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ECONOMIA E GESTIONE DELLE

IMPRESE
COD:87073
CFU: 9
Professore: F. Magno – A.Renoldi

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INDICE
Parte prima: management d’impresa e creazione di valore sostenibile: teorie e modelli
▪ CAP1: sostenibilità integrata e creazione di valore condiviso
▪ CAP2: tra soggetti e sistemi
▪ CAP3: prospettive sul finalismo d’impresa per la creazione del valore
▪ CAP4: l’ordinamento alla creazione du valore: evoluzione, teorie e modelli
▪ CAP5: valore, sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa
▪ CAP6: distribuzione del valore e gestione degli stakeholder
▪ CAP7: le strategie di gestione degli stakeholder
▪ CAP8: le dimensioni del management: governo, gestione strategica e gestione operativa

Parte seconda: il governo dell’impresa

▪ CAP9: il governo delle organizzazioni economiche


▪ CAP10: tipologie di impresa e forme di governance
▪ CAP11: i rischi della discrezionalità manageriale
▪ CAP12: gli strumenti esterni di corporate governance
▪ CAP13: gli strumenti interni di corporate governance

Parte terza: la gestione strategica dell’impresa


▪ CAP14: management: la direzione e l’organizzazione d’impresa
▪ CAP15: strategia d’impresa
▪ CAP16: strategie competitive: fonti e dinamiche
▪ CAP17: la gestione strategica nei contesti dinamici
▪ CAP18: le strategie di crescita
▪ CAP19: la gestione strategica dell’internazionalizzaone
▪ CAP20: le strategie cooperative
▪ CAP21: la gestione strategica nei processi l'innovazione tecnologica

Parte quarta: la gestione operativa dell’impresa

▪ CAP22: la gestione commerciale: marketing, comunicazione, vendite


▪ CAP23: la gestione delle operations: produzione, logistica
▪ CAP24: la gestione finanziaria: finanza, amministrazione e controllo
▪ CAP25: la gestione dei rischi e la protezione delle risorse aziendali
▪ CAP26: la misurazione delle performance

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CAPITOLO 1 – SOSTENIBILITÀ INTEGRATA E CREAZIONE DI VALORE CONDIVISO.
Integrata = sono concetti stati inseriti nell’ambito della gestione dell’impresa.
Valore condiviso = l’impresa che crea valore (benessere) per tutti i suoi stakeholder.
La sostenibilità nell’economia aziendale e gestione delle imprese.
Economia aziendale e gestione delle imprese: è lo studio del comportamento economico, modelli
manageriali, processi di funzionamento delle imprese.
Analizza con un approccio qualitativo e quantitativo le diverse tecniche e processi di produzione e
consumo di tutte le tipologie delle imprese, nonché le diverse tecniche di gestione che le imprese
devono adottare nelle diverse fasi della propria vita.
L’economia aziendale studia le condizioni di esistenza (gli elementi che portano alla nascita
dell’azienda) e le manifestazioni di vita della azienda (quali forme può assumere l’impresa).
La gestione delle imprese studia il complesso di decisioni e di operazioni dirette al raggiungimento
degli obiettivi prefissati.

Alcuni scandali (Enron, Cirio, Parmalat) hanno posto interrogativi sulla validità del paradigma di
creazione del valore in un contesto di mercato, economico e sociale profondamente modificato.
Dunque è necessario pensare ad un nuovo modello di sviluppo dell’impresa aggiungendo però
anche temi etici.

Da una prospettiva shareholder ad una prospettiva stakeholder.


Dal punto di vista della teoria dell’impresa il dibattito sulla creazione i valore è stato dominato
dalla contrapposizione di due grandi scuole di pensiero/prospettive:
• Shareholder/Stockholder (azionista) = la creazione di valore per gli azionisti l’obiettivo più
razionale per l’impresa. Per tanto tempo si è ritenuto che nel lungo periodo, attraverso questo
obiettivo, si potesse raggiungere una convergenza tra gli interessi degli azionisti e quelli degli
altri stakeholder.
Con il passare del tempo questa prospettiva è stata messa in discussione e si è notato che la
convergenza non avviene in modo automatico ma è necessario l’intervento dei manager.
Dunque è stata superata da un’altra prospettiva, quella degli stakeholder.
• Stakeholder (colui che ha interesse verso l’attività dell’impresa) = l’obiettivo è la creazione di
valore condiviso e centralità degli stakeholder (lavoratori, comunità locale, clienti, fornitori…).
Questo superamento nasce dalla consapevolezza dei protagonisti dell’impresa e nascono le
Società Benefit.

Le Società Benefit sono imprese che accanto al normale scopo di lucro hanno la formalizzazione
di benefici di carattere comune (es. salvaguardia dell’ambiente). Si propongono di operare in
maniera responsabile, sostenibile e trasparete nei confronti di tutti gli altri stakeholder.
(Vengono chiamate anche B corporation negli Stati Uniti).
Come funziona una società benefit?
Ogni anno deve rendicontare, oltre al bilancio, ciò che ha fatto per il bene comune chiarendo quali
obiettivi si era posta e cosa ha fatto per raggiungerli (in caso non fosse riuscita deve comunicare il
perché e il programma successivo).
Deve nominare una figura al proprio interno alla quale affidare compiti e responsabilità mirati al
perseguimento dello scopo sociale.
L’inadempienza può portare ad “accuse” di pubblicità o pratica commerciale ingannevole e di
violazione delle disposizioni del codice del consumo, da parte dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato, cui sono attribuiti i poteri di vigilanza.
Come si diventa società benefit?
Possono diventare Società Benefit sia imprese di nuova costituzione, sia imprese già costituite (ma
in questo caso deve essere modificato l’atto costitutivo o lo statuto).

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• Imprese di nuova costituzione = all’atto della costituzione sarà necessario non solo dichiarare la
volontà di operare come società Benefit, ma anche indicare le finalità di beneficio comune che
si vogliono perseguire.
• Imprese esistenti = una modifica dell’atto costitutivo o dello statuto per inserire accanto allo
scopo lucrativo anche gli scopi di beneficio prescelti. È necessario modificare, la denominazione
o ragione sociale, i doveri e la responsabilità degli amministratori, individuando, con apposita
clausola, il soggetto cui affidare i compiti volti al perseguimento delle finalità di beneficio
comune, specificando, anche in questo caso con apposita clausola, quali siano gli obblighi degli
amministratori in merito alla stesura del rapporto annuale.
Vi sono imprese che pur non formalizzando apertamente scelgono di essere guidati nella loro
gestione dall’obiettivo di creare valore condiviso e centralità degli stakeholder già da tempo
(es. starbucks e autogrill).

Il caso di Cuccinelli fa emergere un nuovo modo di fare impresa: si può produrre ricchezza e
reddito facendo attenzione anche agli aspetti sociali e individuali, considera i lavoratori come
tasselli fondamentali non scordando però l’obiettivo del profitto.

All’interno del concetto di sostenibilità, abbiamo in gran parte il tema della sostenibilità
ambientale, con il passare del tempo si è evidenziato il legame tra economia e ambiente ovvero la
consapevolezza che le attività economiche hanno un impatto sull’eco sistema.
Alla fine degli anni ’80 lo sviluppo sostenibile diventa obiettivo condiviso di tutti i paesi avanzati:
- dal 14 gennaio 2022 in Italia l’uso della plastica monouso non biodegradabile e non
computabile vietata per legge.
- dal 2035 stop UE alle auto a benzina e diesel.
A partire dalla fine degli anni ‘90 la sostenibilità si integra nelle diverse aree di gestione delle
imprese con finalità strategiche e competitive come opportunità di crescita e sviluppo per
l’impresa.

La finanza sostenibile → SRI (Socially Reponsible Investing) = forme di investimenti (di attività
comuni) che abbinano ai ritorni non solo finanziari anche considerazioni di carattere ambientale e
sociale di governance; ESG (Environmental, Social, Governance) = fattori considerati (vedi
tabella); II (Impact Investing ) (vedi dopo).

Fattori ESG:
Ambientale Sociale Governance
Consumo di Qualità della
Diritti umani
energia gestione
Lavoro Indipendenza de
Inquinamento minorile e consiglio di
forzato amministrazione
L’impegno
Cambiamento
della Conflitto di interessi
climatico
comunità
Produzione di Salute e Compensazione
rifiuti sicurezza esecutiva
Conservazione
Rapporti con Trasparenza e
delle risorse
gli stakeholder divulgazione
naturali
Benessere degli Rapporti con i
animali dipendenti Diritti degli azionisti

Impact investing = sono tipi di investimenti di capitale che viene fatto in imprese con l'obiettivo di
produrre benefici per la società e l'ambiente.
Ha l’obiettivo di generare ritorni competitivi nel lungo periodo (sono capitali pazienti dunque non
ricercano ritorni finanziari nell’immediato) e un impatto sociale-ambientale positivo.
Le “Nazioni Unite” definiscono questo tipo di investimento come il collocamento di capitale in
imprese sociali e altre strutture con l'intenzione di creare benefici sociali al di là di un ritorno
finanziario.

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Questi investimenti d'impatto hanno fattori che permettono di misurare l'impatto che gli
investimenti hanno sulla società.
A tal fine la loro struttura ha 3 caratteristiche:
- Intenzione = consiste nell'oggetto perseguito dall'azienda, che deve essere sociale o ambientale.
- Misurazione = è il modo in cui si determina se l'azienda o la società sta generando l'impatto
desiderato come risultato del suo lavoro.
- Performance finanziaria = serve a stabilire la quantità di profitto che l'azienda ottiene come
risultato del suo lavoro sociale o ambientale.

Successivamente si pone l’attenzione sulla prospettiva dei consumatori: dal nostro punto di vista si
affermano nuove forme di consumo più consapevoli (es. forme di mobilità sostenibile).

L’aggravarsi della crisi degli equilibri ecologici, le persistenti perequazioni sociali e i processi di
crescita economica dalle caratteristiche e dagli effetti controversi hanno portato ad una
riformulazione delle regole di gestione delle imprese.
Riformulazione che vede al primo posto la centralità degli stakeholder e delle loro esigenze
specifiche e che nella prospettiva delle imprese si traduce nell’assunzione della responsabilità
sociale.
L’obiettivo è la creazione di un sistema capitalistico virtuoso in cui tutti i soggetti vincono, il
guadagno di un soggetto non va a svantaggio di altri.
Ciò comporta per l’impresa un maggiore impegno e attenzione per la responsabilità sociale.

La responsabilità sociale d’impresa (Corporate Social Responsiblity, CSR) o sostenibilità d’impresa


(Corporate Sustainability, CS) è definita come l’integrazione volontaria (al di là di quanto prescritto
dalla legge) di obiettivi e pratiche sociali e ambientali nei processi aziendali e nelle relazioni con gli
stakeholder.
Sorge la necessità di aprirsi al dialogo, alla cooperazione con il proprio contesto di riferimento
(visione relazionale) con l’obiettivo di: creare valore sostenibile e orientarsi al lungo periodo.
In questo mutato contesto, come l’impresa si garantisce il successo, tramite collocazione di prodotti
che piacciono al mercato dunque un sistema di offerta attrattivo ma deve abbinare la soddisfazione
di tutte le esigenze dei diversi stakeholder anche se esse possono essere divergenti. È necessario
mediare tra gli interessi.
Ciò comporta un cambiamento culturale nel quale il successo dell’impresa è strettamente connesso
al successo della gestione delle relazioni con i vari stakeholder.
La CS comporta un nuovo approccio strategico alla gestione d’impresa, basato su una visione
relazionale della stessa.

L’Impresa Sostenibile.
L’idea di impresa nasce in Italia da ‘societas romana’ a ‘commenda rinascimentale’ fino all’impresa
moderna.
• Societas Romana → la prima forma giuridica di società economica costituita tra persone per
l’utilizzo in comune delle risorse (a partire dal sec. III a.c.).
• Commenda → è considerata la prima forma di società di capitali perché (nel 1800) viene
introdotto il principio della responsabilità limitata, la società viene considerata un individuo a
sé con un proprio capitale.
• Impresa ‘moderna’ → istituzione economica, sistema aperto e dinamico che organizza e utilizza
risorse umane (lavoro intellettuale e manuale, dipendenti e fornitori di servizi) risorse materiali
(materie prime, semilavorati) e immateriali (conoscenze tecnologiche, scientifiche,
commerciali, organizzative, immagine ecc.) e capitali (fisici e/o finanziari) collegati sia tra loro
che con soggetti esterni da relazioni orientata alla trasformazione di tipo economico finalizzate
all’ottenimento di beni e servizi da offrire sul mercato.
• Mentre per il futuro si hanno grandi aspettative (es. posti di lavoro, aumentano la ricchezza)
per l’impresa sostenibile → il ruolo delle Società Benefit (in Italia) e Benefit Corporation (negli
Stati Uniti).

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Banalmente i siti delle aziende contengono nella loro comunicazione parti dedicate alla
sostenibilità e responsabilità, ma potrebbe essere una tecnica di marketing per attirare i
consumatori.
Per alcune imprese è attività di marketing, si parla di green washing, mentre altre hanno
interiorizzato davvero questi principi facendoli diventare una chiave di successo/una leva
strategica per un’ulteriore crescita in chiave proattiva.
La sostenibilità può diventare appunto una leva strategica ma è necessario che questi principi
riguardino tutti i livelli, deve essere interiorizzata alla gestione dell’impresa.

Sostenibilità integrata: nuovo modello di gestione e creazione di valori.


La sostenibilità non è solo un meccanismo correttivo delle distorsioni nei sistemi capitalistici
moderni ma anche opportunità di incremento della competitività dell’impresa e creazione di valore
a diversi livelli.
Infatti deve investire tutti gli ambiti della gestione d’impresa, l’intera catena del valore, dalla
produzione al marketing, dalla gestione delle risorse umane agli aspetti finanziari = gestione
integrata della responsabilità sociale (CS) → come investimento finalizzato alla realizzazione di
vantaggi competitivi duraturi e alla minimizzazione dei rischi.
Il modello di gestione orientato alla (CSR) è caratterizzato dalla centralità del rapporto con gli
stakeholder, dei principi di miglioramento continuo e dall’innovazione.
La sostenibilità dell’impresa dipende dalla sostenibilità delle sue relazioni con i differenti portatori
d’interesse quindi da una creazione di valore condiviso (Kramer e Porter, 2006).
Creating Shared Value (CSV) (valore condiviso) è l’ insieme delle politiche e delle pratiche
operative che rafforzano la competitività di un’azienda migliorando allo stesso tempo le condizioni
economiche e sociali della comunità in cui la stessa opera.
Si concretizza nei fatti tramite:
- Adeguata remunerazione per soci e azionisti.
- Migliori condizioni di lavoro.
- Condivisione della conoscenza e collaborazione di lungo periodo con i fornitori (ottica di co-
evoluzione) superano la logica competitiva.
- Relazioni trasparenti e chiare con i partner finanziari (banche e assicurazioni).
- Corretta e responsabile relazione con gli organi di governo (locali e nazionali).
- Ruolo propulsivo (attivo) e innovativo dell’impresa all’interno della società locale (es. dare
risorse al territorio).
- Attenzione all’ambiente (es. limitare gli impatti ambientali di produzione).
La sostenibilità diventa opportunità di incremento della competitività dell’impresa e creazione di
valore a diversi livelli (es. Ferrero).

Il mancato riconoscimento di questo radicale cambiamento ha esposto numerose imprese


(Danone, Nestlé, McDonald’s, Coca-Cola, Mattel, Apple ... ) a diversi rischi e minacce:
- Crisi nella filiera di fornitura con pesanti impatti a valle nei mercati di sbocco.
- Proteste e perdite di consenso nella comunità in cui operano/mercato.
- Campagne di boicottaggio realizza dai consumatori finali (class action).
- Valutazioni negative da parte della comunità finanziaria (riduzione del valore di mercato,
sfiducia da parte degli azionisti e della comunità finanziaria).
- Costi e inefficienze legate alla scorretta gestione degli impatti ambientali.
Es. Coca-Cola crisi fine anni ’90 (danni limitati in quanto non erano presenti i social):
Le problematiche erano dovute a una carenza nella gestione dei rapporti con i fornitori.
Le conseguenze alla scarsità di controllo verso la produzione e la gestione dei rapporti con fornitori
possono essere molto drastiche (es. ragazza morta per il tiramisù).

La CS prefigura un nuovo modello d’impresa sistemico (perché riguarda trasversalmente tutta


l’organizzazione) che porta alle innovazioni (punto cardine) di sistema grazie anche ad alleanze e
partnership (le innovazioni possono nascere anche tra): imprese; imprese e soggetti della società
civile più attenti; imprese e soggetti pubblici ed imprese, soggetti pubblici e società civile.

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Alcune recenti evoluzioni:
Il concetto di sostenibilità non è la sola innovazione degli ultimi anni, sono nate altre definizioni di
economia, dovute anche allo sviluppo tecnologico, per creare altre forme di mercato:
• Economia positiva (o positive economy) → creata nel 2012 da Jacques Attali al Forum di Le
Havre, prevede generosità (ricchezza) nei confronti delle generazioni future, promuove
relazioni di lungo periodo, condivisione della conoscenza e approcci collaborativi.
• Economia circolare (o circular economy) → mira a mantenere le risorse utilizzate quanto più a
lungo possibili all’interno del ciclo produttivo.
Un’economia progettata per auto-rigenerarsi. Ogni risorsa diventa una componente importante
per poter crescere e svilupparsi.
• Economia della condivisione (o economia di consumo collaborativo o sharing economy) → (già
se ne parlava negli anni ’60) i processi di produzione e i relativi asset non sono detenuti
dall’impresa che opera come semplice piattaforma peer-to-peer di collegamento tra domanda e
offerta (es. uber, vinted, Airbnb).
I processi di produzione e i beni necessari non sono detenuti dall’impresa ma in questo caso
(es. Airbnb) le imprese fungono da intermediari tra chi possiede il bene e chi lo necessita.
Operano secondo diverse logiche rispetto alle imprese tradizionali.
Non bisogna scordare però che le imprese perseguono obiettivi di ricchezza!

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CAPITOLO 2 – TRA SOGGETTI E SISTEMI: GLI AMBITI DELLA TEORIA D’IMPRESA.
L’impresa come trasformazione di risorse.
Dalla rivoluzione industriale all’impresa moderna:
• Nascita di ampi mercati di consumo e la necessità di una nuova entità economica (impresa
input-output, proprio perché tutta l’attenzione della gestione era volta alla produzione in
fabbrica in modo più efficiente possibile).
• Impresa come organizzazione complessa (emerge la competitività e nuove figure di
stakeholder, la produzione fisica cessa di essere il fulcro tanto che oggi può avvenire anche da
un’altra parte rispetto a dove si prendono le decisioni - delocalizzazione) (impresa sistemica).
Ma cos’hanno in comune l’impresa input-output e l’impresa sistemica?
La centralità del concetto di creazione di ricchezza = il maggior valore derivante dal processo di
trasformazione delle risorse operato dall’impresa (es. Vedi tabella slide).
La ricchezza/profitto creata dall’azienda può essere considerata la remunerazione dell’attività
imprenditoriale.

I modelli d’impresa.
Con quale tipologia di modelli d’impresa possiamo creare ricchezza?
Ci sono diverse classificazioni delle tipologie di impresa:
• Dalla dimensione dell’impresa dipendono le soluzioni organizzative e gestionali adottate.
• Le diverse unità di un sistema produttivo → processi artigianali vs processi industriali che
vengono distinti sulla base dell’ampiezza nell’applicazione del principio di standardizzazione
dei processi di lavorazione (standardizzazione massima nei processi industriali e al crescere
dell’attività di capitale cresce l’industrializzazione del processo produttivo e ci si allontana
progressivamente dai processi artigianali (> libertà)).
• Beni realizzati → prodotto artigianale (ottenuto con modalità di produzione effettivamente
artigianali) vs prodotto a immagine artigianale (prodotto standardizzato, ripetitivo a cui si dà
un’apparenza di artigianato, es. poltrone e sofà).
I. Impresa artigiana.
Spesso l’impresa artigiana viene associata alla microimpresa (meno di 10 dipendenti) ma la
numerosità dei dipendenti non è associata ad essa.
Facendo riferimento alle caratteristiche qualitative dei processi e all’organizzazione, un’impresa è
artigiana quando ha:
- Modalità artigiana della produzione (professionalità specifica).
- Scarsa strutturazione dell’organizzazione (l’organizzazione avviene per mestieri).
- Mancanza di standardizzazione nei processi decisionali (strutturazione).
- Nessun potere di mercato.
- Nessun potere nei confronti dei finanziatori.

Come distinguiamo la piccola e media impresa dalla grande impresa?


Si fa riferimento a parametri/variabili generalmente riconosciute:
• Parametri quantitativi:
- Il capitale investito → ma contiene diverse limitazioni, ovvero non tiene conto del tipo di
lavorazione che mi porta a sottostimare le imprese labour intensive (capital intensive o labour
intensive = richiedono una forte componente umana) e non tiene conto che i beni possono
essere presi in locazione e in leasing (non acquistati).
- Il numero di addetti → le limitazioni sono simili al capitale investito. È utile se usato in modo
complementare.
- Il fatturato (ricavi) → la limitazione riguarda la scarsa validità a misurare la dimensione
aziendale perché guardando il fatturato non tengo conto del valore unitario dei prodotti
realizzati (non tiene conto dell’integrazione verticale (quando controlla una o più fasi della
filiera produttiva mentre è totalmente integrata quando controlla tutte le fasi produttive); e si
ha disomogeneità dei settori di confronto (non si riesce a fare un confronto tra i vari settori di
imprese che hanno diverse dimensioni).

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• Valore aggiunto:
Racchiude tutte la vita dell’impresa, è parametro valido ma presenta difficoltà di calcolo. Può
essere calcolato tramite:
- Via sintetica (o diretta) → valore dell’output aziendale (della produzione e i ricavi provenienti dalle
vendite; si calcola: ricavi dalle vendite + rimanenze finali – rimanenze iniziali) – valore degli input
acquistati all’esterno (si calcola: consumi materie prime/servizi + energia + lavorazioni presso terzi +
affitti passivi…).
- Via analitica (o indiretta) → consideriamo l’insieme delle remunerazioni dei fattori produttivi
(lavoro, attività imprenditoriale, stipendi dipendenti, ammortamenti, oneri finanziari, imposte…) ; si
calcola: valore/reddito netto + remunerazioni.
(Vedi tabella slide x esempi).
• Parametri qualitativi:
Possiamo effettuare una distinzione anche guardano le caratteristiche qualitative degli aspetti
strutturali e gestionali delle Piccole-Medie Imprese:
- La disponibilità di risorse → le PMI sono caratterizzate da ridotte risorse che limitano gli
investimenti (di crescita), in generale la principale forma di finanziamento sono le banche
(grosso limite, es. inflazione).
- Meccanismi Operativi e struttura organizzativa → presentano una struttura gerarchica con
centralità/unicità e specialità del ruolo dell’imprenditore (es. impresa famigliare), mentre la
dimensione degli impianti, numero di addetti, limitato numero di transazioni sono limitati.
- Scelte strategiche (fungono da linea guida) → possibilità di azione più ampio, orizzonte
temporale di riferimento è limitato cosi come i rapporti con l’ambiente competitivo (non sono
aperte alla collaborazione).
A fronte di queste limitazioni, il vantaggio di essere una pmi è:
- Flessibilità → in grado di affrontare meglio i cambiamenti repentini nell’ambiente di
riferimento essendo una struttura snella.
- Il contesto culturale e storico-sociale nella quali nascono le pmi influenza le dinamiche di
crescita/sviluppo che hanno (es. negli Stati Uniti le pmi hanno un orientamento più
manageriale guidate da manager esterni NO familiari).

II. Grande Impresa.


La grande impresa (generalmente con un numero di addetti > 500), man mano che cresce,
l’impresa cresce il suo potere nel mercato, di acquisire le risorse e il potere nei confronti degli
istituti di credito (circolo virtuoso).
Presenta tratti caratterizzanti che la distinguono dalle PMI:
- Il controllo è detenuto dalla direzione del consiglio di amministrazione e dai principali
manager.
- Il management si autoperpetua = generalmente i manager attuali individuano i loro successori
che andranno poi a formare, questo processo si chiama cooptazione (assunzione di un membro
in un corpo od organo collegiale, mediante designazione da parte dei membri già in carica).
- L’impresa mira all’indipendenza finanziaria = il suo obiettivo è ridurre il più possibile la
dipendenza da finanziamenti esterni perché sono legati a dinamiche dell’economia globale, in
concreto mira ad autofinanziarsi (es. non distribuendo o limitando dividenti agli azionisti).
- L’impresa mira ad una più generale autonomia decisionale rispetto a qualsiasi vincolo esterno,
tende ad anticipare i trend e le dinamiche del mercato.

III. Gruppi di Imprese.


In alcuni paesi, invece che la grande impresa, sono sorti gruppi di imprese che uniscono tra loro
diverse imprese di piccole dimensioni, svolgono attività diverse ma sono collegate tra loro (es.
appartengono ad un unico soggetto). Sono tipiche italiane e giapponesi.
Sono la via intermedia tra PMI e GI, il vantaggio è che riescono a raggiungere anche una certa
rilevanza nel fatturato, un elevato numero di dipendenti e dall’altro lato, essendo distinte tra loro,
conservano la flessibilità tipica delle PMI.

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Il gruppo di imprese è l’insieme di imprese giuridicamente distinte collegate tra loro da legami
azionari che consentono il controllo stabile di tutte le attività, facilitando e garantendo il loro
coordinamento.
I diversi gruppi di imprese si differenziano in particolar modo per la presenza o meno di una
Capogruppo/Holding (soggetto economico comune che governa tutte le società di un gruppo) in:
• Gruppi gerarchici → struttura piramidale che fa capo ad una società holding sede del controllo
di tutte le attività (può essere una holding finanziaria o holding operativa/mista).
• Gruppi associativi → il potere delle imprese all’interno del gruppo è equivalente, sono connesse
da una serie di possessi/partecipazioni azionari reciproci.
Il coordinamento non fa capo ad una holding ma è ottenuto mediante vari meccanismi di tipo
formale o informale (es. tipica economia giapponese con il collegio dei saggi che riunisce
manager più anziani che coordinano). Appartengono allo stesso settore.
• Gruppi conglomerati → operano in settori privi di collegamento tra loro, l’obiettivo è
controllare il più possibile diverse attività economiche avendo all’interno del gruppo almeno
un’impresa per ogni attività economica rilevante (es. Mitsubishi).
Oltre che legami finanziari tra le imprese questi possono essere:
- Legami economici → legati ad accordi di collaborazione che danno vita a filiere di produzione o
a relazioni stabili = quasi-gruppi.
- Legami personali → legami di amicizia, parentela o professionali = gruppi di fatto.

La creazione di ricchezza/maggior valore avviene grazie alla figura dell’imprenditore ed è


strettamente legata ad esso il quale è chiamato a trovare le condizioni ottimali.
Risorse materiali
Risorse immateriali RUOLO DELL’IMPRENDITORE CREAZIONE DI RICCHEZZA
Risorse umane

La figura dell’imprenditore si contraddistingue per la sua molteplicità, ossia per la varietà dei
profili che possiede (è chiamato a svolgere più mansioni differenti) e le traiettorie lungo le quali è
chiamato a muoversi.
L’imprenditore deve possedere alcune doti personali (innate ma che devono essere sviluppate):
• Imprenditorialità → capacità di immaginare e costruire il futuro dell’impresa.
• Leadership → capacità di organizzare e gestire l’attività e la capacità di guidare le persone
coinvolte nell’organizzazione (distinzione tra boss/capo e leader).
L’agire imprenditoriale si muove nell’ambito/lungo di tre dimensioni:
a) Mentale → che attiene all’innovazione.
b) Organizzativa → che si riferisce al fare efficacemente le cose che si è deciso di fare.
c) Relazionale → diretta alla costruzione dei rapporti con gli stakeholder e alla creazione della
squadra aziendale.
L’intensità con cui sono presenti queste dimensioni varia in base all’imprenditore, la sua
formazione, apprendimento, modi di essere e fase della vita dell’impresa che dirige.
Prevalgono i tratti generalisti perché l’imprenditore è chiamato a muoversi lungo più dimensioni.
Nelle pmi le tre dimensioni/doti sono tutte racchiuse nello stesso imprenditore diverso dalle grandi
imprese nelle quali doti sono divise su vari manager.

Importanza della Cultura Imprenditoriale: si ha una forte connessione della crescita economica di
un paese e lo sviluppo della cultura imprenditoriale.

L’impresa vive attraverso il contributo di numerosi soggetti (interni ed esterni all’impresa), spesso
con obiettivi divergenti (sta all’imprenditore mediare tra essi), ciò comporta un aumento della
complessità gestionale.
La capacità di creare ricchezza richiede la costruzione di rapporti positivi con gli stakeholder vale a
dire con tutti i soggetti che hanno una posizione di interesse verso l’impresa.

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CAPITOLO 3 – PROSPETTIVE SUL FINALISMO D’IMPRESA PER LA CREAZIONE DI
RICCHEZZA.
Qual è la finalità dell’impresa?
Le teorie sulla finalità d’impresa.
I. La teoria neoclassica.
La teoria degli Shareholder view (vs stakeholder view) affonda le sue radici nella teoria neoclassica.
Il presupposto della teoria neoclassica è la concorrenza perfetta con:
- Unico soggetto decisore.
- Perfetta razionalità.
- Perfetta informazione(trasparenza del mercato).
- Assenza di barriere all’entrata o all’uscita (di un settore, es. settore chimico che richiede elevato
capitale per entrare e all’uscita riguardo ai macchinari difficilmente trasformabili).
- Totale libertà di circolazione dei fattori (es. no dazi doganali).
Ha una visione semplicistica rispetto alla realtà che l’impresa deve affrontare.
Questi presupposti/condizioni portano alla Condizione di Equilibrio di mercato.

Secondo la Scuola Neoclassica (definita anche marginalista o marshalliana, seconda metà


dell’ottocento) l’obiettivo fondamentale dell’impresa è la massimizzazione del profitto.
La massimizzazione del profitto si nota quando la curva
del costo totale e la curva del ricavo hanno la stessa
pendenza.
Massimizzazione del profitto = f (q, p) = ricavo marginale
(rappresenta la variazione che il ricavo totale subisce per la
vendita di un’unità aggiuntiva) eguaglia il costo marginale
(rappresenta la variazione che il costo totale subisce per
effetto di una variazione aggiuntiva).
I postulati fondamentali della teoria neoclassica:
- L’obiettivo dell’impresa è la massimizzazione del profitto.
- Per raggiungere questo obiettivo la produzione deve essere spinta fino al punto in cui Rm=Cm.
La teoria marginalista si è esposta a numerose critiche:
- Presuppone una condizione di equilibrio.
- Si limita al profitto di breve periodo trascurando le esigenze di sicurezza e sopravvivenza
dell’azienda (es. non considera investimenti ad ampio raggio che daranno profitti nel lungo o
medio termine).
- Non si considerano i possibili conflitti di interesse tra azionisti e manager e le relative
divergenze di obiettivi.
- Non considera che l’azienda è un fenomeno sociale e quindi i suoi obiettivi non possono
limitarsi al profitto.
• La critica di Sraffa (1926).
È stato tra i primi a sottolineare i limiti della teoria neoclassica.
Sottolinea le ipotesi di base restrittive ed evidenzia un equivoco/contraddizione di fondo, ovvero
che pone come obiettivo primario la massimizzazione di profitti ma nega l’esistenza stessa del
profitto perché considera il mercato in equilibrio.
• La critica della concorrenza monopolistica (Chamberlin 1933; Robinson, 1933).
Evidenzia che le imprese collocano sul mercato prodotti differenziati/differenziabili (che alterano
le condizioni di equilibrio).
La massimizzazione del profitto è un problema indeterminato e la causa dell’indeterminatezza
deriva da due elementi:
1) Il prezzo di vendita dipende dall’andamento della curva di domanda.
2) La curva di domanda dipende dal comportamento dei concorrenti (che è mutevole,
imprevedibile e incerto).

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• La critica della teoria delle interdipendenze oligopolistiche (Hall Hitch 1939; Sweezy, 1939).
Il prezzo non è determinato dall’uguaglianza tra costo e ricavo marginale ma è frutto
dell’interdipendenza dei comportamenti delle imprese (= a un’azione di un’impresa corrispondono
reazioni da parte dei suoi competitor).
Capire come si forma un prezzo è complesso e difficilmente spiegabile in un modello perché i
comportamenti delle imprese non sono prevedibili.
• La critica della teoria dell’abbandono dell’equilibrio statico (Rothschild 1947; Bain 1956; 1959;
Sylos Labini 1956; Harrod 1967).
Gli autori sono partiti valutando la crescita dell’impresa, l’interdipendenza dei comportamenti e
l’imprevedibilità e hanno concluso che nella determinazione del prezzo conta maggiormente la
concorrenza potenziale (quelli che potrebbero entrare nel mercato), assume maggior rilevanza
rispetto a quella esistente, determinando l’adozione di un prezzo cosiddetto “di esclusione”.
Il prezzo è fissato per tenere lontani i competitor potenziali (= fisso un prezzo che renda non
conveniente e antieconomico per i potenziali competitor entrare nel mercato).

Queste teorie individuano che la finalità principale dell’impresa va cercata nella massimizzazione
del profitto compatibilmente con la difesa delle posizioni sul mercato.

Questi approcci teorici, visti finora, vanno a definire le finalità dell’impresa senza considerare chi le
decisioni deve effettivamente prenderle, non considerano la struttura interna delle imprese.
Nascono da questa constatazione le critiche, alla teoria neoclassica della massimizzazione del
profitto, da cui derivano due scuole:
- L’approccio manageriale.
- Scuola comportamentista.
• La critica dell’approccio manageriale (Williamson 1964; Marris 1964).
Nelle grandi imprese la gestione dell’impresa è demandata a manager i cui interessi possono
addirittura prevalere su quello dei singoli azionisti.
Evidenziano come la massimizzazione del profitto, nella grande impresa, può non essere
raggiungibile.
Mettono in dubbio la finalità della massimizzazione del profitto constatando una caratteristica
interna di alcune imprese ⇒ separazione tra proprietà e controllo ⇒ problema del rapporto di
agenzia (il rapporto che lega gli azionisti e i manager; questo rapporto porta i manager ad avere più
vantaggi rispetto agli azionisti).
• La critica della scuola comportamentista (Cyert-March 1963; Cohen-Cyert 1965).
L’impresa è un’organizzazione complessa che deve operare al servizio della comunità, viene vista
come una coalizione di diversi gruppi di interesse ma in grado di influenzare gli obiettivi che
persegue.
L’obiettivo dell’impresa diventa l’appagamento di aspirazioni diverse (perché opera a favore di più
soggetti).
Dà l’avvio all’approccio/teoria stakeholder based/view.

II. La teoria degli stakeholder.


Vede il suo massimo esponente in Freeman (1984), il quale sottolinea che l’impresa deve agire
secondo gli interessi di più stakeholder.
Presenta un modello/schema in cui l’impresa è il fulcro e diversi stakeholder sono i raggi terminali.
Sono anni in cui si prende consapevolezza che accanto agli stakeholder tradizionali (es. fornitori)
nascono nuovi stakeholder (es. ambientalisti e media) le cui esigenze possono influenzare gli
obiettivi dell’impresa.
L’impresa viene vista come uno sforzo competitivo e cooperativo che coinvolge un ampio gruppo di
individui e di organizzazioni, quindi è vista come un’organizzazione attraverso la quale più
individui possono soddisfare i propri fini.
L’impresa per avere successo, non solo ha bisogno del contributo degli stakeholder ma lo stesso
successo di impresa consiste nel soddisfare gli stakeholder.

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L’impresa avrebbe dovuto massimizzare non il profitto ma la soddisfazione degli stakeholder nel
suo insieme, distribuendo la ricchezza generata fra i vari partecipanti in modo equilibrato.
Il successo dipende anche dalle Risorse Relazionali, di carattere sociale (es. la fiducia).

La critica mossa a questa teoria è che perseguire obiettivi sociali anziché reddituali finisce per
danneggiare la società perché priva l’impresa della capacità di competere e produrre innovazione
(es. per tutelare l’interesse dei lavoratori non chiude la fabbrica che non produce più ricchezza).

Un’evoluzione, per chi si contrapponeva alla teoria degli stakeholder, è stata il passaggio dall’idea
che l’impresa deve massimizzare il profitto a quella che l’impresa deve massimizzare la ricchezza
degli azionisti.
Questa svolta epocale è rappresentata dalla presa di coscienza che a livello internazionale la grande
impresa era dominata dalla società di capitali, nelle quali proprietà e controllo sono separate.
Da questa considerazione si dice che il comportamento dei manager deve essere disciplinato
nell’interesse degli azionisti ma ciò non è garantito se si perseguono obiettivi di reddito come la
massimizzazione del profitto.
Il comportamento dei manager deve essere orientato verso la massimizzazione della ricchezza degli
azionisti.

A favore di questa teoria vi sono 2 condizioni fondamentali:


1) L’idea che l’obiettivo dell’impresa dovrebbe essere unico (perché cercare di soddisfare
contemporaneamente gli stakeholder è difficile e possono avere diversi interessi).
2) La creazione di ricchezza degli azionisti è l’obiettivo che meglio soddisfa l’interesse di tutti
(Jensen e Mekling, 1976). Nonostante i diritti di proprietà gli azionisti sono la categoria meno
protetta, i cui interessi si realizzano solo se i manager si concentrano sulla creazione della
ricchezza (a differenza degli altri stakeholder che vengono tutelati dalla legge), non c’è una
norma che obbliga l’impresa alla remunerazione degli azionisti).

A sostegno di questa teoria abbiamo anche una considerazione (Rappaport 1998) riportante:
“l’unica responsabilità sociale dell’impresa è di creare valore per gli azionisti, nel rispetto della
legge e dell’integrità morale... ll management delle imprese non ha né la legittimazione politica né
le competenze per decidere quali siano gli interessi sociali”.

Secondo gli studi più recenti svolti nell’ambito dell’economia e gestione delle imprese, la ricerca
della ricchezza degli azionisti si deve realizzare in un contesto di relazioni armoniche con
l’ambiente, quindi si deve perseguire l’obiettivo del profitto (massimizzazione della ricchezza) ma
in modo equilibrato.
L’impresa che si guadagna una buona reputazione e l’appoggio degli stakeholder può far leva su
queste relazioni per creare ricchezza.

L’evoluzione delle competenze manageriali a servizio delle finalità dell’impresa.


C’è stata in parallelo un’evoluzione delle tecniche gestionali per governare le imprese che si sono
accompagnate alla moltiplicazione delle funzioni all’interno di esse:

Periodo Caratteristiche Funzione emergente


Anni ‘50 Produzione di massa Produzione
Anni ‘60 Rallentamento produzione Marketing
Finanzia, Strategia e
Anni ‘70 Crisi economiche e sociali
pianificazione strategica
Ripresa economica
Scienza come strumento Logistica
Anni ‘80
competitivo Gestione dell’innovazione
Produzione di sevizi

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• Qualità totale (Total Quality Management, TQM, ci si riconduce Toyota perché nasce in
Giappone a risposta della crisi degli anni ’70 (lean production) in contrapposizione al modello e
l’impresa statunitense).
I fase → l’idea inizialmente era solo per la funzione produttiva infatti lo scopo era eliminare gli
scarti di produzione (riduzione di prodotti difettosi).
La visione fordista associava alla qualità dei costi associati, mentre il Giappone interviene sulla
qualità prima di avere delle perdite di denaro (scarti).
Si ha un approccio alla qualità e alla gestione della produzione diverso rispetto ai paesi occidentali,
anche i dipendenti vengono responsabilizzati per fermare la produzione se presente un difetto.
Poi viene esteso l’approccio alla qualità/ il metodo anche alle altre funzioni quindi tutte la fasi di
gestione dell’impresa.
II fase → tutte le funzioni aziendali, tutti i processi aziendali sia produttivi che attività di altro
genere possono essere largamente e continuamente migliorati.
Si sviluppa l’idea che l’impresa tende al miglioramento continuo tramite:
- Riduzione uso risorse.
- Miglioramento qualità prodotti/servizi.
- Aumento soddisfazione clientela.
- Coinvolgimento degli operatori.

Anche gli sviluppi e innovazioni sociali hanno cambiato la gestione delle imprese:
• Globalizzazione dei mercati → sistema che lega persone, imprese, economie, stati e conoscenze
tecnologiche di diversi paesi in un sistema integrato.
La globalizzazione è avvenuta grazie a:
- Progresso tecnico (riduce barriere naturali).
- Progresso sociale (riduce le barriere culturali).
- Politiche di integrazione (riduce barriere politiche (es. non come brexit)).
Questo sistema integrato porta a un aumento dell’interdipendenza dei mercati nazionali (sia
mercati finanziari, che mercati dei beni), un aumento del flusso di lavoratori attraverso i confini,
un aumento dei flussi di informazione.
L’approccio gestionale porta allo sviluppo di nuovi e diversi fenomeni competitivi:
- Delocalizzazione (della produzione, per costi minori).
- Competizione (imprese che superano le dinamiche competitive e cooperano per svolgere
insieme ai competitor per alcune fasi come: ricerca, produzione...).

L’approccio manageriale viene influenzato anche dalla globalizzazione.


Fino agli anni ’70 ci si è concentrati con fattori competitivi dell’ambiente di riferimento, mentre a
partire dagli anni ’90 le imprese devono far fonte a problematiche non direttamente collegate alla
domanda-offerta, di natura non competitiva, che hanno fatto sorgere la funzione di protezione
aziendale che ha lo scopo di tutelare l’impresa dai fattori di rischio di origine non competitiva.

Evoluzione delle tecniche gestionali per governare le imprese:


Periodo Caratteristiche Funzione emergente
Anni ‘90 Influenza di fattori o ambienti Protezione aziendale
non competitivi
(Continuo della tabella precedente).

Conclusioni:
- L’impresa è un sistema aperto che interagisce e scambia con altri ambienti di riferimento.
- L’impresa è un’organizzazione di risorse e di persone.
- L’impresa è un sistema dinamico (in continua evoluzione).
- L’ambiente esterno all’impresa è vincolo (cambiamenti) ma anche opportunità di crescita.

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CAPITOLO 4 – L’ORIENTAMENTO ALLA CREAZIONE DI VALORE: EVOLUZIONE,
TEORIE E MODELLI.
Il concetto di valore e di sostenibilità guidano il corso.

Ricordiamo che la finalità/obiettivo più razionale dell’impresa è creare ricchezza per gli azionisti.
Dal capitale netto al concetto di valore.
L’impresa crea valore se e solo se ottiene (= offre a agli azionisti) un rendimento dei mezzi propri
più elevato del costo del capitale.
Secondo questa prospettiva/con questo obiettivo l’intento dell’impresa di creare valore nel lungo
periodo può portare a scelte che portano a rinunciare a profitti di breve periodo.

In termini di contabilità: Il Capitale Netto.


La ricchezza investita, degli azionisti all’interno, dalla proprietà in un’impresa è rappresentata dal
capitale netto (o mezzi propri).
I rapporti tra impresa e i propri soci possono essere declinati cosi:
• Conferimento dei soci (+) ⇒ Capitale sociale (+).
• Utili (+) ⇒ Riserve (+).
• Perdite (-) ⇒ Riserve (-).
• Prelievi (-) ⇒ Dividendi (-) (tipiche della società per azioni).
⇒ Somma algebrica dei rapporti intercorsi fra l’impresa e i soci.

Il capitale netto rappresenta dunque la quota di ricchezza che è stata investita dalla proprietà
nell’impresa, aumentata (riserve +) o diminuita (riserve -) dai risultati storicamente ottenuti e al
netto dei trasferimenti di ricchezza dall’impresa verso gli azionisti (prelievi o dividendi).

Se il capitale netto > capitale sociale ⇒ la ricchezza iniziale è aumentata


ma se il capitale netto < capitale sociale ⇒ la ricchezza iniziale è decurtata.

Ma il capitale netto fornisce una buona rappresentazione del valore effettivo della ricchezza
investita dagli azionisti? (Vedi caso Tesla, no dividenti e capitale netto negativo ma con gli
investimenti ha creato premesse per sviluppi futuri es. SpaceX. La borsa riconosceva in Tesla la
possibilità di creare valore futuro).
Il Capitale Netto non è una buona rappresentazione del valore dell’impresa creato, perché si
effettuano gli investimenti affinché l’impresa sia di successo successivamente nel medio-lungo
periodo.
Il concetto di capitale netto è un indicatore statico (guarda al passato, ai conferimenti dei soci,
dividendi…) e non tiene conto delle prospettive di reddito/sviluppo dell’impresa, quello di
ricchezza degli azionisti al futuro.
È meglio ragionare in termini di prospettive di valore piuttosto che al dato contabile.
• Il concetto di ricchezza degli azionisti.
Agli azionisti interessano:
- Dividendi che possono ricevere.
- Il valore dell’impresa nel futuro perché da questo valore dipende il lavoro di realizza del suo
investimento (differenza del prezzo tra quanto acquistato le azioni e a quanto vendute).
- La capacità dell’impresa di generare redditi nel futuro → valore di capitale economico.

• Il concetto di valore.
Quando parliamo di valore entrano in gioco due elementi fondamentali:
1) Flussi di rettato attesi per il futuro = fattore tempo.
2) È necessario effettuare un’operazione matematica ovvero i tassi di attualizzazione (/tasso di
sconto) (riporto ad oggi il valore di un capitale che otterrò in futuro, mi consente di portarli ad
oggi/scontarli per capire quanto varranno. Il tasso sarà tanto maggiore quanto la scadenza del
capitale futuro è lontana nel tempo) = fattore rischio.

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Abbiamo bisogno di attualizzare perché ciò è legato al costo opportunità del capitale (avere 1000
euro oggi è una condizione economica finanziaria migliore rispetto che tra 2 anni. È migliore
perché posso investirli oppure li posso spendere).

Quando applico il concetto di valore?


Si preferisce applicarlo rispetto al dato contabile quando:
- Garanzie societarie (es. compio un’operazione e la banca mi chiede delle garanzie, dimostro la
capacità di produrre reddito in futuro).
- M&A(fusione e acquisizione) → operazioni di finanza straordinaria (acquisizione quando c’è il
trasferimento della proprietà di una società che viene acquisita; fusione quando due o più
società vengono unite (dando vita a una nuova società o si integrano a vicenda)).
- Stime periodiche della performance dell’impresa.

La ricchezza degli azionisti aumenta la formula del valore di capitale economico (W) che esprime
la capacita dell’impresa di generare flussi di reddito/risultati che viene stimando in condizioni di
normale gestione e funzionamento dell’impresa, dunque normali condizioni di rischio.
Si calcola così:
Dt
W=∑
(1 + kE )t

Dt = dividendo al tempo t.
Ke = tasso di attualizzazione calcolato in funzione del rendimento atteso dagli azionisti, tenendo
conto anche del rischio.
L’idea di fondo è che il capitale economico rappresenta correttamente il valore della ricchezza
investita dagli azionisti.
Può essere calcolato come somma attualizzata dei benefici che l’impresa apporterà ai soci
(/produrrà per gli azionisti).
Possiamo applicare questa prospettiva del valore anche alle altre voci dello stato patrimoniale.

Dal capitale netto al capitale economico.

Contabilità classica Valore

Valore del Debito


Debito
(D)
Valore
Capitale
dell’impresa
investito
(V) Capitale Economico
Capitale netto
(W)

Da capitale investito a valore dell’impresa.


Da debito a valore del debito.
E come visto prima da capitale netto a capitale economico.
Da Capitale Netto = Capitale investito – Debito
a Capitale economico = Valore impresa – Valore del Debito.
Il capitale netto esprime pertanto il grado di dipendenza dell’azienda da mezzi di terzi.
Mentre il capitale economico esprime pertanto la capacità dell’impresa di generare flussi di cassa
superiori alle quote di debito che deve ripagare.

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Valore dell’impresa (V):
FCFOt
V=∑
(1 + k)t
FCFOt = flusso di cassa operativo al tempo t (Free Cash Flow from Operations o Operating Free
Cash Flow) ovvero flussi generati dalla gestione caratteristica (core dell’impresa) che poi
remunerano azionisti o soddisferanno i debiti.
k = tasso di attualizzazione (x attualizzare) che esprime una media ponderata delle attese di
rendimento di debitori e azionisti.
Il flusso di cassa operativo è relativo alla gestione operativa al lordo degli oneri finanziari, indica se
l’impresa è in grado di generare, dalla sua attività principale, flussi sufficienti a sopravvivere a
crescere nel tempo o necessita di finanziamenti.
(Vedi schema slide).

Valore del debito (D):


Ft
D=∑
(1 + kD)t

Ft = il flusso ricevuto dai finanziatori al tempo t → interessi passivi sul debito + capitale. Ovvero
flussi pagati ai creditori (rimborso del capitale preso in prestito e pagamento degli oneri finanziari).
kD = tasso di attualizzazione calcolato come tasso d’interesse abitualmente applicato dal mercato
per debiti con caratteristiche simili per durata e rischio.
L’impresa può pagare un tasso diverso rispetto a quello praticato sul mercato per alcune dinamiche
come il potere sul mercato...
In generale il valore del debito D sarà inferiore al valore nominale del debito se il tasso di mercato
utilizzato per debiti simili sarà inferiore a quello pagato effettivamente dall’impresa.
Caso contrario il debito D sarà maggiore se il tasso di mercato è superiore rispetto a quello
effettivamente pagato.

Quindi la creazione di ricchezza per gli azionisti si concretizza in un aumento del valore del capitale
economico (visto nello stato patrimoniale).
L’impresa è stata capace di individuare gli investimenti redditizi e di dismettere investimenti che
distruggevano valore.
Il capitale economico esprime la capacità dell’impresa di produrre reddito e di soddisfare gli
azionisti.
È una grandezza incerta perché guarda al futuro ma non è aleatoria.

Il valore del capitale economico e il valore di mercato.


Il valore del capitale economico esprime la ricchezza degli azionisti che guardano al lungo periodo
e tengono le loro azioni fino a quando il valore del capitale economico è lo stesso (o vicino) sul
valore di mercato (es. 17 anni prima che Tesla distribuisse i dividendi) in una situazione ideale.
Il valore di capitale economico è spesso differente dal valore di mercato (cioè il prezzo con cui passa
di mano la proprietà delle imprese) a causa di vari fattori:
- Presenza di investitori con intenti speculativi (es. gamestop. sono coloro ai quali non interessa la
capacità dell’impresa di produrre ricchezza ma acquistano e rivendono le azioni sul mercato di continuo,
non sono investitori di lungo periodo, ma giocano con prezzo d’acquisto e prezzo di vendita).
- Grado di trasparenza dei mercati (in cui è difficile ottenere informazioni, sono soggetti a oscillazioni
di prezzo).
- Dimensione dei mercati finanziari (come è stato il nostro piccolo chiamato “sottile”, poche operazioni
su titoli data la dimensione complessiva determinano forte oscillazioni dei prezzi).
- Tendenza ad andamenti ciclici (periodi in cui crescono e altri in cui andamento generalizzato delle
borse in fase di down. È una tendenza normale dei mercati finanziari).
- Gioco delle aspettative (diffusione di notizie che portano a investimenti non troppo pensati).
Il caso Gamestop – un caso di speculazione: nonostante il suo prolungato dissesto, la multinazionale di
videogiochi nel mese di gennaio del 2020 ha visto il suo valore di listino delle azioni schizzare da 17 a 483
dollari (un aumento di 28 volte in tre settimane!) per poi tornare a 50 all’inizio di febbraio.

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Una chiara operazione speculativa che, ha fatto guadagnare a pochi, miliardi di dollari, e che a differenza del
passato ha utilizzato i nuovi strumenti tecnologici online.
Ovviamente i maggiori danni sono stati subiti dai piccoli investitori che hanno subito la speculazione dovuta
alla diffusione del trading online (che promettono grandi guadagni).

Ciò che spinge l’azionista a investire in azioni sono i dividendi e il valore futuro dell’impresa, ma
non possiamo sottovalutare il valore di mercato, che rappresenta il valore che realizza gli
investimenti, il valore che ottengo dalla vendita delle mie azioni (se il valore è basso non sono
incentivato ad investire).

È importante creare valore di capitale economico ma anche diffonderlo e trasformarlo in valore di


mercato, lo trasformiamo attraverso:
- Costruzione e sviluppo della capacità reddituale (creiamo valore).
- Aumento del capitale economico (Creazione di valore) + Comunicazione finanziaria
(trasparente e basata su fatti reali, con previsioni di scenario convincenti) e gestione dei
rapporti con gli investitori (che restano solidi).
- Aumento del valore di mercato (Diffusione del valore).

Casi di illecita sostituzione della diffusione alla creazione:


• Parmalat (falsificazione bilanci dagli anni ’90, le azioni dei piccoli azionisti sono diventate pari
a 0 = maggiori danni).
• Enron (dopo 10 anni di crescita e considerata come una delle società americane più sicure,
dipendenti hanno subito maggiori perdite perché erano stati incentivati ad acquistare azioni e
non potevano rivenderle per un tot).
Ovvero si è diffuso valore che non era stato precedentemente creato, si è creata una bolla
speculativa alimentando le aspettative del mercato della capacita delle imprese di produrre reddito,
ma le aspettative non erano basate su fatti reali.
È importante creare valore attraverso investimenti adeguati e diffonderlo al mercato in modo
trasparente e basato su fatti reali per evitare di realizzare aspettative diffondendo valore senza
averlo creato.

La gestione dell’impresa si orienta attraverso l’utilizzo delle risorse in modo efficace ed efficiente
per soddisfare gli azionisti ma anche gli altri stakeholder.
La teoria del valore di capitale economico (generare ricchezza per gli azionisti) si pone come un
obiettivo che risulta essere (Guatri 1998):
- Il più razionale che l’impresa possa perseguire.
- Largamente condivisibile per chi ha interesse nella crescita dell’impresa.
- Stimolante.
- Misurabile con la formula vista precedentemente.
La teoria di creazione di valore nasce negli Stati Uniti negli anni ’80 a seguito delle analisi
effettuate da alcuni analisti, i quali hanno evidenziato la presenza di un Value Gap = differenza tra
il valore che le imprese effettivamente generavano e il valore potenziale che potevano generare se a
essere impiegato le loro risorse in modo efficace ed efficiente (valore creato vs valore potenziale).
Il value gap/le distorsioni erano create dallo spreco di risorse in attività lontane dal core business
dell’impresa.
Arriva negli anni ’90 in Europa con la globalizzazione e in Italia a seguito della privatizzazione delle
aziende pubbliche.

Questa teoria costringe le imprese a individuare e selezionare i business che creano valore per gli
azionisti in situazione di crisi tramite:
• Revisione delle strategie di portafoglio di business.
Riguardano interventi di ristrutturazione volti a individuare le attività che non generano valore per
eliminarle e quelle che hanno bisogno di drastici miglioramenti.
Sono interventi che si fanno in via eccezionale, solo in caso di crisi, non operazioni di routine.

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Dopo interventi di questo genere è necessario:
• Dotarsi di sistemi decisionali specifici e di nuove pratiche manageriali.
Introducendo sistemi operativi che determinano nella gestione dell’impresa, dopo la
ristrutturazione, un costante orientamento al valore.
Sono pratiche quotidiane denominate Value-based Management (VBM).
VBM è costituito da tre componenti fondamentali:
1) La misurazione del valore creato (es. EVA, Economic Value Added: differenza tra il reddito
operativo netto e il costo del capitale impiegato per produrre quel reddito. Integrare misure di
contabilità con le misure del valore. Deve diventare un’attività di routine. La misura da
utilizzare dipende dall’obiettivo che si vuole raggiungere: percentuale confronti, lungo periodo
scelte strategiche, breve periodo misurare performance impresa).
2) La pianificazione degli investimenti (continua ricerca per creare valore).
3) Il sistema di incentivazione (pay-per-performance) (= per evitare distorsioni nei
comportamenti dei manager è meglio legare la remunerazione dei manager alla performance
dell’impresa sul mercato, in modo che siano incentivati a seguire l’obiettivo di creazione di
valore per gli azionisti economica).
Adottare principi di questo genere comportano investimenti e barriere (non adattamento es.
manager) che richiedono sforzi in tutti i livelli di gestione dell’impresa.
Critica al sistema di incentivazione = il reddito dovrebbe essere prevedibile anche quando i mercati
non lo sono. Si cercano soluzioni intermedie.

Una gestione orientata al conseguimento del valore e di crearlo per gli azionisti è caratterizzata da:

Interventi di ristrutturazione VBM


Quando In momenti critici dell’impresa Day by day
Ricerca di nuove opportunità
Contenuti Razionalizzare ed eliminare
di value creation

Misurazione del valore Misurazione del nuovo valore


Come creato/distrutto dalle diverse aree e incentivazione del
d’affari o per singole attività management

Conclusioni:
- Per la misurazione della ricchezza generata dall’impresa è necessario rifarsi al valore del
capitale economico.
- Tale valore, spesso diverso da quello di mercato per effetto di alcuni elementi.
- Il valore economico deve essere diffuso attraverso una comunicazione finanziaria.

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CAPITOLO 5 – VALORE, SOSTENIBILITÀ E RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA.
Il contesto socio-ambientale dell’attività di impresa.
L’attenzione verso l’obiettivo della creazione di valore per gli azionisti non deve portare a
sottovalutare il ruolo dell’ambiente sociale e politico per ragioni collegate a:
1. Globalizzazione.
Dal punto di vista economico si parla di integrazione: un sistema che lega persone, imprese,
economie, stati e conoscenze tecnologiche di diversi paesi in un sistema integrato; reso possibile
dalla diffusione dei principi di libero mercato/scambio in tutto il mondo.
𝖴
Aumento dell’interdipendenza dei mercati nazionali (sia mercati finanziari, che mercati dei beni),
un aumento del flusso di lavoratori attraverso i confini, un aumento dei flussi di informazione.
In generale la globalizzazione non è un fenomeno nuovo, sono identificabili 3 fasi:
I Fase → 1870 – 1914 si ha un incremento dei flussi di capitale, flussi migratori e raddoppio del
commercio internazionale (crescita delle 3 dimensioni della globalizzazione). Grazie
all’innovazione tecnologica che porta ad una riduzione dei costi di trasporto.
Tra le due guerre vi è un ritorno al protezionismo e al nazionalismo (ritorno dei 3 livelli pre prima
fase).
II Fase → 1950 – 1980 solo una fase si riprende.
III Fase → 1980 – oggi le 3 fasi si sviluppano e il commercio internazionale aumenta senza
precedenti e diventa il punto cardine.
Le determinanti della globalizzazione sono:
- Progresso tecnico, che riduce le barriere naturali tra i mercati (costi di trasporto e di
comunicazione).
- Progresso sociale, che riduce le barriere culturali (es.: barriere linguistiche e religiose)
- Politiche di integrazione, che riducono (a livello regionale o multilaterale) le barriere politiche:
Barriere di confine (dazi e restrizioni quantitative).
Barriere interne (es.: regole discriminatorie).
Accanto ai benefici sulla ricchezza e sullo sviluppo tecnologico la globalizzazione determina
cambiamenti drammatici che provocano tensioni e conflitti anche tra le diverse categorie degli
stakeholder.
Con il passare del tempo, la globalizzazione, ha sempre più elementi/aspetti negativi a partire da
un episodio avvenuto nel 16 aprile 1995 in Pakistan proteste (contro i paesi occidentali che
sfruttavano quei paesi) in seguito all'assassinio del piccolo Iqbal Masiq, che aveva osato ribellarsi
alla sua condizione di semi-schiavitù come tessitore di tappeti e denunciato chi lo sfruttava.
(Es. Nike e i bambini che cuciono i palloni – allungamento catena di produzione).

2. Ipercompetizione.
I ritmi dell’innovazione tecnologica dettano quelli della concorrenza, e le imprese vedono erodersi
le posizioni di vantaggio competitivo con una velocità prima sconosciuta.
L’innovazione tecnologica detta condizioni, tempi e modi della concorrenza, i confini diventano
sempre più labili (concorrenza anche con imprese di altri settori).
Continuamente vengono immessi nel mercato nuovi prodotti, l’offerta continua a moltiplicarsi = la
vita utile di un prodotto si riduce drasticamente (es. cellulari).
La situazione paradossale che comporta l’ipercompetizione è che porta l’impresa a immettere nuovi
prodotti nel mercato, anche avendone già di successo, solo per evitare l’immissione nel mercato di
nuovi competitor.

3. Questione ambientale.
A partire dagli anni ’70 a livello internazionale si è presa coscienza tra le tematiche ambientali e del
rapporto economia – ambiente. Ciò ha portato a normative stringenti per l’impresa e dall’altro lato
la diffusione di modelli di consumo sostenibili.

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Molte imprese hanno visto in queste tematiche una chiave strategica per la crescita e lo sviluppo,
adottando così un approccio proattivo, il quale si traduce in innovazioni volte a:
- Minimizzare l’uso dell’energia, dei materiali, delle risorse naturali (limitate).
- Aumentare la durevolezza e la riciclabilità dei prodotti.
- Ridurre emissioni, gli scarichi, i rifiuti, l’uso di sostanze tossiche.

4. Attenzione al tema della corporate governance (controllo e governo dell’impresa).


Il movimento dei consumatori è sempre più attento ai comportamenti che assumono le imprese e
dall’altro lato il ruolo economico e sociale dell’immagine delle imprese è stato messo in discussione
(scandali).
La presenza di associazioni a difesa del consumo unitamente a comportamenti scorretti di alcune
imprese hanno alimentato un dibattito sui modelli di corporate governance (nello specifico su chi
deve controllare l’attività d’impresa) e accelerato l’introduzione di nuove norme.
Le imprese sono chiamate a bilanciare la finalità primaria di dare valore degli azionisti e gli
interessi degli stakeholder.
Come l’impresa ha una strategia commerciale, produttiva così deve avere una strategia di
responsabilità sociale: attraverso la quale stabilire criteri generali e una filosofia gestionale che le
permettono di affrontare le pressioni esterne in modo costruttivo e proattivo.

L’attenzione alle tematiche di sostenibilità e responsabilità sociale ha due fattori di cambiamento:


1) Impossibile trascurare gli impatti sull’ambiente e sugli ecosistemi = sviluppo sostenibile come
obiettivo condiviso da tutti i paesi avanzati.
2) Affermarsi di modelli di consumo critici (rende più difficile per le imprese instaurare relazioni i
fiducia con il mercato) e una minore propensione ad instaurare relazioni immediate con le
imprese.
I due fattori sono stati trainanti per la riformulazione delle regole di gestione dell’impresa attorno
alla centralità del cliente e corretta valutazione delle istanze di tutti gli stakeholder: Sviluppo
Sostenibile e Gestione Socialmente Responsabile come nuovi imperativi.

Sostenibilità e responsabilità sociale d’impresa.


Corporate Social Responsibility (CSR) indica l’impegno dell’impresa a comportarsi in modo
corretto indipendentemente dagli obblighi previsti dalla legge e dalle norme etiche individuali.
Una delle caratteristiche fondamentali della CSR risulta essere l'interazione con tutti gli ambiti
della gestione aziendale in modo proattivo e (ad esempio aspetti finanziari, produzione, marketing,
risorse umane).
Il presupposto della CSR è che l’impresa dovrebbe realizzare uno sviluppo sostenibile → l’impresa
deve affiancare ai risultati economici (fondamentali), diventano pilastri fondamentali, i risultati
ambientali (limitare l’impatto) e deve raggiungere risultati di carattere sociale (soddisfazione dei
diversi stakeholder).
Triple bottom line vale a dire uno schema per misurare e comunicare la performance aziendale
sotto tre punti di vista:
1) La creazione di reddito economico-aziendale, condizione primaria per la sopravvivenza
(risultati economici).
2) La limitazione dell’impatto ambientale delle decisioni aziendali (risultati ambientali).
3) La soddisfazione delle attese degli stakeholder rilevanti per l’impresa (risultati sociali).
Le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile (definite “pilastri”) sono gerarchicamente uguali e tra
loro interagenti. Al venir meno di una delle tre “sostenibilità”, anche le altre sono a rischio.
Ecco perché l’impresa oggi non può concentrarsi solo su uno di questi aspetti ma deve avere
risultati in tutti e 3 gli ambiti.

L’impresa deve lavorare sempre di più sulla componente immateriale per avere successo (contrario
rispetto al passato).

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Centralità di beni immateriali:
• Relazioni (durature nel tempo) → assicurano fiducia, reputazione (es. rapporti con i fornitori).
• Conoscenza → accumulata e sviluppata nel tempo (che può essere anche condivisa e che porta a
superare dinamiche competitive).
(Es. Save the duck contro Moncler - piumini e oche: Moncler accusa il colpo. Inchiesta di Report.
Contraddizione nell’articolo 6 nei rapporti con i fornitori del codice etico = potere di mercato di moncler
eroso dai competitor).
La sostenibilità può essere definita come «la capacità di un’organizzazione di continuare le sue
attività indefinitamente avendo tenuto in debita considerazione il loro impatto sul capitale
naturale, sociale e umano» (Tencati, 2002).
L’insostenibilità crea un circolo vizioso: se l’impresa mi da l’idea di non sostenibile perde fiducia e
si erodono possibilità di innovazione, capitale; di conseguenza le opportunità di crescita nel lungo
periodo si riducono drasticamente.

Cosa impedisce oggi alle imprese di avere una responsabilità sociale? La relazione/collegamento
tra CSR e i risultati aziendali.
Sono state analizzate circa 130 ricerche empiriche sull’argomento relazione CSR e risultati
aziendali e sono emerse due prospettive:
1) Esistenza di un trade-off tra i due termini → Friedman, 1970. I vantaggi e costi non sono
comparabili perché hanno natura differente. Costi immediati e certi, vantaggi non immediati e
stimabili e valutabili solo indirettamente (porta a svantaggi economici e con i competitor).
2) Esistenza di sinergie tra socialità e risultati economici e competitivi → evidenzia come le
imprese adottino una nuova concezione del valore (Corporate Shared Valule) e trasformazione
del ruolo dell’impresa (non più semplice organizzatore dell’attività ma promotore di un
ambiente equilibrato). (Prospettiva più recente).
𝖴
Potenziale competitivo = crescita dimensionale, produzione di ricchezza.
Capacità di innovazione = Creazione Di Valore (secondo la nuova concezione di valore condiviso).
La seconda prospettiva porta ad un circolo virtuoso tra CSR e performance:
↱ Miglioramento della gestione delle aspettative degli stakeholder ↴
Attività e comportamenti di RSI Risultati Aziendali
Eccedenza di risorse da reinvestire ↲
Il circolo virtuoso è dovuto a:
• Riduzione dei costi (diretti e indiretti) → porre attenzione alla relazione tra comportamento
socialmente responsabile ed efficienza aiuta a focalizzarsi su attività maggiormente produttive
(formazione, orientamento al consumatore, ricerca e sviluppo...).
• Incremento dei ricavi → reputazione di impresa socialmente responsabile mi consente di
instaurare maggiore fidelizzazione dei clienti, rapporti collaborativi con i diversi stakeholder
rilevanti, la possibilità di attrarre talenti (la teoria dei segnali, signaling theory dice che chi è in
cerca di lavoro interpreta le informazioni sull’impresa come condizioni in cui si trova essa e
definisce la sua immagine).

Conclusioni:
- La possibilità di poter godere dell’impatto positivo CSR è strettamente connessa
all’integrazione di responsabilità sociale nella strategia, nella cultura, nei valori aziendali.
- Ogni impresa dovrebbe avere una strategia sociale che deve essere (approccio) graduale e
pervasivo (presente in tutti i livelli).
La strategia si traduce in (modalità) razionalizzazione delle decisioni, anticipazione del
cambiamento e misurazione e valutazione dei risultati.
Tutto questo è possibile se i principi di responsabilità sociale vengono integrati nella strategia e
gestione complessiva dell’impresa in modo proattivo.

22
CAPITOLO 6 – DISTRIBUZIONE DEL VALORE E GESTIONE DEGLI STAKEHOLDER.
Introduzione.
L’evoluzione teorica della gestione dell’impresa ha riconosciuto la Superiorità del Valore come
obiettivo ultimo/guida su cui orientare le scelte strategiche e i processi operativi aziendali.
Riconoscendo questo obiettivo ci chiediamo qual è la ragione che porta le imprese ad adottare
principi sociali e ambientali in modo maggiore rispetto a ciò che chiede la legge?
La motivazione è la conseguenza inevitabile del complesso e dinamico sistema di relazioni che
legano l’impresa al suo contesto sociale di appartenenza (in cui opera).
L’integrazione di strategie di sostenibilità diventa una leva strumentale che utilizza l’impresa per
far accumulare legittimità, appoggio e consenso dai suoi stakeholder di riferimento e si pongono le
basi per un successo competitivo duraturo nel tempo.

Le attese degli stakeholder oggi non sono rivolte ai soli comportamenti sostenibili dell’impresa
perché danno per scontato che li abbia.
Gli stakeholder attendono dall’impresa l’adozione di un approccio di corporate sustainability (CS)
che si traduca in:
- Obiettivi specifici.
- Attività concrete.
- Risultati misurabili.
La cs trova il proprio fondamento nella teoria degli stakeholder → l’impresa è inserita in un sistema
di relazioni, interazioni e rapporti di scambio con vari interlocutori che possono condizionarne le
sorti positivamente o negativamente.
Solo con una gestione ottimale delle relazioni con i vari stakeholder l’impresa ottiene le risorse
necessarie per la sua crescita.

Che cosa si intende per CS?


È un nuovo modello manageriale basato sulla valorizzazione delle relazioni e la capacità di
integrare questioni sociali e ambientali nei processi aziendali e nelle interazioni con la rete di
stakeholder (risponde alle attese di essi, spesso anticipandone i bisogni).
Bisogna vedere la responsabilità sociale non come investimento che dà frutti a breve termine ma
come leva strategica.
È una leva (consente di creare valore economico) strategica orientata a preservare l’equilibrio
economico:
- Passato → solidità patrimoniale.
- Presente → andamento economico favorevole.
- Futuro → efficienza, innovazione, competitività.
È necessario che l’impresa interiorizzi questi principi e valori in tutti i suoi livelli tramite una
Gestione Integrata della CS:
Un modello orientato alla responsabilità sociale ha alla base le richieste/bisogni dei vari
stakeholder ma non potendo soddisfarli tutti bisogna dare delle priorità, ciò porta a un
orientamento della gestione quotidiana orientata alla CSR (sicurezza, sensibilità ambientale,
sostenibilità di lungo periodo, dinamismo, qualità e innovazione, sviluppo competenze e
responsabilità oltre i confini aziendali).
Questo porta nel tempo a sviluppare fiducia, legittimità e reputazione oltre che l’abilità di ascolto,
risposta e collaborazione.
In questo modo si ha la creazione di valore per gli azionisti migliorando la performance
competitiva, tenendo sempre conto della sostenibilità (circolo virtuoso).

Distribuzione di valore e competitività.


Per comprendere le dinamiche di governo dell’impresa è opportuno considerarla come un sistema
aperto costituito da soggetti interagenti.
Anche se è un soggetto giuridico autonomo è totalmente inserita nel contesto ambientale, molte
azioni sono in risposta a fattori esterni (adattamento).

23
Subisce dal contesto ambientale economico sociale in cui opera pressioni e condizionamenti.
Deve prestare attenzione a 2 ordini di condizionamenti:
- Vincoli posti dagli stakeholder.
- Vincoli posti dal sistema giuridico - formale (normativa).
Consideriamo l’ambiente di riferimento come complesso insieme di gruppi di stakeholder che
hanno interessi nei confronti dell’impresa ma questi interessi sono divergenti tra loro.
Chi sono questi stakeholder verso i quali l’impresa è responsabile, come identificarli?
• Freeman (1984), dà la definizione di stakeholder: “sono portatori di interessi quei gruppi senza
il cui appoggio un’organizzazione cesserebbe di esistere”.
Attorno all’attività d’impresa ruotano vari stakeholder interessati ad essa perché può soddisfare
i loro bisogni, distribuisce il valore creato a:
- Clienti → immagine positiva dei prodotti, valore di status, qualità.
- Azionisti → dividendi, capital gain.
- Lavoratori e management → soddisfazione personale ed economica, miglioramento della
qualità del lavoro.
- Società (generale) → rapido sviluppo economico, aumento della qualità della vita, benessere
sociale.
- Stato → imposte versate.
- Fornitori → relazioni di successo, ottimizzazione entrate e uscite, stabilizzazione della
domanda.
• Clarckson (1995), dà la prima classificazione di stakeholder individuando 2 categorie:
- Stakeholder primari → gruppo di soggetti senza la cui continua partecipazione l’impresa
cesserebbe di esistere, ruolo fondamentale per l’impresa (clienti, fornitori, investitori,
dipendenti, governo e le comunità). Dunque è importante soddisfarli.
- Stakeholder secondari → soggetti con i quali l’impresa si trova a interagire ma dalla cui
interazione non dipende la sopravvivenza (media, organizzazioni non governative, comunità di
attivisti). Devono però sempre essere tenuti in considerazione perché possono influenzare
l’attività dell’impresa e la sua immagine.
• Mitchell, Agle & Wood (1997), dicono che la classificazione degli stakeholder in categorie
consente di prevedere quali saranno le condotte dei manager nei confronti di ciascuna. In vista
del raggiungimento di determinati obiettivi i manager devono focalizzarsi su determinati
soggetti al di là di stakeholder primari e secondari.
In base agli obiettivi specifici che intende perseguire alcune istanze diventano prioritarie.
• Graves & Waddock (2000), gli investimenti finalizzati a supportare le relazioni con i diversi
stakeholder sono correlati a importanti ritorni economici. Tali investimenti sono tipici delle
aziende c.d. “Build to last” ovvero e imprese longeve, costruite per sopravvivere nel tempo.
• Hillman & Keim (2001), analizzano molte imprese e notano che gli investimenti volti a
migliorare le relazioni con i vari portatori di interesse sono positivamente correlati con i
miglioramenti a livello di performance finanziarie.
• Barnett (2007), la CS è assimilabile a un investimento proficuo che può portare miglioramenti a
livello dei singoli portatori di interesse e quindi della società, con conseguente incremento delle
performance finanziarie. Perché le pratiche di CS permettono di diminuire i costi di transazione
e conducono, di conseguenza, ad un miglioramento della produttività e delle performance
finanziarie.

Le azioni di CS portano ad una aumento del livello di performance economiche e finanziarie


attraverso il miglioramento delle relazioni (Fiducia, che riduce i costi di transazione) con gli
stakeholder chiave.
(Vedi tabella pagina successiva).

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Stakeholder Impatti
La fiducia si traduce in un accesso più semplice e meno costoso al capitale per
Azionisti/Finanziatori il finanziamento della struttura e dei processi operativi.
La fiducia si traduce nell’acquisizione delle professionalità necessarie, agevola
Dipendenti lo scambio di informazioni, la collaborazione, l’impegno, migliora l’efficienza e
diminuisce i costi di controllo.
La fiducia agevola i rapporti con le imprese partner favorendo la cooperazione,
Fornitori, Acquirenti, Partner la coesione e il coordinamento e consentendo la riduzione dei costi di
transazione.
La fiducia si traduce in una maggiore propensione a tutelare e promuovere
Concorrenti interessi comuni.
Comunità Locale, mass media e La fiducia consente di raccogliere i consensi di cui l’impresa necessita in una
associazioni di varia natura prospettiva di legittimazione sociale fondamentale per la sua comunità.
La fiducia contribuisce alla riduzione dell’impatto della burocrazia e a un
Amministrazioni pubbliche ed enti vari maggiore supporto allo sviluppo delle attività d’impresa.

➢ Perrini et al. (2011), tutti gli stakeholder sono importanti per l’impresa. Non deve essere
sottovalutato il fatto che è necessario per l’impresa bilanciare gli interessi di ogni gruppo sulla
base dei rispettivi contributi, costi e rischi che li caratterizzano.

Il sistema degli stakeholder.


Perrini adotta una distinzione basata sull’appartenenza o meno all’impresa e l’impatto sulla
competitività (diretto o indiretto):
A. Stakeholder interni.
B. Stakeholder esterni di natura
competitiva/primari.
C. Stakeholder esterni di natura non
competitiva/secondari.

A. Stakeholder interni.
➢ La proprietà → poiché la struttura tipica dell’impresa nei modelli di capitalismo più evoluti è la
società per azioni, la rappresentazione tipica degli stakeholder proprietari è quella di
Stakeholder Azionisti (apportano capitali).
Possono presentare una struttura proprietaria:
- Concentrata = pochi soggetti detengono elevate quote del capitale.
- Frammentata = molti soggetti detengono piccole quote del capitale.
Abbiamo varie classificazioni per diversificare i vari stakeholder azionisti interni che riguardano:
• Dimensione della partecipazione.
- Azionisti di maggioranza = sono in grado di incidere maggiormente sulle decisioni aziendali
attraverso il voto in assemblea.
Il controllo può essere assoluto (quando esiste un azionista in grado di coordinare l’assemblea)
o relativo (quando diversi azionisti formano una coalizione e ciò consente il controllo
dell’assemblea).
- Azionisti di minoranza = non sono in grado di incidere sulle sorti dell’azienda.
• Natura dell’interesse.
- Azionisti industriali = si interessano più all'anima operativa dell'impresa, piuttosto che alla
remunerazione del capitale investito (sono disposti a rinunciare a flussi di breve per lp).
- Azionisti finanziari = investono in capitale di rischio dell’impresa in virtù del loro rendimento
(es. le banche)(non sono disposti a rinunciare a rendimenti a breve termine perché in generale
sono piccoli azionisti).

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Combinando la partecipazione e l’interesse abbiamo diverse tipologie di azionisti, generalmente gli
azionisti industriali sono quelli di maggioranza = gruppi aziendali; mentre quelli finanziari sono
quelli di minoranza = piccoli risparmiatori.
Solo in un caso gli azionisti finanziari possono esser di maggioranza = i venture capitalist: sono
coloro che investono, vedendo delle potenzialità, nelle start up e immettono capitali di rischio che
poi rivenderanno, puntano alla speculazione delle azioni. Sono finalizzati a far crescere l’impresa,
sono azionisti transitori perché mirano appunto a guadagnare sulle differenze di prezzo delle azioni.
• Presenza dello stato.
- Azionista privato.
- Azionista pubblico.

➢ I dipendenti → (apportano il lavoro) la loro posizione come stakeholder dipende dal livello di:
- Partecipazione ai processi decisionali (più coinvolgo i dipendenti più il loro peso nell’impresa
diventa rilevante. Dipende dal sistema direzionale adottato se autoritario oppure partecipativo)
- Meccanismi organizzativi (innovazione dal basso (es. muro delle idee…), si stimola
l’innovazione dal basso con meccanismi partecipativi).
- Il ruolo dei dipendenti dipende anche dalla rappresentanza e rilevanza dei sindacati (in
Germania forte influenza sindacale e importanza ai dipendenti).
Ridurre le conflittualità è meglio per tutti gli attori, la promozione del brand non è vista come
elemento legato a produzione e servizi ma come luogo di lavoro, si attirano maggiori talenti =
employer branding.

➢ Il management → è uno stakeholder a se stante, partecipano direttamente alla direzione


dell’impresa. Il loro ruolo nasce dal processo di delega della gestione al management conduce al
problema della separazione tra proprietà e controllo (cuore del problema dell’agenzia e
discrezionalità manageriale), analizzato dalle teorie manageriali e dell’agenzia.
La posizione del management come stakeholder dipende da:
- Dimensioni e grado di complessità aziendale (es. impresa multinazionale è tendenzialmente più
complessa ed è maggiore la delega al management e la loro discrezionalità nel gestirla), più
l’impresa è complessa e ampia più hanno potere i manager.
- Il ruolo dei manager dipende dall’articolazione della struttura proprietaria, se polverizzata o
meno varia.
- Presenza di meccanismi di incentivo che possono collegare la remunerazione dei manager alla
performance dell’impresa sul mercato. L’obiettivo è allineare la condotta dei manager alle
aspettative della proprietà.
- Presenza di un mercato finanziario efficiente influisce sulla condotta dei manager perché
essendo più trasparente gli azionisti riescono a controllarli di più.

B. Stakeholder esterni primari.


Hanno natura competitiva, riescono a impattare direttamente o indirettamente.
Li analizziamo tramite il modello delle 5 forze (Porter, 1985):
È uno strumento che viene utilizzato per fare scelte strategiche di tipo corporate riguardante il
portafoglio di business.
Ci dice quali sono 3 attori fondamentali:
fornitori, concorrenti e clienti.

Possiamo dare una lettura orizzontale


(identifica gli stakeholder che hanno con
l’impresa un rapporto simultaneo) e una
verticale (identifica gli stakeholder che
lungo la filiera produttiva si pongono in
maniera sequenziale con l’impresa).

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➢ I fornitori/clienti (o stakeholder di filiera).
La filiera produttiva è l’insieme delle lavorazioni che consentono di arrivare ad un
prodotto/servizio finito partendo da un insieme di fattori primari, lungo la filiera si genera il valore
aggiunto = maggior valore che si aggrega in ogni fase del processo e che si accumula al susseguirsi
delle diverse fasi (valore aggiunto = valore produzione realizzata e venduta – fattori produttivi).
Ogni impresa assume una “posizione” all’interno della filiera, scegliendo quali e quante fasi del
processo realizzare e determinando così il proprio grado di integrazione verticale.
Es. Zara decide di essere totalmente integrata, controlla tutte le fasi del processo produttivo
(cotone, filatura, tessitura, confezione, finissaggio e retail).
Per ogni impresa le relazioni lungo la filiera diventano importanti e le variabili chiave per
analizzare le relazioni di filiera (valgono sia per i fornitori che per i clienti) sono:
- La struttura del mercato di fornitura o di sbocco = mercato concentrato o meno, se il mercato di
fornitura è concentrato significa che ci sono pochi soggetti e il potere contrattuale dei fornitori
aumenta (es. intel - ingridient branding = ingrediente che assume tanto forza da esperto il
proprio brand). Se il mercato non è concentrato l’impresa assume una maggiore quota del
valore aggiunto imponendo le sue condizioni avendo molteplici alternative.
- Il valore dello scambio = specificità e quasi rendita ⇒ una risorsa è specifica quando è legata in
modo rilevante all’impresa che la possiede. Se l’impresa ha bisogno di una risorsa posseduta e
specifica di un fornitore, l’impresa diventa dipendente da esso, il fornitore ottiene così un forte
potere contrattuale e si garantisce una certa rendita (es. brembo).
- Le caratteristiche della relazione = grado di trasparenza informativa dei mercati, fiducia fra le
controparti, frequenza degli scambi e delle transazioni. Possono esserci elementi che possono
compilare la relazione (es. mancanza di fiducia).
- La struttura del mercato di fornitura o di sbocco = mercato concentrato o meno.
- Il valore dello scambio = specificità e quasi-rendita.
- Le caratteristiche della relazione impresa/fornitore = grado di trasparenza informativa, fiducia
fra le controparti, frequenza degli scambi e delle transazioni (possono complicare i rapporti).
➢ I concorrenti attuali → sono in grado di influenza l’impresa e possono ostacolare il
raggiungimento degli obiettivi e l’intensità della concorrenza esistente (maggiore è la
concorrenza maggiore sarà l’attenzione che dovrò prestare alle relazioni con essa) dipende da:
- Tasso di concentrazione del settore (distribuzione delle quote di mercato), se il mercato è
concentrato (pochi soggetti) allora le occasioni di relazioni e scambio saranno minori = minore
intensità della concorrenza.
(Non si fanno battaglie sul prezzo ma utilizzano il marketing per competere (es. Coca-Cola vs
pepsi) al contrario di mercati ampi come quello alimentare o delle calzature).
- Differenziazione di prodotto, la natura del prodotto influenza la concorrenza, i prodotti
standard competono sul prezzo mentre quelli non standardizzati sulla qualità/brand.
- La struttura dei costi incide sulla concorrenza (la possibilità di realizzare economie di scala =
struttura produttiva tale per cui i costi di produzione diminuiscono all’aumentare dei livelli di
quantità prodotta. Sono presenti in settori in cui c’è una forte spinta a produrre e che hanno
tecniche aggressive di vendita).
(Esempio: settore della telefonia mobile; bevande Coca-Cola vs pepsi).
➢ I concorrenti potenziali.
- Nuovi entranti = entrano in gioco le barriere all’entrata = vincolo/ostacolo ad operare in un
contesto competitivo da parte di imprese che non vi sono inserite (impedisce o rende difficile
entrare nel settore). Se sono elevate è più difficile per il nuovo entrante trasformarsi in
un’attuale concorrente e il mercato è definito protetto. Mentre se non sono presenti troppi
vincoli il mercato è definito facilmente contendibile, è più facile per il nuovo entrante
immettersi nel settore.
Le principali barriere sono: il fabbisogno di capitale, economie di scala (statiche) e economie di
apprendimento (sono dinamiche e legate al concerto di apprendimento mentre faccio/svolgo
ma ciò richiede tempo – chi entra per primo in un settore gode di un vantaggio rispetto ai nuovi
entranti), accesso privilegiato alle risorse (chi opera sul mercato già da tempo ha bassi costi di
transazione in quanto conosce il mercato), differenziazione (è difficile sottrarre concorrenza a
chi ha clienti estremamente fedeli).

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- Prodotti sostitutivi → sono prodotti diversi che soddisfano lo stesso bisogno. Più sono presenti
prodotti sostitutivi più la domanda diventa elastica, ovvero più il grado di elasticità è sensibile
al prezzo.
Ciò si realizza quando tra i prodotti sostitutivi il livello di qualità è simile allora il prezzo
diventa una variabile importante.

C. Stakeholder esterni secondari.


Gli stakeholder esterni influenzano e sono influenzati dalla dinamica aziendale con minore capacità
di incidere sulla sopravvivenza dell’impresa. Sono:
a. Sistema finanziario.
b. I gruppi di interesse e la società.
c. Il sistema pubblico e il macroambiente.
a. Il sistema finanziario.
Intendiamo gli operatori finanziari che offrono all’impresa capitale di debito (es. banche, istituti di
credito…).
I fattori di influenza per l’impresa sono:
- Il livello di indebitamento/rischio dell’impresa = più l’impresa è indebitata e più operano in
settori di elevato rischio (vendite difficili da prevedere) maggiore è il potere delle
banche/istituti di credito.
Gli operatori finanziari si tutelano rendendo più difficile alle imprese altamente indebitate
accedere ai finanziamenti oppure in settori ad alto rischio aumentano il tasso di interesse.
- La dimensione e il prestigio dell’impresa sono determinanti. Il ruolo degli istituti di credito è
meno vincolante perché riescono ad attenuare il rischio (avendo vari settori come Nestle).
- Le caratteristiche dell’intero sistema finanziario, si fa riferimento alla presenza ad un mercato
finanziario/di capitali ampio ed efficiente (il ruolo degli istituti di credito come finanziatori è
meno rilevante (es. Inghilterra) diversamente dall’Italia (centralità banche)).
b. I gruppi di interesse e società.
Sono associazioni sindacali, ambientalisti, movimenti dei consumatori e la società in genere ⇒
dimensione sociale dell’impresa (l’impresa ha qualche responsabilità sociale nei confronti di questi
soggetti).
I fattori di influenza verso l’impresa sono:
- Vincoli normativi (es. normativa per le emissioni, tutela del lavoro).
- Impatto della responsabilità sociale sul vantaggio competitivo.
c. Il sistema pubblico e il macroambiente.
L’impresa opera in un contesto istituzionale di regole e di norme che ne determina gli spazi di
attività e gli ambiti.
I fattori di influenza per l’impresa sono:
- La regolamentazione dei mercati (lo stato può disciplinare alcuni mercati considerati di
interesse pubblico, limitava l’ingresso in questi mercati).
- La tutela della concorrenza, l’antitrust interviene per garantire questa tutela.
- Le politiche di macroeconomiche, è presente un macro ambiente su cui i manager non possono
intervenire, rappresentano ulteriori vincoli che l’impresa subisce delineando regole e norme per
la sua attività (es. tassi di interesse, tassi di cambio).

(Esempio di regolamentazione dei mercati: il mercato televisivo → ‘52: Prime trasmissioni RAI -
Monopolio di stato, ‘76: Nascita prime emittenti private - Sviluppo TV privata commerciale fino ad
arrivare all’evoluzione delle piattaforme digitali).

28
CAPITOLO 7 – LE STRATEGIE DI GESTIONE DEGLI STAKEHOLDER.
Si verifica come può essere declinato il potere delle varie tipologie di stakeholder attraverso 3
parametri, come l’impresa può porsi nei confronti di queste categorie (atteggiamenti passivi o
proattivo) infine si esamina il comportamento dell’impresa in risposta agli stakeholder nei vari
periodi del ciclo di vita dell’impresa.
Introduzione.
Comprendere i processi di creazione di valore che scaturiscono dall’implementazione delle
principali strategie di gestione, comporta l’analisi dei seguenti elementi:
- Rilevanza delle principali categorie di stakeholder.
- Strategie attuate per gestire il sistema di relazioni.
- Evoluzione del ruolo degli stakeholder nel ciclo di vita dell’impresa

La rilevanza degli stakeholder.


La rilevanza è intesa come importanza che possono avere i diversi stakeholder, si definiscono le
relazioni nei confronti dell’impresa.
Gli stakeholder possono essere classificati riguardo al loro grado di potere = capacità di influenzare
chi gestisce l’azienda.
Abbiamo 3 tipi di potere:
• Coercitivo (es. regolamentazione/divieti/mansionario).
• Utilitarista (es. fornitore in monopolio/banca principale).
• Simbolico (es. piccola impresa che collabora con leader di settore).
Gli stakeholder possono essere classificati avendo riguardo alla loro legittimità = percezione
generalizzata che le azioni di un soggetto siano desiderabili o appropriate.
Legittimità (dimensione sociale dell’autorità)≠ Potere (dimensione formale dell’autorità)
Gli stakeholder possono essere classificati avendo riguardo all’urgenza delle loro proposte.
L’urgenza ha a che fare con le circostanze in cui le esigenze degli stakeholder diventano pressanti e
critiche.

Attraverso i fattori di rilevanza/3 caratteristiche classifichiamo i diversi stakeholder:


potere, legittimazione, urgenza.
Si combinano tra di loro, possono essere unitari o tutti e tre presenti; variano nel tempo.
La classificazione che facciamo è: abbiamo diversi stakeholder a seconda che abbia solo 1 di questi
3 fattori rilevanti o se ne ha 2 al tempo stesso, oppure li ha tutti (→ stakeholder assoluti).
Ovviamente più se ne possiedono più si è di maggiore importanza.
Es. gli azionisti di maggioranza hanno sicuramente il potere e la legittimazione mentre quelli di
minoranza hanno solo la legittimazione.
Come vengono chiamati i vari stakeholder?
• 1 caratteristica/elemento – stakeholder latenti → non sono attivi e incisivi all’interno
dell’impresa, hanno un basso grado di rilevanza. Si dividono in:
- Dormienti (potere), non perseguono una condivisione di legittimità con l’impresa e non
esercitano pressioni, (es. la banca).
- Discrezionali (legittimazione), la considerazione delle istanze di questi portatori di interessi
dipende dalla discrezione dell’impresa.
- Domandanti (urgenza), ritengono di avere un’aspettativa urgente ma non è legittima e non
hanno il potere per conseguirla (es. protesta per inquinamento dell’azienda).

• 2 caratteristiche/elementi – stakeholder con aspettative → avanzano richieste/istanze e


aspettano risposte dall’impresa. Si dividono in:
- Dominanti (legittimità + potere), formano una coalizione di interessi riconosciuti e hanno la
capacita di farli rispettare, (es. le loro richieste passano al consiglio di amministrazione, ai
vertici).

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- Dipendenti (legittimazione + urgenza), categoria di portatori di interessi le cui istanze siano
considerate solo quando vengono assunte da una categoria dotata di potere, (es. lavoratori
dipendenti che scioperano).
- Pericolosi (urgenza + potere), l’assenza di legittimità può portare tali soggetti a esercitare il loro
potere di coercizione anche in modo contrastante rispetto agli obiettivi dell’impresa, (es. forme
di sabotaggio nei confronti dell’impresa o spionaggio a vantaggio dei concorrenti).

• 3 caratteristiche/elementi – stakeholder assoluti → sono élite/raggruppamento di persone


accomunate da un medesimo interesse e richieste nei confronti dell’impresa, hanno la capacità
di farle rispettare con urgenza. Sono in parte riconducibili ai dominanti e spesso questa
categoria di stakeholder è temporanea (es. Manager e dirigenti).
Dicotomia anni ‘60 = nelle grandi imprese si verifica una grande differenza tra i proprietari,
azionisti e i manager che gestiscono l’impresa per nome e conto degli azionisti, ma soprattutto in
quelle con il capitale polverizzato, dove non c’è un nucleo di azionisti di maggioranza, i manager
hanno più potere decisionale. Ciò ha portato a inconvenienti e gestioni non negli interessi degli
azionisti seguiti da interventi risolutivi – convergenza di interessi che prima non c’era.

Comportamenti e strategie.
Vi sono quattro possibili comportamenti/strategie per la gestione degli stakeholder a seconda di
due variabili:
1) Alta o bassa la cooperazione con l’impresa (qualità della relazione).
2) Rischio/minaccia per l’impresa (deriva dai comportamenti degli stakeholder).
L’impresa può assumere diversi comportamenti/strategie/atteggiamenti di:
• Difesa (alto rischio, bassa cooperazione) → ammette l’istanza ma l’impresa risponde
all’esigenza facendo il minimo possibile con la minore intensità (es. rapporti con le altre
imprese – concorrenza).
• Monitoraggio (basso rischio, bassa cooperazione) → l’impresa nega l’istanza e fa meno di
quanto richiesto.
• Adattamento (basso rischio, alta cooperazione) → l’impresa accetta la responsabilità e risponde
pienamente alle istanze degli stakeholder, fa quanto richiesto.
• Proattività (alto rischio, alta cooperazione) → l’impresa anticipa le istanze e le responsabilità,
risponde prima ancora della richiesta tramite fenomeni di imitazione di altre impese che hanno
già adottato questi interventi migliorativi.
Oggi le imprese presentano maggiormente strategie di adattamento e proattività.
Questi elementi legati alle esigenze e ai problemi dei vari stakeholder si ricollegano al movimento
ESG (environment, social, corporate (governance)), si pone attenzione all’ambiente e al sociale (es.
vantaggi ai dipendenti come assicurazioni, asilo nido, riduzione disparità di genere…).
Proprio per questo le imprese (più virtuose) preferiscono adattarsi ed essere proattive.

La dinamica degli stakeholder.


Il sistema di relazioni tra impresa e stakeholder non è statico, la dinamica di tale relazione ha 3
dimensioni:
1) Personale → si realizza quando un soggetto modifica i propri atteggiamenti verso l’azienda, pur
rimanendo all’interno della stessa categoria. È attivata da fattori prettamente personali.
2) Di categoria → si realizza quando un soggetto passa da una categoria all’altra, è determinata da
un mutamento di prospettiva.
3) Strategica → si realizza quando muta il ruolo di una categoria di stakeholder, determina la
necessità di analizzare la gestione delle relazioni in un’ottica di lungo periodo.

30
Come cambia la dinamica di gestione degli stakeholder in relazione alle fasi del ciclo di vita
dell’impresa?

Conclusioni:
- La gestione delle relazioni con gli stakeholder è fondamentale per creare valore.
- Non tutti gli stakeholder sono uguali.
- La relazione con gli stakeholder non è statica, ma evolve continuamente nel tempo.
- La relazione con gli stakeholder è correlata alle fasi del ciclo di vita dell’impresa.

31
CAPITOLO 8 – LE DIMENSIONI DEL MANAGEMENT: GOVERNO, GESTIONE
STRATEGICA E GESTIONE OPERATIVA.
Introduzione.
La creazione di valore per gli azionisti
è l’azione svolta da diverse parti
dell’impresa che perseguono
l’obiettivo di creazione di valore
economico, il quale dipende dalla
combinazione di 4 variabili.
I manager operano diverse scelte.

Le leve di creazione di ricchezza.


Il valore economico è il risultato di 4 variabili:
1. Durata della crescita → tempo in cui i manager riescono a garantire un certo tasso di
crescita/sviluppo, dipende da alcuni elementi/vantaggi competitivi che mi permettono di
consolidare la mia quota sul mercato.
- durata tasso di sviluppo.
- difendibilità vantaggi competitivi.
2. Grandezze conto economico → vendite, margini operativi, aliquota fiscale effettiva.
3. Uscite di cassa → capitale fisso, CCN.
4. Costo del capitale → remunerazione azionisti, remunerazione finanziatori.
La creazione del valore economico non dipende solo dalla bravura dei manager (es. la durata del
vantaggio competitivo dipende anche dalla reazione della concorrenza, dalla aliquota fiscale) infatti
le variabili non sono sempre il frutto di scelte manageriali ma hanno anche carattere
esogeno/episodico.
Il manager deve cercare di gestire queste variabili per quanto possibile.

Parliamo di leve perché a queste variabili corrispondono sempre specifiche scelte manageriali con
cui l’impresa può tentare di manovrarle:
a) Strategiche. c) Di investimento.
b) Operative. d) Di finanziamento.
Il management deve tentare di identificare alcune leve e attraverso esse può riuscire a manovrane
le variabili, ma le variabili non sono del tutto sotto il dominio del management.
Scelte manageriali:
a) Strategiche → hanno come obiettivo la creazione di un vantaggio competitivo.
b) Operative → finalizzate a massimizzare le vendite e l’efficienza.
c) Di investimento → finalizzate ad un investimento razionale delle risorse disponibili rispettando
gli obiettivi fissati di rendimento.
d) Di finanziamento → finalizzate a massimizzare il mix finanziario ottimale (risorse per ottenere
risultati ma contenendo i costi).

Le scelte strategiche - Il vantaggio competitivo.


Le scelte strategiche sono rivolte all’ottenimento di un vantaggio competitivo (VC).
Secondo la teoria di creazione del valore, un’impresa crea vantaggio competitivo quando il valore di
lungo termine del suo output e delle sue vendite è maggiore dei costi totali, compreso il costo del
capitale (Rapport, 1998; 1992).
Se due o più imprese competono sullo stesso mercato, un’impresa gode di vantaggio competitivo
quando ottiene in maniera continuativa una redditività superiore.
Il vantaggio competitivo è strettamente connesso alla creazione di ricchezza per gli azionisti (valore
economico).

32
Esistono condizioni da soddisfare per arrivare a un VC:
- Creare ricchezza attraverso la produzione di beni e servizi utili ai clienti e ottenuti con un
impiego efficiente di risorse (immettiamo sul mercato beni servizi apprezzati dal mercato e
realizzati in maniera efficiente in modo da creare ricchezza/profitto).
- Disporre di “posizioni di forza” (deve avere potere contrattuale nei confronti della concorrenza)
che permettano all’impresa, e quindi agli azionisti, di appropriarsi di almeno una parte di
questo valore creato attraverso il processo di trasformazione.
Le scelte strategiche, che portano ad avere un vantaggio competitivo, si articolano su due livelli:
a) Strategie Corporate → riguardano solo le imprese diversificate e multi divisionali che devono
gestire un portafoglio di business e operano in diversi settori di attività/business.
(Es. Nestle che opera in bevande, prodotti a base di latte (gelato e yogurt), cibo per animali,
piatti pronti, cioccolato e dolciumi, prodotti farmaceutici).
Queste scelte hanno come obiettivo lo sviluppo del campo di azione dell'impresa attraverso la
scelta, anche in chiave tecnologico-produttiva, dei mercati e delle attività in cui operare.
Riguardano/rispondono la domanda dove vado ad operare? Quali mercati? Quali settori?
Sono rivolte a:
- Selezionare nuovi settori di attività e modalità di ingresso (nei nuovi settori).
- Avviare iniziative volte a potenziare la performance combinata dei business e sviluppare
eventuali sinergie tecnico-produttive (es. pandistelle – stesso brand utilizzato per entrare in
nuovi mercati (immateriale) ma anche stessi impianti per realizzare i vari prodotti (materiali)).
- Definire priorità e allocazione delle risorse tra i business.
b) Scelte strategiche di tipo Business o Competitive → indicano le modalità con cui l’impresa
decide di competere per ottenere un vantaggio competitivo, come posso competere? Come
decido di operare sul mercato?
Riguardano tutte e tipologie di impresa e si interrogano su quali modalità e scelte strategiche da
adottare per ottenere vantaggio competitivo.
(Es: Ryanair e Singapore Airlines – il servizio è lo stesso ma con diverse modalità).

Per definire quali scelte strategiche adottare si possono utilizzare approcci quantitativi:
I. Valutazione economico-finanziaria → si tratta la scelta strategica come qualsiasi altro
investimento, vengono utilizzate per scelte strategiche a livello corporate.
Calcolo i flussi di reddito attesi (da attualizzare perché sono futuri) e li attualizzo con il tasso.
Il limite principale è che queste scelte strategiche dipendono anche da scelte/valutazioni che
non possono essere quantificate numericamente.
Una valutazione di questo genere non possono essere effettuate per scelte di tipo business
perché risulta complicato prevedere i possibili scenari su come le modalità per raggiungere il
vantaggio competitivo.
Non tiene conto che da una scelta di investimento la posizione dell’impresa sul mercato può
cambiare, possono derivare non soltanto i flussi attesi dalle vendite ma anche azioni che hanno
valore economico per l’impresa (come la teoria delle opzioni reali).
II. Teoria delle opzioni reali → si parte dalla considerazione che dalla scelta di un investimento la
posizione sul mercato cambia perché non si generano solo i flussi derivanti dalle vendite ma ho
un potenziamento del brand, non è solo vendita ma anche maggiore visibilità, vendita di
prodotti accessori… si aprono altre possibilità.
In sintesi sostiene che è limitante considerare solo i flussi che derivano dalle vendite.

Ma date la soggettività (delle 2 valutazioni) degli approcci quantitativi è meglio valutare le scelte
strategiche con il c.d. pensiero strategico, di carattere qualitativo (es. insisto, esperienza…).

Funzioni e processi.
Le scelte Strategiche sono messe in atto da tutte le imprese.
Le Strategie di Corporate solo dove operano multi competitive.
Le Scelte Operative sono volte massimizzare vendite ed efficienza date decisioni prese a livello
strategico su come operare. Hanno impatto diretto sul mercato.

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Le numerose attività svolte dall’impresa sono articolate in funzioni chiamate a svolgere una
determinata mansione.
Una funzione aziendale è formata da una serie di attività (relativamente autonome) che hanno la
medesima natura tecnico-economica, sono riunite tra loro perché riguardanti il medesimo oggetto
operativo e finalizzate alla realizzazione degli obiettivi d’impresa.
Le funzioni primarie riguardano le attività fondamentali per la creazione di ricchezza:
- Produzione - Distribuzione
- Marketing - Logistica (in entrata e in uscita)
- Vendita
Le funzioni di supporto supportano/creano i presupposti affinché le funzioni primarie possano
operare al meglio:
- Personale - Protezione delle risorse
- Amministrazione e controllo - Finanza
- Sistemi informativi
L’evoluzione degli approcci manageriali è andata di pari passo alla moltiplicazione delle funzioni
nasce dalla necessità delle imprese di affrontare, nei diversi periodi storici, le diverse
esigenze/problematiche.
È il risultato di un processo di specializzazione del lavoro e della necessità di avere competenze
specializzate.
Il rischio è quello di estremizzare la prospettiva delle funzioni, ovvero dividere l’attività d’impresa
in fasi e sottofasi, dunque far prevalere una visione parziale perdendo l’obiettivo principale della
visione unitaria d’impresa con i seguenti obiettivi e scelte strategiche decise (Vedi tabella pag 11!).
Non si sente responsabili della realizzazione del prodotto finale svolgendo il proprio pezzettino.
Per evitare questo la funzione deve essere intesa come un sistema aperto inquadrata nel sistema
complessivo delle finalità aziendali quindi la prospettiva funzionale deve essere affianca da quelle
per processi.
Per processo si intende un insieme di attività, eventualmente appartenenti a più funzioni differenti,
svolte in modo sequenziale o parallelo (→) finalizzate ad uno specifico risultato finale.
L’ottica dei processi (prospettiva longitudinale) permette di superare le problematiche di
frazionamento e scarso coordinamento tipiche dell’organizzazione funzionale.
L’attenzione viene posta all’intero percorso che conduce all’output.
Un processo deve avere sempre un output ben misurabile in termini di valore creato per ogni
cliente interno o esterno.
È un processo se e solo se sono un insieme di attività (che appartengono a funzioni differenti) che
mi portano ad avere un output concreto creato per clienti interni o esterni all’impresa.
(Es. La progettazione di un nuovo prodotto è un processo perché costituito da una serie di attività
che mi portano ad ottenere il prototipo di un nuovo prodotto (output)).
(Es. la registrazione di un ordine non è un processo).
In generale la funzione è composta da attività della stessa natura, mentre il processo è formato da
attività che, pur di natura diversa, sono finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune, cioè
lo stesso output.
Non bisogna trascurare le funzioni perché l’approccio per funzioni nasce dalla necessità di avere
competenze/risorse specializzate, a fronte di questo vantaggio si riconoscono anche problematiche
a livello di coordinamento, cerchiamo di intrecciare i vantaggi dell’approccio per funzioni e
dell’approccio per processi.
L’aggregazione, per svolgere il coordinamento, di più processi omogenei rappresenta un macro -
processo (gestione commerciale, gestione delle operation, gestione finanziaria).

In sintesi:
- I processi possono essere visti come fonti primarie del valore creato per gli azionisti, per creare
valore è necessario che si crei valore in ogni output di tutte le scelte gestionali.

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Deve avere successo in tutti i livelli → operativo, di processo, strategico per creare ricchezza per
gli azionisti.
- Il valore è il risultato della seguente retroazione → attività di successo = processi di successo =
strategia di successo = valore per gli azionisti.

Conclusioni:
- Per determinare il Capitale Economico, l’impresa ricorre a delle leve che derivano dalle scelte.
- Attraverso le scelte strategiche, operative, di finanziamento e di investimento, l’impresa è in
grado di influenzare le variabili che determinano la capacità di creare valore.
- La corretta gestione delle attività richiede che sia posta grande attenzione all’organizzazione
funzionale e a quella per processi perché il valore per gli azionisti dipende da un successo a più
livelli.

Premessa:
• Macro-tema → management e creazione di valore ⬛ ✓
• Macro-tema → corporate governance (da cap 9 a cap 13).
• Macro-tema → gestione strategica d’impresa (da cap 14 a cap 21).
• Macro-tema → la gestione operativa d’impresa (da cap 22 a cap 26).

35
CAPITOLO 9 – IL GOVERNO DELLE ORGANIZZAZIONI ECONOMICHE.
Premessa: dove siamo?

Le relazioni tra gli attori principali.


La visione precedente dell’impresa:
Il punto di partenza è l’impostazione dell’impresa neoclassica = razionalità limitata delle decisioni
dell’imprenditore.
L’impresa viene vista come una combinazione di risorse, produzione di beni (organizzazione) per il
raggiungimento profitto (visione meccanicistica).
Quando un’impresa ha performance insoddisfacenti le colpe sono effetto di scelte sbagliate e
circostanze avverse (tensioni esogene del contesto esterno su cui l’impresa non può intervenire).
L’unico interesse dell’impresa era creare ricchezza per la proprietà (teoria degli stockholder),
dunque massimizzare il profitto nel lungo termine dell’unico stakeholder (imprenditore/proprietario).
L’attenzione è solo sull’imprenditore (perché nella teoria neoclassica l’impresa è di piccole
dimensioni) (si è lontani dalla teoria degli stakeholder).
Con l’evoluzione del contesto sociale e dei gusti e attenzione dei consumatori si modifica la
configurazione di impresa e cambia la logica che influenza le scelte determinanti per la definizione
degli obiettivi dell’impresa.
Il fine ultimo dell’impresa è la sopravvivenza nel lungo periodo, è un fine comune a tutti gli
obiettivi che contribuiscono a perseguirlo.

A partire dal dopo guerra, anni ‘50/’60, si affermano le imprese multinazionali.


Sono configurazioni di impresa multinazionale che hanno un centro decisionale in un determinato
luogo e delle proprie imprese in forma societaria che svolgono attività all’estero (in altri paesi).
Le singole sussidiarie rispondono meglio alla domanda locale specifica del determinato paese in cui
operano.
È un’impresa integrata di grandi dimensioni, Vernon (americano) è il primo che ne parla. La prima
impresa multinazionale è la compagnia delle indie nel 1600 in Olanda.
La forma più evoluta della multinazionale è l’impresa globalizzata.

Fin dalla metà dell’Ottocento, nei paesi pi sviluppati, si era imposto il modello della società per
azioni (modello di organizzazione giuridica) nel quale:
- La proprietà veniva suddivisa in azioni quindi in molteplici investitori.
- Di conseguenza → proprietari = investitori.
- Gli azionisti diventano essenziali e possono essere con controllo/senza controllo in base alla
quota in loro possesso, poteva accadere che nessun azionista possedesse il numero di azioni
sufficiente a decidere le scelte dell’impresa (maggioranza) (comune nei paesi anglosassoni).
Inoltre si differenziano in base a se sono attivi nella gestione oppure investitori tout court.

L’affermazione delle società per azioni porta ad un nuovo obiettivo cardine: ottimizzazione della
crescita dimensionale/tasso di crescita, la portata dimensionale dell’impresa (non più ottenere il
massimo dei profitti a lungo termine).
Questo obiettivo è stato studiato da autori chiamati managerialisti perché si occupano di un
fenomeno di una categoria nuova di stakeholder, i manager, coloro che gestiscono le imprese).
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Ma ciò è diventato possibile grazie alla separazione tra proprietà e controllo, tra manager e
azionisti, la quale prevede autonomia manageriale e scollamento di obiettivi.
Il problema che si crea nella separazione fra proprietà e controllo è che da un lato abbiamo i
dirigenti/manager (anni ’80 avevano remunerazione fissa e sulla dimensione dell’impresa) e
dall’altro gli azionisti legati al profitto, permette la divisione dei dividenti e il capital gain (prezzo di
acquisto e vendita dell’azione).
Berle e Means (1932) esaminarono le 200 più grandi società americane, trovando che nel 44% di
esse nessun azionista deteneva una quota maggiore del 5% (capitale polverizzato).
Le considerazioni che discendono da questa osservazione sono che:
- La proprietà è incapace di imporre il proprio volere, i proprietari (azionisti) sono
disorganizzati.
- I manager sono di fatto autonomi (nella gestione).
- La separazione fra proprietà e gestione mise in crisi il concetto di impresa che massimizza i
profitti: se i manager sfuggono alla sorveglianza della proprietà c’è ragione di pensare che
questi perseguano i propri interessi e non quelli degli azionisti.
(Critica a Berle e Means:)Esistono anche aspetti positivi di questa dicotomia (proprietà e controllo)
ovvero che i manager essendo preparati sono in grado di ottenere i risultati migliori per l’impresa
(diversamente dai proprietari) (sempre se non perseguono esclusivamente i propri interessi) e che
la volontà di piccoli azionisti a investire in borsa, ha portato alla diffusione di una proprietà
azionaria frammentata.
Oltre al fatto che il possesso dei mezzi finanziari per essere proprietari di un’impresa non coincide
con il talento necessario per gestirla.
I. Il problema di agenzia.
- Effetti negativi → il management pensa solo al proprio arricchimento.
- Effetti positivi → il management arricchisce l’impresa con le proprie competenze.
Alcuni importanti economisti che hanno contribuito allo studio delle imprese sono:
Shumpeter è il primo che parla dell’imprenditore e dice che esso ha una capacità distruttrice, quello che è stato formato
viene distrutto per creare nuove condizioni. È dall’innovazione che nascono opportunità di profitto. L’impresa diventa
dinamica e orientata verso la crescita.
Innovare è un concetto ampio che non riguarda solo le grandi invenzioni, si può innovare anche in maniera semplice (es.
cambiare la struttura organizzativa).
Bohm dice che l’obiettivo dell’impresa è massimizzare i ricavi e il profitto deve essere minimo per remunerare gli
azionisti, visti come un insieme di persone senza capacità di incidere.
Penrose dà un interessante interpretazione del motivo per il quale esistono diseallineamenti tra fattori produttivi.
Bisogna colmare i diseallineamenti tra un fattore produttivo e un altro ma c’è sempre un diseallineamento e allora si
espandono le dimensioni dell’impresa.
Ci sono 2 fattori produttivi particolarmente scarsi per i quali si ferma/rallenta l’espansione: il fattore finanziario ma
soprattutto sono le capacità manageriali (di gestione).
Maris costruisce un modello per spiegare il comportamento delle imprese e il loro tasso di crescita dimensionale
(massimalizazione del profitto).
Economia e gestione delle imprese è una disciplina normativa = dà regole/norme di comportamento nel momento in cui
si devono prendere delle decisioni opportune quando si è responsabili di un’impresa. Alla fine si effettuano le politiche di
bilancio (una disciplina che detta norme è la politica economica).

Il rapporto fra proprietà e management (in regime di separazione) costituiva un caso del rapporto
poi descritto come “di agenzia”.
Le relazioni tra gli attori principali (Ross, 1973) - nel Rapporto Di Agenzia:
Le relazioni derivano dalla teoria di agenzia (= teoria del mandato, rapporto tra azionisti
(mandante/principale) e manager (mandatario/agente), il principale ricorre ad un agente perché è
incapace di svolgere una certa attività).
I proprietari, in possesso di beni produttivi ma che non sanno sfruttare al meglio, affidano ai
manager un ruolo di agente.
Questa teoria può spiegare, in una logica bilaterale, le relazioni tra diversi stakeholder
(raggruppamenti di persone che hanno i medesimi interessi).
I soggetti partecipanti sono il principale, in possesso delle risorse e l’agente, in possesso delle
competenze.
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Il rapporto presenta 3 caratteristiche:
1. Discrezionalità dell’agente → l’agente ha facoltà di decidere come raggiungere il
risultato/interesse principale. Elabora una linea strategica e la applica con l’impegno di dare
agli azionisti un profitto adeguato.
2. Asimmetria informativa → l’agente informa la proprietà ma principale e agente hanno diverse
informazioni. I manager hanno un vantaggio informativo e spesso informano loro stessi gli
azionisti (che hanno notizia di come si svolgono i processi interni).
3. Indipendenza della remunerazione dell’agente dal risultato → di solito una quota rilevante della
remunerazione del manager è fissa.
Revisione dei sistemi di remunerazione dei manager = una volta era fissa e sulla dimensione
dell’impresa ma poi a partire dagli anni ‘90 e ‘00 si sono diffusi sistemi di remunerazione con una
componente fissa < della componente variabile, la quale si differenzia in breve periodo (gestione
per obiettivi di breve periodo variabili, stabiliti anticipatamente che poi devono essere raggiunti) e
in lungo periodo (obiettivi stabiliti precedentemente che si dovranno conseguire in un determinato
periodo lungo di tempo, ma la remunerazione non è monetaria, è basata sulla base delle azioni
della stessa società nella quale operano. Ciò comporta un avvicinamento agli azionisti, è presente
una convergenza di obiettivi).
Un rapporto con queste caratteristiche spiega le preoccupazioni di Berle e Means riguardo a un
possibile tentativo del management di perseguire interessi diversi da quelli degli azionisti. Infatti è
possibile che i manager usino discrezionalità per perseguire loro fini, che sfruttino l’asimmetria
informativa per nasconderlo e che vengano remunerati nonostante lo scontento degli azionisti.
Ma in realtà le previsioni di Berle e Means (l’agenzia distruggerà il capitalismo) non si sono mai
avverate ma la separazione tra proprietà e controllo continua ad essere il fenomeno distintivo del
capitalismo moderno (es. Cargill dalla fine guerra civile americana).
Le performance reddituali diventano superiori grazie alle competenze specialistiche dei manager e
il potenziale di comportamenti opportunistici è stato ridotto grazie a sistema di controlli interni (si
verifica la correttezza nei flussi informativi e distribuzione del potere per evitare i conflitti di
interesse) e meccanismi di incentivazione.
La corporate governance è proprio il sistema di norme e vincoli che disciplinano codesti rapporti
tra azionisti e management e che assicurano che l’impresa sia gestita nell’interesse degli azionisti.
Può essere anche intesa come la gestione e coordinamento degli interessi di tutti gli stakeholder.
La natura delle fonti e dei vincoli include norme legali, statuti e contratti e fattori strutturali del
sistema economico e finanziario.

II. Il rapporto tra management e azionisti.


La forma giuridica della società per azioni prevede un sistema di norme volte a garantire che
l’impresa sia gestita nell’interesse degli azionisti. Si prevede la presenza di organi sociali (min 2):
• L’assemblea degli azionisti → nomina/revoca membri cda, approvazione bilanci, decisioni di
particolare rilievo.
• Il consiglio di amministrazione → definizione/realizzazione/monitoraggio strategia,
scelta/attribuzione compiti al management.
Questa struttura offre il potere di decidere (cda e assemblea) manager e poterli dimettere, ma di
fatto sono spesso ben lontani (assemblea e consiglio) dallo svolgere i propri compiti.
L’assemblea gode del diritto formale di nomina degli amministratori ma ha delle criticità di fatto:
- Costi di partecipazione per i piccoli azionisti e scarso peso del voto.
- Meccanismo di raccolta delle deleghe, ma in questo modo i manager si sostituiscono agli
azionisti usandole a proprio favore.
- Vendita delle azioni preferibile rispetto alle battaglie per la rimozione del management.
Criticità del consiglio di amministrazione:
- Ruolo «timido» dei consiglieri indipendenti ovvero coloro (nel cda) che hanno il potere di
sorveglianza sui manager. Essi però usano questo potere con tendenza all’acquiescenza. Le
spiegazioni sono:

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o Interlocking directory/informazione sommaria, per i consiglieri esterni, i quali sono in
vari cda di varie società e non si preparano alle riunioni ma svogliono un’analisi
sommaria delle informazioni fornite in consiglio dai manager.
o Svantaggio informativo di fatto, in quanto non partecipi della gestione.
o Influenza del management che decide le deleghe, ciò può creare conflitto di interessi.
o Scarsa motivazione/interessi particolari e personali.

Il risultato è che il management, nelle società con proprietà molto frammentata, controlla sia il
consiglio che l’assemblea.
Nelle imprese dove la proprietà è forte, i conflitti fra azionisti e management spesso risolti fuori
dagli organi sociali
Dove invece la proprietà è frammentata è necessario attivare altri meccanismi per disciplinare il
comportamento del management.
Negli anni ’80 e ’90 si è affermata la teoria degli stockholder (azionisti), la quale riprende la
massimizzazione del profitto (non è il reddito ma un sovrareddito = reddito che rimane dopo aver
pagato i fattori produttivi tra cui la remunerazione dell’imprenditore). Dice che lo stakeholder
principale è lo stockholder (azionista) e il manager ha l’obiettivo di creare nuovo valore azionario.
Bisogna individuare gli investimenti che creeranno valore.
Negli anni più recenti si dice che bisogna ottimizzare la creazione di valore (ma non azionario) per
tutti gli stakeholder!

Il ruolo degli altri stakeholder.


Gli interessi degli azionisti non sono gli unici che dipendono dalle azioni dei manager ma esistono
altri rapporti di agenzia, i manager sono agenti di tutti gli stakeholder:
• Creditori/azionisti → ai creditori spettano tassi di interesse in funzione del tasso di rischio degli
investimenti in corso o programmati però il rendimento dei creditori è fisso mentre ti azionisti
hanno diritto all’utile netto (ricavi – costi tra cui interessi pagati ai creditori). Pertanto gli
azionisti hanno maggiore propensione al rischio d’investimento.
• Dipendenti/azionisti → i dipendenti presentano un’attesa remunerazione e soddisfacimento dei
bisogni. Possono presentare divergenze di interessi in quanto lo stipendio è il rendimento per il
dipendente mentre è costo per l’impresa (- reddito per azionisti).
Simili considerazioni potrebbero essere svolte per fornitori/clienti/comunità locali… perciò invece
che come regolazione del rapporto tra azionisti e manager si dovrebbe vedere la corporate
governance = sistema di gestione di un rapporto di agenzia multipla, vede i manager in veste di
agente per tutti gli stakeholder.

Ci sono molte differenze fra i sistemi di corporate governance dei vari paesi, si contrappone il
modello anglosassone, presente anche negli Stati Uniti, in cui prevale la borsa e la proprietà
frammentaria al modello renano tipico della Germania, ma condiviso anche da paesi come il
Giappone, in cui la proprietà è concentrata ed esercita un controllo stretto sul management.
Una delle differenze principali tra questi sistemi sta nel grado di protezione agli stakeholder
diversi dagli azionisti (anni ’80 dibatto - principio tedesco e giapponese della concezione
d’impresa come patto tra soggetti con obiettivi divergenti ma conciliati da quello dell’economicità
dell’impresa – declino governance americana ma negli anni ’90 la situazione si ribaltò).
La corporale governance nel modo, viene definita prenderndo in considerazione due variabili: la
composizione della proprietà (pluralista o unitaria) e la stabilità della proprietà (bassa/alta).
Impresa a proprietà diffusa (usa e Inghilterra) /impresa a proprietà ristretta (Germania e
Giappone).
L’Italia presenta un’impresa a proprietà chiusa con imprenditorialità diretta!

Il caso Italiano.
Il capitalismo italiano è più vicino al modello renano, condivide con il modello un’elevata
concentrazione della proprietà, scarsa indipendenza manageriale, debole mercato per i controllo e
il predominio degli intermediari bancari (per finanziamenti). Ma è caratterizzato da alcune
rilevanti differenze:

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• Il peso delle PMI → sono competitive nelle attività industriali a bassa intensità e spesso la
governance è detenuta dal singolo imprenditore o dalla famiglia.
• Il controllo familiare → scarsa separazione tra proprietà e controllo, management e proprietà
spesso coincidono (storiche famiglie industriali); interlocking directory diffusa (=
partecipazioni incrociale e alleanze con cui grandi imprenditori, famiglie industriali e sistema
bancario controllano le più importanti imprese e servizi); scarso sviluppo mercato borsistico (a
causa della diffusione del controllo familiare, molte imprese che hanno i requisiti per l’ingresso
in borsa vi rinunciano - l’ingresso in borsa di società italiane è avvenuto a piccole ondate. Caso
Benetton “delisting” = uscita volontaria)
• Il ruolo delle banche → orientamento all’intermediazione del credito, le aziende di credito sono
la principale fonte di finanziamento (diverso dall’orientamento al mercato dove la principale
fonte è la borsa o mezzi degli azionisti, come negli Stati Uniti). Inoltre l’italia presenta un
sistema bancocentrico (= scarsa tendenza alla concorrenza ma stabilità del sistema bancario
però con indisponenza a concedere investimenti senza valide garanzie).
• Il ruolo dello stato → effetti del sistema delle imprese pubbliche che si dimostrarono incapaci di
perseguire gli scopi prefissati (problema: scarsa economicità delle imprese). Di conseguenza la
proprietà pubblica è < rispetto al passato (anni ’90 privatizzazioni) ma importanti settori
(energia, trasporti…) restano di competenza pubblica.
La modernizzazione del capitalismo italiano → le privatizzazioni hanno stimolato una riforma delle
istituzioni di controllo e del sistema di governance.
- Regolazione della concorrenza (Autorità Antitrust, 1990).
- Riforma della Legge Bancaria (1993).
- Privatizzazione della Borsa (1998).
- Testo Unico della Finanza (Legge Draghi, 1998):
o Normativa sulle OPA (OPA totalitaria per quote di partecipazioni superiori al 30%).
o Comunicazioni obbligatorie.
o Patti di sindacato.
o Rafforzamento dei diritti delle minoranze.
Permangono tuttavia situazioni di strutture proprietarie concentrate, scarsa partecipazione delle
banche al capitale delle imprese, e scarso attivismo degli investitori istituzionali.
In Italia oggi il tema della corporate governance è sempre più in espansione e di grande attualità:
• Privatizzazione di grandi imprese in settori rilevanti per l’economia (quali? Gestite come?).
• Aumento dell’investimento dei risparmiatori privati (quali garanzie a loro tutela?).
• Integrazione globale dei mercati finanziari (come per esempio il contesto americano).

Conclusioni:
- Il tema della governance dell’impresa è argomento complesso.
- La teoria di agenzia necessita dell’adozione di un sistema di gestione multiplo.
- Ogni contesto ha un tessuto imprenditoriale caratteristico e sistemi di governance specifici.

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CAPITOLO 10 – TIPOLOGIE DI IMPRESA E FORME DI GOVERNANCE.
Premesse: l’importanza della corporate governance (continua al capitolo 12).
Come valuto se un’associazione è una buona corporate governance? Un sistema di corporate
governance può essere giudicato in base a tre elementi (Macey, 1998):
a) La capacità di impedire ai manager di sfruttare la gestione di impresa per trarne vantaggi
impropri (vedi capitolo 12).
b) La capacità delle imprese di trovare finanziamenti nel mercato dei capitali.
c) La capacità di rimuovere un management inefficiente (vedi capitolo 13).

b)
Le società quotate e il mercato dei capitali.
Il mercato dei capitali (Borsa) mette in contatto i soggetti che risparmiano con soggetti che hanno
bisogno di capitale, funge da intermediario.
Le unità in surplus (Famiglie) hanno eccessi di flussi finanziari che possono depositarli in
intermediari finanziari oppure investirli in borsa.
Le unità in deficit (Imprese) hanno fabbisogno di denaro.
Gli intermediari finanziari (Banche) possono finanziarsi direttamente attraverso il mercato dei
capitali e possono finanziare le unità in deficit.

I. Articolazione del mercato dei capitali.


Il mercato dei capitali si articola in diverse parti e in un primo livello troviamo codesta distinzione:
• Mercati Diretti → nei quali le parti effettuano lo scambio finanziario in modo diretto e
individualizzato con condizioni che dipendono dalle parti/accordi e dalle rispettive forze
contrattuali (tipico del Mercato Creditizio – banche).
• Mercati Aperti → in esso si effettua scambio titoli o altre attività finanziarie standardizzate, le
condizioni di scambio seguono regole prestabilite e impersonali (senza il contatto diretto tra
acquirenti e venditori). Sono presenti in essi molteplici acquirenti e venditori.
I Mercati Aperti si distinguono in:
- Mercati Primari → sono sottoscritti i titoli di nuova emissione che soddisfano in modo diretto la
necessità di finanziamento di un soggetto.
- Mercati Secondari → sono scambiati fra gli operatori i titoli già emessi. Si ricorre ad essi per
ridefinire la composizione del proprio portafoglio di attività finanziarie (es. devo intervenire nel
mio profilo di rischio, vendo azioni e acquisto titoli più sicuri; oppure con intento speculativo).
La borsa è il più grande mercato finanziario: luoghi istituzionalizzati di scambio di titoli.

I tratti caratterizzanti per le società per azioni sono:


• Mercato azionario → i diritti di proprietà sono rappresentati da titoli = azioni, fungibili
(intercambiabili) ciascuno con lo stesso valore unitario, liberamente vendibili dal possessore.
Le azioni: presentano tutte le caratteristiche per scambiate sui mercati aperti alimentando
quello più importante il Mercato Azionario.
• Mercato obbligazionario → le SpA possono emettere anche titoli rappresentativi di debito = le
obbligazioni, scambiate nel Mercato Obbligazionario destinato alla loro contrattazione.
La spa è la forma più importante nei sistemi capitalistici perché garantisce massima alternativa
di finanziamento quindi acceso massimo al mercato dei capitali, possono scegliere come
finanziarsi.

II. La borsa valori.


È un mercato regolamentato aperto e secondario che svolge le seguenti funzioni:
- Ammettere i titoli alle contrattazioni (stabilisce quali titoli sono idonei ad essere contrattati).
- Garantire l’accesso degli investitori alle transazioni.
- Fissare le modalità di negoziazione (gestire il sistema di oscillazione dei prezzi per far
combaciare la domanda/offerta).
- Trasmettere informazioni sugli scambi per garantire trasparenza e parità tra gli operatori.
Sono create e gestite per garantire la massima efficienza nelle transazioni.
Devono creare le condizioni ideali per le transazioni dei titoli.

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In questo modo concentrano un alto numero di compratori e venditori rendendo i titoli liquidi
aumentando le transazioni = chi possiede i titoli può trasformarli in denaro in ogni momento.
È importante avere dunque un mercato ampio.
La borsa alimenta anche indirettamente il mercato primario, innesca una sorta di circolo virtuoso.

Le imprese che vogliono utilizzare questo canale devono rispettare determinate regole di accesso:
• Quotazione → richiesta/ammissione titoli agli scambi di borsa e soddisfacimento requisiti
minimi di accesso/mantenimento come quelli di capitalizzazione.
• Capitalizzazione → il numero di azioni emesso x prezzo unitario di borsa non deve essere
inferiore a … (bisogna rispettare un livello minimo).
• Flottante → è l’insieme delle azioni che possono circolare liberamente tra il pubblico, devo
garantire che una certa quota di azioni possa circolare liberamente nel mercato.
• Trasparenza nei confronti dei mercati: obblighi di divulgazione informativa al Pubblico, motivo
per cui anche avendo i requisiti non si quotano in borsa (per evitare vincoli/obblighi).
• Quotare in borsa significa avere un modello di Corporate governance, quindi adottare modelli
specifici (governance = tutela piccoli azionisti). Ciò preclude e piccole imprese e coloro che non
vogliono perdere il controllo assoluto della società la quotazione in borsa.

Il meccanismo dei prezzi: il meccanismo razionale della corporate governance rappresenta un


giudizio del mercato dei capitali che esprime nei confronti della situazione della società e dalle
scelte compiute dai manager.
Gli operatori di borsa si fanno dei giudizi e aspettative sui risultati futuri dell’impresa, sulla base
delle informazioni che l’impresa è obbligata a diffondere.
Il valore del titolo è la somma dei flussi di cassa (dividendi (distribuiti periodicamente dalla società)
+ capital gain (: incrementi di prezzo monetizzabili attraverso la vendita delle azioni) che genererà
in futuro per chi lo possiede.
Il problema del modello razionale è che sono grandezze incerte riguardanti il futuro, il valore è
frutto di opinioni.
L’opinione si intreccia con meccanismi irrazionali: attese di comportamento di altri attori,
imitazione dei comportamenti, speculatori, comportamenti degli investitori basati su opinioni,
facili entusiasmi = spesso il valore di borsa è irrazionale e non conforme effettivamente all’impresa.
Altri meccanismi irrazionali sono i prezzi titoli e le bolle speculative:
- Razionalmente il valore di un titolo deve esprimere la somma dei flussi di cassa ma nella realtà
si innescano meccanismi irrazionali che allontanano il valore di prezzo dal suo valore reale, non
hanno legame con le effettive performance della società.
- Con la bolla speculativa (anni 2000) si è creato entusiasmo legato a internet del tutto
ingiustificato, ciò ha portato alla crescita delle azioni rispetto alle reali capacità delle imprese di
creare reddito (es. caso italiano Tiscali).

L’importante ruolo dei prezzi di borsa nella corporate governance:


Il prezzo di borsa esprime valore per l’azionista di lungo periodo perché nel breve periodo può
oscillare anche per ragioni speculative ma nel lungo termine tende ad esprimere le reali
performance/condotta dell’impresa.
Ha un ruolo importante per quanto riguarda la governance. Sono prezzi sensibili ad alcuni aspetti
specifici della Governance di impresa:
- Frammentazione della proprietà (tendono ad essere più alti).
- Emissione di azioni con diritti di voto limitati (le spa possono emetterà azioni di risparmio che
non danno diritto di voto ma danno la possibilità di avere un dividendo più elevato e
dovrebbero avere un prezzo di borsa più elevato ma il mercato le penalizza proprio per il fatto
che l’azionista non ha diritto di voto, ha una debolezza).

I rapporti tra azionisti e management sono in parte mediati dal mercato dei capitali.

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Nel mercato azionario sono presenti diversi tipi di investitori, ciascuno con diverse caratteristiche e
obiettivi:
• Gli Investitori Istituzionali → sono un gruppo composito di investitori che investono in borsa
come elemento principale o comunque abituale della loro attività, i più importanti sono:
- I fondi di investimento che raccolgono capitali da sottoscrittori privati e li investono in azioni,
obbligazioni e altri titoli. Tendenzialmente offrono nel lungo periodo un profitto superiore.
- I fondi pensione che raccolgono prestazioni contributive da date categorie di lavoratori
(raccolgono i soldi dai lavoratori e poi li investono in maniera saggia in modo da garantire che
quando il lavoratore andrà in pensione otterrà una pensione integrativa).
- Le compagnie di assicurazione che investono nel mercato dei capitali le risorse che ottengono
dalla loro attività principale. Sono organizzazioni in costante surplus finanziario (grazie ai
premi), per loro avviene lo sborso se si verifica l’evento negativo assicurato (es. furto auto).
Utilizzano il surplus per investire nei mercati finanziari.
• I risparmiatori privati → individui e famiglie. Rappresentano il ramo al dettaglio o retail del
mercato azionario, nel quale stanno assumendo un peso rilevante le piattaforme di trading
online.
• Gli speculatori (trader) → investitori professionali che partecipano agli scambi con lo scopo di
lucrare sulle oscillazioni di prezzo (giocano sulle differenze del prezzo di acquisto e vendita).
Rientrano le Banche di investimento che forniscono alle imprese servizi finanziari evoluti
(consulenza per collocare i titoli), hanno sezioni dedicate all’investimento diretto nei mercati
con personale specializzato in trading (: speculazione) (es. Hedge found = fondi di
speculazione).
• Le imprese → acquistano partecipazioni in altre imprese per investire liquidità o per acquisirne
il controllo di un’altra società.

III. Corporate governance delle società quotate.


Elementi di giudizio – obiettivi (Macey, 1998): capacità di impedire al management di sfruttare a
proprio vantaggio la gestione d’impresa; capacità delle imprese di trovare finanziamenti nel
mercato dei capitali; capacità di rimuovere un management inefficiente.
Alcuni sostengono (una scuola di pensiero dice) che questi obiettivi possono essere raggiunti anche
in assenza di strumenti di CG grazie agli effetti positivi della concorrenza (Allen e Gale, 2000), non
è necessario che il sistema di cg sia soggetto a vincoli e obblighi (es. flottante).
La distrazione di fondi degli azionisti per vantaggi personali, da parte del management, o
l’investimento in cattivi progetti, in conseguenza dell’obbligo di minimizzazione dei costi imposto
dalle regole della concorrenza, porterebbe le imprese al fallimento (e alla perdita del posto di lavoro
del management).
La concorrenza è in grado di regolamentare la condotta del management... ma la concorrenza non
può evitare comportamenti opportunistici del management:
• È anche vero che il fallimento danneggia il management ma questo può attenuare le
conseguenze negative con precedenti comportamenti opportunistici («fuggire con la cassa» (es.
amministratori di condominio) o sofisticate forme di arricchimento personale).
• In presenza di profitti elevati i manager possono appropriarsi di una parte di essi senza mettere
a rischio la sopravvivenza dell’impresa e che gli azionisti se ne rendano conto.
• La maggior parte dei settori sono lontani da una concorrenza di intensità tale da garantire che il
mercato possa sostituirsi ai meccanismi di CG nel disciplinare i manager.

Le società non quotate.


Le imprese di piccole – medie dimensioni e coloro che pur avendo i requisiti decidono di non
quotarsi (vogliono mantenere la coincidenza tra proprietà e controllo) (es. imprese familiari) sono
società non quotate.
Optano per un modelli di governance caratterizzati da: assenza di separazione tra proprietà e
controllo e controllo di tipo familiare (tipico italiano).

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La struttura organizzativa presenta le seguenti caratteristiche: il numero di dirigenti ridotto e
decentramento decisionale ridotto.
Questo modello presenta una serie di vantaggi:
- Snellezza amministrativa (più - Rapporti basati sulla fiducia.
snello/flessibile). - Flessibilità organizzativa.
- Asimmetrie informative ridotte o nulle.
La struttura flessibile e leggera ha permesso di ottenere ad alcune imprese italiane anche un
successo internazionale (grazie a: rapida risposta alla domanda, competenze tecniche…).
A seguito di questi vantaggi esistono però anche svantaggi:
- Il controllo familiare scoraggia azionisti esterni perché possono sentirsi svantaggiati a causa
della scarsità informativa.
- La capacità di raccolta risorse è limitata.
- Vincoli allo sviluppo a causa della scarsità di risorse finanziarie accessibili ma finanziano lo
sviluppo con i mezzi propri oppure tramite finanziamento bancario (limitando la possibilità di
crescita perché diventa difficile avere una struttura produttiva ampia di proprietà).
- Limitazione all’espansione delle struttura produttive proprie perché mi privo di finanziamenti
del canale azionario.
- Presentano scarsa integrazione verticale ma sopperiscono con i rapporti sui mercati (fornitura e
distribuzione).
Ciò ha portato alla nascita dei distretti industriali, ma può portare a subire condizioni di scambio
non vantaggiose.

Forme di governance non societaria.


Esistono imprese non hanno nemmeno una vera e propria proprietà (e ovviamente non sono
quotate) o comunque sono gestite nell’interesse di stakeholder diversi dai proprietari. Abbiamo:
• Cooperativa (nate in Italia a fine ‘800).
Si sono poste come attività di produzione/consumo in forma auto-organizzata dai lavoratori.
Sono gestite nell’interesse dei dipendenti.
Ad oggi hanno una struttura organizzativa molto simile all’impresa capitalistica (critica).
Secondo la Governance è rilevante che ci siano dei meccanismi di partecipazione dei clienti e
lavoratori associati attraverso i quali possano influenzare direttamente l’attività della cooperativa.
• Partnership.
Si hanno quando il fattore produttivo principale è il lavoro intellettuale.
L’attività principale è l’erogazione di servizi professionali nelle quali il capitale è un fattore
produttivo secondario (primario è il lavoro).
Governance: le attività sono poste al controllo dei professionisti.
• Impresa con proprietà pubblica.
Sono state una forma tipica dell’Europa continentale ma si sono caratterizzate per la poca
efficienza e spreco di risorse, erano adottate per attività di interesse collettivo.
L’interesse della gestione è la soddisfazione di interessi collettivi e tutela dei clienti contro
condizioni di monopolio.
Governance: management è di nomina statale, i burocrati sono ministeriali, è basata sul potere
politico ed elettori.
• Non profit.
Assenza di obiettivi di profitto, Il loro scopo è legato a ragioni di utilità sociale.
Non sono di proprietà di nessuno ma può essere previsto il lavoro retribuito.
• Imprese sociali.
Caratteristiche della realtà tipica italiana (d.Lgs. 155/06).
Sono, come dice la definizione normativa, «organizzazioni private che esercitano in via stabile e
principale un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale».
Si occupano di beni e servizi di utilità sociale come:
- Assistenza sociale, assistenza sanitaria e socio sanitaria.

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- Educazione, istruzione, formazione universitaria ed extrascolastica.
- Tutela ambientale e dei beni culturali.
- Turismo sociale.
Hanno una responsabilità limitata (per i debiti dell’impresa risponde solo essa con il proprio
capitale) anche se la forma giuridica non lo prevede.

Conclusioni:
- La struttura giuridica e organizzativa dell’impresa influiscono in misura rilevante sugli assetti
di corporate governance.
- Le società quotate e il mercato dei capitali offrono un sistema che possiede regole precise a
tutela di interessi spesso contrapposti di natura pubblica.
- In Italia il modello capitalistico è particolare: PMI+controllo familiare.
- Accanto alle imprese che agiscono secondo logiche di profitto, ne esistono altre che perseguono
finalità di valore sociale: un esempio tipico italiano è quello delle imprese sociali.

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CAPITOLO 11 – I RISCHI DELLA DISCREZIONALITÀ MANAGERIALE.
Disallineamento manager/azionisti.
Il perseguimento da parte dei manager di obiettivi disallineati da quelli degli azionisti può
assumere diverse forme:

I. Motivazioni alla base del disallineamento.


1) Motivi non opportunistici:
• Prestigio ed ambizione personale → ricerca di una crescita del fatturato o di altre variabili
dimensionali che erodono i margini aziendali.
• Propensione elevata al rischio → a progetti eccessivamente rischiosi.
• Avversione al cambiamento → investimenti troppo conservativi che portano ad escludere
investimenti profittevoli (perché il management ha raggiunto dei livelli soddisfacenti per sé).
Evitano investimenti innovativi, i quali generano effettivo valore anche per gli azionisti, ma si
limitano a quelli che accrescono le dimensioni dell’impresa.
• Scarsa motivazione → scelta poco accurata degli investimenti, trascuratezza qualità e contagio
delle linee manageriali subordinate.
2) Motivi opportunistici:
• Volontarietà del danno provocato agli azionisti → uso del potere per benefici personali a danno
degli azionisti con azioni illecite, ricerca di benefici privati e resistenza al ricambio.
II. Forme di opportunismo.
Le forme di opportunismo sono 3 azioni/operazioni attraverso le quali i manager sfruttano il
proprio potere per danneggiare gli azionisti o ottenere deliberati vantaggi personali:
a. Azioni illecite → siamo nell’ambito della colpa grave oppure della frode, violazione di norme
civili o penali
b. Ricerca di benefici privati → appropriazione di beni e fondi aziendali nei limiti di legge, ma in
forma di sostanziale abuso.
c. Resistenza al ricambio → azioni che cercano di preservare la propria posizione ed evitare il
licenziamento.

Il comportamento manageriale illecito.


L’abuso di potere è penalmente perseguibile, si tratta di appropriazione di beni aziendali (svolta
commettendo abusi perseguibili penalmente) oppure di privare gli azionisti dei rispettivi diritti
attraverso alcune modalità messe in atto con dolo/volontà di danneggiare:
• Manipolazioni contabili → falso in bilancio = comunicare agli azionisti informazioni che non
sono reali e non rispondono ai principi contabili nazionali e internazionali. Diventa più grave
quando la società è quotata perché la quotazione genera una responsabilità ulteriore verso il
pubblico degli investitori.
• Creazione di società estere → società controllate di fatto dai manager ma con prestanome, sono
società apparentemente autonome e non collegate ai manager che hanno azionisti diversi (sono
società schermate, non si è a conoscenza della realtà).
• Uso di prestanome.
• Complicità di soggetti terzi.
Esempi: vendita dei beni dell’impresa a società di proprietà del management (società estere) a
prezzi inferiori a quelli di mercato, generando un danno al patrimonio e agli azionisti dell’impresa.

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I benefici privati.
I manager possono trovare mezzi del tutto legali (ma non rientrano nei principi etici) ai fini del loro
arricchimento come:
• Programmi di stock option → forme di remunerazione della componente variabile della
remunerazione di un dirigente, in particolare della componente di lungo termine, dunque che
riguardano i risultati cumulativi di obiettivi precedentemente decisi (generalmente i piani di
stock option sono i piani strategici e durano 3 anni).
Questi piani prevedono un’attribuzione gratuita di azioni dell’impresa e per evitare che siano
eccessivamente favorevoli per i manager, esiste il comitato di remunerazione (è all’interno
dell’impresa ed è costituito da amministratori non coinvolti nella gestione, loro hanno il dovere
di garantire che le condizioni progettuali del piano di stock option e il raggiungimento degli
obiettivi da parte dei manager vengano rispettate).
Inoltre deve (il piano di stock option, deve essere approvato dal cda e dagli azionisti.
• Fringe benefit → prestazioni accessorie alla remunerazione monetaria.
Sono forme integrative di retribuzione come polizze assicurative, prestiti personali a tasso
agevolato (offrono vantaggi fiscali), spese e cure mediche per tutta la famiglia…
Inoltre sono presenti benefit con funzione di rappresentanza che mirano ad assicurare un
adeguato prestigio alle cariche manageriali, come automobili/autista privato/aereo, cene in
ristoranti di lusso, biglietti gratuiti per eventi...
• Pet project → iniziative che rispondono solo il misura parziale agli interessi aziendali mentre
servono maggiormente a soddisfare desideri personali del manager, come acquisto di media
(tv, giornali…), partecipazioni a competizioni sportive, finanziamento progetti di ricerca
(fondazioni di cui è promotore un parente del manager o lui stesso)…
N.B: tutte queste forme di remunerazione sono legali ma non conformi ai principi dell’etica e
soprattutto rappresentano un costo per l’azienda.

La resistenza al ricambio e il takeover.


Un altro modo con cui i manager possono danneggiare gli azionisti è quello di riuscire a mantenere
il loro ruolo, godendo dei benefici, anche quando le loro prestazioni si dimostrano inadeguate.
La resistenza al ricambio può essere in:
• Forma passiva → riuscire a rimanere in carica anche quando le prestazioni manageriali sono
scarse.
La protezione del manager è data dall’asimmetria informativa cioè si trovano in una posizione
di conoscenza agevolata, soprattutto degli aspetti gestionali, rispetto agli azionisti.
Tutto ciò rappresenta la forma più costosa del problema dell’agenzia.
Gli azionisti insoddisfatti possono vendere le azioni oppure possono iniziare una guerra legale per
sostituire il management (ma sono lunghe e costose, di fatto non vengono utilizzate).
• Forma attiva → azioni che cercano di ostacolare le acquisizioni da parte di terzi acquirenti
attraverso mezzi di contrasto contestuali oppure mezzi di contrasto preventivi.
Il fenomeno delle acquisizioni gioca un ruolo molto importante nella corporale governance.
Le acquisizioni/takeover (= offerte pubbliche d’acquisto) sono sono operazioni con cui un soggetto
acquista la maggioranza del capitale di una società o comunque una percentuale sufficiente per
assicurarsi il controllo dell’assemblea.
Una società oggetto di acquisizione è detta target e le acquisizioni possono servire a rimuovere
manager inefficienti!
I takeover sono definiti da 3 elementi fondamentali:
1) Il prezzo (più alto della quotazione in borsa ovviamente) che è la capitalizzazione in borsa =
prezzo di borsa aumentato dal premio di controllo, il quale è generalmente il 30%. (Es: se
un’azione vale 10 euro un acquirente l’acquisto a circa 13 euro) senza di esso è difficile
convincere gli azionisti a vendere i loro titoli.
2) La data (entro qualche mese) entro cui deve realizzarsi l’operazione.
3) Bisogna raccogliere un numero di azioni sufficiente per controllare effettivamente l’impresa, se
voglio il controllo legale il 51%.

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Le acquisizioni possono essere realizzate in due modi (tipologie di takeover):
• Amichevoli → quando sono realizzate con il consenso del management e degli azionisti della
target (es: un. Investitore privato).
• Ostili → realizzate senza tale consenso. L’obiettivo è sostituire il manager.
Se i manager della target fossero fedeli all’interessi degli azionisti, dovrebbero accettare
l’operazione di acquisizione, che garantisce loro un capital gain ⇒ management fedele.
Ovviamente però i manager sanno che l’acquisizione porterebbe alla loro sostituzione in questa
situazione di conflitto di interesse non è sorprendente che spesso essi scelgano di opporsi ed essere
ostili.

Questo modo di procedere ha avuto grande diffusione nei mercati finanziari internazionali negli
anni ’80 e anni ’90. In quel periodo ci furono molte operazioni di take over soprattutto in America
(mercato finanziario più dinamico) principalmente di natura ostile. Ciò perché l’obiettivo era
aumentare le dimensioni anche a sfavore della redditività.

Ora osserviamo un esempio di ragionamento che fa un investitore/finanziatore terzo che trova


conveniente lanciare un’offerta pubblica e ostile:
Società EG company, il prezzo di partenza è:
Il prezzo di cessione dell’attività = valore del complesso dell’impresa e di ciò che guadagnerei se
andassi a vendere a pezzi l’impresa (si vende a pezzi perché si guadagna di più), è superiore rispetto
al risultato contabile del bilancio.
Si valutano gli asset dell’impresa (es: palazzo che vale tantissimo è una plusvalenza implicita.
Oppure potrebbe avere un’attività produttiva che ha delle inefficienze ma che l’investitore con i
suoi manager può rimuovere) dunque valuto l’azienda non sulla base del patrimonio netto
contabile, ma sulla base dei valori reali di mercato che l’azienda ha.
Il valore dell’impresa si trova valutando gli asset, la parte di sinistra del bilancio. Mentre per
trovare il valore per l’azionista dobbiamo togliere i debiti.
Alla fine l’incasso netto sarà prezzo di vendita a mercato – tasse – debiti finanziari.
Per fare un’offerta pubblica bisogna sostenere degli oneri per le operazioni di takeover (di
consulenti), gli interessi sui debiti contratti per l’acquisizione (il premio delle azioni), operazioni di
indebitamento (queste operazioni si svolgono tramite finanziamenti a leva = ricorso al credito
bancario).
Ciò che sborsa l’investitore (il capitale proprio) è composto dalla differenza tra il debito che ha vero
gli azionisti (che gli devono il 51%) e l’indebitamento con le banche (+ interessi sui seguenti debiti).
La durata dell’operazione è 1 anno e ha un rendimento dell’89% (ciò che rende all’investitore).
Per fare queste valutazioni di solito si usa la tecnica del brakeup, è una tecnica in cui l’azienda si
valuta a pezzi = un complesso aziendale è formato da vai asset e alcuni di essi sono autonomi.
Infatti è più interessante comprarla con un takeover e poi venderla a pezzi.
È uno strumento che modifica la struttura proprietaria in modo:
- Qualitativo → cambiano i soggetti della compagnia.
- Quantitativo → cambiano gli azionisti di maggioranza o controllo.

Solitamente chi acquista ha la convinzione di ottenere performance migliori rimuovendo


inefficienze causate dal management.
In tal senso la minaccia di takeover dovrebbe spingere il management ad un certo livello di
diligenza ma non è sempre così.

I manager dispongono di numerosi mezzi per contrastare l’acquirente dunque impedire un


takeover, questi mezzi sono:
• Azioni contestuali → possono dichiarare che l’offerta di prezzo è insufficiente (sfruttando il loro
abituale vantaggio informativo); accusare l’acquirente di voler attuare politiche e cambiamenti
che potrebbero potare danni conseguenti al suo ingresso.

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Possono identificare finalità speculative nell’offerta del cosiddetto rider, colui che acquista le
imprese con fini speculativi (es: vendere in seguito gli asset migliori); e ricercare il consenso di
gruppi di stakeholder (affermando che l’acquisizione porterebbe a tagli dei posti di lavoro).
Nei paesi in cui l’ordinamento lo permette:
• Azioni preventive → si tratta di azioni attraverso cui il management cerca di rendere più
onerosa l’acquisizione ostile (cerca di contrastarla in maniera preventiva).
Si dividono in:
- Azioni difensive pro management, si dividono in:
o Azioni con modifica dello statuto (così da contrastare le acquisizioni ostili).
Per esempio l’introduzione di clausole di maggioranze qualificate negli USA = le società possono
introdurre queste clausole, in presenza di esse l’assemblea dei soci deve votare con minimo
assemblea > 51% in caso di takeover.
Negli Stati Uniti sono frequenti anche speciali clausole statutarie chiamate “poison pills”, esse
prevedono che i manager abbiano facoltà di emettere azioni sociali a un prezzo molto favorevole
per quantitativi ingenti e con diritto alla sottoscrizione riservato agli azionisti correnti.
Ciò danneggia l’acquirente, il quale si trova a dover comprare più azioni di quelle che altrimenti gli
avrebbero permesso il controllo.
o Azioni senza modifiche dello statuto.
Un’azione difensiva più drastica è quella chiamata “greenmail”: il management della target
propone al proponente acquirente di comprare il pacchetto di azioni già radunato, in cambio della
rinuncia a continuare la scalata all’acquisizione.
Il prezzo offerto dalla target è > del prezzo di mercato, in modo tale da garantire un sostanzioso
profitto.
L’acquisto viene effettuato con fondi della target e le azioni acquistate sono tenute in portafoglio
(azioni proprie) o annullate.
- Azioni che non comportano danni diretti alla società
o Tecnica del cavaliere bianco.
Questa tecnica consiste in un accordo con il management di una società amica, la quale acquista
una quota significativa delle partecipazioni della target e si impegna a non cedere tale quota
all’aspirante acquirente.
Una variante prevede la cessione degli assets della target ad una società non scalabile (es. con
controllo da parte di azionisti forti).

Il takeover nella normativa italiana.


In diversi paesi europei, tra cui l’Italia, è presente un obbligo (simile sulle clausole di maggioranza
qualificata degli USA) indirettamente imposto da leggi che obbligano l’acquirente a presentare
un’offerta pubblica di acquisto (OPA) su tutto il capitale sociale.
Queste leggi hanno lo scopo di assicurare una parità di trattamento fra azionisti di maggioranza e
di minoranza, ma di fatto hanno anche l’effetto di rendere più costose le acquisizioni.

49
CAPITOLO 12 – GLI STRUMENTI INTERNI DI CORPORATE GOVERNANCE.
Premesse: l’importanza della corporate governance (continuo del/vedi capitolo 10).
Un sistema di corporate governance può essere giudicato in base a tre elementi (Macey, 1998):
a) La capacità di impedire ai manager di sfruttare la gestione di impresa per
trarne vantaggi impropri.
b) La capacità delle imprese di trovare finanziamenti nel mercato dei capitali.
c) La capacità di rimuovere un management inefficiente.

a)
La corporate governance si basa su una serie di strumenti, i quali possono limitare la
discrezionalità dei manager e tenerli sotto controllo, questi strumenti possono essere suddivisi in
strumenti di corporate governance interni o strumenti di cg di mercato (esterni).
➢ Strumenti di corporate governance interni.
Sono basati sulla sorveglianza e disciplina del management esercitata dagli azionisti di
maggioranza per evitare che i manager usino la discrezionalità (la gestione dell’impresa) a loro
vantaggio.
Il controllo avviene o con procedure aziendali o con norme di legge, come:
I. La concentrazione proprietaria.
La proprietà dell’impresa può essere frammentata o concentrata, la seconda è il modo più diretto
per controllare il management.
Se un’azionista o un gruppo di azionisti detiene una quota di partecipazioni sufficiente a sostituire i
manager, a questi ultimi rimane poco spazio per disallineamenti e opportunismi.
La proprietà tra può assumere 3 diverse tipologie di forma/forme di concentrazione:
• Controllo assoluto → singolo azionista con >50% voti.
• Controllo di minoranza → singolo azionista con <50% dei voti, ma capace di esercitare il
controllo a causa della frammentarietà dell’azionariato.
• Patto di sindacato → gruppo di azionisti senza quote rilevanti al fine del controllo, che si allea
per formare un blocco di azionario di controllo (può essere esplicito o implicito).

La concentrazione della proprietà varia molto nei diversi paesi a secondo del siterà di governance
di riferimento:
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, in cui ci sono mercati di capitali ampi ed efficienti, la proprietà
è dispersa/frammentata questo strumento di cg (concentrazione proprietaria) non è utilizzato.
Un esempio è il caso limite delle Public Company in cui le azione passano continuamente di
proprietà e la quota detenuta è piccolissima.
Mentre nel resto del mondo la concentrazione proprietaria costituisce il meccanismo di governance
dominante, dove generalmente tutte le imprese maggiori hanno un azionariato di riferimento, sono
rette da maggioranze solide e stabili.
Il controllo assoluto è generalmente detenuto da famiglie ed è caratteristico delle imprese di medie
dimensioni.

A parità di azioni possedute, il potere reale degli azionisti dipende da paese a paese e da impresa e
impresa, perché esso dipende da elementi che possono imitare il potere di controllo che gli azionisti
di maggioranza svolgono nei confronti del management come:
- Norme di diritto commerciale.
- Assemblee straordinarie → in Italia per esempio sono richieste per atti di straordinaria
amministrazione o per decisioni di alta importanza (si richiede la presenza di più azionisti).
- Consiglio di sorveglianza → in Germania la nomina del cda, non spetta all’assemblea, spetta al
consiglio di sorveglianza, in esso sono presenti rappresentanti dei lavoratori e azionisti.
- Statuti aziendali.
- Regolamentazione dei mercati finanziari.
Nei paesi con mercati finanziari ampi ed efficienti, gli azionisti che hanno quote rilevanti di
partecipazioni sono poco motivati ad effettuare un controllo, perché acquistano azioni per il loro
rendimento (> importanza all’andamento di borsa rispetto alle politiche d’impresa).

50
In caso di insoddisfazione è più facile vendere le azioni, liquidarle, che non tentare di rimuovere il
management, è meno costoso e più veloce.
Se la concentrazione proprietaria è efficace elimina il problema dell’agenzia perché toglie al
management la sua indipendenza.
Ma si da un lato toglie i rischi della discrezionalità manageriale, ma dall’altro lato elimina anche dei
vantaggi perché la società si trova ad essere gestita, direttamente o indirettamente, dagli azionisti
di maggioranza, ciò significa privarla di competenze performanti manageriali.
Si annulla il vantaggio dal dalla separazione tra proprietà e controllo.
Inoltre si crea un nuovo problema di agenzia, quello tra azionisti di maggioranza vs azionisti di
minoranza, quelli di maggioranza controllando di fatto l’impresa, possono usare la gestione per
raggiungere scopi personali, proprio come i manager.
Questo problema si amplifica in presenza di “piramidi” societarie.

Le piramidi societarie sono catene di società, sono situazioni in cui il conflitto tra azionisti di
maggioranza e azionisti di minoranza sono massimizzati.
Alla base della piramide c’è una società operativa X detenuta per il 51% da una holding C.
Le holding sono società che hanno come oggetto sociale/attività principale la detenzione di
partecipazioni finanziarie.
Il 51% della holding C è detenuta dalla holding B e a sua volta (il 51%) è detenuta dalla holding A.
La holding A è detenuta da un gruppo di azionisti (sempre 51%).
Gli azionisti di controllo al vertice della piramide, nonostante non possiedano direttamente
nessuna azione della società operativa X, riescono a mantenere la maggioranza per tutta questa
catena di partecipazioni delle varie società, quindi le controllano tutte.
Esercitano un controllo di partecipazioni a cascata.
Il vantaggio è che con un investimento finanziario limitato si riesce ad ottenere un controllo
assoluto.

La misurazione di controllo della holding avviene attraverso il rapporto di possesso interato e la


leva azionaria:
Se mettiamo a rapporto l’investimento degli azionisti di controllo della holding A con il capitale
sociale della società operativa X otteniamo il rapporto di possesso integrato = misura la
percentuale della società operativa X che viene detenuta indirettamente dagli azionisti di controllo
al vertice della piramide. Indica il reale impegno finanziario degli azionisti di controllo (quanto
investono per controllare tutte le assemblee dell’intera catena).
Si può calcolare anche come prodotto tra le % di controllo ai vari livelli della piramide in questo
caso => 51% x 51% x 51% x 51% = 6,76%
La leva azionaria è rappresentata dalla quota detenuta nella società X rapportata al possesso
integrato.
Essa misura quante volte si moltiplica il possesso integrato grazie alla catena di controllo (> catena
di controllo > leva azionaria).
Il rapporto tra la quota detenuta nella società alla base (X) e il possesso integrato è pari a 51% :
6,76% = 7,54

Le strutture piramidali sono fortemente utilizzate nel mercato italiano.


Le cause della diffusione sono principalmente la scarsa liquidità del mercato dei capitali e la
difficoltà di reperimento di risorse necessarie al controllo diretto di grandi società.
Lo svantaggio principale è una divaricazione tra controllo e flussi di cassa derivanti, significa che i
dividendi distribuiti dalla società operativa X devono risalire tutte le holding e vengono dispersi
flussi ad ogni passaggio verso gli azionisti di minoranza (a loro favore).
Agli azionisti di controllo spetta una quota pari alla percentuale di possesso integrato (es. 6,76%)).
Questo risulta essere pericoloso perché rappresenta una scarsa incentivazione, per chi sta al
vertice, all’investimento delle operative alla base mentre aumento il loro interesse ad usare il
controllo a fini alternativi (spostare ricchezza verso la parte alta della piramide).

51
Le imprese che sono sotto il controllo di una piramide vengono generalmente scambiate a prezzi
più bassi rispetto a similari imprese indipendenti/singole ⇒ prezzi di scambio depressi (=
transazioni con oggetto la cessione di società appartenenti a gruppi piramidali a prezzi inferiori
rispetto a quelli di società simili ma indipendenti).
Anche perché se c’è un tentativo di takeover avviene sulle holding di vertice, gli azionisti di
minoranza della società operativa non godono del premio di controllo.
La situazione peggiora quando si ha scarsa trasparenza dell’informazione da parte delle holding
non quotate = asimmetria informativa a svantaggio degli azionisti di minoranza della società
operativa.

In generale la concentrazione proprietaria, al di là del caso delle piramidi, determina una scarsa
liquidità dei titoli perché l’azionista di controllo cerca di contenere/limitare il flottante per evitare
rastrellamenti/scalate che permetterebbero di acquisire il controllo della società.
Le forme di controllo concentrate scoraggiano gli investitori ⇒ depressione del mercato dei capitali,
limitano il mercato e il sistema economico (resta la centralità di investimenti bancari).

II. Sistemi di incentivazione manageriale.


Con la teoria della creazione del valore, nel corso degli anni ’90, ci sono state variazioni della
remunerazione manageriale, in particolare una parte deve essere in funzione di obiettivi di
performance.
Lo scopo è allineare gli interessi/obiettivi del management a quelli degli azionisti.
Ci sono due applicazioni del sistema di pay-per-performance:
• Programmi di bonus → prevedono la divisione della remunerazione del manager in due parti,
una certa e una incerta:
- Quota fissa (remunerazione certa).
- Bonus legato ai risultati (remunerazione incerta) = aumento bonus per soglie in funzione dei
livelli di una voce contabile; profit sharing ovvero una % netta di una grandezza espressiva del
profitto (es. utile netto).
• Incentivi azionari → assegnazione diretta al management di azioni sociali o altri titoli legati al
rendimento di borsa. Può essere gratuita oppure viene richiesto un prezzo agevolato.
Questi strumenti riescono a risolvere in piccola parte il nuovo problema dell’agenzia, allora a fine
anni ’90 vengono introdotti nuovi strumenti di incentivazione manageriale ⇒ le stock option.
Le Stock option sono possibilità che la società concede al management il diritto di acquistare azioni
della società. Le azioni garantite in opzione possono derivare da un apposito aumento di capitale,
oppure sono azioni già esistenti.
L’assegnazione dell’opzione è gratuita e si dà al manager la possibilità di sottoscrivere le azioni ad
un prezzo di acquisto prestabilito chiamato strike price.
Generalmente il prezzo di esercizio corrisponde al prezzo di borsa nel giorno in cui viene emessa
l’azione, spesso è concesso anche uno sconto sul prezzo.

Se il manager esercita l’opzione diventa proprietario delle azioni e può rivenderle a prezzo di
mercato, in questo caso guadagna se e solo se il prezzo di borsa/azioni > allo strike price/prezzo di
esercizio; oppure può entrare a far parte degli azionisti (tiene le azioni).

Il meccanismo di funzionamento delle stock option e termini tecnici:


- La data in cui vengono concesse le opzioni è nota come grant date.
- Le opzioni non possono essere esercitate prima del raggiungimento della data di maturazione
(vesting date = giorno da cui in poi le azioni possono essere esercitate), una volta trascorso il
service period.
- Le opzioni possono essere esercitate dalla vesting date alla data di scadenza, questo periodo è
chiamato exercise period.

52
In sintesi: do la possibilità al manager di
diventare azionista facendo uno sconto
sulle azioni, dopo un po’ di tempo il
manager può decidere se venderle o meno.

Incentivi di questo genere è il motivo per


cui i CEO americani guadagnano quasi il
doppio dei loro colleghi europei, grazie
soprattutto appunto a schemi di
incentivazione, come le stock option.
Esempio: 100 Stock option, Prezzo di
esercizio 100 $/Prezzo di borsa 180 $
quindi 100 x 100 $ = 10.000 $→ 100 x 180
$ = 18.000 $ ⇒ 18.000 - 10.000 = 8.000 $
di profitto realizzato.

Il capital gain ottenuto sarà tanto più elevato quanto cresce la quotazione in borsa nel tempo, ciò
(incentivi) dovrebbe spingere il manager a cercare di migliorare la performance sul mercato
dell’impresa ⇒ allineamento manager/azionisti.
I vantaggi delle stock option sono:
- Creare un allineamento degli interessi di azionisti e manager.
- L’incentivazione di un comportamento manageriale volto a migliorare la performance aziendale
economica-finanziaria che si ripercuote nel lungo periodo anche nel valore di mercato.
- Questi strumenti tendono ad attrarre talenti.
- Creano un clima aziendale partecipativo.
- Portano ad una riduzione del costo del lavoro manageriale.
Rispetto al possesso diretto di azioni, le stock option comportano due importanti differenze:
• Non provocano mai perdite → se il prezzo delle azioni scende sotto il prezzo di esercizio (strike
price), il titolare è libero di non esercitare l’opzione.
• Possono essere assegnate ai manager in quantità virtualmente illimitata perché non comporta
nessuna uscita di cassa per l’impresa che si limita ad assegnare diritti.
In apparenza sembrerebbe che queste operazioni siano effettuate in assenza di costi/sono gratuite,
sembra che in apparenza l’azienda possa scaricare sui mercati la remunerazione di incentivazione
dei manager.
In apparenza perché se i manager decidono di vendere le azioni si verifica un eccesso di offerta, la
quale provoca una diminuzione del valore azioni e di conseguenza una perdita di valore della
partecipazione degli altri azionisti ⇒ costo di diluizione.

Sono sistemi efficaci a condizioni che la struttura e la modalità del sistema di incentivazione non
siano influenzate dai manager beneficiari (es: compensation committee negli usa che sono
composti da cda e dipendenti, i quali stabiliscono gli obiettivi di performance a cui collegare la
remunerazione dei manager. Rendono oggettivi gli obiettivi); e che i sistemi contabili e informativi
societari devono essere retti da regole oggettive la cui corretta applicazione sia verificata da terze
parti come società di revisione (es: che non ci siano manipolazioni contabili).

III. Il controllo interno.


Lo scopo del controllo è garantire che le operazioni aziendali (tutte) rispettino le norme e i principi
di buona gestione, l’obiettivo prevenire il manifestarsi di comportamenti illeciti/imprudenti in
danno del patrimonio dell’impresa, degli azionisti e degli stakeholder.
Il controllo interno si articola in diverse tipologie di attività di controllo:
• Controllo di legittimità (o di compliance) → verifica che le attività dell’impresa siano svolte in
conformità alla legge e predispone soluzioni organizzative e tecniche funzionali alla compliance
(che siano conformi alla legge).

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• Controllo procedurale → verifica del rispetto delle procedure specifiche stabilite dall’impresa
contenute nello statuto aziendale. Le attività di prevenzione riguardano frodi interne, collusioni
con terze parti e danneggiamento degli interessi aziendali.
• Controllo contabile → verifica la veridicità di conti e bilanci.
Il controllo è affidato a organi di controllo che possono essere interni oppure esterni all’impresa:
• Interni.
- Internal audit per imprese che superano una certa dimensione o complessità, si occupa di
controllo contabile oppure delle altre tipologie.
- Lo stesso cda ha compiti di sorveglianza che aspettano ad alcuni amministratori, in particolare
a quelli dipendenti.
- Collegio sindacale, oltre che a sostituire gli amministratori in caso di impossibilità, deve
occuparsi anche di controllo.
- Il sistema di controllo, raccomandato dal codice preda per le società quotate, si nomina di un
soggetto preposto al controllo interno e un comitato per il controllo interno (costituito da
amministratori esecutivi) (questo sistema segue l’influenza americana).
• Esterni.
- Le società di revisione che svolgono controlli sono obbligatorie per le società quotate e altre
sottoposte a particolari norme di legge, queste hanno il compito di verifica annuale di
correttezza del sistema contabile e di emissione della relazione di certificazione.

Gli scandali societari degli anni 2000 (es. Parmalat) hanno dimostrato l’estrema vulnerabilità dei
sistemi di controllo interno mettendo in luce: i limiti dei poteri (di sorveglianza) degli
amministratori indipendenti, che l’internal audit può subire l’influenza del management e infine
che le società di revisione esterne sono carenti sul piano etico e professionali.
Nel tempo si è verificata una perdita del ruolo di controllo delle società di revisione e si sono
trasformate in semplici fornitori di servizi in quanto vengono pagate dall’azienda che devono
controllare, spesso forniscono consulenze vere proprie.
Aiutano l’impresa ad abbellire i conti (contabilità creativa).
Il loro obiettivo è farsi rinnovare il contratto dunque tendono ad essere accondiscendenti con le
richieste dei clienti e inoltre sono spesso, le società di revisione, sono collegate a società che
erogano servizi di consulenza, quindi la revisione è attività utilizzata per vendere altri servizi

➢ Strumenti di corporate governance di mercato (o esterni).


Si basano sui meccanismi di mercato che le performance negative dell’impresa, risultato della
cattiva condotta dei manager, provocano su questi ultimi.
La rilevazione di tali performance porterebbe alla sostituzione del management (vedi capitolo 13).

Conclusioni:
- Esistono strumenti di controllo dell’attività del management che sono utilizzabili dalla
corporate governance.
- Tali strumenti non sono sempre efficaci, in quanto condizionati da diversi fattori che possono
sfuggire al controllo degli azionisti e degli organi di gestione.
- È necessario, tuttavia, agire in modo ponderato: l’eccessivo controllo del management potrebbe
rendere vischiose le sue decisioni e diminuire l’efficienza e l’efficacia delle sue attività.

54
CAPITOLO 13 – GLI STRUMENTI ESTERNI DI CORPORATE GOVERNANCE.
Premessa:
Gli strumenti di corporate governance di mercato (o esterni) si basano sui meccanismi di mercato
che le performance negative dell’impresa, risultato della cattiva condotta dei manager, provocano
su questi ultimi.
La rilevazione di tali performance porterebbe alla sostituzione del management.
Premesse: l’importanza della corporate governance (continuo del/vedi capitolo 10).
Un sistema di corporate governance può essere giudicato in base a tre elementi (Macey, 1998):
a) La capacità di impedire ai manager di sfruttare la gestione di impresa per trarne vantaggi
impropri.
b) La capacità delle imprese di trovare finanziamenti nel mercato dei capitali.
c) La capacità di rimuovere un management inefficiente.

c)
Gli strumenti di corporate governance esterni sono:
Il mercato del controllo.
I. Gli ostacoli del mercato del controllo.
• Meccanismi manageriali:
Il potere discrezionale del manager ha un limite nel mercato del controllo, perché il rischio di
subire delle scalate ostili da parte dei cosiddetti rider dovrebbe rappresentare uno stimolo per i
manager ad agire secondo gli interessi degli azionisti.
Il mercato del controllo è un insieme di operazioni di acquisizione con le quali è scambiata la
proprietà delle società.
Questo passaggio di proprietà può avvenire in maniera amichevole (con accordi) oppure in modo
ostili (takeover/scalata ostile, con il rastrellamento di azioni sul mercato es. si cerca di convincere a
far cedere le azioni offrendo un prezzo maggiorato – premio di controllo, sovrapprezzo azioni).
Perché se il prezzo delle azioni scende per comportamenti opportunistici o inerzia del management
il rischio di subire takeover aumenta, perché chi deve effettuare la scalata vede opportunità di
creare più valore di quello creato dall’azienda.
L’impresa diventa più facilmente contenibile sul mercato.
La prima azione che il rider fa dopo il passaggio di proprietà è sicuramente sostituire il
management.
Gli azionisti interessati solo al rendimento, che non intervengono nella gestione, hanno un
meccanismo indiretto di corporate governance, ovvero o manifestano un giudizio negativo
vendendo le proprie azioni e favorendo, di conseguenza, il ricambio manageriale.
Nella realtà dei fatti, anche in mercati finanziari ampi, il numero reali di takeover ostili è limitato e
a questo numero si può dare una duplice lettura:
- Può essere la dimostrazione del un buon funzionamento di questo meccanismo di governance,
è sufficiente la minaccia di una scalata ostile e quindi di essere sostituiti perché il management
si autodisciplini e gestisca l’impresa negli interessi degli azionisti.
- Oppure la seconda lettura prevede che ci sia scarsa efficienza del mercato di controllo per
l’esistenza di barriere strutturali che rendono difficili effettuare una scalata, soprattutto per le
imprese di grandi dimensioni.

• Barriere strutturali che ostacolano i takeover:


- Resistenza della target = i manager possono tentare di opporsi alle scalate ostili attraverso
greenmail, poison pills, altri strumenti manageriali.
- Costo dell’operazione = i rider deve convincere un numero sufficiente di azionisti a vendere le
azioni attraverso l’offerta di un premium price (premio di controllo – sovrapprezzo). Quello che
il rider residua può non essere sufficiente a ripagare i costi di transazione e i costi di
risanamento, il costo è troppo pesante per il rider.
- Limiti finanziari = nelle imprese soprattutto di grandi dimensioni si ha una capitalizzazione
alta (numero di azioni per prezzo unitario di borsa), questo valore può essere molto elevato.

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Dunque per poter effettuare un takeover, il rider deve avere aiuto da un sistema finanziario,
spesso infatti queste operazioni non vengono effettuate perché è presente un’inadeguatezza del
sistema finanziario. Ad esso si aggiunge anche la restrizione del credito/alti tassi.
- Ostacoli politici = i manager che stanno subendo un’acquisizione possono trovare alleati nel
modo finanziario, imprenditoriale, nei governi, nei media.
Quando la scalata avviene da capitali esteri possono intervenire governi per difendere le
imprese e i patrimoni nazionali.
- Vincoli normativi = l’antitrust regola il mercato e può opporsi a operazioni che limitano la
concorrenza evitando posizioni dominanti sul mercato.
In concreto solo una parte delle società con cattive performance, riconducibili al management,
vengono effettivamente acquisite perché il solo mercato del controllo risulta insufficiente per
disciplinare la discrezionalità manageriale, causa la presenza di queste barriere strutturali.

II. I mezzi di superamento delle barriere strutturali.


Se guardiamo a due limiti particolari, limiti finanziari e costo dell’operazione, c’è una possibilità di
superarli attraverso un’operazione chiamata leveraged buy-out/acquisizione tramite debito: una
tecnica di acquisizione, realizzata attraverso una new company, in cui le liquidità della target sono
usate per finanziare l’operazione.
Ci sono 3 fasi di levarage buy out (LBO):
1) L’acquirente costituisce e controlla la new company e i finanziatori concedono il debito.
2) La new company acquista e controlla la target, la liquidità che la newco ha ottenuto viene
trasferita alla target.
3) La new company e la target si fondono e la liquidità che la target ha incassato per effetto
dell’acquisizione viene utilizzata per pagare i debiti accesi dalla new company. La società che
nasce viene controllata dall’acquirente.
Gli aspetti salienti sono:
- Utilizzo liquidità target a garanzia dell’operazione.
- Acquisto da new company tramite riscorso al debito.
- Post acquisizione la fusione new company/target e l’utilizzo liquidità generata dalla target per
rimborso debito.
I limiti di queste operazioni sono:
- Assenza immissioni mezzi propri della newco/acquirente può rappresentare l’incentivo ad
effettuare queste operazioni anche in assenza di una sostanziale giustificazione economia
perché rientrano nell’ambito di motivazioni meramente di ambizione personali di dirigere
un’impresa di grandi dimensioni.
- Si ha un elevato indebitamento della società derivante dalla post fusione, il che appesantisce la
struttura dei costi e limita la possibilità di accedere a nuovi finanziamenti per investimenti per
poter crescere (si deprime l’attività operativa compromettendo le possibilità di sviluppo).

Investitori istituzionali e altri azionisti.


Gli Investitori Istituzionali sono gruppo composito di investitori che investono in borsa come
elemento principale o comunque abituale della loro attività, i principali sono:
• I fondi di investimento raccolgono capitali da sottoscrittori privati e li investono in azioni,
obbligazioni e altri titoli.
• I fondi pensione raccolgono prestazioni contributive da date categorie di lavoratori.
• Le compagnie di assicurazione investono nel mercato dei capitali le risorse che ottengono dalla
loro attività principale.
Gli investitori istituzionali tendono ad ottenere il massimo rendimento dai propri investimenti.
Cercano, perciò, di dotarsi di competenze tecniche necessarie a monitorare/condizionare politiche
e performance delle società al cui capitale partecipano (tentano di influenzare la gestione dal
management affinché prendano scelte per produrre rendimento di mercati elevati, ricchezza per gli
azionisti).

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Singolarmente l’investitore istituzionale può ottenere solo una quota limitata di capitale, per
condizionare l’attività delle imprese in cui investe fa leva, per attuare tali condizionamenti,
raggiungendo un peso partecipativo in tal senso rilevante, è l’associazionismo.
Né deriva il possibile attivismo degli investitori istituzionali, il quale è legato alla loro alleanza e la
possibilità di condizionale la performance delle imprese nelle quali investono.
In concreto l’attivismo avviene attraverso:
- Trattative dietro le quinte tra i rappresentati dei fondi istituzionali e dei manager.
- Si cerca di far inserire persone di propria fiducia nella rappresentanza in cda così da fare da
ponte tra investitori istituzionali e l’impresa.
Ma il principale strumento di pressione con cui influenzano il management è la minaccia
implicita/esplicita di liquidare l’investimento/la partecipazione (particolarmente rischioso).
Oppure si rifiuta di sottoscrivere un aumento di capitale sociale, promette un voto contrario in
assemblea mostrando dissenso, infine può annunciare in modo pubblico il proprio dissenso.
Con questi strumenti si agisce su un altro elemento di corporate governance che è la reputazione
dei manager.
Dobbiamo però sottolineare che gli strumenti per fare pressione ai manager ci sono ma sono poco
utilizzati i motivi alla base dello scarso interventismo sono:
• Gli investitori istituzionali sono interessati al profitto/rendimento e non al controllo quindi è
più semplice vendere le azioni se sono insoddisfatti dal management ⇒ l’attivismo è raro!
• Inoltre l’attivismo è connesso alla Politica di portafoglio che gli investitori seguono. Può essere
di due tipologie:
- Indexing → viene attuato quando la composizione del portafoglio istituzionale deve riflettere un
indice di borsa, il controllo e la minaccia risultano essere vani.
- Gestione attiva → la composizione del portafoglio è scelta in base alle attese di
performance/alle aspettative di crescita, diventa uno strumento di pressione.
Spesso gli investitori istituzionali si trovano in situazioni di confitto di interesse, hanno la volontà
di garantire la stabilità delle relazioni con i clienti che destinano i loro patrimoni ai fondi (es. non
compromettono la relazione complessiva del gruppo in cui si trovano, spesso bancario).
Il piccolo azionista da solo non può influenzare il manager, infatti capita che ci siano disturbatori di
assemblea.
Diverso il caso se i piccoli azionisti si associano creano associazioni di piccoli azionisti.
Il principale semento di pressione che utilizzano è la proposta di voto (Stati Uniti) (presentano
indicazioni di comportamento per i manager, ma non ha valore vincolante).
Tentano di fare pressioni di carattere psicologico chiamate ‘moral suasion’.
In Italia dagli anni ’90 si è iniziato a parlare di associazioni di piccoli azionisti ma erano ancora
piccole e poco efficaci. Si volevano avvicinare i piccoli investitori al mercato azionario, era una
forma tutela avere queste associazioni.
Ancora oggi però è uno strumento poco efficace, non esistono ancora studi che l’attivismo e le
associazioni di piccoli azionisti migliorino le performance del management.

Banche e creditori.
Un’impresa si può indebitare attraverso il canale bancario oppure il canale obbligazionario,
entrambi sono strumenti di corporate governance perché in caso di mancato pagamento del debito
si crea il rischio del passaggio di controllo ai creditori, in caso di insolvenza dell’impresa.
La procedura concorsuale del fallimento prevede che in caso di inadempienza dell’impresa, le
banche possano vendere gli asset aziendali in modo tale da ricavare le risorse per le risorse
finanziare per soddisfare i creditori.
Altre procedure concorsuali sono: concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa,
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, amministrazione
straordinaria.

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Sono tutte procedure che mirano a garantire la soddisfazione dei creditori, dove è possibile
mantenendo attiva l’attività d’impresa, e a risolvere l’insolvenza dell’impresa.
In molti casi non è necessario arrivare alla richiesta del fallimento, soluzione estrema, ma è
sufficiente la minaccia di intrapresa di atti monitori oppure di revocare finanziamenti concessi.
Spesso i creditori acquisiscono il diritto ad indicare quali soluzioni devono adottare, prima di
arrivare all’ipotesi di fallimento, come: riallocazione dei costi, inserimento rappresentanza in CDA,
vendita di alcuni asset…

I manager che si trovano a gestire un’impresa fortemente indebitata hanno un maggiore incentivo
a comportarsi in modo diligente e a perseguire risultati economici finanziari positivi, rispetto a
manager che gestiscono imprese lievemente indebitate.
In letteratura ci sono alcuni autori che sostengono che il problema d’agenzia si risolve può
risolversi aumentando, più del necessario, l’indebitamento proprio perché funge da leva per far
comportare i manager in modo corretto.
L’ipotesi del free cash flow (Jensen, 1976) riguarda le imprese che si trovano in costante eccesso di
liquidità nella gestione, ciò rappresenta un incentivo a deprimere l’efficienza dell’impresa e spinge i
manager a svolgere operazioni che portano a vantaggi personali, sprecando risorse.
Così questa ipotesi dice di aumentare il livello di indebitamento per far in modo che l’eccesso di
liquidità venga assorbito nel pagamento di interessi.
Secondo questa prospettiva l’alto livello di indebitamento è lo strumento più efficace per stimolare
il management a una gestione efficiente e attenta a non sprecare risorse.
Le banche possono svolgere attivamente e in modo efficace una sorveglianza sul comportamento
del manager di cui possono beneficiare tutti gli stakeholder, non solo i creditori.
Perché sono in grado di influenzare i manager verso scelte corrette.
L’uso del tasso di interesse può essere un segnale per gli azionisti sullo stato reale di salute
dell’impresa.

Le garanzie a tutela del prestito possono essere reali (beni vincolati al prestito, come tramite
ipoteca) o personali (un terzo soggetto che funge da garante, in caso di inadempienza si sostituisce
automaticamente al debitore inadempiente).
Queste garanzie spingono le banche ad un ruolo passivo perché se concede un prestito garantito da
garanzie reali o personali, non le importa di controllare il management, ma in caso di
inadempienza vende il bene o chiede al terzo di adempiere.
In italia abbiamo una lunga tradizione del sistema creditizio rappresentato da prestiti garantiti, il
che spiega la scarsa attività di monitoraggio delle banche sulle imprese.
Lo strumento più efficace e importante nel mercato dei titoli obbligazionari è rappresentato da
rating di agenzie specializzate → il rating è un voto sulla qualità del debito, sulla probabilità che il
debitore paghi il suo debito. Già essere presi in considerazioni da queste grandi società
internazionali è già di per e una certa garanzia nei confronti degli istituti di credito.

Reputazione.
Il manager può rinunciare a scelte che nell’immediato sarebbero vantaggiose per il timore di
rovinare la propria reputazione e autoescludersi dal mercato.
La reputazione è una risorsa immateriale che il manager ha paura di perdere perché vorrebbe dire
mettere in discussione la possibilità di accedere a mercati finanziari e potrebbe rendere difficile la
sua ricollocazione.
Può essere la risorsa che le autorità pubbliche e gli investitori possono utilizzare per spingere il
manager a svolgere determinate azioni, pratiche e a mantenere comportamenti ideali.

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I codici volontari di governance:
Il primo codice fu il Cadbury Report, 1992, Borsa di Londra e Banca di Inghilterra → contiene dei
comportamenti caldamente suggeriti ma non obbligatori (best practice), sono raccomandazioni di
condotte, gli aderenti devono rispettare le raccomandazioni o, in caso contrario, fornire una
giustificazione (= complay or explain).
Questa forma di soft-regulation punta sui costi di reputazione sulle società che non offrono
giustificazioni adeguate e sulla pressione sul management verso l’adozione di best practice.
I vantaggi di far leva sulla reputazione sono che evita l’imposizione di norme generali rigide che
potrebbero non rispettare le specificità delle singole imprese, raccogliendo le giustificazioni si
riesce ad avere spazio per innovazioni migliorative da parte delle società aderenti (visione più
elastica dell’evoluzione del mercato).
Le principali borse europee hanno adottato codici di autodisciplina modellati sulle specifiche
esigenze locali:
La Borsa Italiana ha pubblicato il suo codice, Codice Preda, nel 1999, aggiornato più volte (ultima
gennaio 2020), si propone di cercare di incoraggiare le imprese a quotarsi e ad avvicinare i
risparmiatori all’investimento azionario.
L’obiettivo principale è creare un mercato di capitali liquido, ampio ed efficiente.
Gli obiettivi del codice di autodisciplina italiano sono:
- Aumentare l'affidabilità delle imprese per gli investitori mediante una gestione efficace dei
rischi e degli eventuali conflitti di interesse tra gestione e proprietà, minoranze e maggioranze.
- Diffondere la conoscenza delle regole di buon comportamento e degli stili per accrescere la
cultura della comunità finanziaria.
- Massimizzare il valore per l'azionista, si dichiara che il perseguimento di tale finalità potrà
innescare in un orizzonte temporale non breve, un circolo virtuoso in termini di efficienza e di
integrità aziendale in grado di ripercuotersi positivamente anche sugli altri stakeholder.
Ultimo aggiornamento Codice Preda gennaio 2020:
Art. 1 – Ruolo del consiglio di amministrazione.
Art. 2 – Composizione degli organi sociali.
Art. 3 – Funzionamento dell’organo di amministrazione e ruolo del presidente.
Art. 4 – Nomina degli amministratori e autovalutazioni dell’organo di amministrazione.
Art. 5 – Remunerazione degli amministratori.
Art. 6 – Sistema di controllo interno e di gestione dei rischi.

Conclusioni:
- Gli strumenti di controllo esterni hanno origini molto differenziate.
- I soggetti che li possiedono sono coloro che hanno prestato i loro capitali alle imprese a titolo di
debito oppure a titolo di rischio (Investitori istituzionali/Piccoli azionisti).
- Esistono strumenti auto-regolamentativi che agiscono come calmiere in quanto assicurano la
trasparenza della comunicazione, costruiscono il capitale reputazionale della società ed
assicurano una buona governance.

Premessa:
• Macro-tema → management e creazione di valore ⬛

• Macro-tema → corporate governance ✓
• Macro-tema → la gestione strategica d’impresa.

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• Macro-tema → la gestione operativa d’impresa.
CAPITOLO 14 – MANAGEMENT: LA DIREZIONE E L’ORGANIZZAZIONE D’IMPRESA.
Premessa:

Introduzione.
La gestione si occupa di far funzionare l’impresa in modo coordinato e finalizzato.
La direzione definisce la strategia e l’organizzazione, la strategia e l’organizzazione indirizzano e
coordinano la gestione dell’impresa.
Le attività di gestione si realizzano tramite:
• Gestione strategica → processi cruciali per sopravvivenza/crescita.
• Gestione operativa → processi operativi di scambio e trasformazione.
La gestione operativa, gestione strategica e strategia non sono indipendenti né autonome l’una
dall’altra, sono aspetti consequenziali, hanno considerato nel loro insieme.
Le attività di gestione strategica e operativa sono due elementi di un unico processo, in tale
processo è coinvolto il management.
Il compito del management (come disciplina) è lo studio dell’economia e della gestione
dell’impresa, intesa come insieme delle attività che consentono di realizzare il processo gestionale
ai diversi livelli gerarchici dell’impresa partendo dalla direzione fino alla parte operativa.

La direzione dell’impresa.
Lo scopo della direzione aziendale è la definizione:
- Dei meccanismi che regolano l’esercizio del potere di governo dell’impresa (governance).
- Degli organi sociali (cda, assemblea…).
- Del capo della struttura manageriale (si occupa della gestione vera e propria dell’impresa).
- Dell’organizzazione.
- Delle strategie.
- Delle politiche di gestione.
Nelle piccole imprese la direzione coincide con il proprietario, il quale dirige l’impresa.
Quindi la direzione, in stretto rapporto con la proprietà, si occupa di:
- Definire l’organizzazione delle risorse e delle competenze in una struttura funzionante in grado
di rispondere alle esigenze del mercato e soddisfare gli obiettivi dell’impresa.
- Definire la strategia competitiva d’impresa e formulare le strategie competitive, selezionando le
aree strategiche d’affari (ASA) in cui operare.
- Partecipare invia iterativa e continua alla formulazione delle strategie operative di competenza
in via prevalente della gestione.
- Allocare adeguate risorse e controllare i risultati e le ricadute delle attività d’impresa
(pianificazione strategica e programmazione e controllo).
L’attività deve essere sempre pianificata (antecedentemente) e controllata.
Chi compone la direzione? Il Top Management comprende:
• General manager (spesso CEO) = è un riferimento per tutta la direzione ed è guida della
strategia dell’impresa e la definiscono.
Può svolgere diversi ruoli:
- Doveri di cerimoniali, di rappresentanza. - Allocazione risorse.
- Portavoce dell’impresa. - Soluzione delle situazioni critiche.

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• Senior manager.
• Direttori di ASA (= singole aree strategiche d’affari).
• Direttori di gestioni operative strategiche.
Per raggiungere performance soddisfacenti sul mercato, la direzione deve possedere:
- Buone competenze manageriali (di chi decide cosa fare).
- Efficace stile di conduzione del personale (stile di conduzione o di leadership adeguato).
- Valori di riferimento per la cultura d’impresa.

I. Stile di leadership.
Lo stile di leadership consiste nel modello di governo dei rapporti di lavoro nell’organizzazione
d’impresa (stile aziendale), il livello di comportamento dei manager rispetto ai subordinati. Esso
può essere autoritario oppure partecipativo.
Tra i due estremi ci sono numerosi stili intermedi che variano in base al grado di libertà/autonomia
dei subordinati (basso in quello autoritario e alto in quello partecipativo).
• Stile autoritario → basato sul comando e sul controllo = autorità.
Si esercita con:
- Comando/controllo che varia in diverse forme come autocrazia, burocrazia, paternalismo.
- È caratterizzato da forti rapporti gerarchici tale che il capo può imporre le decisioni ai
subordinati.
- Il rispetto dell’autorità è basato sulla minaccia di sanzioni per inadempimenti.
• Stile partecipativo → basato sulla ricerca del consenso.
Si preferiscono i processi di influenza pluridirezionale, il leader non impone la propria decisione
ma stimola la partecipazione dei dipendenti alla decisione.
Attraverso comportamenti consultivi e partecipativi si riescono a raggiungere decisioni migliori.
Più le imprese crescono di dimensioni più questo stile si afferma maggiormente, sono necessari
meccanismi di delega e principio di autocontrollo o ruolo di impulso e coordinamento del leader
Una leadership è di successo quando:
- Viene riconosciuta dagli altri e diventa un punto di riferimento.
- Si è in grado di modificazione i comportamenti altrui senza ricorso all’autorità formale ma
facendo leva sull’autorevolezza, frutto del consenso organizzativo.
- È in grado di trasmettere valori umani che deve cercare di declinare anche nell’attività
operativa dell’impresa.

II. La cultura d’impresa.


È l’insieme di principi di fondo, di valori radicati e di modi di pensare che un gruppo di manager ha
sviluppato mentre affrontava problemi di adattamento all’ambiente esterno e di integrazione
interna; sono un insieme di principi, valori che nel divenire della gestione i manager sviluppano
(concetti astratti che trovano manifestazioni reali nel modo in cui il manager guida l’azienda).
Le manifestazioni concrete, a cui il manager deve prestare attenzione, sono:
- I valori e i modi di pensare condizionano le condotte del management, frutto dell’esperienza nel
corso del tempo.
- Le manifestazioni della cultura ne rivelano valori di fondo: creazioni umane, valori ed etica.
Nelle imprese di grandi dimensioni possono esserci una pluralità di culture e sottoculture, nelle
aziende più complesse anche le culture sono differenti per ASA (luogo), funzione o divisione.
Hofstde ha identificato diversi orientamenti che possono influenzare l’impresa e la sua cultura:
Cultura
Provinciale / Forte identificazione con il capo / Orientamento alla professione o al
Professionale contenuto della mansione
Rilassata / Rigida Contesti informali / Contesti altamente formalizzati
Orientamenti

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Al processo / Al
Avversione al rischio / Propensione al rischio
risultato
Attenzione agli stakeholder interni / Attenzione ai consumatori e agli
Interno / Esterno
stakeholder esterni
Alle persone / Al Benessere delle persone prioritario / Focus sul corretto svolgimento
lavoro delle mansioni

Sistemi
Aperti / Accettazione del nuovo e apertura al dialogo anche con soggetti esterni / Ritrosia
Chiusi verso le novità e verso lo scambio di comunicazione

L’organizzazione d’impresa.
Riguarda tutte le attività che definiscono la struttura organizzativa e i meccanismi di
funzionamento dell’impresa, riguarda sia gli aspetti tecnici → struttura organizzativa e gestione del
capitale umano; ma anche l’Information technology.
Questa attività definisce:
- Divisione del lavoro. - Responsabilità.
- Compiti. - Relazioni.
- Poteri.
Organizzare significa ordinare un sistema di parti indipendenti e correlate, ciascuna avente una
specifica funzione o rapporto rispetto al complesso.
A seconda delle scelte effettuate e delle caratteristiche del business, le imprese si dotano di modelli
organizzativi diversi che si differenziano per:
• Grado di accentramento decisionale o delega.
• Livelli di responsabilità.
• Gestione e motivazione del capitale umano.
L’organizzazione definisce una capacità di struttura che si traduce in vantaggio competitivo e
stabilisce i confini dell’attività aziendale (quali risorse interne e come le gestisco e quali acquisto?).
- Scelta e funzionamento di risorse interne.
- Scelte di outsourcing.

I. La struttura organizzativa.
Esistono criteri di divisione e di coordinamento del lavoro tra i membri dell’organizzazione:
- Organi (uffici, reparti, divisioni ... ).
- Attività e compiti (direttive, esecutive, ... ).
- Relazioni (gerarchiche, funzionali, ... ).
L’organigramma è la rappresentazione grafica della struttura organizzativa.
Se combiniamo i criteri di coordinamento e le scelte di divisione del lavoro, otteniamo diversi
modelli di strutture organizzative:
a) Struttura semplice. d) Struttura a matrice.
b) Struttura funzionale. e) Struttura per processi.
c) Struttura divisionale. f) Struttura a rete.

a) La Struttura Semplice → si tratta di una struttura centralizzata, i poteri sono accentrati, è il


classico esempio dell’azienda patronale, dove il proprietario dell’azienda costituisce la direzione
dell’azienda stessa (tipica delle imprese di piccole dimensioni).
b) La Struttura Funzionale → l’azienda è suddivisa in aree omogenee per ambito di attività
(l’amministrazione, gli acquisti, le vendite, l’ufficio tecnico, la
produzione etc.) affidate a manager che dipendono dalla
direzione.
Vantaggio: Specializzazione della divisione del lavoro per
arrivare ad elevati livelli di efficienza.
Svantaggio: Rischio «Comparti Stagni».
Gestione: gerarchia e processi di delega Top-Down.

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c) La Struttura Divisionale → tipica delle imprese complesse che operano in più aree geografiche,
con più stabilimenti o che hanno diverse linee di prodotto.
Vantaggio: Decentramento e Specializzazione.
Svantaggio: Duplicazione uffici.

d) La Struttura a Matrice → è un mix della funzionale e divisionale. Tipico delle imprese che
realizzano grandi progetti.

e) La Struttura per Processi → si propone di ottimizzare i compiti e le funzioni rispetto all’obiettivo


da raggiungere. Assume rilevanza una
figura, quella del process owner, cioè un
manager di linea responsabile di un intero
processo (per le imprese che svolgono
contemporaneamente molte atività).
Questo modello permette di fare riflessioni
anche per far svolgere alcune attività
all’esterno (perché magari non si hanno le
competenze necessarie).

f) La Struttura a Rete → si basa sulla creazione di relazioni molto strette tra diverse parti
dell’impresa, i clienti e i fornitori in modo da creare un
network, una rete. Affermazione correlata alla diffusione
dell’ICT (è la più recente).
È un sistema organizzativo che si basa sull’instaurazione di
relazioni molto strette, le quali possono essere interne (tra più
parti dell’impresa) oppure esterne (tra l’impresa e clienti,
fornitori, altre imprese).
L’organizzazione a rete si articola su più relazioni, cioè procedure di regolamentazione dei rapporti
(consorzi, licenze, contratti, joint-venture).
Si distingue dalla struttura dei processi perché ha un minor grado di specializzazione interna.

II. La gestione del capitale umano.


Spesso è una funzione a sé stante anche nelle imprese di piccole dimensioni.
È diventata sempre più importante perché è emersa l’importanza della scelta ottimale del personale
per avere un vantaggio competitivo a livello strategico.
Si ha una correlazione tra qualità delle risorse umane e attuazione delle strategie in una gestione
operativa efficiente ed efficace.
Gli ambiti di applicazione sono la gestione del personale e la gestione delle relazioni sindacali.
• Gestione del personale:
- Amministrazione del personale → avvio del rapporto lavorativo e continuazione del rapporto
lavorativo.
- Dimensionamento e dinamica del personale → organico e definizione compiti.
- Retribuzione del personale → struttura retributiva e valutazione performance .
- Sviluppo del personale → formazione e percorsi di carriera.

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• Gestione delle relazioni sindacali:
- Analisi e simulazioni → sulle possibili dinamiche delle relazioni sindacali.
- Negoziazioni → con le rappresentanze sindacali circa aspetti dei rapporti di lavoro.
- Normativa e contenzioso → di questioni legali connesse alle norme sul lavoro.

III. Information technology.


Il sistema informativo di impresa (IT) è rappresentato da strumenti tecnici e meccanismi di
funzionamento dei processi di creazione e diffusione delle informazioni e dall’insieme delle
procedure e attrezzature utilizzate per la creazione, diffusione e circolazione delle informazioni.
Compiti dell’IT:
- Elaborazione automatica dei dati → insieme di attività relative alla gestione di procedure di
trattamento dei dati mediante pc.
- Supporti decisionali → attività volte al miglioramento della qualità dei processi decisionali e
include lo sviluppo di supporti informatici e non.

Conclusioni:
- La gestione si occupa di far funzionare l’impresa in modo coordinato e finalizzato.
- È il compito della direzione d’impresa di definire l’organizzazione, ossia struttura organizzativa
e gestione del capitale umano ed Information Technology, e la strategia.

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CAPITOLO 15 – STRATEGIA D’IMPRESA.
Premessa:

Il concetto di strategia.
La strategia è l’attività che consente di indirizzare e coordinar la gestione dell’impresa.
È l’insieme delle scelte di fondo grazie alle quali l’impresa raggiunge i suoi obiettivi.
Il concetto di strategia nasce come programmazione dei movimenti delle truppe e delle navi
(guerra) mentre in campo aziendale nasce come la definizione di finalità e obiettivi di lungo
periodo, la realizzazione delle linee di condotta e l’allocazione delle risorse aziendali.
È un processo dinamico (così come le componenti) di continua ricerca dell’armonia (best fit) tra:
finalità e obiettivi aziendali, risorse aziendali e contesto in cui l’impresa opera.
È il fondamento delle attività di gestione imprenditoriale poiché decide cosa, come e perché
svolgere le attività aziendali nel contesto di un orientamento strategico di fondo attraverso
l’organizzazione aziendale.

L’orientamento strategico di fondo (OFS) rappresenta la visone e identità dell’impresa in termini


di valori e di filosofia di comportamento, è strettamente legato alla cultura.
Connota la parte invisibile del disegno strategico d’impresa, è l’elemento decisivo di indirizzo dei
comportamenti imprenditoriali.
I principali ambiti strategici di azione sono:
• Perché → fini e obiettivi aziendali di fondo che orientano l’impresa in termini di ruolo e in
relazione ai vari interlocutori.
• Dove → campo di attività.
• Come → filosofia gestionale, modo di funzionare, basi su cui intende fondare il confronto con la
concorrenza.
Le differenze tra OSF e strategia.
- OSF → non definito nei dettagli e influenza fortemente la strategia.
- Strategia → ha una maggiore articolazione e fornisce indicazioni sul comportamento da
adottare.

I livelli di strategia.
L’obiettivo principale della strategia è far corrispondere le competenze interne dell’impresa alle
opportunità offerte dall’ambiente esterno.
È un collegamento tra l’impresa e il suo ambiente esterno.

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Le strategie mediante le quali l’OSF si concretizza si distinguono in 3 livelli:
1º livello — strategia d’impresa → (complessiva/corporate/di
gruppo) si definisce tramite l’allocazione di adeguate risorse e
la selezione delle strategiche aree d’azione (ASA) in funzione
di obiettivi innovativi di lungo periodo (riguarda tutta
l’azienda).
2º livello — strategie competitive → si decide su quai
competenze puntare per raggiungere un vantaggio
competitivo durevole.
3º livello — strategie di gestione operativa → (funzionali)
coinvolgono singoli aspetti della gestione o funzioni,
consentono di realizzare gli obiettivi competitivi e coordinano
gli obiettivi strategici e quelli operativi.

La formulazione delle strategie.


Il processo di formulazione delle strategie si articola nella definizione dei contenuti e delle scelte
relative alla collocazione dell’impresa rispetto allo stato della concorrenza e alle condizioni di
sviluppo del settore di riferimento, nonché alle risorse e competenze possedute.
La formulazione delle strategie poggia sulla valutazione si basa su un sistema di diagnosi duplice:
• Diagnostico esterno → valutazione del grado di attrattività del settore.
• Diagnostico interno (o business audit) → valutazione della tipologia e della qualità delle risorse e
delle competenze che l’impresa possiede. Con esso si valorizzano le risorse chiave e si
evidenziano le carenze dell’impresa.
È uno strumento di ricerca delle opportunità di mercato che valorizzano le risorse distintive
aziendali:
- Consentendo il successo di mercato (vantaggio competitivo);
- Generando valore economico;
- Accrescendo il patrimonio tangibile e intangibile;
- Modificando il portafoglio di risorse disponibili;
- Attivando nuovi contesti aziendali.
È dunque un processo complesso nel quale è fondamentale la pianificazione.

1. La pianificazione strategica.
Il concetto di pianificazione strategica costituisce una metodologia di lavoro volta a dare ordine e
razionalizzare il processo decisionale che deve condurre alla definizione della strategia aziendale.
È incentrata sull’esplicitazione di obiettivi da raggiungere, azioni da attuare, unità organizzative da
coinvolgere, modalità di allocazione delle risorse per la realizzazione delle azioni.
La distinzione tra pianificazione e strategia:
• Strategia → riguarda la scelta delle decisioni essenziali di fondo necessarie a raggiungere un
determinato sistema di obiettivi.
• Pianificazione → riguarda il processo decisionale, procedura attraverso la quale si definisce la
strategia.
Il concetto di pianificazione strategica si riferisce alla logica e al processo attraverso cui si previene
a tali scelte strategiche.
La relazione tra pianificazione e strategia presenta una forte interrelazione (mezzo/fine) tuttavia la
strategia non ha sempre bisogno della pianificazione, perché può distinguersi tra:
- Strategie esplicite → sono l’output del processo formale di pianificazione e sono enunciate in un
documento ufficiale di piano.
- Strategie implicite → sono il risultato di un processo decisionale destrutturato, diffuso in tutta
l’organizzazione (come nelle piccole-medie imprese o a conduzione familiare).

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Spesso le imprese prendono decisioni strategiche ma soltanto alcune di esse sono esplicite, su
questo la pianificazione strategica deve essere intesa anche come strumento di monitoraggio
costante dell’ambiente esterno, delle capacità dell’impresa e degli obiettivi dell’impresa.
La conseguenza del monitoraggio è un ri-orientamento dei comportamenti in relazione
all’evoluzione dei fattori monitorati (es. costi e qualità fattori produttivi, andamento della
domanda, condizioni del mercato finanziario, sviluppi tecnologici…).
Gli obiettivi del monitoraggio sono quelli di mantenere:
- Coerenza interna → formulazione di strategie coerenti con gli obiettivi e le risorse disponibili.
- Coerenza esterna → coerenza delle strategie con le minacce e le opportunità che provengono
dall’esterno.
Il ciclo di pianificazione prevede 3 momenti/fasi ben distinti:
1° step — Pianificazione strategica.
È svolta a livello corporate nelle società che operano in più settori e si occupa della formulazione
esplicita delle strategie.
Il risultato è il piano strategico pluriennale, documento in cui sono contenuti i seguenti elementi:
espressione e formalizzazione delle scelte di fondo, linee guida per l’attuazione delle scelte, azioni
da intraprendere per raggiungere gli obiettivi e infine individuazione/assegnazione delle risorse
alle aree aziendali.
2° step — Programmazione (o pianificazione) tattica.
Segue la pianificazione strategica in quanto si occupa della realizzazione concreta delle strategie
definite da essa.
Vengono definiti i programmi di azione, l’allocazione delle risorse finanziarie alle diverse unità
aziendali e i parametri di performance per la valutazione dei risultati.
3° step — Budgeting.
È la fase nella quale si realizza concretamente l’allocazione delle risorse alle singole aree/unità
aziendali attraverso la proiezione di costi/ricavi di ASA e per unità gestionali.
L’effetto a realizzazione delle strategie richiede la destinazione di risorse a:
- Attività routinarie → complesso di attività aziendali di natura corrente.
- Attività strategiche → sviluppo di nuove opportunità di business.
Dunque i fondi allocati possono essere distinti in:
- Operativi (o ordinari) → dedicati al mantenimento del posizionamento strategico attuale.
- Strategici → destinati a finanziare programmi di sviluppo.
L’insieme di tutti i budget aziendali prende il nome di ‘master budget’; accanto a questo ciclo di
pianificazione aziendale è presente un ciclo di controllo dei risultati ottenuti (per ottenere
feedback). Spesso si distingue il controllo direzionale dal controllo operativo:
- Il controllo direzionale è il processo attraverso il quale il management aziendale assicura che
l’impresa metta in atto le strategie in modo efficace ed efficiente.
- Il controllo operativo sono attività dirette a garantire che specifici compiti siano eseguiti in
modo efficace ed efficiente.
La fase di controllo si concentra sulla valutazione della performance sulla base di parametri di
confronto con previsioni e dati forniti dal master budget.
Il processo di pianificazione aziendale si conclude con la definizione dei budget gestionali, ovvero si
esplicitano le diverse attività che andranno a compiersi e le modalità di azione di esse.

I. Dimensioni della pianificazione strategica.


• Dimensione analitica → è riferita al contenuto di razionalità del processo, è inerente alla logica
della pianificazione come momento decisionale.
• Dimensione interattiva → non sempre è perfettamente razionale, è riferita agli aspetti
processuali.
Le due dimensioni sono presenti in ogni sistema di pianificazione, è possibile che l’una prevalga a
scapito dell’altra.
La scelta della dimensione da privilegiare dipende dal contesto ambientale in cui l’azienda opera.

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Alle due dimensioni è possibile associare una serie di funzioni svolte dalla pianificazione (le prime
due riguardano la dimensione analitica mentre le successive quella interattiva):
- Funzione decisionale → è utile per il miglioramento dei processi di formulazione delle decisioni
e per la creazione di un serbatoio di studi e competenze.
- Funzione di gestione del cambiamento → è utile per la creazione di un atteggiamento favorevole
al cambiamento, evidenza delle discrepanze tra impresa e ambiente e pone freno
all’irrigidimento culturale.
- Funzione di comunicazione → aiuta alla creazione di un linguaggio comune all’interno
dell’organizzazione ed è uno stimolo alla partecipazione e al coordinamento.
- Funzione di motivazione → si occupa di assegnazione di obiettivi stimolanti, rafforzamento
della cultura aziendale e della coesione interna.

Conclusioni:
- La strategia è il mezzo attraverso il quale è possibile instaurare il collegamento tra l’impresa e
l’ambiente esterno.
- La gestione aziendale strategica richiede l’implementazione di processi in fase sequenziale e
continua: dall’OSF, alla formulazione della strategia ai vari livelli, alla pianificazione, ai
processi di gestione (strategica e operativa), al controllo.

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CAPITOLO 16 – STRATEGIE COMPETITIVE: FONTI E DINAMICHE.
Premessa:

Introduzione.
Il vantaggio competitivo è la condizione che consente alle imprese una perdurante superiorità dei
propri risultati economici rispetto ai propri concorrenti (Grant, 1995), consente di ottenere in
maniera prolungata nel tempo, risultati economici maggiori rispetto ai suoi concorrenti.
L’analisi dell’origine della competitività dell’impresa, dunque la capacità di determinate imprese di
ottenere risultati stabilmente superiori, ha stimolato un fervido dibattito in letteratura sulle fonti
del vantaggio competitivo:
- Anni ’80 → approccio Porteriano (Porter): basato sull’analisi della posizione dell’impresa
all’interno del settore e delle forze competitive. L’attenzione è posta sul come ottenere la
superiorità dei risultati aziendali, ossia attraverso il perseguimento di determinate strategie.
- Anni ’90 → approccio Resource-based view (Barney, Grant, Hoopes, Madsen, Walker): basato
su cosa supporta l’esistenza di un vantaggio competitivo, ovvero le risorse delle imprese che
determinano le strategie che può attuare e la performance sul mercato.
- Anni 2000 → approccio delle capacità dinamiche (Teece, Pisano, Schuen): approccio resource
based che tiene conto di continui cambiamenti tecnologici e ambientale, identificando le
capacità dinamiche quali fonti del vantaggio competitivo in contesti estremamente dinamici.
- Recentemente → accumulazione del capitale intangibile.

Le strategie di posizione come fonti del vantaggio competitivo.


I. Porter: la catena del valore.
L’elemento fondamentale del vantaggio competitivo risiede nella catena del valore, la quale è un
insieme di attività condotte nell’impresa e ciascuna di queste attività, in modo separato, può
supportare un vantaggio competitivo di costo, di differenziazione o focalizzazione.
Porter vede l’impresa come un insieme di attività separate o comunque separabili.
Identifica due tipi di attività: primarie e di supporto, ciascuna attività presa singolarmente
contribuirà ad aumentare il vantaggio competitivo.

Le attività primarie rappresentano l’attività operativa dell’impresa, nelle fasi di acquisto,


trasformazione e vendita.
Contribuiscono direttamente alla creazione dell'output (prodotti e servizi) di un'organizzazione.
Abbiamo:
• Logistica in entrata → comprende tutte quelle attività di gestione dei flussi di beni materiali
all'interno dell'organizzazione.
• Produzione di beni e servizi.

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• Logistica in uscita → comprende quelle attività di gestione dei flussi di beni materiali all'esterno
dell'organizzazione (es. gestione ordini).
• Marketing e vendite → attività di promozione del prodotto o servizio nei mercati e gestione del
processo di vendita (es. attività di scontistica, comunicazione, scelta dei canali di
distribuzione…).
• Servizi → tutte quelle attività post-vendita che sono di supporto al cliente (es. assistenza
tecnica).
Le attività di supporto non contribuiscono direttamente alla creazione dell'output ma sono
necessari perché quest'ultimo (attività primarie) sia realizzato al meglio.
Supportano tutte le attività primarie, vi è una prospettiva trasversale.
Abbiamo:
• Infrastrutture → tutte le attività di supporto all’intera catena del valore (Direzione generale,
pianificazione, amministrazione, finanza, gestione della qualità ecc.).
• Gestione delle risorse umane → ricerca, selezione, assunzione, addestramento, formazione,
aggiornamento, sviluppo, mobilità, retribuzione, sistemi premianti, negoziazione sindacale e
contrattuale, ecc.
• Ricerca e Sviluppo (R&D, Research and Development) → tutte quelle attività finalizzate al
miglioramento del prodotto e dei processi.

La differenza tra il prezzo (che i clienti sono disposti a pagare) e i costi delle attività generatrici di
valore rappresenta il valore aggiunto (il margine).
Possiamo migliorare il margine attraverso le strategie di base, le quali sono perseguite
introducendo miglioramenti nelle attività (primarie e supporto) che l’impresa svolge al suo interno.
Ogni attività contribuisce alla generazione di valore aggiunto, supportando così il vantaggio
competitivo dell’impresa.

II. Le strategie di base.


Il vantaggio competitivo, secondo la prospettiva porteriana, si ottiene perseguendo una delle
“strategie di base” (l’impresa deve sceglierne una, sarebbe in difficoltà se stesse “nel mezzo”).
Le strategie si distinguono sulla base del fattore
competitivo su cui possono far leva tramite il costo (offro
lo stesso prodotto ma a un prezzo inferiore) oppure
differenziazione (cliente riconosce un prezzo superiore
per il prodotto).
Inoltre si distinguono sull’ambito di mercato, se
riguardano tutto il mercato oppure solo un segmento.

• La Leadership di Costo → l’impresa produce a costi inferiori rispetto ai concorrenti il medesimo


prodotto.
Il vantaggio competitivo scaturisce da una maggiore capacità di economizzare i costi da parte
dell’impresa.
Nel perseguire l’obiettivo della leadership di costo l’impresa non deve perdere di vista gli
elementi essenziali del prodotto, ovvero non bisogna privare il prodotto di quelle caratteristiche
ritenute basilari dal mercato/gli aspetti minimi.
Diventa fondamentale analizzare i bisogni e le richieste del mercato.
Le fonti, per ottenere vantaggi di costo, possono essere diverse, innanzitutto economie di scala
ed economie di apprendimento (l’azienda scende lungo la curva dei cost medi e ottiene effetti positivi col
tempo), poi abbiamo tecniche di produzione (automazione) e progettazione di prodotto, costo degli
approvvigionamenti e infine utilizzo della capacità produttiva (risparmi sull’acquisto materiali).
In generale questa strategia può essere perseguita quando la produzione riguarda prodotti
standardizzati.
(Es. Dacia – esempio dell’innovazione di ritorno: concepita inizialmente per paesi emergenti).
(Es. Ikea – prezzi di fornitura ridotta e surplus per fornitura e montaggio + pallet in cartone).
La ricerca di una leadership di costo deve essere continua.

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• La Differenziazione → l’impresa produce prodotti differenti (o percepiti come tali) per i quali il
consumatore è disposto a pagare un prezzo più elevato (Premium Price).
Il presupposto del vantaggio competitivo è che il sovrapprezzo ecceda i costi sostenuti per la
differenziazione.
Tutte le imprese hanno la possibilità di differenziare il proprio prodotto ma l’importante è che
venga percepita e valutata dai clienti (è necessario conoscere i gusti e le preferenze del
mercato).
La differenziazione del prodotto può essere per componenti:
- Tangibili → prestazioni oggettivamente misurabili.
- Intangibili → migliorare o modificare le interazioni impresa e i suoi clienti in modo da fornire
valore aggiunto a quest’ultimi (es. reputazione ed immagine).
Si può intervenire su tutti gli elementi che influenzano il consumatore a riconoscere la
differenza.
(Es. Acqua Sant’Anna si differenzia grazie all’immagine del brand).
(Es. Starbucks – vende un’esperienza: i valori trasmessi dall’impresa, l’ambiente del punto
vendita, un senso di comunità).

• La Focalizzazione → realizzazione di una delle due precedenti strategie in un segmento limitato


di mercato, il mercato deve essere sufficiente ampio da garantire l’economicità all’impresa.
Si sceglie una strategia di focalizzazione quando i competitor che si rivolgono all’interno
mercato non colgono le reali esigenze di un determinato segmento di quel mercato.
(Es. Ferrari – vantaggio derivante dall’offerta per una clientela ristretta e prodotti particolari).

Nella realtà non esistono strategie di pura differenziazione o pura leadership di costo, ma le
imprese tendono a scegliere sempre una combinazione delle possibilità.

Le risorse come fonti del vantaggio competitivo.


I. La Resource Based View.
Le risorse sono tutti quei fattori che l’impresa può controllare ed utilizzare.
Secondo questo approccio il vantaggio competitivo è determinato dalle caratteristiche delle risorse
a disposizione dell’impresa e la sua capacità di sfruttarle al meglio.
Secondo la classificazione delle risorse (Grant, 1985) esse si dividono in:
- Materiali (impianti, macchinari, materie prime…) o immateriali (brevetti, brand, fiducia...).
- Finanziarie (fondi finanziari di debito o propri).
- Umane (il personale).
Le risorse sono variamente combinate per realizzare le diverse attività aziendali, le differenze nella
capacità di combinazione e aggregazione si definiscono competenze.
Le differenze che si creano tra le imprese sono relative al bagaglio di risorse, le capacità e le
competenze che le imprese sviluppano nel corso del tempo.
Un’impresa che riesce a mantenere un vantaggio competitivo attraverso la RBV riesce ad aggregare
e combinare in maniera unica le risorse, capacità e competenze.
Dunque aggregazione e combinazione di risorse sono le uniche componenti alla base del
raggiungimento e del consolidamento del vantaggio competitivo, attraverso la generazione di
rendite di vario tipo che alimentano il vantaggio competitivo.
Questo approccio enfatizza l’unicità dell’impresa.

II. Risorse e rendite: valore e scarsità.


Le risorse non conducono alla stessa posizione di vantaggio competitivo e sono in grado di
supportare un vantaggio sostenibile nel tempo se possiedono specifiche caratteristiche:
- Valore → devono consentire di cogliere un’opportunità nel mercato ed essere persistenti nel
tempo. Quando un’impresa investe su una risorsa senza valore pone le condizioni per una sua
posizione di svantaggio competitivo.
- Scarsità → devono essere scarse, ovvero essere migliori e non soddisfare tutta la domanda
(rendita ricardiana), non deve essere facilmente accessibile a tutti.

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- Innovatività → devono essere innovative le combinazioni attraverso le quali vengono aggregate
(rendita schumpeteriana).

Le caratteristiche di valore, scarsità e innovatività


sono i fattori di base affinché le risorse riescano a
creare valore di supporto al vantaggio competitivo.
Devono godere di meccanismi di isolamento per le
risorse (es. brevetto), quindi non possono essere
imitate dai competitor.
Infine devono esistere meccanismi di sfruttamento
interni all’impresa che mi permettano di sfruttare le
risorse.
Quindi è necessario che l’impresa abbia una
capacità organizzativa, per sfruttare le risorse, tale
da trasformare il vantaggio competitivo sostenibile
in vantaggio competitivo realizzato.

Le caratteristiche delle risorse dipendono dall’esistenza di opportunità ambientali che l’impresa


deve essere in grado di cogliere attraverso la capacità imprenditoriali.

III. Sostenibilità del vantaggio competitivo: meccanismi di isolamento e capacità di sfruttamento


delle risorse.
• I meccanismi di isolamento.
Sono meccanismi che consentono di mantenere nel tempo le rendite da scarsità dei fattori, seguono
la logica delle barriere all’entrata contro la concorrenza potenziale.
Prevengono la possibilità che gli altri competitor riescano a beneficiare per imitazione degli stessi
vantaggi.
Possono assumere veste formale (es. brevetti, marchi…) oppure informale (es. asimmetrie
informative (= accesso a risorse informative non accessibili a tutti)).
Nella prospettiva della RBV ciò che può consentire la persistenza delle rendite nel tempo è la
natura del processo di generazione delle risorse che hanno originato le rendite.
Secondo Rumelt (1982), Dierickx e Cool (1989) rendono più difficile l’imitazione:
- Diseconomie di compressione temporale → abbiamo un innovatore ‘first mover’ che introduce
un’innovazione per primo e gli imitatori chiamati ‘followers’. Il ‘first mover’ gode di un periodo
di tempo di vantaggio chiamato ‘lead time’ che gli permette di consolidare il suo vantaggio
competitivo, un imitatore non è in grado di risparmiare tempo replicando semplicemente la
risorsa. Durante questo tempo, il first mover, ha la possibilità di creare brand loyalty, leader
tecnologica, ha il diritto di prelazione su risorse scarse e infine può sfruttare i costi, ‘switching
cost’, per passare da una tecnologia a un’altra a proprio favore.
- Dimensione ottima minima → all’aumentare del livello di una risorsa può essere tanto più
semplice aumentare il suo livello se il livello di partenza della risorsa stessa è elevato (es. è più
facile incrementare il livello di brand adwarness se è già alto rispetto a se non è esistente –
campagna pubblicitaria più efficace se l’impresa ha già un marchio noto rispett a duna
sconosciuta).
- L’interdipendenza → l’imitatore dovrebbe replicare anche le condizioni di mercato competitive
che affronta l’impresa da imitare e il livello di partenza delle altre risorse collegate, non deve
imitare solo il prodotto.
- Ambiguità causale → è difficile cogliere il legame/il nesso logico tra le risorse e il vantaggio
competitivo per chi non è dentro alle dinamiche dell’impresa, come i competitor.
- Non mobilità delle risorse → la conoscenza dei gusti e preferenze dei consumatori porta a
sviluppare risorse che generano rendite (risorsa difficile da imitare).
Se la rendita nasce da una di queste condizioni allora essa si preserverà maggiormente nel corso del
tempo.

72
• I meccanismi di sfruttamento.
Per ottenere il vantaggio competitivo reale, non è sufficiente che l’impresa possieda risorse con
valore, scarse e innovative protette dall’imitazione dai meccanismi di isolamento.
È necessario che l’impresa possieda abilità organizzative che consentano di sfruttare il potenziale
delle risorse.
La presenza di meccanismi di sfruttamento diventa un fattore di aggiustamento e consente
all’impresa di beneficiare concretamente del vantaggio competitivo realizzato e sostenibile nel
tempo.
Le risorse quindi devono:
- Avere valore per l’impresa ed essere scarse e generare rendite → processi di creazione e
generazione delle risorse.
- Non essere imitabili a seguito di meccanismi di isolamento ed essere inserite in meccanismi
organizzativi che ne consentano lo sfruttamento → protezione e consolidamento delle risorse.

Le competenze dinamiche come fonti del vantaggio competitivo.


Negli anni 2000 le imprese rinnovano in modo continuo l’assetto strategico generando nuove
risorse e competenze, l’obiettivo è generare nuove strategie del valore.
Le capacità dinamiche sono i processi di integrazione, rinnovo, sviluppano e riconfigurazione delle
competenze distintive aziendali, rinnovando continuamente il proprio assetto strategico.
Consentono all’impresa di adeguare la propria configurazione di risorse e competenze al contesto
competitivo e ai cambiamenti continui, al fine di generare nuove strategie del valore.
Entrano in gioco due elementi:
• Dinamicità → capacità dell’impresa di rinnovare le competenze per la sintonia con l’esterno.
• Capacità → ruolo-chiave del management strategico nell’adattare, integrare, riconfigurare le
risorse e le competenze.
Le capacità dinamiche sono dirette al cambiamento strategico e all'allineamento
dell'organizzazione con l'ambiente (Zahra et al., 2006).
Riguardano le capacità di un'azienda di percepire e dare forma alle opportunità, cogliere le
opportunità e ridistribuire e riconfigurare (creare, estendere e modificare) la loro base di risorse.
Sono competenze distintive i processi di sviluppo di nuovi prodotti, alleanze strategiche e tutti i
processi di cambiamento delle modalità di presentazione al mercato e ai concorrenti attraverso
nuovi modelli produttivi.
Le capacità dinamiche sono il risultato di un percorso di apprendimento nel percorso evolutivo
dell’impresa, non acquisibili dall’esterno.
Alcune capacità sono generate e mutano nel tempo per effetto della combinazione tra meccanismi
di apprendimento basati sull’esperienza e capacità di articolazione e codificazione della conoscenza
ai diversi livelli.
Le capacità dinamiche variano la loro natura in base alla natura del contesto e del mercato e i suoi
cambiamenti (es. se continui oppure se imprevedibili…).
Spiegano perché alcune imprese sono in grado di mantenere un vantaggio competitivo pur
operando in contesti instabili.

Il valore competitivo del capitale intangibile.


Alcuni fenomeni (es. globalizzazione e sviluppi tecnologici) hanno portato all’erosione delle
barriere in entrata di diversi settori legate alla ricchezza di risorse tangibili, spingendo le imprese
alla ricerca di nuove fonti di protezione dalla concorrenza.
Gli asset intangibili rispetto agli asset tangibili (risorse fisiche e finanziarie) sono meno flessibili,
difficili da accumulare e trasferire, dunque difficilmente imitabili e fonti di vantaggio competitivo
se efficacemente gestiti all’interno dell’impresa.
Negli anni ‘80 il 35% circa del valore medio di un’impresa era collegato a beni intangibili il restante
65% erano beni tangibili. Nel 2000 i beni intangibili rappresentano circo l’85% del valore medio.
Quali possono essere le nuove fonti per trovare le fonti intangibili?

73
La sostenibilità aziendale come innovazione nei modelli manageriali basata sulla valorizzazione
delle relazioni con gli stakeholder e sulla capacità delle imprese di integrare strategicamente
obiettivi sociali e ambientali negli orientamenti, nei processi e nelle attività operative.
La sostenibilità permette di accumulare capitale intangibile creando l’opportunità per le imprese di
migliorare la capacità di gestire reputazione, identità, immagine di marca, costruendo la propria
legittimità sociale in modo tale da assicurare nel tempo la creazione di valore.
Il capitale intangibile è l’insieme di fattori immateriali che consentono a un’impresa di
differenziarsi dai propri concorrenti, tra essi rientrano: cultura aziendale, proprietà industriale,
know-how codificato, competenze manageriali, formazione, esperienza del personale, relazioni
esterne.
Il capitale intangibile contribuisce a definire il modus operandi aziendale ai diversi livelli di
produzione, governance, processi di innovazione e relazioni con gli stakeholder.
È tutto quel materiale intellettuale, sapere, informazione, proprietà intellettuale, esperienza, che
può essere messo a frutto per creare ricchezza.
Gli studi concordano sulla distinzione concettuale del capitale intangibile in tre componenti
basilari: capitale umano, capitale organizzativo e capitale relazionale.

I. Capitale umano.
Ha assunto rilevanza solo di recente grazie alle teorie di Becker (1993): il capitale umano assume
valenza competitiva, associa investimenti in formazione, addestramento, welfare organizzativo con
uno specifico tasso di ritorno economico – finanziario. Ma le sue teorie si limitano a considerare
solo gli investi in formazione e sviluppo, prescindono dalle condizioni individuali e organizzative.
Altrettanto importanti sono le teorie di Pfeffer (1994, 1998): riconosce come la creazione di valore a
mezzo capitale umano debba essere il risultato dell’esistenza di diverse condizioni organizzative.
Le condizioni necessarie a valorizzare le persone si identificano:
- La sicurezza del posto di lavoro.
- L’accuratezza nei processi di selezione del personale.
- Il decentramento del potere decisionale.
- La percezione di equità del proprio trattamento economico e la possibilità di apprendimento.
- L’investimento in formazione mirata.
- La percezione di equità organizzativa in termini di status.
- La trasparenza nella diffusione delle informazioni relative al trattamento del lavoro a diversi
livelli.
Queste condizioni allineano gli interessi dell’impresa con quelli del personale, fanno da leva alla
motivazione del personale nonché la disponibilità a contribuire al successo aziendale.
Più di recente il capitale umano è considerato come l’insieme delle conoscenze individuali implicite
e codificate è stato analizzato in relazione allo sviluppo di capacità distintive aziendali e alla
creazione di nuova conoscenza organizzativa.
Può essere sviluppato (formazione) o acquisito all’esterno, le risorse umane non vengono più
considerate come costo ma come asset importante.
Alcuni possibili indicatori sono:
- Employee Satisfaction Index.
- Valore aggiunto/costo del personale.
- Turnover = se elevato è indicatore di problematiche da risolvere.
- % di dipendenti che suggeriscono nuove idee .
- Età media del personale = in relazione anche alla capacità di adattamento.

II. Capitale organizzativo.


Il capitale organizzativo è definito come l’insieme delle risorse di conoscenza, delle capacità di
apprendimento e dei valori condivisi all’interno dell’impresa.
Quando si parla di capitale organizzativo sono distinguibili due livelli, le conoscenze organizzative e
la cultura aziendale.

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1º livello ⇒ asset di conoscenze come lo stock di informazioni, abilità e competenze possedute.
Le forme di conoscenza riguardano:
- Conoscenze tecnologiche → relative a come produrre i beni.
- Conoscenze organizzative → relative a come combinare asset fisici e lavoro in modo efficace ed
efficiente.
- Conoscenza strategica → relativa a come anticipare o reagire a opportunità o minacce
competitive.
Riguardo alle risorse/forme di competenza si possono rilevare:
- Competenza tecnologica → afferenti a ricerca, sviluppo e produzione.
- Competenze di mercato → relativa alla dinamica di mercato e ai processi di distribuzione,
vendita e consumo.
- Competenze integrative → meccanismi di coordinamento delle competenze precedenti.

2º livello ⇒ cultura organizzativa (valori condivisi).


- Comportamenti usati regolarmente nelle interazioni (Goffmann, 1959).
- Le Norme che si sviluppano nei gruppi di lavoro (Homas, 1950).
- I valori dominanti di una organizzazione (Deal e Kennedy, 1982).
- La filosofia che guida la pratica aziendale (Ouchi, 1981).
- Le regole del gioco per rimanere in un’organizzazione (Schein, 1968).
- La sensazione o l’atmosfera che l’organizzazione comunica (Tagiuri e Litwin, 1968).
È definita come l’insieme di assunti di base condivisi da un gruppo sociale, sviluppati nel corso di
fasi di risoluzione di problemi, adattamento a cambiamenti, integrazione interna, tali da poter
essere insegnati ai potenziali nuovi membri del gruppo.
Fornisce ai membri di un gruppo i frame cognitivi che influenzano le modalità individuali di
percezione del contesto, di definizione delle priorità e degli obiettivi, di selezione tra alternative, di
valutazione dei risultati.
Alcuni possibili indicatori del capitale organizzativo:
- % investimenti in R&S.
- Numero di nuovi prodotti.
- Spesa in IT/Fatturato.
- Numero di brevetti.
- % di fatturato investito in asset intangibili.

III. Capitale relazionale.


Il capitale relazione risiede nelle relazioni con le diverse categorie di stakeholder.
Include asset quali la fiducia, le norme di reciprocità e le sanzioni in caso di comportamento
disallineato, le obbligazioni tra le parti.
Il ruolo della fiducia riguarda la qualità delle relazioni con gli stakeholder interni e esterni, di
natura competitiva o sociale.
Alcuni possibili indicatori:
- Nuovi consumatori.
- Customer satisfaction index .
- Numero reclami.
- Brand awareness.
- % di vendite dai clienti fedeli.

I 3 capitali sono i veri componenti che riescono a differenziare l’impresa e rappresentano la vera
componente fondamentale per generare valore e vantaggio competitivo.

Sintesi del vantaggio competitivo secondo la RBV:

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Conclusioni:
- Il vantaggio competitivo è il risultato delle strategie aziendali implementate.
- Le fonti della competitività differenziale di un’azienda sono sostanzialmente riconducibili a tre
teorie: La teoria di Porter, La Resource-Based View,Dynamic Capabilities.
- Le risorse devono avere caratteristiche specifiche per essere in grado di creare un vantaggio
competitivo realizzato.
- Tra le risorse dotate delle caratteristiche specifiche assumono un ruolo sempre più rilevante
quelle intangibili, ovvero legate al capitale di conoscenza.

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CAPITOLO 17 – LA GESTIONE STRATEGICA NEI CONTESTI DINAMICI.
Premessa:

Introduzione.
Il modello del ciclo di vita può essere applicato a:
- Prodotto / settore. - Forme di prodotto (es. suv).
- Classi di prodotto (es. auto a benzina o a - Brand.
diesel o ibride). - Impresa.

Il modello tradizionale del ciclo di vita.


Ruota intorno al concetto di prodotto (o settore) e descrive le fasi tipiche di evoluzione della
domanda di un bene in un determinato contesto concorrenziale.
Come ogni modello si basa su astrazioni, semplificazioni della realtà e ipotesi probabili, in
particolare ipotizza una sostanziale omogeneizzazione tra le imprese che competono nello stesso
settore.
Si caratterizza per rappresentare differenti tassi di crescita della domanda, tiene conto in ogni
stadio i cambiamenti sostanziali delle caratteristiche delle imprese e i cambiamenti significativi
della struttura del settore.

Il grafico presenta grandezze tipiche


economiche finanziarie differenti nel ciclo di
vita dell’impresa.

• Fase 0 (precedente all’introduzione) →


dove l’impresa identifica un’idea di nuovo
prodotto e inizia a svilupparlo.

• Introduzione → il prodotto nasce e viene introdotto nel mercato rappresentando una novità,
non esistono o quasi concorrenti essendo una novità. L’impresa deve costruire il mercato del
proprio prodotto identificando i clienti (analisi dei consumatori) interessati al prodotto
introdotto nel mercato. La problematica principale è la costruzione di una struttura
organizzativa, deve procurarsi tutte le risorse necessarie per questa e la successiva fase.
• Sviluppo → aumentano i profitto e il mercato diventa attrattivo anche per i potenziali
concorrenti, l’obiettivo è consolidare la propria leadership sul mercato e la propria immagine.
L’enfasi si sposta dal prodotto al processo, riducendo i costi di produzione e le imprese
adottano politiche aggressive. Tende a focalizzarsi sul business esistente, non vengono prese in
considerazione innovazioni del prodotto, modifiche, ecc… Si prende in considerazione
l’approccio ai mercati internazionali.
• Maturità → il mercato raggiunge il pieno sviluppo, i profitti si stabilizzano o cominciano
leggermente a scendere. Il rallentamento delle vendite comporta la fuoriuscita del mercato dei
concorrenti più deboli perché la dinamica competitiva diventa più serrata, si affermano le
impese dominanti. L’impresa deve comunque sostenere le vendite e la propria immagine sul
mercato con campagne di marketing e pubblicitarie. Si ha una forte spinta all’integrazione
verticale e alla ricerca dell’efficenza. Si cerca anche la diversificazione dei business, si
considerano varie opzioni.

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• Declino → si moltiplicano i prodotti sostitutivi e un calo fisiologico e strutturale della domanda
che comporta la diminuzione dei ricavi e profitti. Il management riflette sul destino del
prodotto, se mantenerlo nel portafoglio oppure eliminarlo. Il mercato può essere destinato ad
estinguersi lentamente e in questo caso bisogna entrare in nuovi mercati/business. Oppure il
mercato si assesta e resta invariato.
Nella realtà non è così semplice identificare in quale fase è il prodotto e l’impresa, resta però uno
strumento che aiuta l’impresa a ragionar sulle strategie e le condizioni ambientali.

Le fasi del ciclo di vita dell’impresa (modello del ciclo di vita applicato all’impresa).
I. La nascita.
Dice che la nascita di una nuova impresa prende il via da una spinta creativa di un imprenditore
individuale (Schumpeter, 1971), il quale costruisce un’organizzazione intorno a un’idea e ad
una propria azione personale (new venture).
Nasce come sfruttamento di opportunità di miglioramento di prodotti e servizi tramite
l’innovazione incrementale (prodotto migliorato) oppure di innovazione che soddisfi meglio i
fabbisogni di consumo dei prodotti già esistenti sul mercato (prodotto nuovo).
Ovviamente l’opportunità deve essere commercialmente sfruttabile = deve garantire
all’imprenditore uno sviluppo di redditi adeguati.
Il successo economico consegue alla generazione di nuove opportunità a ben determinate
condizioni. Queste opportunità, che spingono all’iniziativa imprenditoriale, nascono di continuo
da:
- Progressi e scoperte tecnologiche.
- Cambiamenti demografici.
- Mutamenti dei gusti e stili di vita dei consumatori.
- Innovazioni normative.
Affinché queste opportunità si trasformino in effettivi successi economici, devono essere rispettate
due condizioni (avere un’idea brillante non basta):
- Il nuovo prodotto/servizio deve essere difficile da imitare (es. brevetto).
- La nuova impresa deve disporre di competenze e risorse adeguate per garantire standard di
qualità adeguati e che sia in grado di operare in condizioni di economicità (equilibrio tra costi e
ricavi).
• Il processo di start-up.
Passi necessari all’avvio dell’impresa:
1) Cogliere l’opportunità → è necessario scovare uno spazio libero sul mercato (discrepanze tra
domanda e offerta) e trovare l’idea per colmarlo.
2) Rifinire l’idea → bisogna adattare l’idea alle esigenze della produzione e alle concrete richieste
degli utilizzatori (è utile sviluppare prototipi e scegliere la strategia di ingresso sul mercato
scegliendo i canali distributivi e il prezzo).
3) Proteggersi dall’imitazione →
- tutela della riservatezza e dell’esclusività delle tecnologie applicate ai prodotti (tutela della
proprietà industriale e protezione del patrimonio informativo aziendale).
- strategie di introduzione sul mercato = rendere più difficile l’ingresso dei concorrenti - es.
“ombrello dei prezzi” (vedi grafico).
4) Costruzione della squadra (teaming) → gruppo di persone destinate a formare il
nerbo/l’ossatura della dirigenza (l’impresa fin ora non è ancora giuridicamente nata).
5) Start-up → nasce una nuova entità giuridica d’impresa, predisposizione di un business plan (o
piano strategico-finanziario).
6) Finanziamento → raccolta delle risorse finanziarie, è un elemento decisivo per l’avvio della
nuova attività (es. dyson ha avuto difficoltà nel reperimento di risorse).
7) Lancio del prodotto → l’introduzione sul mercato del nuovo prodotto.

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L’ombrello dei prezzi è uno strategia in cui inizialmente
l’innovatore tiene un prezzo unitario inferiore al costo
subendo delle perdite per rendere meno attrattiva
l’innovazione alla concorrenza. Nel frattempo
l’imprenditore riduce i costi di produzione e sfrutta al
massimo il ‘lead time’ ottenendo così profitti recuperando
le perdite iniziali subite.
Se l’impresa inizia a fare profitto il mercato diventa
attrattivo per i competitor, i quali entrano nel mercato in
situazione di svantaggio di costo.

La strategia, in fase di nascita, deve essere flessibile, capace di adeguarsi alle instabilità del
contesto ed evoluzioni del settore.

II. La crescita.
Gli elementi di esperienza che il management conosce sono: qual è la tecnologia di successo, la
struttura organizzativa migliore e le strategie di mercato più coerenti.
Le azioni che deve ancora realizzare per poter operare con successo sul mercato sono:
- Superamento barriere geografiche.
- Aumento livelli di produttività (adeguarla alla richiesta del mercato).
- Adeguamento tecnologico.
- Ampliamento/formazione reti di vendita.
La gestione strategica assume un ruolo principale:
- Attenzione verso l’innovazione di processo.
- Assorbimento dei player meno capaci.
- Scelta tra diverse alternative di sviluppo.
Se il mercato cresce l’impresa non deve per forza sottrarre i clienti ai propri concorrenti ma
introducendo varianti nel prodotto può sottrarsi a dinamiche competitive del prezzo.
Conseguenze:
Si ha una modifica della struttura del settore = assorbimento dei player meno capaci, coloro che
non riescono a sfruttare la curva di esperienza ed economie di scala. Il settore diventa più
concentrato con coloro che sono in grado di sfruttare al meglio la situazione.
Durante la fase di crescita caratterizzata da una minor incertezza rispetto agli scenari futuri, infatti
l’attenzione del management si focalizza sulla comprensione dell’ambiente esterno e degli asset
interni dell’impresa.
L’impresa non deve più focalizzarsi sul proprio business ma può scegliere tra le diverse strategie di
sviluppo per far crescere la domanda complessiva e la quota di mercato detenuta.

III. La maturità.
Il rallentamento della crescita della domanda
del mercato crea eccedenze di capacità
produttiva, si verificano fenomeni di
concentrazione settoriale e si intensifica la
concorrenza sul prezzo.
Non essendoci grandi differenze di
performance dei prodotti diventa competitivo
il prezzo, le imprese per sopravvivere devono
ridurre i costi unitari. Coloro in grado di
raggiungere questo obiettivo riescono a
imporsi come Leader di Costo.

79
Le condizioni per la leadership di costo sono:
- Curva di esperienza → maggiore è il grado di conoscenza minore è lo sforzo per farlo.
- Economie di scala → legate alle grandi dimensioni.
- Accesso a risorse produttive a basso costo/costo degli approvvigionamenti.
- Livelli di efficienza operativa elevati, in tutti gli ambiti della gestione → business reengineering,
ovvero la riduzione dei costi generali con azioni di ottimizzazione del management,
razionalizzazione delle mansioni e ridimensionamento del personale.
Tramite lo sfruttamento di particolari «leve»/fattori si può ottenere una fonte di successo:
• Dinamica di nicchia → la stablità o il declino della domanda complessiva possono nascondere
forti oscillazioni riguardante singoli segmenti di mercato. Non tutte le imprese riescono a
raggiungere posizioni competitive all’interno di queste nicchie.
• Dinamica qualitativa → la domanda può essere stabile in senso quantitativo ma mutevole in
senso qualitativo, le imprese devono reagire alla dinamicità del mercato modulando la qualità
della propria offerta.
• Potenzialità innovativa → è possibile che in alcuni settori possano trovare spazio imprese che
puntano sull’innovazione o sull’introduzione di nuove regole competitive.
• Vuoti di offerta → l’apparente scarsa attrattività di un settore può portare ad abbandoni da
parte di imprese interessate ad altri settori che possono far aumentare la domanda per chi
rimane.

IV. Il declino e la crisi.


Le caratteristiche dei settori in declino → progressiva riduzione dei flussi di cassa, dei ricavi e dei
profitti dell’impresa; diverso il caso della crisi vero e proprio.
In generale una condizione di declino, che può essere determinata da un cambiamento dei gusti dei
consumatori, nuove tecnologie ecc, comporta un’eccedenza di capacità produttiva, assenza di
innovazione (di prodotto/di processo), concentrazione (ulteriore fuoriuscita dei competitor più
deboli) e intensità della concorrenza (pochi player si danno grande battaglia per la sopravvivenza).
È importante e decisivo cogliere immediatamente la condizione di declino per misurare la propria
performance e di conseguenza agire (individuare tali prodotti tramite verifica regolare delle
vendite, delle quote di mercato, dei costi e delle tendenze di profitto).
Azioni di riassetto produttivo: ovviamente calando la domanda si ha una riduzione degli
investimenti nella capacità produttiva e si passa ad un orientamento dell’organizzazione alla
flessibilità pensando ad iniziative di diversificazione.
L’impresa può attuare 4 strategie nei settori in declino:
• Strategia di quota → punta a far acquisire all’impresa una posizione di leadership nel settore,
cercando di compensare la caduta complessiva delle vendite con l’aumento della propria quota
di mercato (sottraendo quote ai competitor, oppure posso dar vita a guerre di prezzo, abbassare
le barriere all’uscita per i competitor acquistando per es i loro materiali o contrariamente
rendere difficile, ad essi, la permanenza nel mercato). È necessario fidelizzare i clienti evitando
che passino a prodotti sostitutivi.
• Strategia di nicchia → punta all’occupazione di un segmento della domanda protetto dal declino
(cerca di diventare leader di una nicchia); in questo caso si possono riproporre, a livello di
segmento, le medesime mosse viste a livello di strategia di quota.
• Strategia di mietitura → l’impresa mira a ottenere il massimo ritorno finanziario dal business in
declino, evitando nei limiti del possibile di effettuare ulteriori investimenti; ridurre il numero di
varianti per il consumatore e ove possibile innalzare i prezzi di vendita, cercando allo stesso
tempo di tagliare tutti i costi per attività non essenziali.
• Strategia di disinvestimento → punta alla dismissione delle attività, per destinare le risorse
ottenute a nuovi business, secondo una logica di gestione del portafoglio (viene liquidata
l’attività e si cercano nuovi business). È necessario che venga messa in atto nelle fasi iniziali del
declino altrimenti diventa difficile liquidare l’impresa.

Si possono classificare le strategie in base alla posizione competitiva (relativa all’impresa) e a


seconda della struttura del settore (relativa all’ambiente esterno).

80
Nella condizione peggiore l’impresa deve
procedere con un disinvestimento rapido;
caso opposto è quando possiede vantaggi e la
struttura è favorevole, opterà così per
strategia di quota o nicchia.
Gli altri sono casi intermedi.

Esiste però la possibilità, anche nei settori in declino, di innovare e rilanciare significativamente
l’offerta/prodotto (es. agendo sulle prestazioni accessorie)(es. pringles) anche se il business era in
fase di declino.

La crisi si caratterizza con perdite economiche forti e strutturali, con manifestazioni non
occasionali di insolvenza.
Queste situazioni dipendono da fenomeni complessi e frequenti che configurano uno stato
patologico, l’impresa non riesce più ad operare in normali condizioni economiche-finanziarie.
Si possono distinguere:
- Cause primarie → fattori ambientali esterni e fattori aziendali di carattere strategico
(disallineamento strategia e ambiente esterno), finanziario-societario (relativi all’assetto delle
fonti, degli impieghi e dei collegamenti societari), organizzativo (venir meno della qualità,
efficienza…) o straordinario (eventi accidentali legati ad errori aziendali che sfuggono al
controllo oppure di carattere doloso es. spionaggio di dati, boicottaggio da parte dei
competitor).
- Cause secondarie → aggravano la situazione di crisi e intervengono dopo le cause primarie;
possono essere imputate all’inadeguatezza management, all’erosione del sostegno stakeholder,
alle crescenti inefficienze, al deterioramento clima interno/processi decisionali.
Purtroppo oggi la possibilità di incorrere in crisi è aumentata a dismisura e si riscontra una
sostanziale impreparazione del punto di vista gestionale, manca una sorta di cultura della gestione
della crisi (orientamento strategico di fondo), la si vede ‘lontana’, che può accadere agli altri e non a
noi.
Ciò porta a non valutare bene i primi segnali e l’impresa a non agire correttamente sottovalutando
la situazione.
La strategia principale di fronteggiamento della crisi è il Turnaround = è un cambiamento rapido, a
volte traumatico, volto alla rimozione delle cause della crisi in modo tale da ristabilire le condizioni
gestionali ordinarie d’impresa. È necessario un processo di negoziazione e composizione di
interessi contrapposti degli stakeholder.
Come avviene? Bisogna fornire garanzie per gli stakeholder, ridurre le inefficienze, contenere i costi
(retrenchment) e infine sostituire il management.

Conclusioni:
- La gestione strategica di un’impresa non è un elemento statico.
- Le strategie sono influenzate dalle diverse fasi del ciclo di vita del prodotto
- Ciascuna fase richiede decisioni specifiche, in risposta alle caratteristiche che la
contraddistinguono.

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CAPITOLO 18 - LE STRATEGIE DI CRESCITA.
Premessa:

Introduzione.
I compiti della gestione strategica sono la definizione delle opzioni di crescita all’interno del
principale processo strategico aziendale rappresentato dallo sviluppo.
Le strategie di crescita sono attuabili attraverso modalità realizzative differenti come: la crescita
interna, la crescita esterna, crescita per accordi.
Le operazioni strategiche e i percorsi di sviluppo hanno natura trasversale rispetto al ciclo di vita,
nel senso che possono essere utilizzati in ogni fase del ciclo di vita, dalla nascita al declino
dell’impresa.

La gestione strategica delle opzioni di sviluppo dell’impresa.


Vi sono tre strategie che individuano le traiettorie della crescita:
I. Espansione o concentrazione nei business esistenti.
Lo scopo è il miglior sfruttamento del patrimonio di competenze ed esperienze già possedute
dall’impresa, opera attraverso due direttrici:
- Sviluppo orizzontale → ha l’obiettivo di allargare lo spettro operativo (monosettoriale) tramite
l’acquisizione di imprese concorrenti ed ampliando la gamma di prodotti/servizi esistenti.
- Integrazione verticale → propone di allargare lo spettro operativo tramite l’internalizzazione di
attività svolte da clienti o di attività svolte da fornitori.
II. Diversificazione in nuovi business o produttività.
- Diversificazione correlata → valorizzazione positiva delle interrelazioni tra vecchie e nuove ASA.
- Diversificazione conglomerale o non correlata → sviluppo di nuove attività non collegate a
quelle esistenti.
III. Espansione internazionale.
Processo di espansione e crescita verso mercati geograficamente diversi da quello nazionale.

Focus sulla diversificazione.


La diversificazione è una scelta strategica con cui l’impresa allarga l’ambito delle sue attività in
termini di prodotti venduti o di mercati serviti. Può essere vista come l’aggiunta di attività
appartenenti a filiere differenti (≠ integrazione verticale, stessa filiera).
Si distingue fra diversificazione correlata e non o conglomerale:
• Diversificazione correlata → l’impresa intraprende una crescita lungo una direzione prossima a
quella già esistente, mantiene inalterato il gruppo di clienti a cui si rivolge. Colloca i nuovi
prodotti attraverso i vecchi canali distributivi e conserva
il proprio posizionamento strategico in termini di prezzo
e qualità (percorso 1). Si ha anche quando le nuove aree
di attività riguardano una clientela di tipo simile a quella
dei prodotti esistenti e una tecnologia simile a quella
originaria (percorso 2).
• Diversificazione conglomerale o non correlata → passa a
business completamente nuovi, sia sotto il piano delle tecnologie sia dal punto di vesta dei clienti
(percorso 3). Si caratterizzano per inglobare attività senza alcun legame industriale, ciò richiede
una netta separazione delle responsabilità gestionali relative alle varie aree di attività.

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La strategia della diversificazione, è redditizia nel lungo periodo se offre tangibili vantaggi
economici, può offrire quattro tipi diversi di economie:
i. Sinergie → si realizza una sinergia quando lo svolgimento congiunto di due o più attività porta
a un risultato superiore a quello dato dalla somma dei risultati che si ottengono dalle stesse
attività se svolte separatamente.
ii. Economie di campo → sono costituite dai risparmi di costo che derivano dalla presenza
contemporanea in più settori di attività. Il ruolo di queste economie è stato evidenziato da uno
studio di Prahalad e Hamel 1990, il quale dice che: le imprese eccellenti tendono a definire la
propria missione in termini di competenze qualificanti l’impresa, o core competence, piuttosto
che di mercati e prodotti. Si pongono l’obiettivo di sviluppare tecnologie superiori in modo da
tradurle in beni di consumo in tutte le applicazioni possibili.
iii. Economie finanziarie → la diversificazione determina il formarsi di un gruppo complesso di
imprese e, allo stesso tempo, di una sorta di mercato finanziario interno. Nel gruppo, infatti, si
vengono a creare divisioni che producono e divisioni che assorbono risorse finanziarie. Un
gestione finanziaria centralizzata permette di minimizzare il ricorso a finanziamenti esterni e
fornisce vantaggi in termini di efficienza (rapido spostamento di risorse dove necessario).
iv. Riduzione del rischio → se i settori di attività in cui opera un gruppo differiscono in termini di
tecnologie coinvolte, mercati nazionali di riferimento, materie prime utilizzate, allora il rischio
strategico complessivo viene significativamente ridotto rispetto a un’impresa monobusiness.
Diversificare il rischio significa diversificare anche la reazione al ciclo economico.

I. La crescita interna.
Avviene attraverso un processo di sviluppo delle unità esistenti dentro una struttura societaria ben
determinata.
Le finalità della crescita interna si orientano all’innovazione e alla costruzione di nuove competenze
distintive. Inoltre valorizza le competenze interne puntando su uno sviluppo graduale delle
potenzialità delle insorse utilizzate parzialmente.
Spesso le imprese sviluppano imprenditorialità interna (intrapreneurship o corporate
entrepreneurship) ovvero soluzioni organizzative idonee a facilitare lo sviluppo di nuove attività al
proprio interno.
Ma non tutte le imprese sviluppano nuovi business
allo stesso modo, la figura mostra quattro differenti
approcci all’imprenditorialità interna basati su
combinazioni di due dimensioni complementari
(l’autorità sulle risorse da investire nello sviluppo e
le responsabilità interne per lo sviluppo e creazione
di opportunità di crescita).

II. La crescita esterna.


Gli obiettivi della crescita esterna sono quelli di acquisire: una disponibilità di una marca
conosciuta e appezzata da una clientela fedele, il godimento di brevetti, autorizzazioni e concessioni
e infine punti di forza difficilmente imitabili (tecnologia, risorse umane…).
Si realizza tramite acquisizione di imprese già operanti (trasferimento della proprietà di
un’azienda) oppure tramite fusione (per incorporazione di una società già esistente oppure per
consolidamento mediante costruzione di una società nuova).
I vantaggi che presenta sono che si realizza in tempi brevi (e rappresenta un minor costo rispetto
all’investimento diretto). La crescita, infatti, può essere rapida se si sfrutta l’occasione fin da subito
e inoltre rende più facile il superamento di barriere all’entrata.
La necessità di disporre di risorse finanziarie liquide (un modo di ovviare è lo scambio di azioni
anziché moneta come mezzo di pagamento) e la chiusura/avversione del modello capitalistico
italiano, rappresentano gli svantaggi di questa crescita.

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Differenze tra crescita esterna ed interna.
La crescita esterna si differenzia da quella interna in parte per la natura giuridica: quella esterna si
realizza mediate operazioni di acquisizione mentre quella interna avviene attraverso un processo di
sviluppo delle unità già presenti dentro una data struttura societaria.
Anche dal punto di vista strategico differiscono, la crescita esterna ha finalità di rafforzare il potere
di mercato mentre la crescita interna ha un’orientamento all’innovazione e alla costruzione di
nuove competenze distintive.
La crescita esterna può realizzarsi in tempi brevissimi ma pone seri problemi di integrazione delle
attività e stili di direzione mentre la crescita interna è un processo lento ma porta alla costruzione
di un tutto armonico naturalmente.

È da ricordare che esiste anche la crescita collaborativa o contrattuale ovvero una modalità di
crescita basata sui rapporti di collaborazione con soggetti terzi, cioè accordi tra imprese.

La focalizzazione sul core business.


I. Sviluppo orizzontale.
Le strategie di focalizzazione sul core business dovrebbero essere intraprese come opzioni
strategiche di rafforzamento o di assestamento dell’impresa.
Tali strategie consistono in processi di ristrutturazione nella gestione delle risorse e a difesa delle
posizioni occupare o rifocalizzando l’attività sul core business o sulle competenze distintive.
Corporate restructuring & development e outsourcing (esternalizzaizone) sono le strategie volte a
ridefinire l’organizzazione d’impresa per predisporre uno sviluppo.

II. Riorganizzazione.
Il corporate restructuring punta alla razionalizzazione di settori di attività di un gruppo
diversificato. La politica di fondo consiste nel disinvestimento di attività non fondamentali,
concentrandosi esclusivamente (refocusing) sui settori ritenuti centrali (core business).
Alla base sta la necessità di rimediare a performance inferiori rispetto alla media dei concorrenti.
È un intervento che si adatta a imprese sane ma bisognose di alleggerire la struttura dei costi.
Può agire sulla riconfigurazione del portafoglio di business e/o sull’organigramma aziendale.
Gli interventi sulla struttura organizzativa si concretizzano inizialmente in pesanti tagli
occupazionali, ncessaire per eliminare qualunque componente dell’organizzazione che non crei
valore (a ogni livello).
Le decisioni vengono prese su parametri numerici di efficienza quali:
- Costi fissi/totale vendite.
- Vendite per dipendente.
- Utile per dipendente.
- % Personale di staff sul personale complessivo.
- Valore aggiunto per addetto.

III. Outsourcing.
L’outsourcing è la ricerca sistematica di occasioni di affidamento a terzi pressi in precedenza
realizzati internamente.
È caratterizzato dalla scelta delle operazioni da esternalizzare, generalmente, sono delegate
all’esterno tutte le operazioni no-core.
Al fine di individuare tali processi le imprese possono utilizzare diversi strumenti:
- Consulenza specializzata.
- Confronto con l’impresa esterna interpellata.
- Utilizzo dell’esperienza di altre aziende.
È necessario distinguere la tipologia di outsourcing, la quale può essere:
• Outsourcing completo → esternalizzazione di tutte le operazioni ed attività inerenti ad una certa
funzione aziendale.
• Outsourcing parziale → esternalizzazione di alcune parti dell’intero processo produttivo o di
alcune parti di una funzione aziendale.

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Conclusioni:
- La crescita dell’impresa è un processo che può interessare ogni fase del ciclo di vita.
- Le strategie di crescita possono procedere attraverso linee interne o esterne.
- Allo stesso modo si può procedere rimanendo all’interno dello stesso settore o differenziando il
business all’interno di settori nuovi.
- Quando si sceglie di rifocalizzarsi sul core business, è possibile procedere a ristrutturazioni
interne o a dismissione a terzi di certe attività che non sono più ritenute fondamentali.

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CAPITOLO 19 - LA GESTIONE STRATEGICA DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE.
Premessa:

Processi di espansione internazionale.


Quando parliamo di strategia dell’internalizzazione ed espansione internazionale ci riferiamo alla
strategia diretta ad assicurare in modo sistematico nuovi sbocchi all’estero per le produzioni poste
in essere nel paese di origine o nei paesi stranieri.
Riguarda la scelta di localizzazione parte delle proprie attività al di là dei confini nazionali, può
riguardare la mera destinazione all’estero di parte della produzione (primo passo, il più banale), la
costruzione di un gruppo transnazionale (creando nei paesi esteri vere e proprie filiali), oppure può
portare alla globalizzazione dell’impresa (scegliere di localizzare parte della produzione in un paese
e un’altra parte in un altro paese godendo così di vantaggio in ogni paese, considero il mondo come
un unico mercato).

I. Omogeneizzazione del mercato globale.


Tutti i sistemi economici nazionali sono fortemente interdipendenti fra loro.
Vari fenomeni socio-economici hanno portato a conseguenze come la riduzione delle barriere
culturali, il che ha portato a modelli di consumo più omogenei, e insieme a variabili socio-politiche
di favore hanno favorito i processi di scambio economico tra le diverse nazioni.
I fattori determinanti dello sviluppo sono stati lo sviluppo delle transazioni tra le nazioni e la
conseguente facilità di trasferimento internazionale di beni, servizi, capitali, risorse umane,
informazioni, tecnologie e dati.
Queste condizioni sono state da stimolo per le imprese ad approcciarsi ai mercati internazionali.
All base di ciò vi è un’evoluzione dei vantaggi comparati, ossia le caratteristiche che rendono un
paese più efficiente nella svolgimento di una data produzione di beni/servizi.
Questa maggiore efficienza deriva dalla dotazione nazionale di fattori produttivi che consentono al
paese di produrre godendo di differenziali di costo.
Un paese presenta un vantaggio comparato quando la sua dotazione di fattori produttivi permette
di esportare competitivamente propri prodotti in altri mercati.
Negli ultimi anni si è presente un incessante variazione del vantaggio comparato, anche perché
sono entrate in gioco nuove nazioni.
Un paese può perdere il vantaggio comparato, passa da essere esportatore a importatore, a causa di
un altro paese che possiede maggiormente il fattore produttivo.
Emerge una sorta di concorrenza tra nazioni piuttosto che tra imprese.

II. I cambiamenti nell’economia mondiale.


L’espansione della presenza internazionale delle imprese è riconducibile a 4 fattori (Valdani, 1992):
• La diffusione della tecnologia → ha consentito anche a piccole e medie imprese di accedere ai
mercati internazionali (es. tramite e-commerce, marketing…).
• Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e trasporto → possibilità di spedire merci in tempi
ragionevoli.
• La riduzione delle barriere artificiali istituzionali alla mobilità internazionale → dopo il secondo
dopoguerra si è ridotto il protezionismo (esso può operare sotto forma di dazi doganali oppure
restrizioni quantitative dei prodotti importati) grazie ad accordi tra nazioni, le quali hanno
rinunciato a vantaggi per favorire il libero commercio.

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• L’omogeneizzazione dei bisogni dei consumatori → nascita dei Consumatori Globali, ovvero che
presentano gusti e preferenze simili grazie anche al cambiamento dei gusti dei consumatori (es.
Starbucks in Italia nel 2018)(es. i prodotti che Ikea offre sono molto simili in tutti i paesi).
Il tutto è stato facilitato dal ruolo di Internet.

Internazionalizzazione e globalizzazione.
Il processo di internazionalizzazione (la scelta) è basato sull’interazione su due classi di fattori:
• Interni → il management vede nella crescita internazionale un mezzo per il perseguimento della
missione dell’impresa.
• Esterni → quando sono presenti: condizioni favorevoli di ingresso in un mercato estero o
contesto macroambientale (politico/economico) rassicurante; una struttura settoriale orientata
all’internazionalità (può essere naturale approcciarsi ai mercati internazionali) e infine scarse
prospettive di sviluppo nel paese d’origine.
Il processo di internazionalizzazione può condurre a diversi orientamenti dell’impresa:
I. Impresa internazionale (focus sul paese di origine).
II. Impresa multinazionale (ogni mercato è a sé stante).
III. Impresa globale (un unico grande mercato).
I. Impresa internazionale → sfrutta conoscenze della casa madre per approcciarsi ai mercati
internazionali.
La strategia si basa sul presupposto di esportazione della formula di successo sviluppata nel
paese di origine senza particolari adattamenti (è la semplice esportazione).
Il rischio è di sopravvalutare le differenze culturali e i propri vantaggi competitivi.
È un approccio gestionale di tipo top down, è l’impresa nel paese d’origine che prende le
decisioni e poi le trasmette.

II. Impresa multinazionale → mira a creare una forte presenza locale adattandosi alle differenze
dei diversi paesi.
L’ingresso nei paesi avviene attraverso l’investimento diretto nei paesi di destinazione (destina
una parte dell’impresa, es. parte produttiva oppure commerciale, al paese estero) ex novo o
tramite acquisizione di un’azienda già esistente.
La casa madre vede le filiali come portafoglio di business da gestire, l’approccio è molto più
rischioso e richiede molte più risorse organizzative e finanziarie.
Le sussidiarie godono di un alto livello di autonomia strategica e operativa.
È necessaria la capacità di forte adattamento a ciascun contesto!
Il modello di gestione e pianificazione è bottom-up, il centro (casa madre) ha un potere
decisionale limitato e le decisioni partono dalle filiere e arrivano alla casa madre.
Ciascun mercato avrà il prodotto specifico per il paese, la strategia di prezzo, strategia di
comunicazione…ogni nazione fa conto a sé.
In alcuni casi si cercano Soluzioni Intermedie (perché l’adattamento è molto dispendioso), si cerca
di adattarsi un pò meno, mantenendo per esempio l’impianto di fonti e l’idea di base (oltre che al
brand) cambia però il contenuto del prodotto (es. Knor piatti pronti indiani per mercato indiano).

III. Impresa globale → le differenze nazionali vengono superate e si presentano sul mercato con un
prodotto omogeneo e standardizzato (al massimo piccoli cambiamenti poco costosi), appunto i
paesi di destinazione vengono visti come unico grande mercato.
Le decisioni localizzative sono improntate sulla ricerca di economie di scala e sullo
sfruttamento differenziali locali costo/qualità.

Il processo di internazionalizzazione porta alla globalizzazione del settore e l’orientamento alla


globalizzazione delle imprese tende a rendere globale anche il settore di appartenenza.
Un settore è definito globale quando le imprese che vi operano riescono ad acquisire significativi
vantaggi competitivi integrando le attività su scala globale (ragionando a livello globale).
I consumatori devono essere simili in termini di gusti e comportamenti d’acquisto infatti le
imprese, per essere globali, devono introdurre innovazioni capaci di proporre sul mercato prodotti

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universali identificando segmenti di mercato globale e riducendo i costi di adattamento alle
specificità locali (es. McDonald – solo alcuni piccoli cambiamenti ma il resto è uguale).

Le strategie di internazionalizzazione.
Esse dipendono in primo luogo dalle caratteristiche del settore.
Le forme di strategia nascono dalla combinazione di due componenti:
- Operazione → commerciale o produttiva.
- Investimento → investimenti nazionali o
investimenti diretti all’estero.
Assumono forma differente in base a due
elementi:
• Produzioni all’estero (o meno).
• Investimenti diretti all’esterno (o meno).

Spesso il processo di internazionalizzazione, l’approccio ai mercati internazionali, avviene in modo


graduale, ecco le fasi del processo di internazionalizzazione:
- Esportazioni occasionali indirette.
- Esportazione stabile diretta (rapporti con i clienti senza intermediari).
- Coinvolgimento di partner stranieri (produzione, commerciale…).
- Creazione di filiali (necessario decidere quali decisioni possono prendere le filiali e dove
centralizzare le decisioni).
Dove localizzare le varie attività?
Nei settori globali, si fanno considerazioni di vantaggio comparato (risorse disponibili del paese…)
e si tende a centralizzare in modo diretto le risorse da cui deriva il vantaggio competitivo.

Porter (1987) propone una classificazione delle strategie internazionali basata sulla
concentrazione/dispersione geografica delle attività della catena del valore e sul grado di
coordinamento (alto/basso) delle attività svolte.
Classificazione delle strategie internazionali (Porter):

• Strategia di esportazione con commercializzazione decentrata → si concentrano nel paese di


origine tutte le attività, tranne il marketing e le vendite che si disperdono nei vari mercati-
paese. I mercati-paese sono raggiunti attraverso la semplice esportazione.
• Strategia multidomestica → dispersione delle attività della value chain con ampia autonomia
delle unità locali.

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• Forte investimento all’estero e forte coordinamento delle attività → massima decentralizzazione
delle attività. È necessario un forte coordinamento tra tutte le filiali per controllare la risorsa
strategica connessa al vantaggio competitivo.
• Strategia globale pura → forte centralizzazione delle risorse decisive rispetto ai vantaggi
competitivi.

Ciascun paese è caratterizzato da un proprio macroambiente che richiede un’analisi specifica con
riferimento a fattori specifici ambientali da considerare come:
- Aspetti culturali → è importante conoscere valori, usanze, simboli ⇒ etnocentrismo (: spesso si
valutano/giudicano i fenomeni che accadono in un paese con gli occhi della propria cultura).
Spesso i paesi con forte componente etnocentrica privilegiano i propri prodotti e sono dunque i
più difficili da approcciare (es. Stati Uniti).
- Aspetti economici → sviluppo, ricchezza (potere di acquisto), tassi di cambio.
- Aspetti politico-istituzionali (sistema paese) → rende complesso o meno da approcciare.

Conclusioni:
- Il processo di internazionalizzazione tra origine da fattori interni o da fattori esterni.
- Si tratta di un percorso tipicamente graduale.
- Esistono diverse forme di internazionalizzazione, più o meno impegnative e che possono
tuttavia essere le fasi di un percorso articolato.
- Esiste un rapporto spesso molto stretto, in termini di vantaggi competitivi, tra orientamento
dell’impresa alla globalità e globalizzazione del settore.

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CAPITOLO 20 - LE STRATEGIE COOPERATIVE.
Premessa:

Introduzione.
La strategia collaborativa ha come scopo la ricerca di vantaggi collaborativi relazionali.
La visione relazionale enfatizza i benefici di modelli cooperativi tra attori operanti nel medesimo
settore o in settori differenti.
Diversamente dal tradizionale modello di concorrenza a somma zero, in cui un’impresa guadagna
quote di mercato a scapito di altri (concorrenti o fornitori), i comportamenti cooperativi generano
effetti competitivi non contro qualcuno ma assieme a qualcuno per ottenere mutui vantaggi.

La crescita contrattuale.
Comprende un’ampia tipologia di forme di collaborazione e cooperazione con terzi.
In generale la base economica della collaborazione interaziendale o di un’alleanza strategica
risiede nella possibilità di miglior svolgimento di una o più attività della catena del valore.
I vantaggi perseguiti mediante accordi si possono classificare in:
1) Acquisizione di economie di scala, di apprendimento e di altri vantaggi di costo legati a
sinergie → si realizzano in tempi brevi e con la massima flessibilità rispetto a vantaggi analoghi
ottenuti con la crescita esterna o interna.
2) Accesso ad asset esclusivi → messi a disposizione dal partner in una logica di scambio e
miglioramento comune (es. tecnologie, personale, prodotti, impianti…).
3) Riduzione dei rischi e condivisione degli investimenti finanziari.
4) Unione delle forze per provare a cambiare la struttura settoriale.
I fattori determinanti il successo/insuccesso della collaborazione sono:
- Culture e stili di gestione differenti.
- Compatibilità degli obiettivi strategici/finanziari.
- Compatibilità della cultura organizzativa.
In sintesi la collaborazione richiede:
• Fit strategico → il quale dipende dalla modalità di integrazione risorse dei partner rispetto alla
complementarietà di uso e all’ottenimento di sinergie.
• Fit culturale → che esprime le condizioni buone di convivenza, la condivisione di approcci
generali e lì atteggiamento nei confronti del mercato.

Le forme delle relazioni collaborative/cooperative.


Il vantaggio competitivo relazionale può essere perseguito attraverso diverse forme di accordo e di
cooperazione.
Le relazioni cooperative si distinguono in base all’intensità del rapporto (Barringer e Harrison)
• Relazioni deboli → caratterizzate da una semplice comunanza di interessi.
• Relazioni forti → collaborazione basata su strutture formali quali contratti o scambi di capitale.

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Fra le relazioni deboli ricordiamo:
- Interlocking directorship (o presenza incrociata di amministratori) → la funzione principale di
quest forma di accordo è la possibilità di ottenere accesso a particolari risorse.
- Associazioni di categoria o territoriali → all’interno di un settore si formano solitamente società
senza scopo di lucro con l’obiettivo di raccogliere e distribuire informazioni commerciali,
tecniche, legali (es. ITU).
- Alleanze → sono gli accordi che coinvolgono più imprese su base contrattuale e che possono
riguardare diversi ambiti, manca l’investimento di capitale.
Una particolare forma di alleanza è data dai network di fornitura/distribuzione → sono accordi
realizzati lungo la filiera per ottimizzare le operazioni di acquisto e di vendita.
Le forme di cooperazione a base locale hanno dato ita soprattutto in Italia al fenomeno dei distretti
industriali, ovvero aggregazioni su base locale di piccole e medie imprese alle produzioni simili o
complementari creando delle vere e proprie aree di specializzazione.
Fra le relazioni forti ricordiamo:
- Consorzi → una nuova società è creata attraverso l’apporto di capitale di una serie di
imprenditori con lo scopo di raggiungere obiettivi comuni più efficacemente e/o velocemente
rispetto alla singola iniziativa.
- Joint ventures → due imprese realizzano una terza iniziativa apportandovi capiate e risorse per
raggiungere scopi comuni. La differenza rispetto ai consorzi è data dal fatto che le joint
ventures vedono la partecipazione di poche imprese (spesso solo due).

Motivazioni e risorse coinvolte nella cooperazione.


Le forme di cooperazione e le alleanze hanno due motivazioni principali (secondo la prospettiva
resource-based view):
• Ottenimento di risorse → possibilità di creare/reperire input fondamentali per la propria
attività.
• Difesa di risorse e competenze → possibilità di proteggere elementi cruciali per la propria
competitività.
Sono presenti due categorie di risorse coinvolte in una cooperazione fra aziende:
- Risorse proprietarie → basate su regimi forti di appropriabilità.
- Risorse basate sulla conoscenza → basate su regimi deboli di appropriabilità (il regime di
appropriabilità definisce il livello di proteggibilità delle risorse, se è debole l’esclusione di un
partner dall’utilizzo delle risorse è più complicata).

Quando le cooperazioni richiedono la


condivisione di risorse di conoscenza da entrambi
le imprese è presente il rischio di appropriazione
indebita di una delle due parti, è difficile evitare
l’approfittamento.
In questo caso la cooperazione assume forme
deboli.
Quando entrambe le imprese apportano risorse
proprietarie la cooperazione assume una forma contrattuale debole che consente la condivisione
degli asset e ne disciplina l’utilizzo.
Quando un’impresa apporta risorse proprietarie e l’altra risorse di conoscenza si creano forme di
cooperazione più forti come le joint venture (si è più tutelati dal rischio di approfittamento).

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Il vantaggio competitivo relazionale.
Le diverse forme di cooperazione hanno diversi punti di forza/debolezza:
• Forme deboli → l’investimento e il rischio sono limitati ma può esserci una scarsa incisività
dell’accordo sui risultati aziendali.
• Forme forti → le difficoltà maggiori sono relative alla gestione e al governo della relazione ma
godono di una maggior focalizzazione e potenziale importanza sui risultati.
È possibile creare combinazioni di risorse strategiche specifiche per la reazione in grado di
supportare il vantaggio competitivo anche tramite comportamenti di tipo non concorrenziale, che
nascono dal network di relazioni cooperative fra le imprese.
Le fonti del vantaggio competitivo relazionale sono:
- Investimento dei partner nella relazione → quanto sono maggiori la durata del rapporto e
l’intensità della relazione/cooperazione maggiore sarà la possibilità di costruire risorse e
competenze in grado di supportare il vantaggio competitivo.
- Presenza di meccanismi di apprendimento → utili per apprendere e generare una nuova
conoscenza dell’interazione. È necessario un allineamento degli obiettivi e la capacità di
incorporare la conoscenza generata dall’interazione per poi riproporla in altri contesti, questa
capacità è detta ‘di assorbimento’.
- Presenza di complementarietà delle risorse → uso delle sinergie dalla combinazione delle
risorse, ovvero l’uso di risorse complementari in combinazione fa sì che il potenziale della
combinazione sia superiore alla somma delle singole risorse. L’elemento centrale risiede nella
scelta del partner.
- Presenza di meccanismi di governance della relazione → sia i contratti e le norme, sia
meccanismi di self enforcing, e.g. fiducia e reputazione sono in grado di allineare gli incentivi e
di limitare i comportamenti opportunistici fra le parti.

Conclusioni:
- I modelli di concorrenza tra le imprese stanno assumendo sempre di più forme cooperative,
anziché antagoniste.
- Le forme di cooperazione sono differenti, più deboli e più forti.
- Il vantaggio competitivo relazionale è determinato, secondo la teoria delle risorse, dalla
costruzione di risorse strategiche specifiche per la relazione.
- Esistono, perciò, ben specifiche fonti alla base del vantaggio competitivo relazionale

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CAPITOLO 21 - LA GESTIONE STRATEGICA NEI PROCESSI DI INNOVAZIONE
TECNOLOGICA.
Premessa:

Introduzione.
Nello scenario competitivo attuale, il processo di innovazione è un fattore critico di successo per
raggiungere e sostenere un vantaggio competitivo nel lungo periodo, diventa parte integrante della
gestione strategica.
Nelle imprese si sono dotate di strumenti organizzativi per ottenere Innovazione Continua = ciò ha
portato a moltiplicare l’innovazione sul mercato.

L’innovazione.
I. Fonti:
- Livelli di qualità sempre più elevati richiesti dal cliente.
- Personalizzazione funzionale all’ipersegmentazione del mercato (sottrarsi dalla competizione
dei mercati offrendo ai clienti un prodotto personalizzato fino ad arrivare alla costruzione del
one to one, su misura in base alle sue esigenze (strategia dispendiosa)).
- Necessità di produzione in tempi sempre più contenuti.
- Necessità di produrre a costi compatibili con l’economicità della gestione.
Il contesto competitivo ha reso necessaria una continua innovazione.
II. Definizione.
L’innovazione è lo sviluppo a fini commerciali di nuovi prodotti o nuovi processi atti ad accrescere
le proposta di valore veicolata al mercato mediante beni e servizi (Pivato e altri, 2004).
Quando parliamo di innovazione non facciamo riferimento solo a nuovi prodotti/servizi ma anche
al miglioramento di prodotti o servizi già esistenti, la ricerca scientifica, lo sviluppo tecnologico e
modalità originali/vantaggiose per risolvere un problema/sollevarne uno nuovo (bisogni latenti,
non ancora espressi).
Il fine dell’innovazione è dare un vantaggio maggiore rispetto alla soluzione precedente.
Può differenziarsi per natura o forma.
III. Elementi distintivi.
• Natura:
- Innovazioni radicali → salti di sistemi
tecnologici, rivoluzioni tecnologiche, nascita
di nuovi settori ed effetti combinati su tutti i
business esistenti.
- Innovazioni incrementali → assenza degli
effetti dirompenti dell’innovazione radicale,
effetti diluiti nel tempo (miglioramento
continuo), è tipica dei settori maturi.
• Forma:
L’innovazione è l’insieme di attività necessarie per generare un nuovo prodotto/servizio o un nuovo
processo produttivo.
L’innovazione è vista come risultato della sequenza di azioni necessarie per trasferire su beni,
servizi e processi industriali o gestionali un contenuto di novità differenziale rispetto a quanto già
esiste, dunque l’originalità dell’output di processo.

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IV. Il processo d’innovazione.
Il processo di innovazione è l’attività sistematica volta alla creazione e all’applicazione economica
di nuove conoscenze scientifico-tecnologiche, la cui accumulazione è fonte di accrescimento del
patrimonio tecnologico d’impresa.
In generale l’innovazione introduce elementi di rottura dei comportamenti abitudinari dell’impresa
mirati a migliorare la sopravvivenza, lo sviluppo e la creazione di valore.
Distinguiamo vario tipologia di processi innovativi in:
• Di prodotto → variazioni della gamma di vendita (ampliandola).
• Di processo produttivo → maggiore efficienza dei cicli di lavorazione (mediazione tra input e
output).
• Di modello di business → modalità con cui l’impresa crea e gestisce valore.
L’innovazione di prodotto può assumere diversi significati:
- Può indicare una tecnologia totalmente nuova che dà origine a un nuovo mercato (ford T prima
auto che origina un nuovo mercato).
- Può costituire una novità per l’imprese che intende lanciarlo (es. Barilla e i sughi, esisteva già il
mercato ma era una novità per Barilla introdurre sughi e lanciarli sul mercato)
- Può costituire nell’ampliamento di una linea affermata (es. magnum)
- Può essere l’innovazione che va a sostituire prodotti obsoleti (es. auto).
- Può costituire un miglioramento delle caratteristiche o delle prestazioni di un prodotto
esistente (es. cellulari).
V. La gestione dell’innovazione.
• Innovazione technology push → innovazione trainata dalla tecnologia.

Scoperte scientifiche, prodotti tecnologici, mercati aziendali.


Il rischio è di perdere di vista la centralità del cliente (il loro punto di vista, se sono preparati a
cogliere l’innovazione proposta).
• Innovazione demand pull: innovazione come risultante di una precisa domanda di novità da
parte del cliente (il mercato/i clienti richiede qualcosa di nuovo e ciò funge da leva per
l’impresa e il suo processo innovativo).

Attrazione della domanda, sviluppo tecnologico, mercati aziendali

Questa distinzione così netta oggi è superata e si cerca di abbinare le due soluzioni.
Il superamento del classico dualismo suddetto ha dato origina a una combinazione nuova che si
definisce customer driven caratterizzata da una:
- Maggiore dipendenza dal cliente .
- Maggiore dipendenza dalla gestione commerciale tramite
o Maggior coinvolgimento del marketing.
o Finalità legate alla customer satisfaction.
Il cliente diventa co-producer delle idee innovative (soprattutto nelle imprese industriali) e
contribuisce ad aumentare la probabilità di successo.
Dal punto di vista gestionale il marketing assume maggiore rilevanza, comportando così che
sempre più spesso si cercano di adottare sistemi organizzativi-gestionali che portano a
incrementare gli elementi innovativi.
Si privilegiano innovazioni incrementali (continuativi e frequenti).

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La tecnologia.
La tecnologia è al centro della creazione di valore, in qualsiasi settore è un elemento fondamentale
per determinare i processi di sviluppo delle imprese.
È il supporto di ogni attività finalizzata al raggiungimento del vantaggio competitivo, definendo
così la struttura di ogni catena del valore.
È il volano dei processi di innovazione = sia nelle attività primarie che nelle attività di supporto.
Porter:

Se la tecnologia è in grado di influenzare la


catena del valore allora è centrale per la
creazione di valore.

Come definiamo la tecnologia?


L’insieme delle conoscenze e delle competenze afferenti ai prodotti, ai servizi e al loro sistema di
produzione/erogazione.
Distinguiamo le politiche tecnologiche e il patrimonio tecnologico:
• Politiche tecnologiche → costituiscono il complesso sistemico delle scelte volte ad accrescere e
sfruttare il patrimonio tecnologico di cui l’impresa è dotata, secondo comportamenti coerenti
con le strategie complessive.
• Patrimonio tecnologico → è costituito dall’insieme delle competenze teoriche ed empiriche
(pratiche), di conoscenze tecniche e scientifiche, di abilità e accorgimenti che l’impresa sviluppa
nell’attività di produzione e vendita di prodotti e servizi.
Al suo interno differenziamo:
- Know how = le conoscenze che lo costituiscono riguardano il come realizzare una certa attività
(frutto di approcci empirici).
- Know why = le competenze si riferiscono alla conoscenza del perché a fronte di una certa azione
si realizzano determinati effetti (frutto di conoscenza scientifica come ricerche, analisi, …).
Il Profilo del Patrimonio tecnologico può essere descritto in modo sintetico dall’ampiezza e dalla
profondità della conoscenza.
Posso sviluppare una conoscenza ampia e trasversale ma poco
profonda (carattere superficiale), oppure posso concentrarmi su
aspetti meno ampi ma più profondi (si cerca un compromesso).
La potenzialità applicativa delle tecnologie esprime la numerosità degli
sbocchi e delle applicazioni commerciali, maggiore è la potenzialità
(più è versatile la tecnologia)maggiore è la possibilità di diversificare.

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Le tecnologie assumono una diversa connotazione a seconda del ruolo che assumono nel
conseguimento del vantaggio competitivo:
• Tecnologie di base o fondamentali → insieme di competenze necessarie per poter operare in un
settore di attività (sono competenze di carattere generico ma necessarie).
• Tecnologie strategiche o chiave → conferiscono all’impresa un vantaggio competitivo rilevante
poiché permettono di realizzare prodotti con prestazioni superiori o processi a costi inferiori
(sono strettamente connesse al contesto nel quale vengono sviluppate, per ciò sono
difficilmente trasferibili e godono di maggiore protezione)(non sempre sono tecnologie
avanzate).
• Tecnologie complementari o integrative → sono residuali rispetto alle tecnologie strategiche e
presentano un profilo di rilevanza competitiva potenziale (possono trasformarsi da
complementari a strategiche se avvengono dei cambiamenti interni o esterni all’impresa).
• Tecnologie emergenti o sostitutive → insieme di conoscenze che, anche se scarsamente
conosciute nelle loro implicazioni applicative e nelle reali potenzialità, costituiscono in
prospettiva delle minacce rilevanti per le attuali tecnologie di base (sono ancora nelle fasi
iniziali di sviluppo, possono essere la ragione per la quale in settore entra in declino).
Diventa fondamentale adottare una gestione strategica di innovazione (valutando il proprio
patrimonio tecnologico e altri fattori spiegati qua sotto).

La gestione strategica di innovazione e della tecnologia.

I. Posizione tecnologica relativa.


È il risultato del confronto tra le soluzioni tecniche disponibili all’impresa e quelle detenute dai
principali concorrenti.
La posizione che l’impresa può assumere è:
• Forte o di dominanza → quando l’azienda possiede competenze con superiorità comprovata
oggettivamente.
- Prova da rilevazioni oggettive su tecnologie di base, strategiche e complementari.
- Prova da esame comparato con altre aziende su tecnologie emergenti.
• Allineata → il livello delle competenze non presenta differenziali significativi rispetto alla
concorrenza rilevante.
È tipica dei settori maturi (soprattutto industriali), nei quali i miglioramenti apportati nelle fasi
precedenti vengono diffusi e la variabile tecnologica soccombe rispetto agli aspetti di gestione
commerciale e finanziaria.
Nei settori in fase di nascita/sviluppo si hanno ridefinizioni rapide e ampie delle posizioni
reciproche.

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• Debole → le competenze dell’impresa sono inferiori o inadeguate (oggettivamente) rispetto alla
concorrenza.
È una situazione che può essere tollerata (in termini competitivi) solo nel brevissimo periodo,
nel medio e nel lungo termine diventa fondamentale l’avvio di programmi volti a colmare le
carenze tecnologiche.
Avere una posizione di dominanza tecnologica non implica necessariamente che la posizione sul
mercato gode di maggiore vantaggio competitivo (e viceversa).
Perché la posizione competitiva dipende anche da fattori come l’immagine del brand, clienti
fidelizzati, conoscenza del mercato, …
II. Fattori limitati.
I fattori limitanti per l’innovazione tecnologica possono essere:
• Limiti culturali → forte orientamento alla scienza e alla tecnologia (si concentrano su ricerca e
sviluppo) che offusca la capacità di interpretazione delle esigenze del mercato.
• Limiti organizzativi → scarsa integrazione interfunzionale e inadeguatezza dei meccanismi
operativi.
• Limiti finanziari → scarsa disponibilità a investire in processi ad alto rischio.
• Limiti strategici → incapacità di definire precisi e stabili indirizzi di sviluppo innovativo.
L’indirizzo strategico dello sforzo innovativo è l’elemento differenziale delle imprese di successo, è
il risultato di un processo logico.
Significa definire una strategia che identifichi le priorità di indirizzo dell’innovazione tecnologica e
formulare politiche di sviluppo del patrimonio tecnologico dell’impresa.
La destinazione/finalizzazione dello sforzo scientifico è rivolto all’orientamento per settore e R&D.
III. Alternative di gestione.
Oltre all’innovazione l’impresa deve decidere quale posizione vuole mantenere, quale alternativa di
gestione dell’innovazione tecnologica essere (Leadership tecnologica, Imitazione, Me too):
• Leadership tecnologica → decide di effettuare un’introduzione pionieristica di nuove soluzioni
tecnologiche (assume una posizione di avanguardia).
Essere pioniere comporta dei costi:
- Costi di creazione di mercati nuovi.
- Superamento barriere culturali, istituzionali e competitive (per far accettare il nuovo prodotto).
- Rischio successo dell’innovazione introdotta (con conseguente aumento della domanda).
Ma, l’essere pioniere, comporta anche dei vantaggi, gode di una posizione di monopolio
temporaneo (lead time), la quale dipende dalle capacità di mantenere barriere di ingresso
elevate come:
- Sistema brevettuale.
- Affermazione propria tecnologia come standard di settore.
- Controllo materie prime essenziali.
- Acquisizione rapida di posizione di mercato dominante (scoraggia così l’ingresso di
competitor).
• Imitazione (o follow the leader) → significa rapida acquisizione delle soluzioni tecnologiche
introdotte dal leader al fine di apportare miglioramenti e vendita a costi inferiori.
L’impresa ha necessità di possedere:
- Rilevanti capacità di sviluppo e industrializzazione.
- Intuito nell’identificazione della debolezza tecnologica e commerciale del leader.
• Me too → imitazione da parte di imprese che entrano nel mercato in fase di maturità del ciclo
vitale della tecnologia, dunque è necessaria una prospettiva di produzione con obiettivi di
minimizzazione dei costi (rispetto ai competitor) per l’acquisizione di quote di mercato
attraverso politiche di prezzo e politiche commerciali aggressive.
È caratterizzata da una scarsa rilevanza di R&S (non introduce innovazioni ma imita) ma è
decisiva la capacità di ingegnerizzazione del prodotto (minimizzare costi di produzione).

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In generale non esiste una strategia migliore a priori, è necessario valutare bene il proprio
patrimonio tecnologico e dove si può trarre maggiore vantaggio.
Il modello a imbuto dell’innovazione (per prodotti di consumo).
Ovviamente no tutte le idee innovative si trasformano in prodotto di mercato, mediamente:
3000 nuove idee allo stato embrionale → 300 idee sottoposte a valutazione → 125 piccoli progetti
sperimentali → 4 progetti di sviluppo → 2 prodotti lanciati nel mercato → 1 nuovo prodotto di
successo.
Alcune idee non sono giustificabili dal punto di vista economico, i ritorni previsti non sono
sufficienti per coprire i costi dello sviluppo.
IV. Indirizzo strategico dello sforzo innovativo.
Il management è chiamato a valutare i progetti di ricerca e sviluppo coinvolgendo diverse
competenze aziendali (attività delicata).
• Ricerca e sviluppo → è l’attività aziendale specializzata nella ricerca, sperimentazione,
applicazione e sviluppo di innovazioni tecnologiche, finalizzate al perfezionamento delle
conoscenze produttive (da qui la necessità di stretto collegamento con le operations) o alla
realizzazione di nuovi prodotti (in stretta connessione con la gestione commerciale e
finanziaria).
Ha il compito di:
- Gestione del patrimonio tecnologico aziendale.
- Aggiornamento di impianti, processo, prodotti con l’obiettivo di abbattimento costi e aumento
ricavi.
Distinguiamo invenzione e innovazione:
- L’invenzione → è l’atto casuale, non governabile e pianificabile dello sforzo individuale o
collettivo, è legata all’intuizione (idea geniale che può nascere in qualsiasi contesto ma non
necessariamente con intenti commerciali).
- L’Innovazione → è il momento di sfruttamento economico della nuova conoscenza creata con
l’invenzione, è legata all’applicazione pratica.
L’impresa è il luogo dell’innovazione (shumpeter), la sua crescita si fonda su un continuo processo
innovativo caratterizzato da uno stretto rapporto con il mercato e i clienti.
Le fasi dell’iter innovativo:
1) Ricerca.
- Di base → impegno sistematico volto alla comprensione delle leggi sottostanti ai fenomeni
naturali con finalità economica e competitiva (si genera generica conoscenza).
- Applicata → identificazione delle specifiche modalità di utilizzo delle conoscenze prodotte dalla
ricerca di base (ricerca di carattere applicato; questa fase porta alla generazione di un prototipo
di prodotto fisico).
2) Sviluppo.
- Messa a punto del prototipo di prodotto/processo di trasformazione industriale in prospettiva
→ tecnologica, economica e competitiva.
- Prototipazione produttiva e commerciale del prodotto/impianto → si punta a validare soluzioni
tecnologiche, realizzarne quantitativi sperimentali del prodotto e ricerca mercati adatti.
3) Industrializzazione e commercializzazione → attività volte a produrre/vendere su larga scala il
nuovo prodotto.
La generazione di nuove idee dipende dall’attività creativa dell’impresa all’interno del proprio
contesto, si stimola la creatività anche per la risoluzione dei problemi.
Diventa fondamentale adottare:
- Sistemi efficaci di comunicazione aziendale(può dare spunti per creare nuove idee)
- Sistemi adeguati di integrazione interfunzionale (si crea consapevolezza e
percezioni/prospettive diverse di vari settori).
- Adozione di sistemi premianti per far sviluppare la cultura tecnologica (il dipendente deve
essere remunerato se aiuta alla creazione di una nuova idea).

98
- Orientamento dell’attività all’analisi dei prodotti della concorrenza (prende spunto,…).
La rilevanza della R&S nella decisione di investimento produttivo:
- Depositaria del Know-how (consente di risolvere situazioni problematiche).
- Necessità di interazione R&S – produzione – mercato.

• Innovazione e gestione del portafoglio prodotti.


Quando l’impresa produce vari prodotti, i quali si trovano in diverse fasi del loro ciclo di vita, deve
adottare differenti strategie.
L’impresa deve selezionare i prodotti su cui puntare per lo sviluppo competitivo, le modalità di
finanziamento e valutare la sostituzione dei prodotti in declino con nuovi prodotti.
Le imprese, per gestire un portafoglio di prodotti, possono utilizzare la Matrice Sviluppo/Quota di
Mercato del Boston Consulting Group (BCG) = strumento di analisi del portafoglio attività.
Questo strumento sostiene che la redditività di un investimento/prodotto dipende dalla quota di
mercato dell’impresa, perché ad un maggior potere di mercato corrisponde una maggior libertà nel
fissare i prezzi, maggiori economie di scala, l’opportunità di integrarsi a valle.

Il tasso di crescita del mercato indica quanto è attrattivo il business


per l’impresa (variabile esterna).
La quota di mercato relativa dice quanto è forte l’impresa nel
mercato (variabile interna).
I cerchi sono i prodotti dell’impresa e la loro dimensione dipende
dal livello delle vendite.
Ogni guardante ha prodotti simili al suo interno a livello economico
e finanziario.

I quattro quadranti:
▪ Star (stella) 2.
Sono i prodotti di successo nella fase di crescita, con quote di mercato e ritmi di crescita elevati.
Si generano elevati flussi di cassa (sono lievemente positivi o negativi perché assorbiti dai costi di
difesa contro la concorrenza) ma necessità di ingenti investimenti per arginare la concorrenza e
sostenere la crescita.
▪ Cash cow (mucche da mungere) ' I.


·
˙
¯

±
Sono i prodotti dai quali l’impresa ottiene profitti, con basso tasso di crescita e un’elevata quota di
mercato.
Richiedono investimenti limitati e generano ingenti profitti da destinare o alla copertura di spese o
al supporto di altri prodotti.
▪ Question Mark (dilemma o punti interrogativi)T ?.
Sono prodotti con elevato tasso di crescita in cui però l’impresa detiene una bassa quota di mercato
Richiedono ingenti investimenti per il mantenimento e, ancor di più, per l’incremento della quota
di mercato.
Il management deve valutare attentamente quali question mark si possono trasformare in star
(investendo in essi) e quali invece vadano eliminati dal portafoglio.
▪ Dog (cane) G '.
Sono prodotti con ritmi di crescita e quote di mercato contenuti a causa di un’accesa concorrenza
sui prezzi.
I profitti (derivanti da essi) possono essere sufficienti a coprire i relativi costi di mantenimento
senza però promettere ulteriori fonti di liquidità (con le vendite si riesce a ricoprire i costi ma non
si hanno ulteriori aspettative di crescita).

99
La matrice dice quali sono le azioni/strategie più opportune secondo la fase che attraversa il
prodotto, dice inoltre la composizione ottimale del portafoglio prodotti.
‘→T
'

±̇
·

Ī ?→ 2→T ?
Quando sostituire 'G con prodotti innovativi?
È utile confrontare il portafoglio attuale e quello di prospettiva (dà una linea giuda per R&D).

Conclusioni:
- L’innovazione tecnologica è parte integrante delle strategie d’impresa e fondamento del
vantaggio competitivo di lungo termine.
- Tecnologie e innovazioni non sono efficaci se non si affianca ad esse una corretta gestione
strategica.
- Il posizionamento tecnologico relativo delle imprese ha diverse tipologie, limiti e alternative.
- Alla base dell’introduzione delle innovazioni c’è la R&S.
- Il portafoglio prodotti di un’impresa non può prescindere da una combinazione ottimale che
innesca un circolo virtuoso.

Premessa:
• Macro-tema → management e creazione di valore ⬛

• Macro-tema → corporate governance ⬛ ✓
• Macro-tema → gestione strategica d’impresa ⬛

• Macro-tema → la gestione operativa d’impresa (da cap 22 a cap 26).

100
CAPITOLO 22 - LA GESTIONE COMMERCIALE: MARKETING, COMUNICAZIONE,
VENDITE.
Premessa:

Il ruolo della gestione commerciale.


La gestione commerciale è l’insieme di attività e processi mediante i quali l’impresa acquisisce,
soddisfa e fidelizza i propri clienti.
Kotler (2000) la definisce come il processo diretto a individuare e soddisfare i bisogni dei clienti
mediante la realizzazione di prodotti e servizi idonei che, attraverso forme di scambio di mercato,
generano valore e soddisfazione per tutti gli operatori.
Svolge una funzione di raccordo tra il sistema dell’offerta dell’impresa e le richieste della domanda
(opera in stretta relazione con la distribuzione, operations, gestione finanziaria).
Assicura coerenza tra tutta la struttura aziendale e il mercato di riferimento.
Discende dalla gestione strategica e ha l’obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo duraturo
al fine di generare valore economico.

Orientamenti d’impresa e centralità del cliente.


Non tutte le imprese hanno gli stessi rapporti con il mercato e con i clienti, i principali
orientamenti dell’impresa sono:
I. Orientamento al prodotto.
È prevalente nelle prime fasi di industrializzazione e tipico di settori che presentano bassa
concorrenza, offerta omogenea e comportamenti d’acquisto basati sui prezzi (gli sforzi dell’impresa
sono rivolti al mantenimento e riduzione dei costi per offrire prezzi competitivi).
Le imprese sono caratterizzate da:
- Prezzi competitivi.
- Concentrazione sull’efficienza produttiva.
- Ruolo accessorio della gestione commerciale.
II. Orientamento alle vendite.
Prevalente nel caso di settori in cui c’è sovra-capacità produttiva (offerta superiore alla domanda
del mercato), dunque l’impresa ha necessità di aumentare il fatturato tramite:
- Conseguimento economie di scala.
- Percorrere le curve di esperienza.
L’impresa (gestione commerciale) deve intervenire utilizzando tecniche di vendita adeguate per
stimolare il cliente, investimenti consistenti in pubblicità e attività promozionali e tramite
un’organizzazione coerente della forza vendita.
III. Orientamento al mercato.
Prevale nei settori in cui i livelli di concorrenza sono elevati. Le imprese si concentrano sull’analisi
dei bisogni dei consumatori. Preventivamente si interrogano sulla possibilità di vendita del
prodotto.
In questo contesto:
- L’indirizzo delle attività aziendali è guidato dal marketing (identifica il prodotto ottimale).
- La gamma di prodotti è moto ampia (per l’esigenza di soddisfare le diverse fasce di mercato).
- L’organizzazione interna è articolata per linea di prodotti.

101
- L’attenzione è rivolta costantemente verso il mercato e la concorrenza.
- Si assume un modello adattivo al mercato per raggiungere l’efficacia commerciale.
IV. Orientamento al cliente.
Il punto di partenza è l’analisi dei bisogni dei clienti e l’offerta viene formulata al fine di
massimizzare la soddisfazione del cliente.
Il cliente diventa protagonista e assume un ruolo centrale rispetto:
- Ai processi strategici e decisionali.
- Assume un ruolo attivo = influenza le logiche di marketing e determina gli orientamenti di
sviluppo dei prodotti.
La relazione impresa-cliente è continua, essa condiziona il business model aziendale ed evidenzia la
centralità della gestione commerciale.
L’impresa è in ricerca continua di nuove opportunità di mercato e ciò determina un monitoraggio
costante dei desideri/bisogni dei consumatori (cercando di anticiparli).
La centralità del cliente.
Il successo dell’impresa dipende non tanto dall’abilità di attrarre nuovi clienti = componente
necessaria ma non sufficiente per mantenere il successo competitivo.
Diventa fondamentale per l’impresa la costruzione di Brand loyalty = elemento cruciale che
consente di legare i consumatori attraverso la costruzione di un rapporto di fiducia, definito fedeltà
alla marca.
La fedeltà dipende dal livello di soddisfazione che il cliente ottiene dall’esperienza di
acquisto/consumo = Customer satisfaction.
Perché un cliente soddisfatto reitera l’acquisto, diffonde opinioni positive tra gli altri consumatori e
diventa meno sensibile rispetto alle variazioni dei prezzi (è meno attento all’offerta di concorrenti).
Negli ultimi anni assumono centralità i bisogni non economici (CSR) che influenzano
l’orientamento dell’impresa al mercato.
La gestione commerciale deve raggiungere tre obiettivi (interrelati tra loro) quali:
1) Soddisfacimento di bisogni e desideri dei clienti.
2) Gli interessi della società (insieme di
stakeholder).
3) Incremento del valore d’impresa.
L’orientamento sociale dell’impresa prevede che al suo
interno rientrino cause related marketing = accordi tra
un’impresa profit e una no profit (portano vantaggi
per entrambi le parti – operazione win win (vincono
entrambi)).
Il marketing sociale impone di comportarsi con senso civico.

Processo di scambio con il mercato e soddisfazione del cliente.


In generale i concetti alla base del marketing (gestione commerciale) sono due:
• I bisogni dei clienti → sono dati dal risultato della privazione rispetto ad un’esigenza di base,
sono radicati nella cultura e nella condizione umana e sono pochi (piramide di Maslow).
• I desideri dei clienti → riguardano la modalità specifica di soddisfazione dei bisogni, sono
potenzialmente infiniti e modificati e influenzati dalle dinamiche sociali.
I bisogni vengono trasformati (in base alla cultura e alla personalità) in desideri e se è presente il
potere d’acquisto, nasce la domanda di mercato per specifici prodotti e servizi in grado di
soddisfare bisogni.
I consumatori per soddisfare i propri bisogni e desideri possono scegliere all’interno di un’ampia
varietà di prodotti/servizi con caratteristiche differenti.
La scelta di un prodotto da parte dei consumatori dipende dal valore che il consumatore attribuisce
al prodotto e il valore per il cliente è la capacità del prodotto di soddisfare un proprio
bisogno/desiderio.

102
La percezione del valore di prodotto si declina in:
- valore percepito prima dell’acquisto → genera le aspettative di performance del prodotto.
- valore percepito dopo l’acquisto e consumo → determina la soddisfazione del cliente
(confrontandolo con le aspettative).
Il successo commerciale del prodotto è funzione della sua capacità di generare soddisfazione
rispetto al valore atteso dal cliente.
La customer satisfaction se reiterata nel tempo produce i seguenti benefici:
- Sedimenta la percezione di affidabilità dell’impresa.
- Favorisce fiducia e fedeltà verso l’impresa.
- Offre un apporto cruciale al consolidamento delle relazioni tra domanda e offerta.
- Determina i comportamenti d’acquisto, alimentando il ciclo virtuoso impresa-mercato.

L’esigenza di forme di scambio tra soggetti (imprese/consumatori), frequenti e sistematiche, dà


origine al mercato.
Lo scambio è il processo che porta alla generazione di valore per le parti interessate.
L’obiettivo di fondo della gestione commerciale è quello di individuare le richieste del mercato
(bisogni e desideri dei clienti) e vendere i benefici o i servizi che i beni forniscono.

Marketing e vendite.
La gestione commerciale è composta da 2 grandi aree di attività:
1. Attività legate al marketing → hanno rilevanza strategica e orientano anche le operations e la
gestione finanziaria.
2. Attività legate alla vendita → necessari per allocare i prodotti presso i clienti.

• Marketing management → è costituito da processi di analisi che precedono i processi


decisionali e i processi operativi:
- Processi analitici = si dividono in analisi quantitative e qualitative dei comportamenti della
domanda e della concorrenza.
- Processi decisionali = il marketing strategico individua le opportunità di mercato, che consiste
nella segmentazione della domanda e targeting (scelta su quali segmenti di mercato puntare),
posizionamento competitivo-percettivo (come si vuole essere percepiti) e differenziazione
dell’offerta (rispetto ai competitor).
- Processi operativi = definiscono come operare in concreto sul mercato, significa redigere un
piano di marketing in cui in maniera molto dettagliata vengono definite le leve del Marketing
Mix (prodotto, prezzo, promozione, politica distributiva).

• Sales management (vendite) → è il collocamento materiale dei prodotti nel mercato, ovvero il
momento conclusivo dell’azione di marketing.

• Dopo la vendita, l’ultima fase consiste nella misurazione e controllo dei risultati. Nel caso di
scostamenti (dagli obiettivi) il processo si chiude con la riformulazione di piani/strategie.
Le responsabilità di marketing management necessitano di competenze di analisi, pianificazione
promozione, mentre le responsabilità di vendita o sales management implicano azioni da svolgere
in modo diretto sul mercato.

103
I processi di marketing management.

I. I processi analitici.
Precedono le decisioni di marketing strategico, cioè sono le informazioni necessarie a definire le
strategie di marketing con un ampio orizzonte temporale e che coinvolgono l’impresa nella sua
globalità.
I principali processi analitici sono:
• Analisi della domanda → ha il compito di stimare le dimensioni attuali e future del mercato.
La domanda può essere analizzata in termini di:
- domanda attuale = riguarda il volume totale acquistato da un certo gruppo di consumatori in
una data area geografica, in un certo arco temporale, nell’ambito di un determinato programma
di marketing.
- domanda potenziale = riguarda il limite a cui tende la domanda del mercato, in un ambiente
definito, al crescere all’infinito del programma di marketing delle imprese appartenenti al
settore.
In pratica si tratta del livello massimo di domanda e comporta difficoltà di previsione e
misurazione. Da un certo punto in poi ogni euro investito non produce effetto, diventa inutile
l’investimento in attività di marketing (è una difficile stima).
La domanda prevista è relativa alle richieste effettive del mercato in un determinato periodo
futuro, si riferisce alle vendite aziendali per un arco temporale definito.

104
La differenza tra la domanda attuale e
potenziale ci indicano il gap = lo spazio
libero di mercato, quanto posso spingermi
ad investire.

Il livello di domanda del mercato è


dinamico, dipende da diversi fattori
(politiche di prezzo, distributive attuate,
pubblicità…), uno dei più importanti è il
programma di marketing. Varia in base agli
investimenti di marketing previsti.

• Analisi della concorrenza (diretti e indiretti)


Le scelte strategiche di marketing sono condizionate anche dalla struttura dell’offerta, in primo
luogo dai concorrenti diretti, ma non bisogna dimenticare di osservare le imprese che offrono
prodotti sostitutivi.
Per poter stabilire le strategie di marketing è necessario definire la struttura dell’ambiente
concorrenziale:
- Se il settore è frammentato (ognuno controlla una quota della domanda complessiva poco
significativa, un’impresa da sola non può influenzare le forme della concorrenza).
- Se il settore è concentrato (poche imprese riescono a controllare quote rilevanti del mercato).
I concetti di frammentazione o concentrazione sono collegati anche alla misurazione della quota di
mercato relativa, la quale consente di valutare la capacità competitiva di un’impresa.
Nei mercati frammentati le decisioni di marketing vanno prese con riferimento agli effetti sulla
domanda mentre nei mercati concentrati vanno prese avendo come riferimento principale le
possibili reazioni della concorrenza.

II. I processi decisionali.


Il marketing strategico è l’insieme di decisioni che definiscono le strategie di marketing in un
orizzonte temporale di medio-lungo periodo e che coinvolgono l’impresa nella sua globalità.
Comprende:
a) Segmentazione e targeting dei clienti.
b) Posizionamento competitivo.
c) Differenziazione del sistema d’offerta.

a) Segmentazione della domanda e targeting → il mercato viene segmentato in sottoinsiemi tra


loro omogenei (SEGMENTAZIONE) e in seguito viene identificato il segmento di clienti obiettivo
(TARGETING).
Attraverso la segmentazione della domanda e il “targeting” è possibile individuare e selezionare il
segmento di clienti obiettivo che l’impresa può soddisfare attraverso la sua strategia (e il suo
prodotto).
La segmentazione può avvenire utilizzando diverse variabili:
- Geografiche (nazioni, regioni, città).
- Demografiche (sesso, età, dimensioni del nucleo familiare ecc.).
- Socio-economiche (reddito, istruzione ecc.).
- Psicografiche (classe sociale, stile di vita ecc.).
- Comportamentali (fedeltà alla marca, benefici del prodotto ecc.).

b) Posizionamento competitivo-percettivo → viene formulato un sistema di offerta coerente con il


segmento obiettivo e differente da quanto offerto dai concorrenti che competono per lo stesso
segmento.
«Il posizionamento non è l’intervento su un prodotto. Il posizionamento è l’intervento sulla mente
del potenziale destinatario della comunicazione” (Ries & Trout) (come l’impresa vuole essere
percepita).

105
Per posizionamento si intende la collocazione del prodotto in un sistema di percezioni del
consumatore.
Il diverso posizionamento del prodotto dipende da attributi oggettivi (qualità, modalità d’uso,
prezzo ecc.) e dall’immagine trasmessa al cliente.
Per scegliere la posizione più idonea è necessario comprendere le percezioni dei clienti dei prodotti
e guidare le preferenze individuando clienti potenziali.

Mappa percettiva di posizionamento.


È conveniente entrare nel mercato comprendo
l’area non presidiata.

c) Differenziazione del sistema d’offerta → è necessaria la definizione dell’offerta con cui


affrontare i competitor (in base all’analisi delle caratteristiche della concorrenza).
L’obiettivo è rendere il prodotto poco sostituibile rispetto agli altri beni esistenti sul mercato. Per
differenziare un prodotto è possibile intervenire, utilizzando variabili del marketing mix, su:
- elementi tangibili dell’offerta/sul prodotto (es. confezione, forma, colore ecc.).
- elementi intangibili dell’offerta (Differenziazione del Servizio, Differenziazione del Personale,
Differenziazione di immagine d’impresa o della marca).
Le differenze devono essere percepite come tali dai potenziali acquirenti e devono avere un valore
in grado di motivare l’acquisto, la sola differenziazione non garantisce il successo del prodotto.

Alla luce delle analisi condotte, l’impresa può definire la propria strategia di marketing.

L’impresa deve affrontare la scelta di quali clienti


soddisfare e la valutazione dell’offerta con cui affrontare i
competitor.

• Il marketing Indifferenziato → l’impresa supera deliberatamente le differenze tra i segmenti


individuati presentando a tutto il mercato una sola offerta.
• Il marketing differenziato → consiste nella scelta di operare in diversi segmenti di mercato con
prodotti differenti.
• Il marketing concentrato → prevede che l’impresa si rivolga ad un solo segmento, basso livello
di differenziazione dell’offerta. Si cerca di conquistare una quota di mercato elevata in un
mercato più piccolo (es. Esselunga solo nel nord italia).
• Il marketing di nicchia→ l’impresa sceglie un elevato grado di differenziazione dell’offerta
focalizzandosi però su un unico segmento.
Un segmento si rivolge a un gruppo omogeneo di persone, mentre una nicchia si concentra
sugli individui e sui prodotti individualizzati (Schaefers, 2014).
La segmentazione è un approccio top-down attraverso il quale un'azienda suddivide un grande
mercato in parti più piccole, mentre le nicchie emergono dalle esigenze dei clienti attraverso
processi bottom-up (un processo etichettato come segmentazione invertita) (Dalgic & Leeuw,
1994).

106
I tratti distintivi della nicchia:
- la limitata dimensione dell'impresa per la sua natura innovativa e per la specificità del target.
- l'offerta di una specialità, senza perfetta sostituzione di offerte della stessa categoria.
- che offra un valore maggiore rispetto alla media delle offerte della stessa categoria.
- che sia immediatamente riconoscibile dai clienti per la sua originalità.

III. Processi operativi.


Il marketing operativo dipende dalla strategia impostata e consiste nella manovra delle leve che,
nel loro insieme, costituiscono il marketing mix (4P).
Le leve del marketing sono:
1) Prodotto (Product).
2) Prezzo (Pricing).
3) Comunicazione (Promotion).
4) Distribuzione (Point of sale).

Queste leve/variabili possono essere utilizzate per generare vantaggi differenziali ricercati rispetto
ai concorrenti, possono essere ricondotti a benefici e prestazioni offerte al cliente (prodotto),
all’onere che il consumatore deve sostenere per acquistare e godere dei benefici del prodotto
(prezzo), alla conoscenza e percezione di prestazione e benefici offerti (comunicazione) e infine alla
disponibilità fisica e qualità d’informazione funzionale all’acquisto (distribuzione).
1) Il prodotto.
La politica di prodotto riguarda le scelte di gestione commerciale dei beni e dei servizi già esistenti
e il lancio di nuovi prodotti.
Le decisioni operative relative al sistema di prodotti possono riguardare vari ambiti:
- Attributi del prodotto (varietà, qualità, design, caratteristiche).
- Nome di Marca.
- Confezione (packaging) → progettazione sulla realizzazione del contenitore o dell’involucro del
prodotto. Tradizionalmente la funzione primaria era contenere e proteggere il prodotto, in
tempi più recenti è diventato un importante strumento di Marketing, può offrire un vantaggio
competitivo, sempre tenendo conto (recente importanza) delle tematiche ambientali.
- Servizi.
Il peso degli attributi intangibili va aumentando con la possibilità di differenziare il prodotto grazie
ai servizi informativi al cliente.
Le decisioni di prodotto sono sempre meno esclusive della sfera tecnico-ingegneristica dell’impresa
e sempre più ad appannaggio dell’area marketing
2) Il prezzo.
È definito come la quantità di moneta (o di credito monetario) ceduta dall’acquirente al venditore
in cambio dei prodotti/servizio.
Distinguiamo:
- Prezzo-ricavo → prezzo per l’impresa venditrice, riflette i costi sostenuti per la progettazione,
fabbricazione, promozione più un margine che corrisponde al profitto (Prospettiva impresa).
- Prezzo-costo → Il prezzo per l’acquirente esprime il valore monetario attribuito al bene/servizio
che intende acquistare (Prospettiva consumatore)
La gestione della variabile del prezzo (le decisioni di prezzo) nel marketing mix dipende da:
• Fattori interni → obiettivi di Marketing, strategia del Marketing mix, costi, struttura
organizzativa per la definizione del prezzo.
• Fattori esterni → natura del Mercato e della domanda, concorrenza, altri fattori ambientali
(economia, rivenditori, Stato).
In generale l’impresa mira a stabilire un pezzo che copra tutti i costi (produzione, distribuzione e
vendita) e che comprenda un adeguato compenso (per sforzo e rischio). I metodi per la
determinazione del prezzo:
- Cost plus pricing (livello dei costi) → si aggiunge una percentuale o un importo fisso (il mark-
up) al livello dei costi.

107
- Reazione della domanda → il prezzo si decide considerando le possibili reazioni della domanda.
- Comportamento della concorrenza → si considera la concorrenza e si apportano al prezzo
aumenti o diminuzioni (in base alla strategia seguita e alle altre leve del marketing mix).
3) La promozione (comunicazione).
L’obiettivo generale a cui risponde l’attività di comunicazione commerciale è quello di rendere
unica l’offerta dell’impresa rispetto ai concorrenti.
A tal fine vengono utilizzate diverse tecniche (pubblicità, vendita personale, promozione vendite,
pubbliche relazioni).
È necessario identificare il pubblico obiettivo (decidere a chi indirizzare il messaggio) e
determinare gli obiettivi di comunicazione (quale risposta intendiamo ottenere).

Occorre sapere quale degli stadi di disponibilità all’acquisto si trova il pubblico obiettivo e verso
quale stadio deve essere condotto.
4) Punto vendita (distribuzione).
Concerne la modalità con cui i beni e i servizi vengono resi disponibili per il consumatore (canali,
copertura, assortimento, localizzazione, scorte, trasporto e logistica).
Il management deve affrontare due problemi:
• Quali intermediari utilizzare per distribuire il prodotto e quale copertura assicurare?
- Vendita in esclusiva → l’impresa si appoggia solo ad un intermediario.
- Vendita selettiva → l’impresa sceglie solo alcuni rivenditori selezionati.
- Vendita estensiva → l’impresa si appoggia a tutti i rivenditori.
La soluzione ottimale dipende da diverse condizioni tra cui le caratteristiche del prodotto e la
modalità di acquisto effettuata dal consumatore.
• Scelta del canale.
- Diretto → il prodotto passa direttamente dall’impresa produttrice al consumatore finale.
- Corto → è presente un solo livello di intermediazione fra produttore e consumatore = grossista.
- Lungo → sono presenti più livelli di intermediazione fra produttore e consumatore = grossista e
dettagliante.
Anche la scelta dei canali di distribuzione è correlata alla tipologia di prodotto e alla strategia di
differenziazione adottata.
Le politiche di distribuzione possono essere ricondotte a due orientamenti fondamentali:
a) Push → l’impresa spinge l’offerta facendo leva sugli intermediari.
b) Pull → l’impresa fa leva sui consumatori attraverso pubblicità e promozione.

La gestione delle vendite.


Avviene attraverso la rete di vendita che individua l’insieme di persone che consentono all’impresa
di raggiungere i consumatori.
Le tipologie di rete sono:
• Diretta → i venditori sono legati all’impresa da un contratto di lavoro dipendente.
• Indiretta → la rete è formata da collaboratori autonomi.
Le fasi del ciclo tipico di vendita sono:
Ricerca del cliente → Contrattazione → Consegna prodotto → Fatturazione → Regolamento
finanziario → Assistenza tecnica → Gestione dei rapporti con la clientela.

108
La gestione commerciale svolge un’azione di raccordo tra
sistema produttivo e richieste della domanda. In tal senso le
attività commerciali sono interrelate sia alla gestione delle
operation sia alla gestione finanziaria.

Conclusioni:
- Attraverso la gestione commerciale l’impresa soddisfa i propri clienti mediante l’offerta di
prodotti e servizi in grado di generare valore; le attività commerciali sono interrelate sia a
quelle tipiche delle operation sia a quelle finanziarie.
- Le imprese possono adottare comportamenti differenti nei confronti del mercato; distinguiamo
così le imprese production oriented, sales oriented, marketing oriented e customer oriented.
- Nella gestione commerciale si individuano due principali aree di attività: il marketing
management (strategico e operativo) e la gestione delle vendite.
- Il marketing strategico: segmentazione della domanda e targeting, posizionamento
competitivo-percettivo, differenziazione dell’offerta.
- Il marketing operativo manovra le leve di marketing mix al fine di generare vantaggi
differenziali rispetto ai concorrenti.
- La rete di vendita permette di allocare i prodotti dell’impresa sul mercato e completa il
processo della gestione commerciale.

109
CAPITOLO 23 – LA GESTIONE DELLE OPERATIONS.

Le operations.
La gestione delle operations fa riferimento alle attività di trasformazione fisico-tecnica di input
(materie prime, lavoro e impianti) in output (prodotti finiti, semilavorati, scarti).
Si tratta di un processo che va dalle attività di logistica in entrata (approvvigionamento dei
materiali o dei componenti da assemblare) alle attività di logistica distributiva (produzione con
impianti e macchinari, distribuzione dei prodotti finiti).

La produzione.

I. La produzione di beni e servizi: definizione e obiettivi.


La produzione riguarda lo svolgimento di attività che comprendono l’acquisizione, combinazione e
trasformazione di input con la finalità di ottenere output da destinare al consumo finale o da
utilizzare quali input di ulteriori produzioni.
Si riferisce comunemente alle attività nelle quali prevale la trasformazione fisica degli input
(aziende industriali), i beni sono prodotti materiali di trasformazione o assemblati.
Diversamente, nella produzione ed erogazione dei servizi, i prodotti sono immateriali e non
immagazzinabili.
Gli obiettivi e i compiti della produzione sono riconducibili a:
• Produttività/efficienza → contenimento dei costi di produzione.
• Innovazione → proposizione continua di prodotti innovativi.
• Miglioramento costante→ aumento della qualità e affidabilità del prodotto.
• Efficacia consegne → rapidità e rispetto dei tempi.
• Adattabilità → capacità di adattare il sistema produttivo alle esigenze del marcato.

Nell’ambito della gestione delle operations l’area della produzione si identifica con:
• Responsabilità e competenze di progettazione e riprogettazione leve hardware.
Si tratta di definire le caratteristiche strutturali e impiantistiche mediante scelte di investimento, le
quali riguardano:
- Processo produttivo.
- Tecnologia.
- Capacità produttiva.
- Lay-out impianti.

110
- Ubicazione unità produttive.
Tali scelte sono difficilmente reversibili e impongono vincoli di medio-lungo termine.
• Gestione del sistema produttivo → leve software.
Si identifica con la scelta di soluzioni organizzative, tecniche e metodologiche di gestione vincolate
dalle leve hardware precedenti, ma sono più suscettibili ad ampie possibilità di modifica nel breve
termine.
Le scelte di gestione riguardano la programmazione e il controllo della produzione e la gestione dei
flussi di materiali e della qualità (quando produrre, quanto produrre, come produrre).
Il management di produzione necessita dell’interazione costante con la gestione commerciale
affinché sia possibile realizzare le attività operative nel rel rispetto delle esigenze del mercato e dei
programmi definiti (coerenza produttiva) sincronizzando il ciclo produttivo con il ciclo delle
vendite.
La gestione economico-finanziaria è connessa alla valutazione degli investimenti.

II. Il sistema produttivo.


I sistemi produttivi sono generalmente classificati in base alla continuità della produzione, cioè a
seconda che essa generi continuativamente o con interruzioni i prodotti.
Possono ricondursi a produzioni:
• Job-shop.
• Per lotti.
• In linea
• Per flusso continuo.

• Job-shop.
Queste produzioni operano in genere su commessa, ossia realizzando esemplari unici → commessa
singola; oppure un numero limitato di unità → commessa ripetitiva.
È un modello vicino alla produzione artigianale, è caratterizzato da:
- Elevato grado di personalizzazione del prodotto.
- Volumi contenuti di produzione fanno si che la gamma realizzata sia caratterizzata da un
marcato grado di varietà e variabilità.
- Offerta commerciale basata su preventivo e acquisizione dell’ordine.
- Fattori produttivi (macchinari, attrezzature e forza lavoro) con competenze generiche e
adattabili.
- Gestione delle scorte, di materie prime o prodotti finiti, non-problematica/inesistente in
quanto i materiali impiegati vengono acquistati dopo l’ordine ( scorte dei semilavorati).
In sintesi le realtà produttive job-shop sono caratterizzate da elevati gradi di flessibilità/elasticità
produttiva, abbisogni di investimento ridotti e coefficienti di produttività contenuti, elementi
coerenti con l’esigenza di realizzare bassi volumi di un prodotto vario e variabile.
I tempi di consegna sono maggiori ma accordati dal mercato in funzione del livello di
personalizzazione (nel rispetto della data pattuita = affidabilità della consegna).
• Per lotti.
Le produzioni per lotti consistono nella realizzazione i prodotti caratterizzati da un’ampia varietà di
prodotti con variabilità contenuta, in quantitativi di produzione non necessariamente legati al
fabbisogno immediato.
Troviamo tali tipi di produzione nei settori calzaturiero, mobiliero, meccanico, dell’abbigliamento…
La gamma produttiva è nota è definita in anticipo rispetto al omento di acquisizione dell’ordine.
La produzione può avvenire su ordine d’acquisto o su previsione della domanda, a seconda che il
tempo di riposta accordata dal mercato sia compatibile o meo con il tempo necessario all
realizzazione delle attività produttive.
- Ordini d’acquisto commesse ripetitive a catalogo (realizzano di volta in volta).
- Previsione della domanda produzione intermittente (quantitativi superiori rispetto al
fabbisogno immediato che alimentano le scorte dei prodotti finiti).
Le produzioni per lotti si avvalgono di fattori di produzione con capacità generiche.

111
L’ammontare di scorte di materie prime e prodotti finiti varia in funzione delle previsioni di
vendita e delle scelte di programmazione produttiva. Anche le scorte di semilavorati sono
consistenti.
• In linea.
Realizzano elevati volumi di prodotti don varietà e variabilità molto contenute, tali da giustificare
investimenti in impianti e macchinari specifici per singolo prodotto o per famiglie di prodotto.
Esempio di tali produzioni sono l’industria automobilistica, elettronica e degli elettrodomestici.
Si connotano per elevati livelli di produttività/efficienza e ingenti investimenti produttivi di
marcata rigidità, i livelli di produzione elevati e omogenei.
La misura della capacità produttiva risulta in funzione del:
- Ritmo produttivo.
- Tempo di apertura dell’impianto.
- Stato di disponibilità dell’impianto
• Per flusso continuo.
Riguarda prodotti fortemente standardizzati ottenuti in volumi di produzione ingenti, la cui natura
richiede la realizzazione di un ciclo di trasformazione senza interruzioni (continuo).
Esempi sono la produzione dell’acciaio, prodotti petrolchimici, carta…
Non è possibile interrompere il processo né tornare indietro, per cui gli impianti sono rigidi.
Tale produzione è irreversibile pertanto il flusso produttivo è ben delineato e la sequenza del ciclo
di lavorazione è vincolante (ciclo tecnologico vincolato).
La produzione avviene indipendentemente dall’acquisizione degli ordini, si realizza un’alternanza
contenuta dei cicli di lavorazione. Si effettuano cicli lunghi di produzione dello stesso prodotto.
Le problematiche principali sono quelle di rilevanza della progettazione del sistema produttivo
rispetto a quelle gestionali, e la capacità produttiva è facile da determinare.
La produzione continua è capital intensive (l’aumento di attività comporta una crescita del
personale maggiore rispetto alla crescita del capitale investito).

III. Gli impianti e il lay-out.


Gli impianti sono il complesso di beni materiali e immateriali di uso durevole, il cui impiego
avviene su più cicli produttivi, nei quali l’impresa deve investire per svolgere la propria attività
economica.
Costituisce l’insieme dei mezzi di produzione grazie ai quali si realizzano le attività di
trasformazione (non è destinato alla vendita né ad essere trasformato in altri prodotti).
Il termine si può applicare a oggetti diversi:
- Insieme di macchine e mezzi tecnici ausiliari costituenti nel complesso la fabbrica.
- Insieme di macchine e mezzi tecnici ausiliari adibiti allo svolgimento di un gruppo di
operazioni.
- Insieme di macchine e mezzi tecnici ausiliari adibiti allo svolgimento di servizi generali.
Il layout è la disposizione planimetrica di aree, strutture murarie, impianti e attrezzature secondo
criteri di ottimizzazione dei flussi fisici di materiali e prodotti.
Di fatto definisce la collocazione dei posti di lavoro nella sequenza ottimale richiesta dal tipo e dalle
condizioni di produzione.
L’ obiettivo principale consiste nel raggiungere la massima utilizzazione di impianti e attrezzature e
la massima flessibilità dei cicli di produzione con il minimo utilizzo dello spazio, di
movimentazione di materiali e di giacenze.
Le diverse soluzioni di lay-out sono in funzione del numero di varianti del prodotto e delle
caratteristiche dei luoghi disponibili.
In generale la disposizione delle strutture può privilegiare la flessibilità o della produttività. Si
distingue fra:
- Lay-out a punto fisso → il prodotto non si muove durante il processo (per motivi fisici oggettivi
o per scelte di convenienza o di sicurezza).

112
- Lay-out in linea (o per prodotto o a catena) → il prodotto segue un percorso rigidamente
preordinato, in modo da ottimizzare la produttività.
- Lay-out per reparto (o funzionale o per processo) → il prodotto transita attraverso reparti, ove
sosta per l’esecuzione di operazioni omogenee, in modo da ottimizzare la flessibilità.
- Lay-out per gruppo tecnologico → soluzione ibrida tra logica di linea e di reparto, in cui
impianti e attrezzature vengono raggruppate a isole o celle per svolgere operazioni omogenee
per famiglie di prodotto.

IV. La produzione ed erogazione di servizi.


La produzione di beni differisce da quella di servizi per alcune caratteristiche di questi ultimi
(immaterialità, contestualità di produzione e consumo del servizio, necessità presenza utente…).
La tabella riassume le principali differenze.

Da questi elementi deriva una particolare criticità per alcune scelte di progettazione e di gestione
del sistema di produzione ed erogazione del servizio.
Risulta decisivo il corretto dimensionamento della capacità produttiva data l’impossibilità di
immagazzinare il servizio.
La capacità di soddisfare in ogni momento le punte di domanda della clientela in modo da
garantire la disponibilità e continuità del servizio (riduzione di attese e code).
Le imprese dei servizi cercano: un corretto bilanciamento tra soddisfazione domanda e livello costi
fissi, di limitare il costante sottoutilizzo delle capacità produttive nei periodi non di punta e di
influenzare la domanda riducendo le punte mediante politiche commerciali.
È possibile effettuare una differenziazione nella prestazione di servizi in base a fattori di distinzione
quali:
- Incidenza della componente fisica rispetto a quella intangibile.
- Grado di interazione tra utente e personale di contatto.
- Livello di investimenti richiesto.
Le tipologie di erogazione delle attività si dividono in:
• Front Office → il valore per l’utente viene generato in fasi a elevata interazione con lo stesso.
• Back Office → in assenza del cliente, risultano prioritari elementi di progettazione della
struttura tecnica di supporto dell’erogazione.

113
La logistica.

I. La logistica come processo aziendale: definizione e obiettivi.


È il processo di pianificazione, gestione e controllo dei flussi fisici dei materiali e dei correlati flussi
informativi.
I primi partono dall’acquisizione presso i fornitori e attraversano processi di impiego dei materiali
nella produzione o distribuzione del prodotto finito.
La logistica è legata all’attività di produzione da un elevato grado di condizionamento reciproco e
da forti esigenze di integrazione interfunzionale.
Gli obiettivi generali sono:
I. Assicurare la disponibilità dei prodotti rispetto alle richieste nei tempi, spazi e volumi. A tale
scopo cerca di rendere coerenti le modalità di offerta dei beni con le richieste del mercato.
Le attività logistiche possono essere classificate rispetto agli ambiti specifici di gestione:
• Logistica in ingresso o in entrata o di approvvigionamento → riguarda l’acquisizione di materie
prime e componenti, la movimentazione dai fornitori alle unità di utilizzo e lo stoccaggio dei
materiali presso le unità di utilizzo.
• Logistica interna o produttiva → riguarda la gestione dei flussi di materiali in lavorazione, volta
ad assicurare l’utilizzo tempestivo ed economico nelle varie fasi di lavorazione fino alla
collocazione del prodotto finito in magazzino.
• Logistica in uscita o commerciale o distributiva → si occupa della gestione della
ricezione/evasione degli ordini, della gestione dei prodotti presso la rete distributiva e della
movimentazione e trasporto dei prodotti presso le unità di vendita.
La logistica integrata svolge attività di coordinamento (delle logistiche sopra elencate) in modo tale
da assicurare l’integrazione degli obiettivi e delle condizioni operative, e permette la pianificazione,
programmazione e coordinamento delle attività logistiche.
II. Assicurare l’economicità e l’impegno coerente delle risorse, si tratta di curare il livello del
servizio logistico e il costo logistico totale.
Il servizio logistico al cliente può essere scomposto in:
- Disponibilità del prodotto → capacità di contenere rotture di stock (esaurimento scorte di
magazzino) entro intervalli di tempo definiti.
- Tempestività della consegna → tempo medio intercorrente tra emissione dell’ordine e consegna
al cliente.
- Affidabilità della consegna → rispetto alla data e rispetto alla conformità della merce (per
volumi e per qualità).

114
- Flessibilità → capacità di accogliere le richieste di personalizzazione delle consegne riguardo a
tempi, modalità e volumi.
Ciascun elemento del livello di servizio non può prescindere dalla correlazione tra benefici attesi e
costo della logistica.
Le scelte di ottimizzazione hanno come obiettivo la massimizzazione del livello di servizio e, nel
contempo, la riduzione al minimo delle risorse impiegate.
Si può individuare una correlazione sempre crescente tra il miglioramento del livello di servizio e
incrementi nei costi logistici necessari per conseguirlo (>livello di servizio >costo logistico globale).
Il costo logistico totale è composto dai seguenti gruppi di costo:
- Costi di elaborazione degli ordini.
- Costi di magazzino.
- Costi di trasporto.

II. La gestione dei magazzini e delle scorte.


Il magazzino è un impianto logistico costituito da locali, attrezzature e personale in grado di
ricevere i diversi materiali, custodirli, conservali e renderli disponibili per la lavorazione e la
consegna.
La sua funzione è quella di separare due o più fasi del processo produttivo e distributivo dotate di
differenti dinamiche al fine di:
- Ottenere una riduzione dei costi di produzione.
- Assicurare la capacità di stoccaggio.
- Garantire costanza e correttezza dello scorrimento dei flussi fisici e un livello appropriato di
servizio al cliente.
Le materie prime, i componenti, i semilavorati e i prodotti finiti giacenti in magazzino in attesa di
utilizzo o vendita rappresentano le scorte o stock.
La gestione delle scorte delle scorte mira a:
- Garantire la disponibilità al mercato.
- Minimizzare l’investimento in capitale circolante.
- Riduzione degli impieghi di risorse.
- Ottimizzare la capacità produttiva di breve-medio termine.
Deve garantire che la dimensione degli stock sia economica (regolare svolgimento processi
produttivi e processi distributivi) rispettando i programmi e minimizzando l’investimento.
La gestione delle scorte deve accordarsi con:
• Gestione commerciale → influenza significativa sulla quantità e qualità delle scorte attraverso le
politiche di marketing e l’organizzazione dell’attività di vendita.
• Gestione delle operations → influenza significativa reciproca dei processi di acquisto,
produzione e distribuzione. Ha un impatto sulla dimensione quali-quantitativa delle scorte ed è
una leva necessaria a realizzare le attività di trasformazione secondo criteri adeguati di
economicità.
• Gestione finanziaria → l’incremento delle scorte rappresenta un investimento finanziario.
A seconda dell’impresa, magazzino e scorte svolgono funzioni differenti.
• Nelle imprese industriali → magazzino materie prime, semilavorati e prodotti finiti.
• Nelle imprese di servizi → il magazzino ha funzione limitata in quanto l’offerta è intangibile, la
produzione e il consumo avvengono in simultanea.
• Nelle imprese commerciali → il magazzino svolge una funzione rilevante poiché è uno dei
servizi che tali imprese offrono al cliente finale (acquistano e rivendono).
La gestione di magazzini e scorte permette all’impresa di conciliare gli sbalzi temporali che
possono verificarsi tra diversi reparti produttivi e tra essi e i clienti/fornitori.

115
Gli approvvigionamenti.
I. Gli approvvigionamenti: definizione e obiettivi.
L’approvvigionamento è l’insieme di attività tecnico-commerciali attraverso cui le imprese
acquistano sul mercato i beni e i servizi necessari per lo svolgimento dei processi produttivi e
gestionali.
Gli obiettivi della gestione degli approvvigionamenti sono:
- Assicurare l’economicità degli acquisti.
- Preservare la continuità della produzione.
- Garantire il rispetto degli standard di qualità.
Nel concreto le attività di approvvigionamento fanno riferimento agli acquisti, alla ricerca delle
fonti di approvvigionamento, alla negoziazione delle condizioni di fornitura, alla conservazione dei
materiali e alla consegna agli utilizzatori.
Nel contesto competitivo attuale, in riferimento alle imprese industriali, gli approvvigionamenti
hanno assunto un ruolo importante.
Questa rilevanza, della funzione di approvvigionamento, è il risultato della criticità degli
approvvigionamenti nel contesto attuale che fin dagli anni ’70 hanno spinto molti settori al
decentramento produttivo.
In tale contesto è possibile collocare l’evoluzione del rapporto impresa-indotto toccato da
dinamiche di deverticalizzazione, esternalizzazione e specializzazione produttiva (reti di impresa,
partnership e join venture).
Le tipologie di subfornitura si distinguono a seconda dell’esigenza o della caratteristica temporale.
In base all’esigenza abbiamo:
• Subfornitura di capacità → soddisfa un bisogno di elasticità produttiva con la realizzazione
all’esterno di volumi produttivi incrementali.
• Subfornitura di specialità → corrisponde all’esigenza di apporti di competenze tecnologiche
distintive da parte di terzi.
In base alla caratteristica temporale abbiamo:
• Subfornitura permanente → relazione consolidata e strutturata nel tempo.
• Subfornitura occasionale → legata a fabbisogni episodici o contingenti.

II. La gestione degli approvvigionamenti: il marketing d’acquisto.


Le attività di approvvigionamento sono supportate dal marketing di acquisto.
Per marketing d’acquisto s’intende lo studio dell’ambiente, dei marcati, dei prodotti e dei fornitori
nell’ottica degli approvvigionamenti. Esso opra sui mercati dei fattori con un insieme di leve di
procurement mix, le quali sono costituite da politiche di:
• Prodotto.
• Fonti di approvvigionamento.
• Prezzo di acquisto.
• Comunicazione.

• Politiche di prodotto.
Riguardano l’insieme di decisioni relative ai materiali approvvigionati, sono strettamente legate
alle caratteristiche del portafoglio materiali e componenti in termini di criticità economica e di
rischiosità dell’approvvigionamento.
I materiali non critici hanno un impatto gestionale
contenuto sotto il profilo economico e della gestione dei
flussi.
I materiali con effetto leva necessitano interventi per
migliorare il profilo di costo.
I materiali colli di bottiglia richiedono coordinamento delle
politiche di prodotto con le politiche relative alle fonti.
I materiali strategici necessitano interventi di gestione complessi.

116
• Politica delle fonti di approvvigionamento.
Si basa sul monitoraggio dei mercati di fornitura per:
- Identificazione dei fornitori potenziali (valutazione del grado di efficienza e valutazione del
potere contrattuale).
- Valutazione capacità fornitori rispetto alle esigenze aziendali (qualificazione ed emissione
ordini di acquisto).
- Selezione e controllo dei fornitori tramite indicatori di merito basati sulle performance critiche.
• Politica di prezzo di acquisto.
È diretta alla negoziazione delle condizioni economiche del rapporto con il fornitore.
L’attenzione è rivolta all fissazione del prezzo tout court ma anche all’insieme dei costi legati alla
qualità della fornitura, si considerano elementi di conformità, di affidabilità e di flessibilità.
• Politiche di comunicazione.
Sono volte alla promozione dell’immagine dell’azienda presso i fornitori potenziali e consolidati
attraverso assistenza tecnica, assistenza finanziaria oppure adottando politiche di programmazione
degli ordini e delle consegne.
La finalità è raggiungere la trasparenza della relazione e il miglioramento nella pianificazione delle
attività produttive di medio termine.

III. La gestione dei fornitori.


I sistemi di valutazione delle prestazioni del fornitore → vendor rating, si basano sulla rilevazione
oggettiva di parametri tecnici, commerciali, logistici ed economici effettuati periodicamente, si
dividono in:
• Valutazione di affidabilità del fornitore = capacità di rispettare gli impegni contrattuali in
relazione alla data pattuita e alla qualità dei prodotti forniti. A tale scopo vengono utilizzati due
indici di affidabilità: il ritardo medio delle consegne e la qualità media dei materiali consegnati.
• Valutazione del potere contrattuale = capacità di sostenere i tassi di sviluppo del mercato o
struttura dei costi, al grado di elasticità/flessibilità produttiva, al grado di sostituibilità della
fornitura e all’impatto sulla redditività dell’impresa.
Alcuni fornitori sono essenziali per la qualità dei materiali forniti o perché possono essere
sostituiti solo con grandi costi (costi di switching), questo è il cosiddetto potere dei fornitori.

Conclusioni:
- La gestione delle operations svolge un ruolo cruciale nelle scelte operate dall’impresa con
riflessi rilevanti sulla capacità di competere e la capacità di soddisfare i bisogni della clientela.
- I cicli operativi, dall’approvvigionamento, alla produzione, alla distribuzione, hanno subito
rilevanti mutamenti in conseguenza dei cambiamenti radicali che hanno colpito i settori e i
mercati di sbocco.
- Le relazioni con i fornitori spesso hanno superato la valutazione basata meramente sul costo e
sui rapporti di forza opposti, ma si sostengono spesso su basi di collaborazione e cooperazione
continuative.

117
CAPITOLO 24 – LA GESTIONE FINANZIARIA.
La gestione finanziaria: definizione e obiettivi.
Tutte le scelte gestionali d’impresa comportano riflessi finanziari e nella maggior parte delle
imprese le risorse finanziarie sono un fattore scarso che condizionano gli obiettivi.
Dal punto di vista finanziario, l’impresa è costituita da un insieme di risorse e attività che le
consentono di operare nei settori definiti dalla strategia.
Al fine di acquistare o produrre tali risorse, l’impresa deve fare ricorso a fonti di finanziamento che
possono essere scelte tra debiti verso terzi e mezzi propri.
I compiti fondamentali della gestione finanziaria sono:
1) Formulazione di incassi e pagamenti (previsioni di tesoreria) → riguarda i processi operativi
della gestione finanziaria corrente, vanno dalla gestione della liquidità all’ottimizzazione della
gestione dei crediti verso clienti e dei debiti verso fornitori.
2) Dimensione quali-quantitativa degli investimenti → riguarda il Capital Budgeting = il
complesso delle decisioni di investimento.
3) Modalità di raccolta delle risorse necessarie → riguarda i processi strategici = il complesso delle
decisioni di finanziamento.
Gli obiettivi della gestione finanziaria, si occupa di:
- Sviluppare previsioni sul fabbisogno finanziario coerenti con gli investimenti e le esigenze del
capitale circolante.
- Individuare la struttura finanziaria ottimale attraverso mezzi di finanziamento e mix di fonti.
Non esiste alcuna limitazione dimensionale all’istituzione di una gestione finanziaria.
Nelle imprese di piccole dimensioni, generalmente, un unico manager finanziario → “treasurer”
copre tutti i ruoli comprese nelle diverse aree.
Mentre nelle imprese di grandi dimensioni oltre ai treasures possiamo trovare la figura del
“controller”.
• Treasurer → si occupa della raccolta di fondi e della gestione della liquidità.
• Controller → si occupa di verificare se tali fondi sono stati impiegati in maniera efficiente.

L’obiettivo ultimo, sia per le scelte di investimento sia per le decisioni di finanziamento, è la
creazione di valore, nel senso che ogni operazione condotta deve essere in grado di creare valore.
A livello di organizzazione interna i rapporti fra la gestione finanziaria e le altre gestioni sono
spesso caratterizzati da un’intensa dialettica:
- Gestione commerciale → gestisce i rapporti con la clientela, tende a favorire i clienti
concedendo dilazioni di pagamento generose.
- Gestione finanziaria → più lontani vendita e incasso > criticità per reperire risorse monetarie.
- Gestione delle operations → essendo delegata a gestire il denaro è bersagliata da richieste e vere
e proprie politiche consolidate.
- Stretti rapporti con i vertici aziendali → in Italia gli stessi imprenditori gestiscono la finanza a
causa della ritrosia ad aprile la proprietà a nuovi investitori. Pertanto la gestione finanziaria (≠
commerciale e operations) è caratterizzata da un maggior accentramento al vertice
dell’organizzazione e dalla delega (di responsabilità di carattere operativo) a piani più bassi.
La gestione finanziaria insieme a quella commerciale governano i rapporti di credito con la
clientela e con la gestione delle operations gestisce i sistemi di pagamento dei fornitori, il
patrimonio dell’impresa ed esprime pareri sulle varie operazioni.

118
Il fabbisogno finanziario dell’impresa.
Il fabbisogno finanziario trae origine da incrementi delle attività e decrementi delle passività.
Dipende dal fatto che il ciclo di formazione di costi e ricavi incide, oltre che sulla dimensione del
fabbisogno capitale, sul ciclo dei movimenti monetari e poi dalla strategia di crescita.

Solo in tempi lunghi il totale dei costi corrisponde al totale delle uscite e il totale dei ricavi a quello
delle entrate, è diffusa la presenza di costi e ricavi anticipati o differiti.
Il modo, l'entità e i tempi, secondo cui si combinano le entrate e le uscite genera un disavanzo o un
avanzo finanziario (saldo di cassa) che richiederà di essere coperto o di essere impiegato
dall'impresa, cioè di gestire la tesoreria.
Una prima area di generazione del fabbisogno finanziario nell'impresa è l'attività di acquisto-
trasformazione-vendita che genera attività e passività correnti.
La differenza tra attività correnti e passività correnti rappresenta il capitale circolante netto (CCN).
Esso costituisce un elemento molto importante nella gestione finanziaria, un suo aumento
determina un assorbimento di risorse finanziarie, viceversa, la sua diminuzione costituisce una
fonte di finanziamento.
II CCN se positivo rappresenta l'investimento direttamente generato dalla gestione, caratteristica
da finanziare.

L'intervallo di tempo che rappresenta il ciclo del circolante è sempre dato dalla difFerenza tra il
momento dell'incasso e il momento del pagamento.
È bene ricordare la definizione di intensità di capitale, che sta a indicare «l'entità del capitale che
l'impresa in crescita deve impiegare per conseguire un euro di fatturato in più».
Nella gestione finanziaria esiste realmente una distinzione molto netta tra il momento della
pianificazione e quello dell'attuazione delle decisioni. Affinché tali decisioni siano prese
correttamente occorrono approfondite indagini.
Punto di partenza di tale analisi è il bilancio di esercizio, cioè il complesso di documenti che al
termine di un periodo amministrativo esprime il risultato di gestione.
Intorno a questo bisogno si sviluppano la pianificazione e la programmazione finanziaria, proprio
con lo scopo di prevedere importi, tempi di manifestazione e durata dei fabbisogni, e di consentire
una negoziazione anticipata di questi tre elementi, all'interno e all'esterno delle imprese.
- La programmazione finanziaria → è orientata al breve periodo (singolo esercizio) e si basa sul
budget di tesoreria.
- La pianificazione finanziaria → si estende nel medio-lungo periodo.
In tal modo, la gestione finanziaria cerca di preservare la solvibilità (equilibrio finanziario) e la
liquidità (equilibrio monetario) dell'impresa.

119
Le decisioni nell’area degli investimenti.
Le decisioni di investimento possono comportare: nuovi investimenti, disinvestimenti e rinnovi.
La scarsità di risorse finanziarie richiede una valutazione degli investimenti estremamente attenta
dei rapporti fra i flussi generati e assorbiti da ciascun progetto.
Le scelte d’investimento possono riguardare:
- Area commerciale → rete vendita, campagne promozionali, ecc.
- Area delle operations → macchinari e impianti, potenziamento capacità produttiva, ecc.
- Area dell’innovazione/crescita → nuovi prodotti, tecnologie innovative, acquisizioni d’impresa,
ecc.
- Altre aree → Amministrazione, IT,
L’investimento comporta un’operazione di trasferimento nel tempo di risorse caratterizzata
prevalentemente da uscite monetarie in una prima fase e da entrate monetarie in una seconda fase.
Per la valutazione degli investimenti occorre conoscere i seguenti elementi base:
• Entità flussi generati (>vantaggio se la somma algebrica delle entrate e delle uscite è maggiore).
• Distribuzione flussi nel tempo (flussi positivi più vicini nel tempo comportano un >vantaggio).
• Valore finanziario del tempo → riflette l’incertezza/rischio di flussi che non sono attuali, ma
attesi nel futuro, un flusso monetario in entrata oggi non ha il medesimo valore dello stesso
flusso fra un anno. Ciò si lega al VA.
Il valore attuale dell’investimento (VA): il valore ad oggi di un ammontare che sarà incassato
domani deve essere attualizzato.
Si ottiene moltiplicando l’ammontare per un fattore di sconto.
Il tasso di sconto esprime il valore finanziario del tempo e del rischio, è il prezzo che gli investitori
chiedono per accettare la posticipazione di un’entrata.
n
Ft
VA = ∑
(1 + 𝑖)t
t=1
Il tasso i esprime il valore finanziario del tempo e il rischio dell’investimento e può essere calcolato
come il prezzo che gli investitori chiedono per accettare la posticipazione di un’entrata.
La somma dei flussi attualizzati dell’investimento in relazione ad un certo periodo temporale, ci
offre una rappresentazione lorda, in quanto non tiene conto dei flussi in uscita impegnati
nell’investimento iniziale.
Dal valore attuale è, pertanto, necessario passare al valore attuale netto, sottraendo l’ammontare
dell’investimento effettuato.
Il valore attuale netto (VAN): si basa sul calcolo del valore attuale dei flussi generati da un
investimento. Riconduce al tempo presente tutti i flussi positivi e negativi derivanti l’investimento.
n
VAN = ∑ Ft − 𝑰
𝟎
(1 + 𝑖)t
t=1
𝐼0 indica l’ammontare dell’investimento effettuato.
Un investimento con un VAN < 0 è assolutamente da escludere perché distrugge ricchezza.

La raccolta dei mezzi finanziari.


Le decisioni di finanziamento riguardano le forme tecniche e modalità attraverso le quali si
assicura la copertura del fabbisogno finanziario di un investimento, inteso come saldo negativo tra
entrate e uscite, generato sia dalla gestione corrente che dalle operazioni di investimento.
La scelta delle fonti di copertura deve essere effettuata per ottimizzare i costi, in quanto tutte le
fonti di finanziamento sono onerose (non solo il finanziamento a titolo di debito).
I. Le fonti di finanziamento: classificazioni.
• Natura/provenienza:
- Fonti interne → autofinanziamento generato dalla gestione corrente (impresa) e disinvestimenti.
- Fonti esterne → capitale di rischio (o capitale proprio) e capitale di debito.

120
La divisione dei dividendi prevede un’uscita monetaria per l’impresa ma un’entrata monetaria per
l’azionista.
Il Capital gain prevede nessun movimento monetario per l’impresa ma un’entrata monetaria per
l’azionista.
• Struttura:
- Finanziamento a struttura indefinita → tra le operazioni rientrano: finanziamento a titolo di
capitale di rischio - incertezza sulla scadenza e sulla remunerazione; prestiti a tempo
indeterminato - incertezza sulla scadenza ma certezza sulla remunerazione; mutui e
obbligazioni a tasso variabile - incertezza sulla remunerazione ma certezza sulla scadenza.
- Finanziamento a struttura definita → tra le operazioni rientrano: anticipazioni a scadenza fissa
o definita; mutui e obbligazioni a tasso fisso; operazioni di leasing finanziario.
Per le operazioni di finanziamento a struttura perfettamente definita è sempre possibile
identificazione in modo puntuale il profilo quantitativo e qualitativo dei flussi monetari collegati, al
contrario delle operazioni a struttura indefinita.
La figura propone un possibile
ordine gerarchico delle fonti di
finanziamento per le imprese
italiane, da destra verso
sinistra.

Facendo riferimento alle problematiche di ricerca delle possibili fonti di finanziamento attivabili, è
possibile a grandi linee sottolineare quattro differenti aree di scelta e per ognuna varie tipologie di
strumenti.

Il quadrante 1 fa riferimento alle fonti di capitale proprio, spesso sono risorse non sufficienti.
L'autofinanziamento trova la principale limitazione nella disponibilità nel tempo e nella variabilità,
soprattutto in situazioni concorrenziali e di settore molto fluide.
Il ricorso alle risorse dei soci, tramite aumenti di capitale risulta limitato dalle dotazioni personali,
dal coinvolgimento, dalla visione imprenditoriale e del numero di soci stessi.
A questo punto le scelte sono due: il debito (quadranti 2 e 3) o l'apertura del capitale a soci nuovi
ed esterni (quadrante 4).
Gli strumenti del debito:
• Il mutuo bancario → ha un costo medio basso e un’elevata stabilità ma purtroppo presenta i
seguenti difetti:
- Complessità di ottenimento (onerosità delle procedure, tempi lunghi e differenziale di potere
negoziale).
- Garanzie reali e personali da concedere.
- Copertura parziale (%) dell’investimento.
- Le erogazioni intervengono post investimento.
• Il leasing → è caratterizzato da: facilità di ottenimento, flessibilità di gestione e benefici fiscali
connessi. I difetti sono che ha costi più elevati.

121
(Leasing = una parte (locatore) si impegna ad acquistare e cedere in locazione un bene acquisito
presso un fornitore a un’altra parte (locatario), la quale, al termine del contratto, ha la facoltà di
acquistarlo a un prezzo prefissato (opzione di riscatto)).
• Le obbligazioni → si ottengono in tempi medi, hanno assenza di garanzie collaterali e di
intermediari finanziari, oltre che la possibilità di ibridazione.
I difetti sono composti da: formalità societarie cui adempiere, tempi di collocamento e limiti
legislativi.

Conclusioni:
- La gestione finanziaria dell’impresa attiene ad un sistema di valutazioni, decisioni e attività
estremamente delicate.
- Il gap temporale tra la manifestazione dei flussi in entrata dell’investimento e quella dei flussi
in uscita per sostenere i piani di rimborso dei finanziamenti necessita capacità di valutazione e
coerenza.
- Pur nella diversità delle fonti finanziarie disponibili per l’impresa, quest’ultima non ha il
controllo sulle stesse che dipendono dal giudizio di altri attori.
- La difficoltà nel reperimento delle fonti dipende anche dalla struttura dei mercati finanziari e
condiziona lo sviluppo, se non la permanenza nel mercato, delle imprese.

122
CAPITOLO 25 – GESTIONE DEI RISCHI E PROTEZIONE DELLE RISORSE
AZIENDALI.
La protezione delle risorse aziendali: definizioni e obiettivi.
Assume rilevanza la gestione dei rischi orientata alla protezione delle risorse aziendali (asset)
perché consente di stabilizzare i flussi di cassa attesi, di dare maggiore certezza agli investimenti, di
ridurre il costo di eventuali incidenti e di migliorare l’efficienza operativa.
Le risorse aziendali sono esposte s rischi e minacce ce possono produrre danni al patrimonio,
diminuendone il valore e ostacolando lo svolgimento delle attività d’impresa.

I. La gestione dei rischi d’impresa.


La nozione di rischio è espressione di una grandezza non nota a priori (incerta nel quantum e nel
quando) e riguarda la manifestazione di eventi che possono avere: esiti avversi, positivi e neutri.
A differenza dell’azzardo, può essere misurato.
Per la gestione dei rischi è necessario distinguere tra:
• Rischi speculativi (business risk rischio strategico),→ offrono la possibilità di una perdita, ma
anche di un guadagno.
Sono i tipici rischi connessi all’esercizio dell’attività imprenditoriale e accompagnano quasi
tutte le decisioni imprenditoriali. Si distinguono in:
- Rischio di mercato = riguardano la domanda di beni (es. variazioni quota di mercato).
- Rischio di settore = riguardano i fattori imprevedibili che possono colpire un intero settore.
- Rischio politico = riguardano fenomeni di instabilità politica e sociale.
- Rischio paese = è connesso allo svolgimento di operazioni con paesi stranieri.
- Rischio finanziario = dipendono da variazioni di fattori che influenzano i flussi finanziari
aziendali (es. rischio di cambio).
- Rischio di produzione = riguardano la disponibilità, coordinamento e organizzazione dei fattori
produttivi (es. guasto).
- Rischio tecnologico = derivano da evoluzione tecnologica inattesa che rendono obsoleti processi
o prodotti.
- Rischi di struttura = rischio di errore nel dimensionamento di strutture tecniche,
amministrative e di servizio.
• Rischi puri (non competitivi) → comportano unicamente la possibilità di una perdita.
Solitamente sono rischi assicurabili. Si dividono in:
- Rischi di proprietà = danni ad assets materiali e immateriali (per incendio, furto, …).
- Rischi di responsabilità civile verso terzi = rigurdano gli oneri derivanti da responsabilità
contrattuali ed extracontrattuali.
- Rischi di interruzione dell’attività = son relativi a danni indiretti dovuti alla business
interruption.
- Rischi di sicurezza sul lavoro = riguardano danni che i dipendenti possono subire per incidenti
sul lavoro o malattie professionali.
- Rischi legati alla protezione dell’ambiente = si riferiscono a possibili violazioni alla normativa
ambientale e ai costi connessi.
Al di là della classificazione, rischi speculativi e puri sono nella pratica strettamente interconnessi.

II. La protezione aziendale.


La protezione aziendale si occupa della tutela dell’impresa da atti ed eventi di natura non
competitiva che possano ricadere in modo negativo o catastrofico sulla capacità dell’azienda di
perseguire le proprie finalità, soddisfacendo le attese di tutti gli stakeholder.
L’obiettivo è l’elaborazione e l’applicazione di misure idonee a fronteggiare i rischi a cui è soggetta
l’attività aziendale, per evitarli o quanto meno contenere il loro impatto negativo sulla performance
d’impresa attraverso attività di prevenzione o/e attività di riduzione del danno.
La presenza di un rischio determina una perdita patrimoniale conseguente sotto uno o più di questi
aspetti:
- Perdita della disponibilità di risorse → attraverso la distruzione o sottrazione di specifici asset.

123
- Modifica indesiderata delle risorse → alterazione non voluta che determina una menomazione
dell’ idoneità all’uso (es. modifica dolosa di un software o database).
- Perdita dell’esclusività delle risorse → condivisione della risorsa da parte di un terzo che la può
sfruttare in concorrenza con l’impresa, rischio di violazione della riservatezza.

III. Le aree gestionali.


• Security → è la difesa dell’impresa contro eventi dolosi e contro le azioni criminali provenienti
dall’esterno o dall’interno. Si concentra sulla protezione fisica del patrimonio tangibile e
immateriale.
È di sua competenza la gestione degli allarmi, la sorveglianza, l’investigazione.
• Safety → è la difesa dell’impresa contro gli eventi accidentali. Si occupa della sicurezza sul
lavoro (ossia la difesa dei lavoratori dal rischio di incidenti e malattie professionali).
• Enviromental maagment o protezione dell’ambiente naturale → è la tutela dell’ambiente
naturale da agenti inquinanti generati direttamente o indirettamente dall’attività aziendale
(consiste in: adempimento di normative pubbliche, rispetto obblighi verso la comunità e
soddisfacimento degli stakeholder).
Oggi si tende a riunire sotto una gestione integrata la safety e la protezione dell’ambiente e si parla
di health,safety & enviroment (HSE).

Due ulteriori aree gestionali assumono una posizione trasversale rispetto alla natura dei singoli
rischi. Parliamo di:
• Risk management → è una speciale metodologia di protezione aziendale. Si caratterizza per il
fatto di basarsi su un processo di analisi del rischio, valutazione economica delle alternative e
applicazione dell’intervento prescelto. La prevenzione è alternativa all’assicurazione.
• Crisis management → è la gestione della risposta dell’impresa all’evento dannoso quando
questo è ancora in corso o non ha ancora esaurito la produzione dei suoi effetti.

La security: la protezione da atti illeciti.


Le tematiche di rilievo sono:
• White collar crime → include una gamma di comportamenti lesivi attuati dai dipendenti. Il più
comune è il furto, per prevenire questi comportamenti illeciti da parte dei dipendenti è
opportuno ricorrere: al principio di separazione delle responsabilità, al controllo degli accessi
ad aree critiche, al mantenimento di elevati livelli di soddisfazione tra i dipendenti e a un
significativo grado di coesione organizzativa.
• Computer crime → comportamento illecito di qualunque tipo che abbia come oggetto o come
strumento il pc. Consiste in un attacco alle componenti informatiche del sistema informativo.
L’attacco può essere fine a se stesso o un mezzo per realizzare reati tradizionali, quali lo
spionaggio e la truffa.
Può colpire una o più delle fondamentali componenti del sistema informatico: hardware,
software, dati e comunicazioni.
Si possono distinguere quattro tipi di sicurezza informatica (utili da attuare):
- Sicurezza fisica (server). - Sicurezza logica (crittografia).
- Sicurezza procedurale (password, firewall). - Sicurezza organizzativa (ispezione).
• Spionaggio industriale → attività illecite volte ad aggirare il sistema di intelligence aziendale
per ottenere informazioni sensibili.
Tutte le grandi imprese dispongono di sistemi di intelligence, ossia sistemi formale di raccolta di
notizie riguardanti la concorrenza, ma il confine fra intelligence e spionaggio è incerto.
Le imprese che ricorrono allo spionaggio sono spinte da ragioni di natura economica, dato l’elevato
valore di informazioni e conoscenze relative a (oggetto del crimine):

124
- Tecnologia e know how (prototipi, disegni, progetti, …).
- Strategie (piani, preparazione di nuovi prodotti, …).
- Dati commerciali (statistiche di vendita, elenchi di clienti, …).
Chi ricorre allo spionaggio dispone una vasta scelta di strumenti che si possono riunire in quattro
grandi gruppi (strumenti del crimine):
- Spionaggio elettronico (microfoni e telecamere nascoste, …).
- Introduzione di spie ( sia illegalmente che legalmente tramite assunzione spia).
- Spionaggio informatico (si tenta di accedere a database o linee di trasmissione dei dati).
- Spionaggio per mezzo di dipendenti (è la tecnica più diffusa — tramite corruzione, ricatto, …).
Lo spionaggio provoca danni rilevanti nella sfera della competitività aziendale.
La strategia di difesa si articola in:
- Investigazione (controspionaggio con forze dell’ordine e nei limiti della legalità).
- Sorveglianza (personale, elettronica, locali, …).
- Protezione delle strutture (allarmi, casseforti, fotocellule, …).
- Protezione informatica (firewall, …).
- Tutela organizzativa (repressione del white collar crime, costruzione riservatezza e fedeltà).

Health & Safety: la salute e la sicurezza sul lavoro.


La sicurezza sul lavoro (safety) consiste nell’insieme delle attività aziendali volte a garantire l’igiene
e la sicurezza dei luoghi di lavoro.
L’obiettivo è la tutela della salute dei lavoratori, intesa come integrità psico-fisica e stato di
benessere. Più precisamente, le attività di safety sonno finalizzate a proteggere i lavoratori da:
• Infortunio → è composto da 3 elementi: occasione di lavoro, causa violenta e lesione fisica.
• Malattia professionale → è un evento dannoso, derivante da una causa lenta e progressiva, che
comporta la riduzione della capacità lavorativa del soggetto colpito.
• Alienazione → comprende le problematiche attinenti alla qualità della vita lavorativa e al
benessere psichico e sociale dei lavoratori.
In Italia, la sicurezza sul lavoro ha subito un fondamentale cambiamento grazie all’emanazione
della normativa D.Lgs. 626/1994 e ss. modifiche, la quale impone a tutte le imprese obblighi
relativi alle modalità secondo le quali organizzare la gestione aziendale della sicurezza del lavoro.
Gli aspetti di maggior rilievo riguardano:
- Obbligo di valutazione dei rischi → identificazione rischi con conseguenti misure di prevenzione
e misure di protezione da indicare.
- Creazione di specifiche figure professionali → a cui sono assegnati compiti in materia di
sicurezza sul lavoro e l’attribuzione dei diversi attori aziendali di responsabilità.
- Diretto coinvolgimento dei lavoratori → attraverso la responsabilizzazione dei singoli e il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.

Enviromental management: la protezione dell’ambiente naturale.


Fino a non molto tempo fa l’ambiente naturale non veniva considerato una risorsa economica, la
questione ecologica ha assunto crescente importanza presso la pubblica opinione.
A partire dagli anni ’80 si è assistito a una progressiva integrazione tra istanze economiche ed
ecologiche, fino alla costruzione del concetto di sviluppo sostenibile.
L’ambiente è diventato un elemento imprescindibile dello sviluppo economico (ambiente come
stakeholder). È un bene scarso dunque è visto come risorsa da proteggere.
Le aziende affrontano la questione di protezione dell’ambiente tramite le attività di strategia
aziendale e operativa, al fine di:
- Eliminare il rischio sanzioni e salvaguardare l’immagine aziendale, assicurando legittimità
sociale.
- Difendere e consolidare il proprio vantaggio competitivo (per la sopravvivenza aziendale).
L’impresa può adottare due approcci di gestione della variabile ambientale.
• Ex post → volto al risanamento delle condizioni ambientali alterate dall’attività produttiva.
• Ex ante → prevenzione dell’inquinamento (eco-efficienza: ottimizzazione materie e scarti + riutilizzo).

125
Il ruolo dell’environmental management è favorire l’impegno ecologico dei diversi organi
aziendali. I suoi compiti sono:
- Formulazione delle linee guida e delle politiche ecologiche dell’impresa.
- Reportistica dedicata → bilancio ambientale.
- Coordinamento iniziative di formazione/informazione del personale.
- Introduzione di sistemi di gestione e controllo ambientale (environmental management
system).
- Adesione volontaria a programmi privati o pubblici.
- Definizione di piani di emergenza
- Cura dell’immagine e della comunicazione adeguate.
(In genere l’integrazione tra protezione ambientale e safety si giustifica con i benefici di natura
sinergica).
L’enviromental management supporta il complessivo impegno ambientale dell’impresa favorendo
l’armonizzazione degli obiettivi economici con quelli ecologici.
Pertanto con una gestione ambientale attiva e consapevole si perseguono:
- Obiettivi competitivi → i quali comprendono la riduzione dei costi connessi ai processi di
produzione grazie alla maggiore efficienza di utilizzo delle materie prime e differenziazione del
processo produttivo/prodotto in quanto maggiormente environment friendly rispetto ai
concorrenti.
- Obiettivi sociali → consolidamento della legittimità sociale dimostrando attenzione verso gli
stakeholder interessati alla variabile ecologica.

Il risk management: l’approccio integrato alla gestione dei rischi.


Il trattamento del rischio consiste nell’insieme di attività con cui si controllano i rischi a cui
l’impresa è esposta, al fine di garantire un livello di sicurezza accettabile.
L’entità del rischio accettabile dipende dalla propensione organizzativa, ciò che conta è che si
stabilisca una chiara ed esplicita politica aziendale nei confronti del rischio.
Il risk managment si fonda sull’idea che le attività avviate da un’impresa non abbiano un esito
certo.
Si occupa di gestire, prevenire e finanziare tutte le vulnerabilità aziendali, è fondato su un
approccio scientifico all’identificazione e alla valutazione del rischio.
Permette il trattamento unificato dei rischi puri e dei rischi speculativi, con metodi simili per:
- Obiettivo perseguito → portare il rischio ad un livello accettabile.
- Logica d’azione → secondo la quale le decisioni finali dipendono dall’analisi preliminare (rischio).
Si propone come procedura integrata di gestione dei rischi articolata in 4 fasi
1) Identificazione dei rischi.
2) Valutazione dei rischi.
3) Determinazione delle priorità di intervento.
4) Trattamento del rischio.
Le prime due fasi costituiscono l’analisi del rischio → risk analysis mentre le ultime due
definiscono le scelte di gestione da attuare.

Il crisis management: la gestione delle emergenze.


La protezione delle risorse aziendali si realizza in primo luogo mediante la prevenzione della
minaccia. Ciò nonostante, anche quando si predispongono le migliori misure di sicurezza, gli eventi
dannosi possono ancora accadere.
Le crisi sono eventi che si manifestano in forme molto pesanti che hanno un impatto profondo
sulle attività d'impresa. Esempi sono: gravi incidenti industriali, avvelenamenti gravi del prodotto,
catastrofi ecologiche ecc.).
La gestione delle emergenze è un problema di elevata complessità, fortemente esposto al rischio di
errori, con emergenza s’intende un evento estraneo al normale corso dell'attività economica che
coinvolge direttamente o indirettamente l'azienda e le causa un danno di grave entità.

126
Ogni evento è contraddistinto da:
- Elevata gravità → sono eventi che colpiscono l'immagine aziendale e suscitano la potenziale
riprovazione dell'opinione pubblica.
- Inapplicabilità delle routine di comportamento → quando l'evento obbliga l'organizzazione ad
abbandonare le pratiche correnti e a creare modalità speciali di fronteggiamento.
- Forte pressione temporale → impone di prendere decisioni in tempi assai rapidi, a causa del
possibile aggravarsi degli effetti già manifestatisi.
La gestione dell'emergenza ha lo scopo di condurre l'impresa fuori da questi difficili frangenti,
cercando di accelerare il superamento dell'evento, contenerne immediatamente le manifestazioni e
sopprimere potenziali conseguenze di lungo periodo.
In generale, le attività di crisis management si possono distinguere a seconda del momento
temporale cui si riferiscono:
• Prima dell'evento di crisis → è necessario cogliere i segnali premonitori e intervenire
prontamente con la predisposizione dei piani di emergenza. I piani specificano procedure
operative, canali di comunicazione privilegiati, politiche di relazione con i media, risorse …
• Durante la situazione di emergenza → è indispensabile la prontezza della risposta, ossia la
velocità nel mobilitare e radunare le risorse indispensabili all'intervento. È utile attivare il
cosiddetto “comitato di emergenza”, il cui compito è supplire allo scardinamento delle routine
sviluppando rapidamente piani di azione secondo le esigenze del momento.
• Dopo la tempesta → nei piani di emergenza occorre pertanto attivare le procedure di recupero,
con lo scopo di velocizzare e rendere quanto più possibili economici gli interventi di
sostituzione delle risorse perdute e di ricostruzione dell'immagine aziendale.

Conclusioni:
- Il risk management deve diventare un sistema integrato nell’azienda.
- L’approccio migliore è quello proattivo che non si limita alla compliance, ma che va oltre gli
obblighi di legge.
- Le aree di rischio sono distinte ma correlate ed esiste un effetto di risonanza che può
comportare una persistenza del danno e l’emersione di danni secondari e ulteriori.
- Prevenzione, trattamento e tempestività sono i fattori chiave per ottenere un livello di rischio
accettabile.
- Anche i rischi che sono assicurabili, non devono escludere interventi di management specifici: i
danni economici non sono mai quantificabili a priori.

127
CAPITOLO 26 – LA MISURAZIONE DELLA PERFORMANCE.
Il successo dell'impresa e le sue dimensioni.
L'impresa per garantirsi lo sviluppo e la sopravvivenza nel tempo deve creare ricchezza, ossia
valore, inteso come grandezza che assicura all'impresa la capacità di soddisfare secondo modalità
differenti le esigenze degli stakeholder.
La finalità generale della creazione di valore si può articolare in alcuni obiettivi specifici, che
possono avere un orizzonte temporale di riferimento di breve o di lungo periodo.
L'obiettivo di creare valore coinvolge le dimensioni fondamentali dell'attività d'impresa:
a) La dimensione economica, patrimoniale e finanziaria.
b) La dimensione competitiva.
c) La dimensione sociale e ambientale.
a) La dimensione economica, patrimoniale e finanziaria riguarda: la capacità dell'impresa di
garantire coerenza tra redditività e le sue prospettive di crescita in termini di solidità
patrimoniale e di liquidita; e riguarda la capacità di remunerare in maniera adeguata i mezzi
finanziari di terzi e propri.
b) La dimensione competitiva riguarda il conseguimento, il mantenimento e il consolidamento del
successo competitivo sui mercati in cui l'impresa opera o intende operare. A tale scopo si
adottano scelte strategiche a supporto di vantaggi concorrenziali duraturi, quali:
- le politiche commerciali di mercato. - l'attività di produzione.
- la posizione tecnologica. - l'orientamento alla qualità.
c) Con la dimensione sociale e ambientale, l'impresa ricerca un consenso duraturo da parte degli
stakeholder coinvolti o interessati alla gestione aziendale.
È evidente che chi giudica l'impresa ne valuterà in modo differente il comportamento e i risultati,
in funzione prima di tutto dei propri interessi. Tale percezione dipende anche dalle politiche
comunicazionali dell'impresa, cioè dalle modalità con cui essa gestisce o prova a gestire i flussi
informativi che raggiungono gli stakeholder (diffusione del valore).
Il solo approccio contabile, di natura economica, patrimoniale e finanziaria, per quanto
fondamentale, non è più sufficiente per assicurare un forte controllo della gestione aziendale e a
misurare il valore creato, ma deve essere integrato da metodi valutativi più complessi.

La gestione del valore d'impresa e i value drivers della sua crescita.


La gestione del valore da un lato rappresenta un obiettivo fondamentale dell'impresa, capace di
guidare le scelte strategico-gestionali del management, dall'altro è una grandezza in grado di
esprimere la performance complessiva dell'impresa come sintesi dei risultati raggiunti rispetto alle
tre dimensioni.
Una gestione orientata al valore (value-based management, VBM) parte dall'analisi della dinamica
finanziaria dell'impresa effettuata tramite un'attenta analisi dell'assorbimento e della generazione
di cassa a livello operativo, distinguendo nella formazione dei flussi tra:
- flussi netti generati dall'impresa tramite la gestione acquisto-trasformazione-vendita.
- flussi netti generati dall'impresa attraverso la gestione degli investimenti
(investendo/disinvestendo in capitale fisso, dilatazione/riduzione del capitale circolante netto
(CN), operazioni di fusioni e acquisizioni (M&A)).

128
La somma di tali flussi dà come risultato il flusso di cassa operativo totale o free cash flow from
operation (FCFO) che l'impresa, con diversi value drivers, è in grado di generare per remunerare
entrambe le categorie di finanziatori, azionisti e a titolo di debito.
L'analisi del valore generato, per comprendere il posizionamento dell'impresa e le sue possibili
evoluzioni, parte dalla scomposizione dei flussi sintetici (FCFO) nei differenti value drivers che li
determinano, questi possono essere:
• Drivers di tipo economico (vendite, costi, capitale circolante ecc).
• Drivers di tipo operativo (dimensione e dinamica del mercato, quota di mercato dell'impresa,
soddisfazione del cliente ecc).
L'analisi di bilancio parte dal riclassificare i valori contenuti nello stato patrimoniale e nel conto
economico, per giungere alla dinamica finanziaria dell'impresa dove si individuano i flussi
monetari che hanno avuto luogo nell'esercizio.
Lo schema di stato patrimoniale (illustrato di seguito) considera le varie voci dell'attivo come
impieghi di risorse; la sezione delle passività pone in luce, invece, con quali strumenti gli impieghi
sono finanziati, ossia le fonti di finanziamento.
Sinteticamente, all'equazione contabile dello stato patrimoniale:
Attività = Passività + Patrimonio netto
si sostituisce l'equazione finanziaria:
Impieghi = Fonti.

Gli impieghi. Le fonti.


• Attivo fisso netto: • Mezzi propri → composti dal capitale
- Immobilizzazioni materiali → beni sociale e da riserve di varia natura.
collegati con il processo produttivo (es. • Debiti finanziari (sia a breve che a
impianto di produzione). medio-lungo termine) →
- Immobilizzazioni immateriali → beni non - Debiti verso banche.
fisicamente identificabili, forniscono - Obbligazioni.
utilità al processo economico per più - Fonti finanziarie non legate all’attività
esercizi (es. marchi, brevetti e corrente.
avviamento).
- Immobilizzazioni finanziarie → • Passività correnti →
solitamente partecipazioni al capitale di - Debiti verso i fornitori.
rischio di società controllate e collegate e - Debiti verso istituti previdenziali.
altri investimenti.
• Attivo corrente: è composto da tutte le
attività legate al ciclo di acquisto-
produzione-vendita.
Si tratta principalmente di impieghi in
scorte, ratei e risconti e in crediti
commerciali.

I. Quantità di sintesi.
La differenza tra attivo corrente e passività correnti rappresenta il capitale circolante netto (CCN).
- Se positivo (aziende industriali), rappresenta l'investimento direttamente generato dalla
gestione caratteristica.
- Se negativo, per altri tipi d’impresa (distributive), costituisce un’ulteriore forma di
finanziamento degli impieghi.
CCN = attivo corrente – passività correnti
La posizione finanziaria netta (o indebitamento finanziario netto) (PFC).
Il concetto di posizione finanziaria netta è particolarmente utile per misurare l'effettivo grado di
indebitamento delle imprese.
PFN = debiti finanziari - attività liquide (cassa, conti bancari attivi, titoli negoziabili, crediti finanziari)

129
Le voci del conto economico devono essere riclassificate in ottica funzionale, secondo la pertinenza
gestionale.
La tabella mostra uno schema di conto economico scalare.
La riclassificazione riportata nella tabella sulla sinistra evidenzia i
risultati intermedi delle varie gestioni: quella operativa, quella
finanziaria, quella straordinaria e quella fiscale.
L'obiettivo dell'analisi finanziaria del conto economico consiste, dunque,
nella ricostruzione dei flussi monetari formatisi nel corso dell'esercizio.
Pertanto dalla prospettiva economica che sottende il conto economico,
sintetizzabile nell'uguaglianza:
Ricavi - Costi = Utile
si deve sostituire con l'equazione in prospettiva finanziaria:
Entrate - Uscite
Allo scopo di una lettura finanziaria occorre evidenziare quelle voci del conto economico che
rappresentano costi o ricavi ma non costituiscono, rispettivamente, uscite ed entrate monetarie (es.
ammortamento).
Il documento che permette di ricostruire i flussi secondo la logica finanziaria è il cash flow
statement.
La dinamica finanziaria, quindi, mira a evidenziare tutti i flussi finanziari generati nel corso
dell'esercizio, determinati a partire dall'analisi del conto economico e dello stato patrimoniale.

Le determinanti dei FCFO possono essere poste in


forma scalare partendo dalle riclassificazioni del
bilancio come schematizzato nella tabella a sinistra
(mostra la determinazione di flussi).
Le risorse liquide generate dalle operazioni
correnti di gestione possono essere calcolate
sommando algebricamente al risultato operativo
tutti quegli oneri che non hanno rilevanza
finanziaria (che non danno luogo, cioè, a effettivi
movimenti monetari - in aziende industriali si
tratta appunto di ammortamenti).
Si parte dal margine operativo lordo (MOL), —
ammortamenti = reddito operativo (RO), che
rappresenta il risultato della gestione operativa.
RO – imposte = RO netto d'imposte.
Se (ad esso) + costi non monetari (ammortamenti
e accantonamenti) = flusso di circolante generato
dalla gestione corrente (MOL al netto d'imposte).
Poi MOL netto d'imposte +/- CCN = Flusso monetario della gestione corrente = MOL netto
imposte – DCCN.
Considerando poi investimenti in attività fisse e disinvestimenti, si ottiene il FCFO.
Da questo, aggiungendo l'acquisizione di mezzi finanziari e sottraendo i rimborsi di finanziamenti e
la remunerazione del capitale finanziario, si passa al flusso monetario disponibile per l'azionista
(FCFE).
Lo schema di determinazione del flusso monetario disponibile per gli azionisti, riportato nella
tabella, può essere completato se a quest'ultimo (FCFE) aggiungiamo o sottraiamo gli incrementi di
capitale e i dividendi ottenendo, in tale maniera, il saldo monetario dell'esercizio.

130
Misurare la performance economica, patrimoniale e finanziaria.
Per cogliere le molteplici dinamiche economico-finanziarie si ricorre a quozienti, calcolati su dati di
bilancio opportunamente riclassificati.
I quozienti sono gli indicatori più usuali e tipici dello stato di salute aziendale. L'utilizzo di questi
strumenti consente, infatti, di mettere a fuoco aspetti fondamentali della vita dell'azienda, quali la
redditività, la solidità patrimoniale e la struttura finanziaria, in grado di sintetizzare, chiarire ed
esplicitare fenomeni complessi afferenti la gestione aziendale.
I quozienti più rappresentativi ai fini dell'analisi sono:
i. il ritorno sull'investimento (ROI).
ii. il ritorno sul capitale netto (ROE).
iii. il rapporto d'indebitamento.
Il ROI (return on investment) e il ROE (return on equity) sono indici di redditività che
quantificano la capacità dell'impresa di generare reddito.
Tramite tali indicatori si può effettuare un confronto tra aziende differenti per settore di
appartenenza e dimensione, o valutare l'andamento di un'impresa nel tempo.
i. La formula base per la determinazione del ROI è:
Reddito operativo
ROI =
Attività operative medie nette
Il ROI, consentendo di evidenziare il grado di efficienza con cui l'impresa impiega le proprie
risorse, è un parametro molto utilizzato per la valutazione dei risultati a livello aziendale e
divisionale (deve essere inserito in una chiara e ben articolata strategia non è obiettivo di breve
periodo fine a se stesso).
ii. Il ROE esprime la redditività del capitale proprio, mediante il rapporto:
Reddito netto
ROE =
Patrimonio netto
Il ROE misura il risultato economico (al netto di oneri finanziari e imposte) destinato agli
azionisti come ritorno del capitale da essi apportato nell'impresa. (In quanto indice di redditività, il
ROE soffre degli stessi difetti del ROI).
iii. Il rapporto di indebitamento, rapporto tra debiti e capitale proprio, cioè il leverage (o leva
finanziaria), è un indice della solidità patrimoniale dell'impresa, ossia della sua capacità di far
fronte agli impegni nel medio-lungo periodo e della congruità della struttura finanziaria
adottata.
La formula è:
Debiti finanziari
Rapporto di indebitamento =
Capitale netto
Il rapporto d'indebitamento può essere letto come indicatore della partecipazione degli
azionisti (ovvero di terzi) al finanziamento delle attività aziendali o come indicatore di
proporzionalità tra mezzi finanziari che impongono all'impresa un vincolo di remunerazione e
mezzi finanziari la cui remunerazione dipende da scelte discrezionali dell'alta direzione
dell'azienda (mezzi propri).
Può anche essere inteso come espressione della propensione al rischio del management o dei
proprietari dell'impresa (il rapporto d'indebitamento ottimale varia a seconda dell'impresa).
In conclusione, il bilancio di esercizio e i quozienti non sono in grado da soli di chiarire l'estrema
complessità dell'impresa.
Le dinamiche competitive, la responsabilità sociale, i processi d'innovazione, le politiche di tutela e
valorizzazione delle risorse naturali sono tutti aspetti della gestione aziendale difficilmente
sintetizzabili in indici di tipo finanziario o reddituale.
Pertanto, appare necessario integrare gli strumenti di misurazione con altri..

131
La misurazione della performance competitiva.
Il processo di formulazione delle strategie aziendali si fonda sulla definizione di molteplici obiettivi
parziali che insieme concorrono al raggiungimento dell’obiettivo principale (è il fine ultimo),
ovvero la massimizzazione del valore del capitale economico.
L'esigenza di misurazione della performance competitiva ha determinato la messa a punto di
un'ampia varietà di tecniche. È bene ricordare come le tradizioni e le pratiche sviluppate nei diversi
paesi hanno condotto a situazioni diverse per quanto rigurda la diffusione e il perfezionamento dei
diversi indicatori.
Ci limitiamo a un esame dei criteri di misurazione che hanno avuto maggiore utilizzo (privilegiamo
la prospettiva d'indagine di processo). Ci si occupa in particolare di:
I. Indicatori della performance nei rapporti con il mercato → quota di mercato, marca, tasso di
penetrazione, indice di copertura ponderata, …
II. Indicatori della performance tecnologico-produttiva → costo di produzione, efficienza,
elasticità, flessibilità produttiva ...; posizione tecnologica, risorse destinate alla R&S, numero e
importanza dei brevetti ...
I. La performance nei rapporti con il mercato.
Si esamina attraverso alcuni indicatori che consentono di verificare i risultati conseguiti
dall'impresa rispetto a precisi obiettivi di gestione.
• La quota di mercato assoluta è definita dal rapporto tra le vendite in volume del prodotto 𝑥
dell'impresa 𝛼 e le vendite complessive nel mercato di riferimento, misurata in valore
(fatturato), in pezzi o in volumi, mediante unità di misura fisiche (litri, tonnellate ecc.).
𝑉𝑜𝑙𝑢𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑒𝑛𝑑𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑥
𝑄𝑢𝑜𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑟𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑥 =
𝑉𝑒𝑛𝑑𝑖𝑡𝑒 𝑡𝑜𝑡𝑎𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑑𝑜𝑡𝑡𝑜
È una misura fondamentale per valutare le capacità competitive di un'impresa (potere di
mercato) in rapporto ai principali concorrenti.
La quota di mercato è indice del grado di soddisfazione del cliente e descrive come le preferenze
dei consumatori si distribuiscono tra l'impresa e i suoi concorrenti.
La quota di mercato relativa è espressa dal rapporto tra quota di mercato assoluta dell'impresa
𝑎 (o di un suo prodotto 𝑥) e quota di mercato di un concorrente, normalmente il principale.
• L'indice di penetrazione e il grado di copertura ponderata del mercato, sono indici che fanno
parte degli indicatori in grado di fornire informazioni sulla capacità competitiva dell'impresa.
Fanno luce sul rapporto esistente tra l'impresa e due categorie critiche di clienti: i consumatori
e la distribuzione.
Ricollegandoci al concetto di quota, è possibile scomporla nei due indici appena citati (è il loro
prodotto), espressione della relazione tra impresa e distribuzione:
- Livello di penetrazione → ci si riferisce al rapporto tra le vendite effettuate alla clientela e gli
acquisti totali di quest'ultima.
- Grado di copertura ponderata della clientela → indica il rapporto tra gli acquisti totali della
clientela per un prodotto e le vendite totali del prodotto nel settore.
VA VA Acs
𝑄𝑢𝑜𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒𝑟𝑐𝑎𝑡𝑜 = = ⋅ = 𝑃𝑒𝑛𝑒𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 ⋅ 𝐶𝑜𝑝𝑃𝑜𝑛𝑑𝑒𝑟𝑎𝑡𝑎
VT Acs VT
dove:
VA = vendite dell'azienda (o di un prodotto 𝑥).
VT = vendite totali (mercato di riferimento).
Acs = acquisti totali della clientela servita (mercato di riferimento).
Dalla scomposizione della quota di mercato nei due indici emergono rilevanti informazioni su
come l'azienda ha ottenuto la performance desiderata.
• La marca è costituita da un nome, termine, simbolo o una combinazione di questi, che mira a
identificare i beni e i servizi di un'impresa o di un gruppo di imprese, e a differenziarli da quelli
dei concorrenti. È un indice di customer satisfaction.

132
La marca può individuare un singolo prodotto (Dixan,…), oppure può essere associata a un
insieme di prodotti relativamente omogeneo (Barilla, Sony o Kellogg's,…), o può riferirsi a un
gruppo di imprese ed essere associato a beni e servizi eterogenei (Nestlé, Danone,…).
La marca o brand è un fattore in grado di contribuire in modo determinante alla crescita e al
successo dell'impresa ed è una componente estremamente importante del suo patrimonio
immateriale (Rolex, Coca Cola, Ferrari, Apple). Una marca nota è un elemento di attrazione per
il consumatore e consente di sviluppare un rapporto di forza con la distribuzione.
Per il consumatore la marca è un elemento in grado di soddisfare molteplici funzioni, quali:
- consente di identificare l'offerta e le sue principali caratteristiche, differenziandola da quella dei
concorrenti, nonché lo aiuta a orientarsi.
- è garanzia di un certo livello di qualità e permette di personalizzare la propria scelta.
Inoltre incide sulla posizione competitiva dell'impresa, influenzando il rapporto con i
consumatori, i distributori, i concorrenti. Infine, in certi casi, permette di ottenere un premium
price, cioè un prezzo di vendita superiore.
Per la misurazione della performance di marca, ci si avvale di metodi che definiscono, mediante
ricerche di mercato ed elaborazioni statistiche, l'atteggiamento dei consumatori (misura del
livello di fedeltà dei consumatori, la notorietà, la qualità percepita del prodotto,…).

II. La performance tecnologica-produttiva.


Negli ultimi anni, la rapida evoluzione delle condizioni competitive e il crescente grado di
automazione degli impianti hanno reso particolarmente complicato:
- la capacità di rispondere in tempi brevissimi alle mutevoli richieste della domanda, in termini
sia di volumi sia di tipologie di beni offerti.
- ha reso la flessibilità e l'elasticità due fattori critici per competere, nonché due dimensioni
essenziali in base alle quali valutare la performance dell'azienda nella funzione in esame.
Il ruolo assunto, invece, dalla tecnologia nell'attuale contesto competitivo e le strette relazioni
esistenti tra posizione tecnologica, capacità innovativa e produttiva rendono il tema della
misurazione della performance tecnologica di grande rilevanza ai fini di una valutazione del
successo complessivo.
Si può analizzare tale performance lungo due prospettive di indagine:
1) La prima misura l'insieme di risorse tecnologiche di cui dispone l'impresa esaminando la
posizione tecnologica relativa = indicatore che consente una valutazione comparata rispetto ai
concorrenti delle potenzialità tecnologiche.
2) La seconda affronta il tema della misurazione della performance di innovazione e R&S che
avviene attraverso indicatori in grado di fornire informazioni riassuntive sui risultati raggiunti.
La capacità innovativa costituisce un fattore chiave per assicurare all'impresa una posizione
competitiva forte e stabile nel tempo. Esistono difficoltà per misurare e controllare i risultati
ottenuti in questo ambito.
Gli indicatori più utilizzati per valutare la performance di R&S (2) sono i seguenti:
• Le risorse destinate alla R&S comprendono sia le risorse umane (personale impiegato nella
funzione r&s/totale dei dipendenti dell’impresa), sia gli investimenti complessivi effettuati
nell'arco di tempo preso come riferimento (somma dei costi sostenuti per svolgere l'attività di
ricerca, come: spese per il personale, spese di formazione tecnico-scientifica, investimenti in
attrezzature e strumenti e oneri per l'acquisizione di licenze,…);
• Il numero e l’importanza dei brevetti → tra le possibili forme di tutela dell'innovazione, una
delle barriere cui le imprese fanno spesso ricorso è rappresentata dal sistema brevettuale.
I brevetti sono strumenti normativi di protezione dell'attività industriale mediante i quali la
legislazione consente all'impresa, o al soggetto innovatore, di recuperare gli investimenti
effettuati in ricerca e sviluppo, introducendo un monopolio legale temporaneo.
• I royalty e altri proventi da brevetti → Un ulteriore indicatore della capacità innovativa è
rappresentato dalle royalty e dalle altre forme di compenso che l'impresa ottiene dalla
concessione di licenze per lo sfruttamento di tecnologie coperte da brevetto.

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• Il tasso di introduzione di nuovi prodotti → la capacità dell'impresa di sviluppare prodotti
innovativi nel proprio portafoglio costituisce sempre più spesso un fattore critico per competere
con successo in mercati caratterizzati da elevata dinamicità.
Consente di misurare l'output diretto dell'attività di R&S (è dato da: numero di prodotti nuovi
introdotti sul mercato in un determinato periodo/complessivo portafoglio prodotti dell'impresa).

La misurazione della performance di sostenibilità.


La sostenibilità trova uno dei suoi presupposti di fondo nel concetto di accountability, ossia nella
capacità dell'impresa di fornire agli stakeholder informazioni trasparenti, affidabili, complete e
allineate con le attese dei destinatari.
L'accountabilitv è la cultura orientata alla trasparenza e alla rendicontazione che coinvolge l'aspetto
gestionale del divenire dell'azienda nelle sue manifestazioni etico-sociali ed economiche,
legittimando e/o responsabilizzando chi è preposto al governo di una qualsiasi organizzazione
Dunque la misurazione delle performance conseguite dall'impresa nell'adozione di pratiche e
comportamenti in linea con la responsabilità sociale assume un ruolo cruciale:
- fornisce all'impresa l'opportunità di monitorare e gestire il proprio impegno nella sostenibilità
e fornisce il grado di soddisfacimento delle aspettative degli stakeholder.
- la comunicazione della performance sociale e ambientale consente all'impresa di formalizzare il
proprio impegno in tema di sostenibilità.
Più in dettaglio, l'adozione di un approccio triple bottom line, ovvero la misurazione congiunta di
performance economica, sociale e ambientale, ha innanzitutto un impatto interno in termini di
autoanalisi per l'impresa.
In altre parole, è attraverso la misurazione e la comunicazione delle performance che l'impresa, il
suo patrimonio di risorse tangibili e intangibili e la sua condotta responsabile vengono percepiti e
apprezzati presso l'ambiente di riferimento.
Però all'esigenza di promuovere il concetto attuale di responsabilità sociale si affianca il timore che
tutti gli sforzi si stiano progressivamente riducendo a una “questione di mercato”.
Assume dunque importanza primaria lo sviluppo di sistemi che consentano alle imprese di gestire
le proprie responsabilità e dare prova della capacità di soddisfare le aspettative dei propri
stakeholder, identificando le aree di responsabilità rilevanti e misurando sistematicamente le
performance sociali e ambientali congiuntamente a quelle economiche.
Come ogni attività aziendale, anche l'implementazione della strategia sostenibile, dunque, richiede
la misurazione dei risultati, in modo da orientare in maniera adeguata il processo decisionale
d'impresa. La misurazione delle performance di sostenibilità avviene attraverso la reportistica di:
I. Il bilancio sociale.
Nasce il problema di misurare la capacità dell'impresa di soddisfare le esigenze degli stakeholder e,
quindi di costruire una sorta di bilancio tra ciò che essa offre e ciò che essa riceve dal sistema
sociale. Queste richieste trovano risposta tra la fine anni ‘60 e l'inizio degli anni ‘70, quando sono
sviluppati (negli USA, poi in Europa) i primi sistemi di contabilità sociale (social audit).
Il bilancio sociale è uno strumento di controllo dell'impatto delle attività di un'impresa sul
benessere degli individui che sviluppano forme d'interazione con essa.
Gli obiettivi del bilancio sociale toccano:
• Le relazioni pubbliche → i primi bilanci avevano lo scopo di modificare l'opinione pubblica
relativamente all'immagine istituzionale delle imprese, tale approccio caratterizza tuttora molte
aziende operanti in settori a forte impatto sull'ambiente (petrolchimica, energia, carta).
• La composizione di contrasti → in tal caso il bilancio ha lo scopo di attenuare i contrasti tra
l'impresa e gli interlocutori, come le organiz. di difesa dei consumatori o a tutela dell'ambiente.
• Il miglioramento delle relazioni industriali → obiettivo circoscritto dai lavoratori.
• La gestione degli interlocutori sociali → in questo caso il bilancio è uno strumento di controllo
del livello di attuazione della strategia sociale dell'impresa e una leva per una gestione attiva del
consenso da parte dell'azienda.

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La crescente attenzione al tema della responsabilità sociale delle imprese ha portato a un forte
interesse nei confronti del bilancio sociale, inteso come strumento in grado di affiancare e integrare
i tradizionali strumenti di misurazione e rendicontazione della performance economica,
patrimoniale e finanziaria.
Infine, alcune tematiche in precedenza ricomprese nei bilanci sociali hanno assunto rilevanza
autonoma e peso strategico, diventando oggetto di specifiche misurazioni (come il caso della
variabile ecologica, la cui importanza ha imposto l'ideazione di un bilancio ad hoc).
II. Il bilancio ambientale.
Per avviare e condurre un'attività di tutela ambientale efficace ed efficiente è necessario disporre di
strumenti di controllo adeguati, in grado di fornire un quadro dettagliato della performance
ecologica dell'azienda. Il bilancio ambientale (o ecobilancio o bilancio ecologico) risponde appunto
a questa esigenza.
Per bilancio ambientale s'intende uno strumento di gestione e di controllo e, al contempo, di
supporto all'attività di comunicazione aziendale, con particolare riferimento agli stakeholder
interessati alla questione ecologica.
Il concetto di bilancio viene utilizzato in questo contesto per indicare il confronto tra le risorse
naturali, le materie prime e l'energia utilizzate come input dei processi di trasformazione e le
diverse categorie di output generate dalle attività produttive (beni e servizi realizzati, emissioni in
atmosfera, scarichi idrici, rifiuti, rumore ecc.).
Frutto d'iniziative volontarie di alcune imprese, il bilancio ambientale ha assunto forme differenti a
seconda dei contesti aziendali, economici, normativi e sociali in cui si è sviluppato.
I primi ecobilanci sono stati messi a punto da imprese anglosassoni e tedesche (fine anni ’80), in
seguito lo strumento si è diffuso anche in paesi più arretrati dal punto di vista delle politiche di
conservazione delle risorse naturali. In Italia la Fiat ha presentato nel 1993 il primo rendiconto
ambientale ufficiale, anche in risposta alle campagne di alcuni attivisti.
Come nel caso del bilancio sociale, la complessità dell'argomento non ha ancora consentito la
formulazione di un modello definitivo e generalmente accettato di ecobilancio.
Per ovviare a questa mancanza e per aiutare le imprese nell'implementazione di un sistema di
rendicontazione ambientale, schemi, modelli, linee-guida per il reporting ecologico sono stati
proposti da differenti organizzazioni. Tra queste, si possono ricordare:
- IÖW, Istituto per la ricerca economica ed ecologica.
- FEEM, Fondazione ENI Enrico Mattei.
- CEFIC, Consiglio Europeo dell'Industria Chimica.
- CERES, Coalition for Environmentally Responsible Economies.
- GEMI, Global Environmental Management Initiative.
- PERI. Public Environmental Reporting Initiative.
- UNEP, United Nations Environment Programme.
- WBCSD, World Business Council for Sustainable Development.
- GRI, Global Reporting Initiative.

III. Il sistema integrato di misurazione delle performance nell'impostazione di SPACE: il bilancio


di sostenibilità.
L'impresa che persegue il fine ultimo di creazione del valore deve adottare un modello di sviluppo
sostenibile, cioè che ne assicuri la sopravvivenza duratura.
Infatti sostenibilità significa, per l'impresa, la capacità di continuare le sue attività nel tempo,
creando valore attraverso performance economiche e competitive, supportate da un'attenta
gestione delle relazioni con gli stakeholder e da una consapevole tutela dell'ambiente.
Difatti il successo di un'impresa è dato dall'integrazione di elementi economici, patrimoniali,
finanziari, competitivi, sociali e ambientali.
Appare necessario introdurre in impresa nuovi sistemi di misurazione che consentano di valutare
in maniera integrata le performance aziendali. Qui s'inserisce la proposta di SPACE che aggrega in
un sistema unitario il bilancio d'esercizio, il bilancio sociale e il bilancio ambientale.
Il bilancio di sostenibilità proposto da SPACE è composto da tre elementi come mostra la figura.

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• Il Bilancio d'esercizio → viene integrato da
indici di bilancio e da indicatori in grado
di monitorare la capacità competitiva
dell'impresa (mercato produttivo,
tecnologico e qualità).
• Il Bilancio sociale → è costituito da:
- politica etica (definizione dei principi e dei valori di fondo che orientano le scelte).
- calcolo del valore aggiunto (rappresenta la ricchezza creata complessivamente dall'impresa e
distribuita agli stakeholder o reinvestita all'interno).
- analisi delle relazioni con le principali categorie di portatori d'interessi (dipendenti, azionisti,
clienti, fornitori, banche, Stato/Enti locali/pubblica amministrazione, comunità), (fornisce un
quadro qualitativo e quantitativo delle interazioni dell'impresa con gli stakeholder).
• il Bilancio ambientale → è composto da:
- bilancio input-output d'impresa (contabilizza i flussi di risorse impiegate nei processi aziendali
e le diverse forme d'inquinamento da essi derivanti).
- bilanci di prodotto (coincidono con le LCA (life cycle assessment) dei principali prodotti (beni e
servizi) realizzati e commercializzati dal'impresa). (La LCA è una metodologia per la
valutazione degli impatti ambientali connessi al life cycle di un prodotto).
- conto dei costi/benefici economici (legati alla gestione ambientale dei processi e dei prodotti).
Il bilancio di sostenibilità consente il controllo e la rendicontazione della performance complessiva
dell'impresa e può divenire uno strumento fondamentale per la comunicazione istituzionale
dell'azienda nei confronti delle diverse categorie di stakeholder.
Il sistema di bilancio nell'impostazione di SPACE può supportare (in modo migliore) i processi
decisionali del management e la gestione delle relazioni con gli stakeholder, evidenziando il grado
di sostenibilità dei processi di creazione del valore attivati dall'impresa attraverso una logica
innovativa di misurazione, controllo e reporting delle prestazioni aziendali.

Conclusioni:
- L’orientamento dell’impresa alla creazione di valore necessita di associare alla gestione (VBM)
un sistema adeguato di controllo e misurazione della performance.
- Ad oggi, gli strumenti della contabilità tradizionale non sono sufficienti a interpretare
correttamente la complessità della performance aziendale.
- È necessario affiancare all’approccio contabile un sistema basato su metodi di valutazione
adeguati, che si affianchino alle rilevazioni di bilancio integrandole e riclassificandole.
- La dimensione oggetto di misurazione e controllo non è soltanto quella economica: l’approccio
attuale maggiormente coerente con l’obiettivo di creare valore per impresa e stakeholder si basa
sulla c.d. Triple bottom line.

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