lo storico ed ex-partigiano Claudio Pavone ne scrisse nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.[1] Nel 1996, l'Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea di Vercelli "Cino Moscatelli"[10] mandò alle stampe il terzo volume di un'opera di Cesare Bermani sulla storia delle Brigate Garibaldi in Valsesia, all'interno del quale venne ricostruita quella che viene chiamata "la vicenda di Vercelli".[11]
Giampaolo Pansa nel 2003 riportò l'episodio in alcune pagine del suo Il sangue dei vinti, citando espressamente come sue fonti il già menzionato Bermani e Pierangelo Pavesi, un giornalista vicino alle associazioni reducistiche della RSI che nel 2002 aveva pubblicato la prima edizione de La Colonna Morsero. L'anno successivo, il giornalista e scrittore Raffaello Uboldi scrisse dell'eccidio di Vercelli nel saggio 25 aprile 1945. I giorni dell'odio e della libertà, chiamando l'episodio "strage dell'ospedale psichiatrico di Vercelli".[12]
Contesto storico
[modifica | modifica wikitesto]La guerra di liberazione nella provincia di Vercelli
[modifica | modifica wikitesto]Nella provincia di Vercelli,[14][15] la prima azione partigiana nell'ambito della guerra di liberazione fu l'attacco sferrato il 2 dicembre 1943 contro un presidio di camicie nere a Varallo, in seguito al quale i fascisti riportarono il loro primo caduto nella zona.[16] Il 10 dicembre fu ucciso un secondo fascista, impegnato col suo reparto a reprimere uno sciopero a Tollegno. Il giorno successivo fu invece ucciso dai partigiani il commissario del Partito Fascista Repubblicano di Ponzone di Trivero, Bruno Ponzecchi.[17] Tali azioni partigiane furono la premessa e si accompagnarono agli scioperi generali delle maestranze del Biellese e della Valsesia.[18]
Il 19 dicembre fu fatta affluire a Vercelli la Legione Tagliamento, che tramite l'affissione di bandi minacciò la fucilazione di dieci ostaggi per ogni milite della RSI o soldato tedesco ucciso. La minaccia fu attuata la prima volta a Borgosesia il 22 dicembre, a seguito dell'uccisione il giorno precedente di due militi del 63º Battaglione "M".[19] La Tagliamento si rese inoltre colpevole di massacri, incendi e saccheggi fin dai primi giorni di attività nella provincia.[20]
La guerra partigiana nel Vercellese fu caratterizzata dalla presenza in zona di molteplici unità partigiane, che s'impegnarono non solo nelle classiche azioni di guerriglia locale, ma anche in operazioni di scontri in montagna e in pianura in campo aperto, con alcuni successi locali, alternati a sconfitte.[21] Oltre a ciò, le forze partigiane tentarono di liberare alcune zone della provincia, venendo a costituire delle vere e proprie enclave all'interno del territorio controllato dai fascisti repubblicani e dai tedeschi: è il caso per esempio della Repubblica della Valsesia e della Valsessera, libere fra giugno e luglio del 1944 e poi – la seconda – da marzo del 1945. L'ultima rappresaglia perpetrata dai fascisti nella provincia ebbe luogo il 9 marzo 1945 a Salussola con la fucilazione di venti o ventuno partigiani, in risposta un'imboscata partigiana condotta il 6 marzo nella stessa località e che causò la morte di quattro fascisti.[22][23]
L'ultimo mese di guerra nel Vercellese
[modifica | modifica wikitesto]Verso la metà di aprile del 1945 i tedeschi e i fascisti disponevano nel Biellese e nel Vercellese di circa 4.500 uomini, ai quali i partigiani opponevano nella zona chiamata militarmente "Biellese" – comprendente però anche Vercelli e dintorni – sei brigate garibaldine, una brigata gielle, una brigata di polizia[24] e due brigate SAP.[25] Il 18 aprile a Biella vi furono alcune azioni isolate di sciopero: nonostante una pronta reazione delle autorità fasciste della zona – capeggiate dal capo della provincia[26] Michele Morsero – il giorno successivo lo sciopero divenne di massa, espandendosi anche nella Valle di Mosso e in Valsessera – già zona libera dal marzo precedente – dove si svolse un'imponente manifestazione popolare, nel corso della quale parlarono i comandanti partigiani Francesco Moranino e Cino Moscatelli. L'astensione dal lavoro durò fino al 20 aprile, per poi lentamente rientrare.[27]
Frattanto, il 19 aprile, tedeschi e fascisti avevano scatenato un'ultima offensiva contro le formazioni partigiane, allo scopo di aprirsi una via di fuga e di bloccare la preparazione dell'insurrezione. L'attacco concentrico, da Biella e Ivrea, coinvolse la 75ª Brigata "Maffei", la 76ª e la 183ª Brigata della VII Divisione Garibaldi "Aosta" e un reparto della 182ª Brigata "Camana". Dopo aspri scontri, all'alba del 24 aprile i tedeschi lasciarono Biella, paralizzata dallo sciopero insurrezionale, mentre i fascisti rimasero in città fino a quando, a seguito di lunghe trattative col comando partigiano, venne loro concesso di lasciarla: una colonna fascista composta dai battaglioni "Pontida" e "Montebello" della Guardia Nazionale Repubblicana e da alcuni reparti delle Brigate Nere si mosse quindi in direzione di Vercelli fra le 14:00 e le 16:00. Il 25 aprile, Biella rese omaggio ai partigiani nella città liberata.[28]
Le forze partigiane decisero quindi di convergere su Vercelli, passando prevalentemente per le località di Cavaglià e Santhià (liberata la sera del 25): i primi sporadici scontri nelle periferie del capoluogo avvennero quella sera stessa. Nel frattempo, a Vercelli erano concentrate da varie località della zona, oltre ad un presidio di 500 tedeschi, le residue forze della RSI: vari reparti delle Brigate Nere, soldati delle divisioni "Monterosa" e "Littorio", granatieri, militi della Legione "Muti" e della Guardia Nazionale Repubblicana, oltre a vari superstiti di diversi presidi, per un totale di circa 2.500 uomini. Assieme a loro, alcuni avevano le proprie famiglie.[29]
Il mattino del 26 si svolsero delle trattative fra i comandi partigiani e Morsero: quest'ultimo propose di non combattere in città, ma la proposta fu respinta al mittente con un ultimatum: resa dei fascisti o partenza da Vercelli entro le ore 15:00. Nel pomeriggio la colonna fascista – composta da circa 2.000 militari e 200 fra donne e bambini – lasciò quindi la città. Sempre nel pomeriggio del 26, il presidio tedesco di Vercelli si arrese:[30] la città era liberata. Attaccata ripetutamente dai partigiani, la colonna si fermò presso la località di Castellazzo Novarese, arrendendosi al mattino del 28 aprile.[31]
L'eccidio di Santhià
[modifica | modifica wikitesto]La provincia di Vercelli fu in seguito attraversata da un'altra forte colonna, costituita da reparti tedeschi in ritirata dalla Liguria, da Torino e dalla Valle d'Aosta, che il 28 aprile occupò le località di Cigliano e Tronzano Vercellese: il 29 raggiunse Borgo d'Ale, Cavaglià e Salussola, entrando in seguito verso sera a Santhià. Fra il 29 e il 30 aprile, i tedeschi attaccarono alcune cascine occupate dai partigiani, commettendo nel contempo una serie di atrocità contro i civili. Al termine degli scontri si contarono quarantotto morti: ventuno partigiani e ventisette civili.[32] L'attacco successivo dell'aviazione alleata nei confronti delle forze tedesche spinse il comandante della colonna, il generale Hans Schlemmer, ad accettare la proposta di resa nelle mani degli Alleati. L'eccidio di Santhià è da alcuni considerato la causa scatenante del successivo eccidio di Vercelli.[1][2]
La resa tedesca
[modifica | modifica wikitesto]Gli Alleati giunsero a Vercelli il 2 maggio. Lo stesso giorno fu firmata la resa tedesca nella zona, con decorrenza dalle ore 00:00 del 3 maggio. Il firmatario del documento di resa fu il colonnello Hans-Georg Faulmüller, capo di stato maggiore del 75º Corpo d'Armata tedesco. Per gli Alleati erano presenti il capitano Patrick Amoore, della missione alleata presso il comando partigiano della zona e il colonnello statunitense John Breit. Per i partigiani, erano presenti: Felice Mautino "Monti", Domenico Bricarello "Walter" e Primo Corbelletti "Timo", in rappresentanza dei comandi di Ivrea, Biella e Aosta; per il CLN di Ivrea l'ingegner Giulio Borello.[2] Secondo un rapporto del 4 maggio, s'erano arresi 61.000 tedeschi e 12.000 fascisti.[33]
La "Colonna Morsero"
[modifica | modifica wikitesto]La costituzione
[modifica | modifica wikitesto]Tra il 23 e il 26 aprile 1945 affluirono a Vercelli dai vari presidi della provincia le forze armate della Repubblica Sociale Italiana ancora in armi, ponendosi sotto il comando del capo della provincia Michele Morsero. Ad esse si aggiunse anche il battaglione d'assalto "Pontida" della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) giunto da Biella. Ai militi si aggiunsero anche civili con i propri familiari,[34] costituendo la cosiddetta "Colonna Morsero" formata da più di 2.000 persone.[30] L'intenzione era di raggiungere Novara per poi dirigersi verso il ridotto della Valtellina.
La colonna era costituita dai resti dei seguenti reparti:
- 604º Comando Provinciale della GNR di Vercelli, comandato dal colonnello Giovanni Fracassi;[35]
- VII Brigata Nera (BN) "Bruno Ponzecchi" di Vercelli;
- XXXVI BN "Mussolini" di Lucca;
- CXV battaglione "Montebello";
- I battaglione granatieri "Ruggine";
- I battaglione d'assalto "Ruggine";
- I battaglione rocciatori (poi controcarro) "Ruggine";
- III battaglione d'assalto "Pontida".[36]
La colonna si mise in movimento intorno alle ore 15:00 del 26 aprile 1945, sotto il comando di Morsero e del colonnello della GNR Fracassi. Uscita dalla città, fu fatta oggetto da un fitto fuoco di fucileria presso il ponte sul fiume Sesia, cui fu risposto in maniera disordinata. Per il resto della giornata la colonna si mosse senza problemi in direzione di Novara fino a Biandrate, dove fu impegnata in uno nuovo scambio di fucileria con i partigiani. Il mattino presto, dopo aver passato la notte in marcia, la colonna raggiunse Castellazzo Novarese.
La resa
[modifica | modifica wikitesto]La colonna giunse a Castellazzo Novarese la mattina del 27 aprile e qui si acquartierò nel locale castello, che i partigiani della 82ª Brigata "Osella" circondarono ed assalirono più volte, perdendo due uomini nei combattimenti.[39] Fu allora deciso di inviare alcuni ufficiali incontro ai partigiani per discutere di un libero transito fino a Oleggio, dove sarebbe stato attraversato il Ticino. L'inizio delle trattative fu fissato per le ore 12:00. Stabilita una tregua su proposta dell'avvocato Leoni, furono quindi avviati frenetici negoziati nel corso dei quali i partigiani chiesero la resa della colonna.
Al fine di valutare la richiesta partigiana, alle 16:00 i comandi della colonna indissero un consiglio di guerra, che si riunì nella Sala della Consulta presso il comune, a cui oltre al prefetto Morsero parteciparono tutti gli ufficiali più alti in grado. I delegati partigiani furono ammessi nella sala del Consiglio e proposero di scortare a Novara una delegazione di ufficiali repubblicani, in modo che verificassero l'avvenuta resa del presidio cittadino e che si incontrassero con i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale.[40] Si recarono quindi a Novara il capitano Angelo Nessi (del "Ruggine") e il capitano Paolo Pasqualini (del "Pontida"), i quali, ritornati a Castellazzo Novarese, comunicarono le proposte del CLN: resa con l'onore delle armi, diritto per gli ufficiali di conservare l'arma di ordinanza, e salvacondotti per la truppa che autorizzassero il ritorno alle proprie famiglie o alla località desiderata.[41][42]
Morsero e il colonnello Fracassi decisero infine di accettare le condizioni di resa, contestati però da parte degli ufficiali,[43] che non fidandosi dei partigiani erano convinti di poter resistere fino all'arrivo degli Alleati.[44] Le stesse condizioni di resa furono accettate nelle stesse ore da un vicino presidio tedesco.[45] Il giorno seguente, 28 aprile, avvenne la resa della colonna alle forze partigiane e la consegna delle armi, molte delle quali furono previamente rese inservibili. Il prefetto Morsero fu prelevato dai partigiani e trasferito a Vercelli, dove fu incarcerato. I prigionieri, separati dalle donne e dai bambini, furono invece condotti a Novara e rinchiusi dai partigiani nello stadio di viale Alcarotti, in quei giorni adibito a campo di concentramento.[46] Durante il trasferimento, nonostante i termini della resa anche gli ufficiali furono privati delle proprie armi, conservate fino a quel momento.[47]
All'interno dello stadio di Novara vennero concentrati in tutto 1.500/1.800 prigionieri, che vivevano sotto tende improvvisate in vista dal mercato coperto dirimpetto, divenuto una sorta di loggione ove si radunavano cittadini e curiosi a fare commenti ostili.[48] Le condizioni igieniche divennero sempre più precarie, e immediatamente cominciarono i prelevamenti: ogni giorno qualche ufficiale fascista veniva portato via per essere interrogato, ed alcuni di essi furono sommariamente giudicati e giustiziati.[49][50]
Le donne del SAF
[modifica | modifica wikitesto]La sera stessa le donne del Servizio Ausiliario Femminile, circa trecento, furono separate dagli altri militari e portate all'asilo "Negroni" e alla scuola "Ferrandi"; in seguito furono tradotte alla caserma "Tamburini".[51] Diverse fonti affermano che intervenne in loro difesa monsignor Leone Ossola, amministratore apostolico della diocesi di Novara.[52] Secondo quanto riportato dalla storica Anna Lisa Carlotti, da Silvio Bertoldi, da Luciano Garibaldi e da Pavesi – che sul punto riporta la testimonianza dell'assistente di Ossola, don Carlo Brugo – tra i partigiani sarebbe maturato il proposito di far sfilare le ausiliarie nude per le vie della città, ma questo non sarebbe avvenuto grazie all'opposizione del religioso.[53] Successivamente furono trasferite al campo di prigionia di Scandicci, alla periferia di Firenze.[52]
L'eccidio
[modifica | modifica wikitesto]I primi prelevamenti di prigionieri dal campo di Novara e prime uccisioni
[modifica | modifica wikitesto]Dallo stadio di Novara diversi gruppi di prigionieri furono in più occasioni prelevati dai partigiani e tradotti presso altre strutture; il maggior prelevamento si concluse con l'eccidio dell'ospedale psichiatrico.[49]
Il 1º maggio furono prelevate le personalità più in vista del caduto regime fascista come l'ex federale di Vercelli e comandante della Brigata Nera "Bruno Ponzecchi" Gaspare Bertozzi, e il colonnello Fracassi: furono tutti percossi e feriti.[55] La sera stessa Fracassi fu nuovamente prelevato, stavolta da agenti americani che lo trasferirono nel campo di concentramento di Coltano. In seguito — come riporta il diario di un tenente della Brigata Nera "Bruno Ponzecchi" edito da Domenico Roccia — circa quaranta ufficiali del Comando Militare di Vercelli furono schedati, prelevati dal campo di Novara e tradotti a Vercelli presso la caserma "Conte di Torino".[56] Una volta all'interno furono percossi e rinchiusi nei locali di detenzione dell'edificio,[57] mentre i partigiani confiscarono loro tutti i beni e gli effetti personali.[58] Alcuni rimasero menomati o morirono a causa delle violenze subite, altri furono trasferiti ed in seguito giustiziati, mentre i sopravvissuti il 13 maggio furono tradotti a Coltano.[59]
Sempre il 1º maggio Michele Morsero, che era stato precedentemente incarcerato a Vercelli, fu portato a Novara per essere giudicato da un tribunale di guerra, che però si dichiarò incompetente, rimandandolo indietro. Il 2 maggio venne quindi condotto di fronte al tribunale di guerra di Vercelli, ove alle 12:30 circa fu condannato a morte, venendo fucilato poco dopo all'esterno del cimitero cittadino Billiemme[60] assieme ad altri cinque fascisti tra cui il podestà della città Angelo Mazzucco.[61]
Il 3 maggio dallo stadio di Novara vennero prelevati dodici militari fascisti con un ordine falsificato del Comando di raggruppamento partigiano, poi uccisi e gettati nel canale Cavour.[62] Nello stesso giorno a Novara si installò l'Amministrazione militare alleata per i territori occupati presieduta dal capitano statunitense Fred De Angelis.[63] L'8 maggio altri cadaveri di militi fascisti vennero ripescati dal canale Quintino Sella,[64] diramatore del canale Cavour.
Nel frattempo iniziarono ad affluire a Novara le prime truppe alleate, che il 13 maggio iniziarono a presidiare anche lo stadio, rilevando i partigiani nella sorveglianza dei prigionieri.[48] Fra il 16 e il 18 maggio i prigionieri di Novara vennero prelevati dagli Alleati, che utilizzarono per il trasporto quattordici camion: nove partiti dallo stadio, cinque dalla caserma Tamburini. Gli uomini vennero trasportati prevalentemente a Bologna e da lì smistati in vari luoghi, fra i quali Coltano, mentre le donne (caricate su due camion) vennero portate a Milano, a disposizione della V Armata per lo sgombero di macerie ed altri lavori.[48]
Il trasferimento all'ospedale psichiatrico e le esecuzioni sommarie
[modifica | modifica wikitesto]Il 12 maggio, un gruppo di partigiani della 182ª Brigata Garibaldi "Pietro Camana" partì alla volta di Novara con un autobus ed un autocarro, fornito di un elenco di 170 nomi di prigionieri fascisti da prelevare.[65] Giunti sul posto, chiamarono tramite appello i fascisti dell'elenco: ne individuarono in tutto 75, li caricarono sugli automezzi e li portarono a Vercelli,[66] rinchiudendoli all'interno del locale ospedale psichiatrico dopo aver costretto il personale ospedaliero ad uscire.[67] Lì vennero percossi violentemente[67] e divisi in gruppi. Fra il pomeriggio del 12 e le prime ore del 13 maggio, la maggioranza dei prigionieri venne eliminata, secondo le seguenti modalità:
- Undici vennero trasportati nella vicina frazione di Larizzate, fucilati e sommariamente seppelliti in una trincea di difesa antiaerea.[68]
- Secondo la ricostruzione della procura di Torino, poco più di dieci prigionieri furono legati col fil di ferro, stesi a terra nel piazzale dell'ospedale e schiacciati sotto le ruote di due autocarri, utilizzati "a guisa di due rulli compressori".[69] Cesare Bermani ricostruisce l'episodio specifico in modo dubitativo: i prigionieri "sarebbero stati legati col fil di ferro, stesi a terra e schiacciati sotto le ruote di due autocarri".[4] Per Uboldi, invece, venti prigionieri furono "trucidati" all'interno dell'ospedale psichiatrico e successivamente "i corpi [vennero] portati sul piazzale antistante l'ospedale e una camionetta vi [passò] ripetutamente sopra [...]".[70] I corpi di questi prigionieri non sono mai stati ritrovati.[71]
- Altri prigionieri sarebbero stati defenestrati o uccisi alla spicciolata, sempre nei locali o nell'orto dell'ospedale.[72]
Il grosso dei prigionieri fu portato a Greggio, comune in provincia di Vercelli, e fu ucciso in piena notte sul ponte del Canale Cavour alla luce dei fari di due camion. Il numero delle vittime riportato dalle fonti è variabile da un minimo di 20 ad un massimo di 50.[73] I loro corpi vennero gettati in acqua:[74] alcuni furono ritrovati solo dopo alcuni giorni e in certi casi anche diversi chilometri a valle del luogo in cui furono uccisi.[75]
Secondo la Procura di Torino, una dozzina di prigionieri venne tradotta dall'ospedale psichiatrico di Vercelli al locale carcere giudiziario, contribuendo successivamente alla ricostruzione dei fatti con la propria testimonianza.[67][76]
Le vittime
[modifica | modifica wikitesto]Il numero esatto delle vittime è ignoto. La questura di Vercelli ne indicò nominativamente cinquantuno,[77] ma la Procura di Torino nel 1949 ipotizzò che fosse "lecito" ritenere che il loro numero "superi notevolmente" tale cifra, tenuto conto "che nelle acque del canale Cavour, alle chiuse di Veveri, vennero pescati nel secondo semestre del 1945 una cinquantina di cadaveri [...]; che dei 75 prelevati a Novara poco più di una dozzina ebbe salva la vita; che altri militi fascisti catturati fuori del campo di concentramento di Novara ebbero morte la stessa notte del 12 maggio".[67] La questione è stata affrontata in tempi recenti solo dalle associazioni dei reduci della Repubblica Sociale Italiana o da autori di aree politiche affini: il numero in tali casi sale a circa sessantacinque vittime.[78]
I cinquantuno nominativi indicati dalla questura di Vercelli[79] sono i seguenti:
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I presunti responsabili, il procedimento giudiziario e le polemiche politiche
[modifica | modifica wikitesto]Malgrado le indagini sul caso avessero inizio fin dal 1946,[93] il procedimento giudiziario per l'uccisione dei prigionieri di Vercelli non arrivò mai alla fase dibattimentale:[94] di conseguenza, non esiste alcuna condanna per l'eccidio del 12-13 maggio.
Il 24 giugno 1949 il procuratore generale del Tribunale di Torino, Ciaccia, inviò al presidente della Camera dei deputati Gronchi, per il tramite del Ministro di grazia e giustizia Grassi, una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona, entrambi del Partito Comunista Italiano, in relazione all'eccidio. Il reato ipotizzato era quello di omicidio aggravato continuato.[95] Il capo di imputazione faceva espresso riferimento ad una «soppressione in massa» effettuata «con crudeltà» di «51 miliziani fascisti» che «essendosi arresi alle forze della Resistenza [...] avevano definitivamente cessato di costituire ostacolo o remora alla conclusione della lotta contro il fascismo».[67]
Secondo l'ipotesi accusatoria della procura, l'eccidio era da attribuirsi a elementi della 182ª Brigata Garibaldi agli ordini di Giulio Casolaro (comandante) e Giovanni Baltaro (commissario politico), mentre i mandanti sarebbero stati due capi partigiani noti coi nomi convenzionali di "Lungo" (Silvio Ortona) e "Gemisto" (Francesco Moranino), rispettivamente al comando di zona di Biella e di Vercelli.[96] Il numero complessivo degli imputati assommava allo stato a ventisette.[67]
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Francesco Moranino (a destra), assieme a Ilio Barontini (a sinistra) e Walter Audisio (al centro)
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Silvio Ortona in una foto del 1947
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Giovanni Baltaro in una foto degli anni sessanta
Sempre secondo la Procura di Torino, Ortona nel corso dell'indagine avrebbe «esplicitamente ammesso di avere impartito a nome del comando della zona biellese l'ordine di prelevare e sopprimere i prigionieri», mentre «Moranino è chiamato in causa dal suo capo di stato maggiore Attila (Colombo Remo), come colui che in veste di comandante della piazza di Vercelli scrisse e sottoscrisse con l'Attila predetto e col vicecomandante "Spartano" l'ordine di consegna dei prigionieri medesimi alle forze della 182ª Brigata Garibaldi».[96]
Precedentemente alla domanda di autorizzazione a procedere, s'era parlato del procedimento giudiziario aperto contro gli autori dell'eccidio di Vercelli nel corso della seduta della Camera dei Deputati del 25 febbraio 1949.[97] La discussione si concentrò quasi esclusivamente sul recentissimo caso della blanda condanna di Junio Valerio Borghese, che aveva permesso all'ex comandante della Decima MAS di essere immediatamente scarcerato, scatenando le reazioni di molti deputati. In quell'occasione, Luigi Longo (PCI) affermò che i morti di Vercelli sarebbero stati "rastrellatori, seviziatori e banditi fascisti" e che la loro uccisione sarebbe stata giustificata dalle "direttive insurrezionali", che prevedevano di salvare la vita solo a chi fra i nazifascisti si fosse arreso «se non si sarà macchiato personalmente di gravi delitti contro il movimento di liberazione nazionale».[98]
In particolare, Longo accusò i fascisti uccisi a Vercelli di aver «compiuto stragi, distruzioni di cascine e di monumenti», citando specificamente l'omicidio di tre persone a Occhieppo[99] avendo schiacciato «le loro vittime contro il muro con il paraurto dell'automobile»; la fucilazione al completo del Comando della 76ª Brigata Garibaldi; l'uccisione dei sacerdoti di Torrazzo (da Longo erroneamente chiamato "Porrazzo") e di Sala Biellese; la partecipazione al massacro di Santhià del 29/30 aprile 1945; l'eccidio di vari partigiani a Salussola, Buronzo e Biella e lungo l'autostrada Milano-Torino. «La fucilazione di tutti costoro» concludeva Longo «è stata conforme alle direttive del Comando generale».[100] Tuttavia, successivi studi storiografici misero in luce che, fra i delitti segnalati da Longo, il massacro di Santhià, l'uccisione del comando della 76ª Brigata Garibaldi e l'eccidio di Buronzo (o della Garella) erano stati perpetrati da truppe tedesche.[101] Oltre a ciò, l'omicidio di don Francesco Cabrio avvenuto il 15 novembre 1944 a Torrazzo fu opera del sottotenente della Divisione "Littorio" Gian Francesco del Corto, non compreso fra le vittime dell'eccidio di Vercelli.[102] Infine, il parroco di Sala Biellese – don Tabarolo – risulterebbe morto a causa dello scoppio di una granata nel corso di una battaglia fra nazifascisti e partigiani, il 1º febbraio 1945.[103] L'eccidio di Salussola (8 e 9 marzo 1945),[104] nel quale furono fucilati venti o ventuno partigiani,[22] venne invece immediatamente attribuito al CXV battaglione "Montebello" della GNR, i cui resti facevano effettivamente parte della colonna Morsero.[105]
Il 16 maggio 1950 il procuratore della Repubblica di Torino, Andriano, inviò alla presidenza della Camera dei Deputati, attraverso il Ministro di grazia e giustizia Piccioni, un'integrazione alla precedente domanda di autorizzazione a procedere, richiedendo l'arresto dei deputati «per evitare eventuali eccezioni che potrebbero compromettere e ostacolare il normale svolgimento dell'istruttoria».[106] La Camera tuttavia non discusse la richiesta di autorizzazione a procedere, che conseguentemente decadde nel 1953, al termine della I legislatura.
Con l'inizio della II legislatura, il 17 agosto 1953 il procuratore generale di Torino, Nigro, inoltrò, per il tramite del Ministro di grazia e giustizia Azara, una nuova domanda di autorizzazione a procedere e all'arresto dei due deputati.[107] Nigro integrò la domanda il 12 novembre 1954, revocando la richiesta di arresto[108] per effetto dell'amnistia nel frattempo intervenuta a dicembre del 1953.[109] L'8 luglio 1957 la Giunta per le autorizzazioni a procedere espresse a maggioranza parere favorevole sull'autorizzazione a procedere in giudizio, «non essendo affiorato alcun elemento, in base al quale si possa parlare di persecuzione politica» contro Ortona e Moranino.[110] La richiesta tuttavia non venne discussa in aula entro il termine della legislatura. Per la stessa tipologia di reati e relativamente allo stesso fatto, l'11 luglio 1957 il procuratore generale di Torino, Trombi, presentò alla Camera dei Deputati, per il tramite del Ministro di grazia e giustizia Gonella, un'ulteriore domanda di autorizzazione a procedere contro il deputato comunista Giovanni Baltaro, ritenuto dall'accusa «correo del Moranino e dell'Ortona».[111] Questa domanda non risulta discussa né in giunta per le autorizzazioni a procedere, né in aula.
Il 9 maggio 1961 infine, il giudice Giuseppe Ottello, presidente della Sezione Istruttoria della Corte d'Appello di Torino, prosciolse gli imputati coinvolti «per la natura politica del reato» ed emise una sentenza di non luogo a procedere anche nei confronti di Francesco Moranino, all'epoca ancora latitante, sia pure solamente per insufficienza di prove, revocando così il mandato di cattura emesso nei suoi confronti. La corte ebbe modo di sottolineare come vi fossero, evidenziati dalle risultanze processuali, «gravi dubbi sulla responsabilità del Moranino sotto il profilo di una determinazione al delitto, da altri certamente eseguito».[112]
Secondo notizie apparse sulla stampa in occasione della morte di Silvio Ortona (6 marzo 2005), l'ex comandante partigiano fu «una delle persone rare capaci di assumersi la responsabilità politica di un fatto, l'eccidio dell'Opn[113] di cui, in verità, non fu testimone diretto né indiretto».[114]
La memoria
[modifica | modifica wikitesto]In ricordo dei caduti furono eretti due monumenti: un memoriale presso il ponte sul canale Cavour a Greggio, e un cippo in granito sullo spiazzo antistante l'ospedale psichiatrico di Vercelli. Entrambi i monumenti riportano lo stesso epitaffio, sulla stele commemorativa di Vercelli è presente anche una dedica ai caduti.
Associazioni reducistiche e d'arma ricordano ogni anno l'eccidio con una messa al campo di Novara e commemorazioni nei luoghi in cui esso ebbe luogo.[115]
La qualificazione storiografica
[modifica | modifica wikitesto]Claudio Pavone ha espressamente definito l'eccidio di Vercelli una "rappresaglia": «Quando, fra il 28 e il 29 aprile 1945, i tedeschi che cercavano di aprirsi un varco verso oriente operarono stragi di partigiani e di civili nella zona di Santhià, i partigiani fucilarono per rappresaglia, a Vercelli, un ugual numero di fascisti».[1]
Cesare Bermani ha così qualificato i fatti: «La vicenda di Vercelli, se effettivamente svoltasi con le modalità indicate dai documenti di polizia, sembrerebbe confermare, sin nelle forme della ritorsione, la logica dell'"occhio per occhio", con introiezione talvolta di comportamenti già assunti dal nemico, che è presente in ogni guerra civile».[4]
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ a b c d Pavone, p. 492.
- ^ a b c Piero Ambrosio, L'insurrezione in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 16 settembre 2021 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
- ^ a b La questura di Vercelli pubblicò un elenco di 51 nomi di fascisti uccisi: questo è il numero presente, per esempio, in Uboldi, p. 324. Bermani, p. 330, riporta invece il numero di 62 fascisti prelevati dal campo di concentramento di Novara, lasciando intendere che tutti furono eliminati. 65 sono invece le vittime indicate in Pansa 2003, p. 83, sulla base di quanto comunicato all'autore dal ricercatore Pierangelo Pavesi.
- ^ a b c Bermani, p. 330.
- ^ Roccia, pp. 218-224.
- ^ Bermani, p. 330, cita un articolo de Il Tempo del 22 novembre 1949.
- ^ A titolo d'esempio si vedano: Richiesta di autorizzazione a procedere contro i deputati Moranino e Ortona, in La Stampa, 22 novembre 1949, p. 1.; Autorizzazione a procedere centro gli on.li Moranino e Ortona, in La Stampa, 7 ottobre 1955, p. 7.
- ^ Pansa nella sua guida bibliografica cataloga un discreto numero di fonti giornalistiche tra cui alcuni articoli de Il Popolo Nuovo di Torino e de La Verità di Vercelli. Nel capitolo intitolato La liberazione di Vercelli cita un articolo di Tino Morbelli dal titolo Svelato il mistero dell'Ospedale Psichiatrico, (La Verità, Vercelli, 8 giugno 1946, pp. 1-2), aggiungendo che in esso vi fossero «i nomi dei 64 fascisti repubblicani fucilati all'ospedale di Vercelli dopo la liberazione e l'elenco degli scampati.» Vedi Pansa 1965, p. 127.
- ^ Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, Milano, FPE, 1972, p. 1640: [...] nessun processo venne mai intentato a Moranino e Ortona responsabili, tra l'altro, anche dello spaventoso massacro dell'ospedale psichiatrico di Vercelli, dove, settanta fascisti vennero massacrati con inaudita ferocia sotto le ruote di camion in movimento nel cortile dell'edificio". Il numero di settanta morti è ritenuto non documentato – così come tutti i dati relativi ai fascisti uccisi in provincia di Vercelli forniti da Pisanò – da Piero Ambrosio, L'insurrezione in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 16 settembre 2021 in Internet Archive., op. cit., nota 42 Archiviato il 21 aprile 2010 in Internet Archive..
- ^ Successivamente alla creazione della provincia di Biella, l'Istituto ha modificato la propria denominazione aggiungendo anche il nome di Biella.
- ^ Bermani, pp. 329-330.
- ^ Uboldi, p. 324.
- ^ La minaccia fu tracciata su una serranda in seguito all'eccidio di Borgosesia, ivi consumato il 22 dicembre 1943.
- ^ Oggi il territorio è suddiviso fra le province di Biella e Vercelli.
- ^ Il paragrafo è un sunto di Piero Ambrosio, La Resistenza in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 20 novembre 2011 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
- ^ Piero Ambrosio, La provincia di Vercelli durante la Rsi. Cenni storici Archiviato il 13 aprile 2008 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli: "Il 2 dicembre un reparto di camicie nere inviato a Varallo, per presidiare una zona che stava diventando "nevralgica", era stato attaccato poco dopo il suo arrivo ed i fascisti avevano avuto in quell'occasione il loro primo soldato caduto in provincia, il caposquadra della Milizia Leandro Guida".
- ^ Piero Ambrosio, La provincia di Vercelli durante la Rsi. Cenni storici Archiviato il 13 aprile 2008 in Internet Archive., op. cit.: "La sera dell'11, a Ponzone, era stato ucciso dai partigiani il locale commissario del fascio, Bruno Ponzecchi, il primo fascista della zona caduto".
- ^ Piero Ambrosio, La Resistenza in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 20 novembre 2011 in Internet Archive., op. cit.: "La prima vera azione di guerra ebbe luogo a Varallo dove, il 2 dicembre, i garibaldini del distaccamento "Gramsci", comandato da Cino Moscatelli, attaccarono un contingente di camicie nere accasermato nel Municipio: i fascisti ebbero un morto, i partigiani alcuni feriti. Pochi giorni dopo, il 10 dicembre, i garibaldini biellesi attaccarono i fascisti che stavano deportando alcuni operai colpevoli di avere organizzato uno sciopero alla Filatura di Tollegno. Queste azioni furono la premessa di un deciso intervento dei partigiani in appoggio agli scioperi che cominciarono a svilupparsi in Valsessera a partire dal 15 dicembre, e che sfociarono nello sciopero generale delle maestranze del Biellese e della Valsesia".
- ^ Piero Ambrosio, La provincia di Vercelli durante la Rsi. Cenni storici Archiviato il 24 settembre 2015 in Internet Archive., op. cit.: "Infine la minaccia contenuta nel bando: "l'uccisione di un militare della Guardia Nazionale Repubblicana o di ogni altro agente della forza pubblica o di un militare germanico costerà la vita a 10 individui del luogo" fu attuata in seguito all'uccisione avvenuta a Borgosesia il 21 dicembre di (non uno ma) due militi del 63º battaglione". Del reparto faceva parte anche lo scrittore Carlo Mazzantini (padre della scrittrice Margaret), che rievocherà l'intera vicenda nel suo A cercar la bella morte, Venezia, Marsilio 1995, pp. 74 ss.
- ^ Piero Ambrosio, La Resistenza in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 20 novembre 2011 in Internet Archive., op. cit.: "Le azioni partigiane e gli scioperi richiamarono l'attenzione delle "autorità" della Repubblica di Salò su quanto stava avvenendo in queste zone. [...] venne inviato a Vercelli, e successivamente in Valsesia e nel Biellese, il 63º battaglione "Tagliamento" che si rese responsabile di efferati massacri, incendi, saccheggi fin dai primi giorni della sua attività nella nostra provincia".
- ^ A titolo d'esempio fra le sconfitte si pensi alla cosiddetta "Caporetto di Alagna" (luglio 1944), quando le forze partigiane liberarono la Valsesia e la Valsassera per un breve periodo, per poi essere battute ad Alagna, si piedi del Monte Rosa. In merito Piero Ambrosio, La Resistenza in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 20 novembre 2011 in Internet Archive., op. cit.
- ^ a b Piero Ambrosio, La Resistenza in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 20 novembre 2011 in Internet Archive., op. cit.: «Il 9 marzo, a Salussola, avvenne l'ultimo eccidio perpetrato dai fascisti: dopo orrende torture, ventun partigiani furono fucilati. In risposta il Cln di Biella ordinò lo sciopero generale di protesta [...] che si effettuò imponente in tutte le fabbriche». Altre fonti affermano invece che i partigiani uccisi furono venti; si veda per esempio L'eccidio di Salussola: 8 e 9 marzo 1945, dal sito/portale del paese di Salussola.
- ^ Piero Ambrosio (a cura di), Verso la vittoria. I bollettini militari delle formazioni partigiane della provincia di Vercelli (gennaio-aprile 1945) Archiviato il 24 luglio 2015 in Internet Archive. da "L'impegno", a. V, n. 1, marzo 1985, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, Cit. (da bollettino partigiano): «Il sei marzo una colonna nemica in movimento tra Zimone e Salussola è attaccata da una pattuglia della brigata Gl… 4 morti e 2 gravi, 3 prigionieri, 2 autocarri, un fucile mitragliatore, 7 moschetti, pistole e bombe a mano. In seguito a questo brillante attacco il nemico sfogò la sua ira con le feroci fucilazioni di Salussola.» Le frequenti azioni partigiane nei dintorni di Salussola, principalmente della 75ª brigata Garibaldi "Maffei" e della brigata GL locale, dall'inizio del 1945 inflissero importanti e frequenti perdite tra i reparti fascisti.
- ^ La brigata di polizia partigiana fu un unicum del Biellese: venne formata nel gennaio del 1944, col principale compito di garantire l'ordine interno alle altre brigate operanti in zona, perseguendo i reati compiuti dai partigiani, e di tenere i rapporti con la popolazione civile (si veda «La brigata di polizia partigiana nel Biellese. Intervista di Gladys Motta a Ezio Peraldo», in l'impegno, anno V, n. 4, dicembre 1985).
- ^ Tutto l'inquadramento storico del paragrafo è tratto per riassunto da Ambrosio, pp. 475-488.
- ^ I prefetti avevano assunto questa nuova denominazione nella Repubblica Sociale Italiana a novembre del 1943.
- ^ Ambrosio, pp. 475-479, "Il 20, alle 10:30, il commissario prefettizio di Biella telefonò al capo della provincia, riferendo che il lavoro era ripreso "adagino, ma in modo quasi normale", anche se si erano verificate delle incomprensioni: un tram carico di operai era stato rimandato indietro ad un posto di blocco; altri operai avevano trovato l'ingresso dello stabilimento chiuso perché era assente l'ufficiale addetto al posto di blocco, che teneva la chiave in tasca, ed erano quindi stati rimandati a casa; operai residenti nelle zone in cui vi erano state azioni di rastrellamento erano sottoposti al coprifuoco fino alle 6 del 21; diversi stabilimenti erano fermi per mancanza di energia; altri infine non avevano potuto riprendere il lavoro perché si erano presentati operai in numero insufficiente".
- ^ Ambrosio, pp. 481-483.
- ^ Ambrosio, pp. 482-484.
- ^ a b Massimo Rendina, Dizionario della Resistenza italiana, Editori Riuniti, Roma, 1995, ISBN 88-359-4007-9, p. 203.
- ^ Per Ambrosio, p. 483, la colonna Morsero si arrese alle 7 del mattino del 29 aprile, ma le altre fonti sono concordi nel riportare la data del 28.
- ^ Saccheggio di Santhià da parte delle truppe tedesche. Eccidio della Popolazione Archiviato il 24 ottobre 2020 in Internet Archive., Relazione del Sindaco di Santhià del 12 maggio 1945.
- ^ Ambrosio, pp. 486-487. Le cifre relative ai tedeschi e ai fascisti arresi sono contenute in un rapporto firmato dal comandante partigiano Felice Mautino "Monti", citato in L'insurrezione in Piemonte, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 363-364.
- ^ Pavesi, p. 34; per Piero Ambrosio, L'insurrezione in provincia di Vercelli. Brevi cenni Archiviato il 16 settembre 2021 in Internet Archive., op. cit., nota 28 Archiviato il 21 aprile 2010 in Internet Archive., la colonna sarebbe stata costituita da "2'000 militari e duecento tra donne e bambini".
- ^ "Giovanni Fracassi (1900), colonnello della Gnr a capo della compagnia Op, fu accusato di rastrellamento nelle zone di Borgo d'Ale e Strambino, di arresto e uccisione di partigiani (catturati nel Biellese, a Olcenengo, ad Arborio, a Trino), della cattura nella zona di Crescentino di quattrocento renitenti alla leva e di aver consentito all'Ufficio politico investigativo persecuzioni, soprusi e sevizie. Costituì tribunali straordinari della Gnr, in cui vennero fucilati i partigiani Burzio, Cassetta, Dejana, Dreussi, Mosca, Orlando e Pluda". La citazione è tratta da Marilena Vittone, Un processo a collaborazionisti vercellesi tra amnistia e giustizia penale Archiviato il 12 giugno 2009 in Internet Archive., dal Sito dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, originariamente pubblicato in "L'impegno", a. XXVIII, n. 1, giugno 2008.
- ^ Il battaglione "Montebello", i tre battaglioni "Ruggine" e il battaglione "Pontida" facevano parte della GNR. Sul tema Piero Ambrosio, Le forze armate della Rsi in provincia di Vercelli. La Guardia nazionale repubblicana Archiviato il 6 giugno 2014 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
- ^ Mariani era il comandante del I battaglione granatieri "Ruggine". Si veda in merito Piero Ambrosio, Le forze armate della Rsi in provincia di Vercelli. La Guardia nazionale repubblicana, dal sito dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
- ^ Sui partigiani "Pesgu" e "Andrej" si vedano alcune note biografiche in Massimiliano Tenconi, Alberto Magnani, La brigata "Ticino". Un pugno di partigiani tra Lombardia e Valsesia, in l'impegno, a. XXV, n. 2, dicembre 2005.
- ^ Pavesi, p. 78.
- ^ Roccia, p. 221: "I parlamentari furono infine ammessi nella sala del Consiglio di Guerra al quale portarono le notizie della resa di Novara, Alessandria e Genova. Dopo un'ora una commissione di ufficiali repubblicani partiva a bordo delle macchine dei partigiani con i parlamentari, recanti bandiera bianca, alla volta di Novara per accertarsi se la notizia della resa della città rispondesse al vero".
- ^ Pavesi, p. 82: "Gli ufficiali Nessi e Pasqualini, di ritorno finalmente da Novara, espongono le condizioni dei partigiani: onore delle armi, agli ufficiali viene concesso di tenere la pistola; salvacondotto per la truppa; trattamento dei prigionieri come previsto dalle convenzioni internazionali".
- ^ Roccia, p. 221: "Si diffuse verso sera la notizia della decisione: «resa con l'onore delle armi, rilascio a tutti di un documento autorizzante il ritorno alle proprie famiglie o alla località desiderata»".
- ^ Pavesi, p. 83: "Avviene così l'ultimo consiglio di guerra: il colonnello Fracassi ed il prefetto Morsero propongono di accettare le condizioni di resa; i giovani ufficiali sono di parere contrario e si vorrebbero ribellare".
- ^ Pavesi, p. 168, citazione di Carlo Riboldazzi, comandante partigiano di un battaglione delle Brigate Garibaldi: "Personalmente non mi sono mai capacitato della resa dei fascisti, cosa stranissima; potevano benissimo resistere; ho visto le armi che avevano! Potevano stare lì tranquilli ed aspettare l'arrivo degli alleati; invece no, si sono arresi".
- ^ Pavesi, p. 85, citazione di Carlo Riboldazzi, comandante partigiano di un battaglione delle Brigate Garibaldi: "Chiedo la resa pura e semplice, salvo l'onore delle armi. Netto rifiuto. Bluffo, invento divisioni che devono transitare, minaccio bombardamenti a tappeto, accenno alla possibilità di vittime civili e conseguente reato di crimine di guerra. Il capitano tentenna, l'ufficiale delle compagnie di sicurezza fa il muso duro [...]. Cade ogni resistenza. Si concorda la resa; chiedono garanzie, onore delle armi, un sacco di cose. Prometto, anche se so che non potrò mantenere le promesse che in parte. Con i tedeschi ho un grosso credito in quanto promesse non mantenute. Firmata la resa, il documento scomparirà dopo pochi giorni [...]".
- ^ Pansa 2003, p. 81; Bermani, p. 329. Secondo Bermani, a Novara i fascisti fatti prigionieri alla fine delle ostilità vennero rinchiusi anche all'interno della caserma Tamburini. Questa caserma era stata una delle sedi della Guardia Nazionale Repubblicana Archiviato il 22 gennaio 2011 in Internet Archive..
- ^ Pavesi, p. 106, citazione del libro La mia guerra di Gabriello Ciapetti, sottufficiale della GNR proveniente dai Carabinieri: «Mi si presenta un partigiano e a muso duro mi dice: Tu, vai dal tuo colonnello e fatti dare il cinturone con la pistola! Io esitai a muovermi, ma il partigiano mi assestò una pedata negli stinchi urlando di nuovo: Vai muoviti!, io balbettai qualcosa al colonnello Fracassi che aveva già intuito quanto accadeva e mi consegnò il cinturone con la pistola».
- ^ a b c Bermani, p. 329.
- ^ a b Pansa 2003, p. 81: "[...] cominciarono subito i prelevamenti. Ogni giorno, qualche ufficiale fascista veniva condotto fuori dal campo per essere interrogato. Talvolta tornava, pestato di brutto, talvolta no. Uno che non tornò fu il tenente Carlo Cecora, che aveva comandato il presidio della Gnr a Vallemosso, nel Biellese. Da Novara lo portarono a Vercelli, poi a Biella e quindi a Vallemosso. Qui lo trascinarono per le strade legato a un carro e infine lo fucilarono, il 2 maggio". Il prelevamento di Cecora fu ordinato da Francesco Moranino (Gemisto), come testimoniato anche dal comandante partigiano Annibale Giachetti (Danda), C'era una volta. la Resistenza. Partigiani e popolazione nel Biellese e Vercellese, Vercelli, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli", 2000, p. 201.
- ^ Roccia, p. 222: «Venivano chiamati nominativi con l'ordine di presentarsi immediatamente all'ingresso del recinto. Il Federale Bertozzi, Gadina, Verro, Zarino, Veghi Adamo e fratello, Martinotti, Dogliotti, De Majda, Fracassi, Mariani, Deangeli, Fossati, ecc. Ci alzammo e ci avviamo accompagnati dai più neri presentimenti. Ad uno ad uno entrammo in un ufficio ove fummo interrogati da tre borghesi; dati anagrafici, rapida istruttoria. [...] Restammo rinchiusi sino alle 12 nel grande spogliatoio. Il tenente Martinotti venne sorpreso mentre scriveva un biglietto che sperava di inviare con qualche mezzo alla moglie, descrivendo -con frasi colorite- la situazione in cui si trovava. Venne colpito da violenti colpi.»
- ^ Pavesi, p. 111: "La gran parte dei prigionieri viene concentrata allo Stadio; le donne all'Asilo Negroni in quartiere San Martino ed alla scuola Ferrandi prima ed alla caserma Tamburini, già della GNR, poi".
- ^ a b Silvio Bertoldi, Soldati a Salò. L'ultimo esercito di Mussolini, Rizzoli, Milano, 1995, ISBN 88-17-84413-6, p. 272: «A Vercelli trecento ausiliarie tentarono di ripiegare verso la Valtellina, ma al passaggio del Sesia furono bloccate, tradotte a Castellazzo Novarese, poi a Novara e rinchiuse nella caserma Tamburini. Volevano farle sfilare nude per le vie della città, le salvò soltanto l'intervento indignato del Vescovo. Le salvò dalla vergogna, non dal loro destino: alcune furono fucilate, soltanto le più fortunate finirono nel campo di concentramento di Scandicci, presso Firenze». La fucilazione non è confermata da altre fonti. L'ausiliaria Alda Paoletti afferma in una sua memoria (Pavesi, pp. 112-113) che il pericolo della fucilazione sarebbe stato scongiurato dall'intervento di monsignor Ossola: "Il 30 aprile venne un sacerdote a confessarci, dicendo di farlo bene perché poteva essere l'ultima confessione della nostra vita. Infatti il giorno dopo, primo maggio, dovevamo essere fucilate. I partigiani che ci avevano fatto la guardia giorno e notte, ci dissero però che era intervenuto il vescovo di Novara nei confronti di Moscatelli minacciando di trovarsi davanti a noi al momento della fucilazione per precederci nella morte [...]".
- ^ Anna Lisa Carlotti, Italia 1939-1945. Storia e memoria, Vita e Pensiero, Milano, 1996, ISBN 88-343-2458-7, pp. 365-366: «Numerosi furono i casi di violenza carnale. Molte di queste ragazze non hanno avuto mai il coraggio di parlare (salvo con le compagne al momento dei fatti) ed è molto difficile intervistarle. Moltissime furono rapate a zero e fatte sfilare fra le grida della gente per le strade della città. A Novara il vescovo si oppose all'idea di farle sfilare nude. I partigiani si dovettero "accontentare di raparle a zero"». In questo libro sono citate diverse testimonianze, tra cui quella di Velia Mirri, classe 1927, che riassume così gli eventi di quei giorni: «dal 28 aprile, al 16 maggio [fui] prigioniera dei partigiani di Moscatelli a Novara, prima alla caserma Ferrandi e alla caserma Tamburini e quella è una esperienza da dimenticare. In seguito, dal 16 maggio al 28 novembre del '45 sono stata prigioniera degli americani che poi nel settembre cedettero il nostro gruppo di prigioniere alle autorità italiane» (p. 446); Silvio Bertoldi, op. cit., p. 272; Luciano Garibaldi, Le soldatesse di Mussolini, Mursia, Milano, 1995, ISBN 88-425-1876-X, p. 86: «A Novara, invece, il vescovo riuscì ad impedire il progetto di fare sfilare nude tutte le ausiliarie catturate, circa trecento, per le vie della città»; Pavesi, p. 113, così cita dalle memorie di monsignor Carlo Brugo, assistente del vescovo Ossola: «I partigiani volevano fare sfilare nude per Novara le Ausiliarie prigioniere, ma il vescovo Monsignor Ossola, venuto a conoscenza di quanto si stava progettando, si presentò al comando partigiano e minacciò di sfilare anche lui nudo, assieme alle prigioniere, dopodiché i partigiani rinunciarono a mettere in atto il loro progetto».
- ^ La didascalia delle tre foto di prelevamento prigionieri dal campo di Novara recita: "Novara, fine aprile, primi giorni di maggio. Un gruppo di prigionieri fascisti raccolti nello stadio comunale vengono prelevati", in Novara Ieri-Oggi – Annali dell'Istituto Storico della Resistenza della provincia di Novara, dicembre 1996, nn. 4-5, p. 240.
- ^ Pavesi, p. 126.
- ^ Roccia, p. 222: «Il mattino all'alba, venimmo chiamati all'appello. Quaranta ufficiali del Comando Militare di Vercelli. Ci dissero che ci portavano a Vercelli perché "la popolazione aveva reclamato il diritto di giudicarci"».
- ^ Roccia, p. 223: «Non appena varcata la soglia dell'ingresso fummo percossi al capo da colpi di moschetto vibrati da un partigiano, indi passando nel tragitto tra due ali di partigiani fummo ripetutamente colpiti da calci, pugni, colpi di staffile. Alla fine ci contammo: nello spazio quadrato e tetro eravamo quarantuno. Ci guardammo nei volti oramai resi grotteschi dalle contusioni e dal sangue che grondava dalle ferite».
- ^ Roccia, p. 223: «Sopra un tavolino in un angolo della cella venne stesa una coperta e su questa si ammucchiarono orologi, portafogli, banconote, penne stilografiche e tutto ciò che era possibile portare negli abiti o dissimulare sul corpo. In quel critico frangente perdemmo circa 150'000 lire, tutti i documenti personali e persino i lacci delle calzature».
- ^ Roccia, p. 223: «Il Federale Bertozzi aveva il volto e la testa completamente lividi. Fra i più mal conci appariva Gadina il quale, sotto le percosse ricevute in testa e in volto aveva perduta totalmente la vista; Dogliotti era malmesso da sembrare una maschera. Il maggiore Scunz della GNR accusava la perdita dei denti ed aveva la bocca ed il volto deformati. Ancor più gravi erano le condizioni del tenente Cecora: quando venne buttato nella stanza cadde, né più si rialzò; respirava faticosamente, il volto irriconoscibile, incrostato di sangue e di fango, la bocca piegata nella contrazione di una smorfia di dolore. Venne il parroco di San Cristoforo il quale si impegno di ritornare la mattina seguente per impartirci la Comunione essendo stata differita l'esecuzione. Verso sera si aperse la porta della cella e venne scaraventato all'interno il ten. Benasso Mario, che in seguito alle ferite riportate [...] aveva una gamba fratturata e perciò non poteva reggersi in piedi». Roccia afferma che chi non fu ucciso alla caserma Conte di Torino, "dopo varie peripezie" fu inviato il 13 maggio nei campi di concentramento (fra i quali quello di Coltano). Tra i nominati, il tenente Benasso venne prelevato e trasportato fuori Vercelli e – secondo Roccia – "se ne ignora la sorte". Il tenente Cecora ed il capitano Pastoretti vennero giustiziati rispettivamente a Vallemosso e a Crevacuore.
- ^ Pansa 2003, p. 82.
- ^ Gli altri erano il vicequestore Emilio Aquilini, i due vicefederali Giraudi e Sandri, ed il professor Grovi dell'Opera Nazionale Balilla. I nomi in Pansa 2003, p. 82, e Pavesi, p. 145.
- ^ Bermani, p. 329, afferma che quello fu uno dei "fattacci del periodo successivo all'insurrezione".
- ^ Cronologia degli avvenimenti di Novara durante la seconda guerra mondiale Archiviato il 20 settembre 2006 in Internet Archive. tratta dal sito dell'Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola "Piero Fornara".
- ^ Corriere di Novara, 8 maggio 1945; Pansa 2003, p. 83.
- ^ L'evento è descritto negli stessi termini sia in Bermani, p. 330, che in Pansa 2003, p. 83. Il secondo riporta in più la notizia dell'elenco di 170 nomi.
- ^ La ricostruzione dettagliata dei fatti è riportata dalla «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona», presentata alla Camera dei Deputati dal Procuratore Generale del Tribunale di Torino Ciaccia il 24 giugno del 1949. Il numero di 75 prigionieri prelevati è contenuto in tale documento e confermato pure da Pansa 2003, p. 83; secondo Bermani, p. 330, i fascisti caricati sui carri furono 62; secondo invece Uboldi, p. 324, da Novara fu prelevata una "settantina di militi fascisti".
- ^ a b c d e f «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2.
- ^ La ricostruzione della sorte di questi undici prigionieri è tratta da «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2, da Bermani, p. 330 e da Uboldi, p. 325.
- ^ La frase virgolettata è tratta da Il Tempo del 22 novembre 1949, citato in Bermani, p. 330. Identica ricostruzione nella «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2.
- ^ Uboldi, p. 324: "[...] i corpi vengono portati sul piazzale antistante l'ospedale e una camionetta vi passa ripetutamente sopra fino a ridurli a un macabro viluppo di ossa, carne e sangue".
- ^ Uboldi, p. 325; Walter Camurati, Senza esito gli scavi all'ex Opn, in La Stampa, 30 maggio 1996, p. 36; F.Co., I fucilati dell'ex Opn meritano sepoltura, in La Stampa, 25 ottobre 1998, p. 38.
- ^ Questo fatto è riportato da Bermani, p. 330 e Pansa 2003, p. 83.
- ^ Pansa 2003, p. 83; «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2; per Uboldi, p. 325, furono esattamente 20 i militi uccisi a Greggio. Per Roccia, p. 224 e ss. furono 25 nominativi più 24 non identificati.
- ^ Bermani, p. 330; Pansa 2003, p. 83; «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2.
- ^ Roccia, p. 224 e ss.; Uboldi, p. 325.
- ^ Per Uboldi, p. 325, invece i fascisti che si salvarono furono ventiquattro.
- ^ Pansa 2003, p. 83; «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 2.
- ^ Pansa 2003, p. 84, rileva come Pierangelo Pavesi sia raggiunto a tale numero sulla base di ricerche successive all'uscita del suo libro.
- ^ L'elenco è riportato anche in un trafiletto dal titolo Gli uccisi in La Stampa, 30 maggio 1996, p. 36, con alcune varianti in una dozzina fra nomi o cognomi, come riportato nella note successive.
- ^ Biagione.
- ^ Cappio.
- ^ Costante.
- ^ Nell'articolo de La Stampa nome e cognome sono invertiti: Cesare Nicola.
- ^ Francini.
- ^ Ferraris.
- ^ Mazzetti.
- ^ Mercar.
- ^ Mazzedini.
- ^ Gianni Milani.
- ^ Uboldi, p. 325, lo riporta come "Giuseppe Scarantina, di sedici anni".
- ^ Lilio.
- ^ Battista.
- ^ La data si ricava dalle autorizzazioni a procedere a carico dei due deputati, accusati dalla Procura di Torino di essere i mandanti delle uccisioni.
- ^ Uboldi, p. 324: «Silvio Ortona, il comandante della 2ª brigata "Garibaldi", non è mai comparso in un'aula di tribunale, pur se grava su di lui più di un sospetto per la strage dell'ospedale psichiatrico di Vercelli e del Canale Cavour di Greggio».
- ^ «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 1.
- ^ a b «Domanda di autorizzazione a procedere [...] contro Moranino e Ortona» (1949), cit., p. 3.
- ^ Seduta di venerdì 25 febbraio 1949, in Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, pp. 6507 ss.
- ^ Seduta di venerdì 25 febbraio 1949, cit., pp. 6522-6523. Parte del discorso di Longo è riportato anche in Bermani, p. 330.
- ^ Longo non specificò nel suo discorso se si trattasse della località di Occhieppo Superiore od Occhieppo Inferiore: in queste due località non risultano comunque delle memorie relative a questo omicidio.
- ^ Seduta di venerdì 25 febbraio 1949, cit., p. 6523.
- ^ Sul primo si vedano le conclusioni di Ezio Manfredi, Dalle Alpi occidentali a Santhià. La strage dell'aprile 1945 e la resa del 75º Corpo d'armata Archiviato il 26 settembre 2009 in Internet Archive., in l'impegno, n. 3, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, dicembre 2001, che ritiene anche "poco probabile che" i tedeschi "siano stati guidati" verso alcune cascine nelle quali si trovavano i partigiani "da una spia del paese". Sul secondo episodio si veda Mario Vaira, «Walter Fillak, il comandante Martin», in Canavèis. Natura, arte, storia e tradizioni del Canavese e delle Valli del Lanzo, Autunno 2008 – Inverno 2009, Cumbe Edizioni 2008, per il quale a catturare i partigiani furono dei reparti tedeschi "grazie alla delazione di una spia", così come a condannarli e a giustiziarli furono unicamente dei tedeschi. Sull'eccidio di Buronzo del 15 marzo 1945, rappresaglia germanica per un attacco partigiano di tre giorni prima, si veda Itinerari della resistenza biellese Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto Storico per la storia della Resistenza e della società contemporanea delle province di Biella e Vercelli.
- ^ Si veda in merito la biografia di don Cabrio presente nel sito dell'ANPI.
- ^ Piero Germano, dal sito dell'ANPI. Sulla battaglia di Sala Biellese, si veda la ricostruzione storica in Piero Germano, La battaglia di Sala Biellese. 1º febbraio 1945 Archiviato il 28 ottobre 2007 in Internet Archive., dal sito dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, originariamente pubblicato in L'Impegno, a. II, n. 4, dicembre 1982.
- ^ L'eccidio di Salussola: 8 e 9 marzo 1945, dal sito/portale del paese di Salussola.
- ^ Pierfrancesco Manca, Guerra civile e guerra di popolo nel Biellese Archiviato il 27 ottobre 2007 in Internet Archive. dal sito dell'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli, originariamente in "L'Impegno", a. XX, n. 3, dicembre 2000 e a. XXI, n. 1, aprile 2001: «Il 9 marzo 1945 il comando della V divisione "Garibaldi" rivolgeva al comando del 115º battaglione "Montebello" della GNR una richiesta curiosa: "A seguito dell'odierna esecuzione di Salussola, abbiamo provveduto a denunciare il vostro reparto e al Governo Italiano quali 'criminali di guerra'. In caso che l'esecuzione non fosse stata opera vostra, vogliate precisarci il reparto e gli ufficiali responsabili per le rettifiche del caso"».
- ^ «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona», doc. II, n. 144-bis, 23 giugno 1950.
- ^ «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona», doc. II, n. 137, 17 agosto 1953.
- ^ «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona», doc. II, n. 137-bis, 12 novembre 1954.
- ^ La cosiddetta "amnistia Azara", dal nome del Guardasigilli Antonio Azara: DPR 19 dicembre 1953, n. 922.
- ^ «Relazione della giunta per le autorizzazioni a procedere sulla domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona», doc. II, nn. 137 e 137-bis A, 8 luglio 1957.
- ^ «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Baltaro», doc. II, n. 137-ter, 11 luglio 1957.
- ^ Archivio di Stato di Vercelli, Prefettura – Gabinetto (II versamento, mazzo n.66) S.I. della Corte d'Appello di Torino, “Sentenza nel procedimento penale contro Moranino Francesco (…) ed altri”, Torino, 9 maggio 1961
- ^ Opn sta per "Ospedale Neuro Psichiatrico".
- ^ Donata Belossi, Il partigiano-ebreo che amava Cogne, in La Stampa, 11 marzo 2005, p. 45.
- ^ Mario Cassano, «Vercelli, il 12 maggio 1945», articolo e documentazione fotografica su Acta, bimestrale culturale scientifico informativo dell'Istituto Storico della Fondazione della RSI, anno XXII, n. 2 (66) maggio-luglio 2008, pp. 12-13.
Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]Atti parlamentari
[modifica | modifica wikitesto]In ordine cronologico.
- Seduta di venerdì 25 febbraio 1949, in Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, pp. 6507 ss.
- Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona.
- Relazione della giunta per le autorizzazioni a procedere sulla domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro i deputati Moranino e Ortona, doc. II, nn. 137 e 137 bis A, 8 luglio 1957.
- Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Baltaro, doc. II, n. 137 ter, 11 luglio 1957.
Libri e saggi
[modifica | modifica wikitesto]- Piero Ambrosio, Biellese e Vercellese, in L'insurrezione in Piemonte, Milano, FrancoAngeli, 1987, ISBN non esistente.
- Cesare Bermani, Pagine di guerriglia. L'esperienza dei garibaldini della Valsesia, Nuova Edizione 1996-2000, Vol. III, Borgosesia, Istituto per la Storia della Resistenza e della società contemporanea nelle provincie di Biella e Vercelli "Cino Moscatelli", 1996, ISBN non esistente.
- Giampaolo Pansa 2003, La Resistenza in Piemonte. Guida bibliografica 1943-1963, Torino, Giappichelli Editore, 1965, ISBN non esistente.
- Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, Milano, Sperling & Kupfer, 2003, ISBN 88-200-3566-9.
- Pierangelo Pavesi, La Colonna Morsero, Copiano (PV), Grafica Ma. Ro. Editrice, 2007, ISBN 88-901807-8-1. Edizione originale: Trieste, Edizioni degli ignoranti saggi-Nuovo Fronte, 2002.
- Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, ISBN 88-339-0629-9.
- Domenico Roccia, Il Giellismo Vercellese, Vercelli, Tip. Ed. La Sesia, 1949, ISBN non esistente.
- Raffaello Uboldi, 25 aprile 1945. I giorni dell'odio e della libertà, Milano, Mondadori, 2004, ISBN 88-04-52677-7.
Articoli
[modifica | modifica wikitesto]- Donata Belossi, Il partigiano-ebreo che amava Cogne, in La Stampa, 11 marzo 2005, p. 45.
Voci correlate
[modifica | modifica wikitesto]- Resistenza italiana
- Brigate Garibaldi
- Campo di concentramento
- Guerra civile in Italia (1943-1945)
- Michele Morsero
Altri progetti
[modifica | modifica wikitesto]- Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sull'Eccidio dell'ospedale psichiatrico di Vercelli
Collegamenti esterni
[modifica | modifica wikitesto]- Maria Vittoria Cascino, La guerra dei fascicoli sulle stragi dei partigiani, Il Giornale, 25 novembre 2005.